“No, il decreto Bonafede non riporterà i mafiosi in carcere” di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 maggio 2020 Il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, svela il bluff del governo: “Il testo non serve. Stimola solo i magistrati a fare delle verifiche che già erano tenuti a svolgere. È un modo per cercare di salvare la faccia”. Non si fermano le fake news sulla vicenda dei detenuti scarcerati durante l’emergenza coronavirus. Prima abbiamo scoperto che i cosiddetti “boss scarcerati” dal 41bis per motivi di salute sono stati soltanto tre, e non 376, come sostenuto da diversi politici e organi di informazione. Poi abbiamo saputo che dei 373 detenuti scarcerati dall’alta sicurezza, ben 196 sono ancora in attesa di giudizio, e solo 155 sono stati posti ai domiciliari per motivi di salute. Ora veniamo a sapere che il decreto legge approvato sabato scorso dal Consiglio dei ministri, su spinta del Guardasigilli Alfonso Bonafede, in realtà non “riporterà i boss mafiosi in carcere”, come celebrato da diversi esponenti grillini. Del resto, non potrebbe essere altrimenti. “L’idea che una legge rimetta dentro le persone scarcerate dai giudici è impensabile - dichiara al Foglio Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale - In materia processuale esiste il divieto di applicare retroattivamente una legge che cambia sostanzialmente il significato della pena in senso sfavorevole. Una norma che riporta in carcere chi è uscito in base alla legge precedente è una norma retroattiva e non può essere applicata. A stabilirlo è stata la Corte costituzionale con la sentenza molto importante di due mesi fa sulla Spazza-corrotti”. D’altronde, ricorda Flick, “i provvedimenti del giudice possono essere modificati soltanto da lui o dal giudice che sia chiamato a valutare l’impugnazione della decisione”, e certamente non dal governo o dalla legge direttamente, sull’onda di spinte mediatiche di stampo giustizialista. “Il decreto legge - sottolinea Flick - ha voluto sottolineare con maggior forza qualcosa che era già presente nella disciplina precedente, vale a dire la necessità per il giudice di sorveglianza di valutare ogni quindici giorni i motivi alla base della concessione al detenuto della detenzione domiciliare per motivi di salute, tenendo inoltre in considerazione il parere del procuratore nazionale antimafia o del procuratore distrettuale”. In definitiva, per il presidente emerito della Consulta siamo di fronte a “una tempesta perfetta in un bicchier d’acqua, come già accadde qualche mese fa con la riforma della prescrizione”: “Il decreto non serve. Stimola i magistrati a fare delle verifiche che già erano tenuti a svolgere. Inoltre, non può porre un qualsiasi tipo di obbligo vincolante, perché sarebbe lesivo dell’indipendenza del giudice”. Insomma, “è un modo per cercare di salvare la faccia, per offrire al ministro e a una comunicazione sbagliata il pretesto per dire che così i detenuti vengono rimessi in carcere”. Flick, tuttavia, sottolinea che questo intervento “può rappresentare una forma di pressione indiretta sul giudice di sorveglianza”, perché rafforzare il ruolo della procura antimafia “significa scaraventare un peso molto grosso sulla bilancia con cui si cerca di trovare un equilibrio tra le istanze della salute e della sicurezza”. “La disciplina penale del trattamento del detenuto, qualunque sia il reato per il quale è stato condannato, comporta che la tutela della salute debba avere la prevalenza sulla esigenza di sicurezza - aggiunge Flick - Se l’unico modo per curare la persona da una grave infermità è quello di rinviare la pena, allora bisogna rinviare la pena, oppure concedere la detenzione domiciliare con particolari cautele”. Piuttosto, prosegue il presidente emerito della Consulta, il problema è un altro e riguarda la qualità della democrazia: “Non c’è solo il problema di una forma di pressione indiretta sul giudice. È la reiterazione, in tempi accelerati, di tre decreti legge (uno convertito e due nuovi) a lasciare perplessi, così come è avvenuto con i decreti del presidente del Consiglio. Così si rischia di svilire la legge”. C’è un’altra riflessione generale, infine, che secondo Flick andrebbe fatta e riguarda il ruolo del carcere nella nostra società: “Viviamo in un contesto in cui c’è un’enfatizzazione preoccupante del carcere. Credevo che il coronavirus potesse essere l’occasione per sostituire la pena della limitazione della libertà fisica con altri tipi di pene. Risulta difficile salvare la dignità della persona nel momento in cui la si condanna a una privazione della libertà personale che finisce per diventare sovraffollamento, per il quale in passato siamo stati condannati dalla Corte Cedu. Questo Paese, però, continua a vedere la condanna alla reclusione come l’unico strumento di difesa sociale contro le devianze. Non è così. Il carcere dovrebbe essere limitato a situazioni di particolare violenza e pericolo per gli altri”. Il giudice deve sentire tutti tranne l’avvocato: la beffa del Dl carceri di Errico Novi Il Dubbio, 12 maggio 2020 Non è un granché come decreto. E se ne sono visti di peggiori, tra i provvedimenti poco attenti ai diritti. Ma nelle nuove norme sulle scarcerazioni varate sabato notte dal Consiglio dei ministri, emanate domenica dal presidente Mattarella e in vigore da ieri, c’è una voragine giuridica pazzesca: non è previsto alcun ruolo per la difesa del detenuto. Non fa differenza che si tratti di un condannato in via definitiva, al 41bis o in “Alta sicurezza”, o anche solo di un imputato a cui la misura cautelare sia stata sostituita con la detenzione domiciliare. Non cambia se si tratta di reati di mafia, droga o terrorismo. Il giudice avrà l’obbligo di acquisire il parere della Procura distrettuale o della Dna, ma mai quello dell’interessato e dei suoi avvocati. Potrà decidere di riportare in carcere o in una “struttura protetta” il condannato o imputato in gravi condizioni di salute, ma potrebbe farlo senza dare ai suoi legali alcuna possibilità di ribattere ai pm. È un limite gigantesco, che sarà difficile veder corretto in fase di conversione. Certo, si tratta di un provvedimento mirato ai soli casi in cui il differimento o la sostituzione della pena con i domiciliari siano avvenuti per “motivi connessi all’emergenza Covid 19”, ma lo sfregio al diritto di difesa resta. A denunciarlo è stata già domenica una delibera dell’Unione Camere penali, che ha parlato di decreto “volto a sottomettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati di sorveglianza alle esigenze propagandistiche dell’esecutivo e al controllo delle Procure distrettuali antimafia”. La misura tradisce, secondo i penalisti italiani, innanzitutto “la cultura poliziesca” che la anima. “Oltre ad imporre un insensato obbligo di rivalutazione legato ad improbabili criteri cronologici”, prosegue la giunta presieduta da Gian Domenico Caiazza, il provvedimento “prevede il parere degli uffici dell’accusa, ma ignora del tutto il titolare del diritto alla salute a tutela del quale è stato assunto il provvedimento, ed il suo difensore. Tutti hanno voce, fuorché il detenuto e la sua difesa tecnica. Una vergogna”, accusa l’Ucpi, “degna della incultura del diritto e della infedeltà alla Costituzione che avvelena il Paese”. Il paradosso è che le nuove norme non hanno disarmato la mozione di sfiducia presentata dal centrodestra contro Bonafede, il quale oggi interverrà alla Camera. Il ministro non ha potuto far altro che stressare i già esausti Tribunali di sorveglianza e gli stessi uffici di Procura, con un obbligo di rivalutazione mensile e con l’ordine di compiere la prima verifica entro quindici giorni dall’ordinanza. Il magistrato sarà tenuto ad acquisire il parere dell’ufficio inquirente distrettuale o, nel caso dei detenuti al 41bis, della Procura nazionale antimafia. Dovrà verificare con il Dap se si sono liberati posti nei pochi ospedali attrezzati che si trovino all’interno degli istituti di pena o nelle altrettanto poco capienti “strutture protette”. Dovrà poi sentire il governatore per capire se nella regione in cui si trova il carcere ove riportare il detenuto l’emergenza Covid si sia ridotta. Nel caso delle persone sottoposte a misura cautelare, sarà invece la Procura a dover compiere valutazioni mensili e a presentare al giudice, eventualmente, richiesta di revoca dei domiciliari. Un meccanismo pesante ma inutile. Perché l’emergenza non è finita e non lo sarà per mesi, ma anche perché una parte notevole delle scarcerazioni, e anche quelle, appena quattro, dei detenuti al 41bis, sono legate a condizioni di salute comunque gravissime, e all’obbligo, imposto dall’articolo 147 del codice penale e dalla Costituzione, di bilanciare le esigenze di sicurezza con il principio di umanità della pena. Le conseguenze materiali del decreto saranno modeste e Bonafede resterà esposto alle accuse della curva forcaiola. A maggior ragione è assurdo non aver previsto di vincolare il giudice ad acquisire anche la valutazione degli avvocati. La sola attenzione al diritto di difesa sta nell’articolo 4 del decreto, che ha tradotto in norma di legge la delibera con cui il Cnf aveva chiesto e ottenuto dal Dap lo svolgimento in videochiamata, anziché dal vivo, dei colloqui tra detenuti e difensore. Resta comunque salvo il diritto a un colloquio al mese con i familiari anche in tempi di Covid. Ma l’impressione è che il governo abbia avuto l’ennesimo cedimento ai Torquemada del giustizialismo. D.L. n. 29 del 10.05.2020: il governo sfiducia la magistratura di Maria Brucale* Ristretti Orizzonti, 12 maggio 2020 Sempre più violenta, capillare, insensata, forcaiola e ottusa l’ingerenza del governo sull’operato della magistratura. Sempre più chiassoso e sfottente lo stravolgimento dei poteri e delle prerogative di Stato. A colpi di decretini che traducono in necessità ed urgenza i ragli populisti dei peggiori demagoghi, si introducono norme di modifica del codice penale e dell’ordinamento penitenziario che incidono sulle libertà fondamentali e declassano il diritto alla salute a un beneficio per alcuni, i meno cattivi, quelli che la vita in qualche modo la meritano ancora. Alla base del ragionamento, il concetto a tanti gradito che, se hai commesso reati di mafia, in carcere ci devi crepare e la tua pena è fine a sé stessa, non ha tensione rieducativa ma solo punitiva e di conforto all’umanamente comprensibile bisogno di vendetta delle vittime. Subito appresso, una ostentazione patetica di muscoli per guadagnare il titolo di anti-mafiosi doc. E allora si stabilisce che quei detenuti malati, a rischio vita in tempi di covid-19, cui in carcere non possono essere prestate cure indifferibili, che i giudici di sorveglianza hanno mandato a casa per un periodo di tempo limitato, con provvedimenti per loro natura provvisori in attesa che li convalidi o meno l’organo collegiale, debbano essere rivalutati dopo quindici giorni e poi a cadenza mensile per stabilire se persiste una situazione di pericolo da contagio e se, nelle more, è stata trovata una struttura detentiva idonea alla cura. Anzi, ove quest’ultima fosse disponibile prima dello scadere del termine, il giudice dovrà procedere a un riesame del precedente provvedimento immediatamente. E se il magistrato, in piena coscienza e in ossequio alla Costituzione, avesse deciso che il detenuto deve stare proprio a casa sua perché le sue condizioni di salute sono tanto gravi che la pena non può più assolvere ad alcuna funzione riabilitante? Certo disporre la detenzione domiciliare nei confronti di un condannato per mafia non è mai semplice per un giudice che vi giunge dopo approfondita istruttoria operando una sofferta perequazione di interessi di rango primario, la salute da una parte, la sicurezza pubblica dall’altra. Ma non basta. Una legislazione insensata e farraginosa colpisce al cuore l’autonomia dei giudicanti e si traduce in un appesantimento ingestibile del loro lavoro già pressoché impossibile in tempi ordinari per una carenza endemica e strutturale di personale e di risorse. A Milano, città funestata dal virus, i locali del tribunale di sorveglianza sono stati devastati dalle fiamme. I magistrati fanno i salti mortali per svolgere la loro delicata funzione senza poter utilizzare i loro archivi, dovendo fronteggiare la assenza della collocazione in spazi idonei e le carenze istruttorie derivate dalla distruzione di fascicoli. Intanto devono sentire il peso opprimente di una pressione mediatica feroce che, insensibile ai diritti fondamentali, impone ai giudici la lente della terribilità che costringe a guardare al detenuto mai come a un uomo ma come al reato che ha commesso. Il governo sfiducia la magistratura e anziché occuparsi della fatica dei giudici nell’assolvere in tempi ragionevoli al loro compito di tutela dei diritti della popolazione reclusa, introducono nuovi ostacoli e insinuano concetti sovversivi: la sicurezza prima della vita da una parte; la rivendicazione di un controllo governativo e delle procure sull’esercizio della funzione giudicante dall’altra. Ancora, dice il nuovo decreto che il magistrato o il tribunale dovranno rivalutare i provvedimenti di concessione della detenzione domiciliare per ragioni di salute dopo aver acquisito i pareri delle procure antimafia richieste, sentita l’autorità sanitaria regionale. Ma come? Nel segreto della camera di consiglio? Senza alcuna interlocuzione con il difensore? Così si sottrae ai detenuti la protezione della pienezza della giurisdizione e li si abbandona ad una centrifuga burocratica che fa poltiglia dei loro diritti umani e li si lascia a sperare che ci siano magistrati così innamorati del diritto e consapevoli della loro funzione di tutela da lasciarsi additare come superficiali e inetti o, peggio, come favoreggiatori o complici. *Avvocato Carceri: legge-obbrobrio, ai pm poteri di vita e morte di Piero Sansonetti Il Riformista, 12 maggio 2020 L’accusa padrona della pena e delle carceri. I giudici delegittimati. L’autonomia della magistratura calpestata. La difesa cancellata. Le Camere penali si sono opposte a questo decreto che sbarra, in uscita, le porte delle carceri. E istituisce una specie di tribunale speciale per le scarcerazioni, come negli anni Venti. Un tribunale speciale al di fuori della Costituzione. Più precisamente, questo decreto rende le porte delle carceri porte girevoli, ma girevoli solo in direzione entrata. Se un giudice ti scarcera poi c’è un Pm che ti rimette dentro. Le Camere penali, dicevamo, si sono opposte, lo hanno definito decreto vergogna, hanno detto che è ispirato da una inaudita cultura poliziesca. Nessun altro ha fatto le barricate. Naturalmente è sempre possibile che in Parlamento, al momento della conversione in legge, scatti l’ostruzionismo. Il vecchio, democraticissimo, ostruzionismo (negli Stati Uniti si chiama filibustering ed è uno strumento di lotta parlamentare consueto). Possibile, ma per ora estremamente improbabile. Il mondo politico si è chiuso a testuggine, difende Bonafede, oppure lo accusa di essere un mollaccione e dice che il suo decreto non basta o cose del genere. Nella magistratura ci sono malumori, perché chiunque si accorge che è un decreto che spazza via, sul piano proprio dei principi, l’autonomia e l’indipendenza del magistrato. E in particolare riduce la magistratura giudicante a cenerentola. Senza principe. Ma nella magistratura, si sa, i cuordileone sono pochi. Cosa dice questo decreto? Che se ti scarcerano perché le tue condizioni non sono considerate compatibili col carcere, sulla base di un vecchio articolo del codice penale varato dal fascismo (lo abbiamo scritto altre volte: l’antifascismo dell’attuale maggioranza, su questo tema, consiste nella critica all’eccessivo liberalismo del regime di Mussolini…) il magistrato sarà chiamato ogni 15 giorni a ripensare alla sua decisione e dovrà riattivarla, e cercare le pezze d’appoggio per riattivarla e in pratica, una volta che si è preso in carico la liberazione di due o tre detenuti dovrà occuparsi solo di quelli. Oppure arrendersi ai diktat di Repubblica-Bonafede (ormai Il Fatto è finito in seconda fila a fare il tifo…) e rimetterli in prigione, così poi potrà occuparsi anche di altre cose. Il decreto paralizzerà l’attività dei tribunali di sorveglianza e li sottoporrà alla pressione continua della politica e dei mass media. Se tenete conto di cosa sono oggi i mass media travaglizzati in Italia vi rendete conto che questi magistrati hanno due sole strade: o l’eroismo o la resa. Non tutti sanno, comunque, che la maggior parte dei detenuti scarcerati in questi giorni era in attesa di giudizio. Cioè - lo diciamo per chi non ha ancora letto o magari ha dimenticato la Costituzione- erano, e sono, innocenti. Non sono stati scarcerati dai giudici di sorveglianza, che devono occuparsi delle pene (e per i detenuti in attesa di giudizio, ovviamente, non ci sono ancora, o non ci saranno mai, pene) ma dai Gip. Voi sapete, forse, che i Gip sono i giudici delle indagini preliminari e che di solito agiscono a contatto strettissimo coi Pm. Negli stessi uffici, negli stessi bar, nelle stesse strade. È rarissimo che un Gip dia torto a un Pm. E questa, tra l’altro, è la ragione fondamentale per la quale si chiede la separazione delle carriere. Per avere dei Gip realmente indipendenti dai potenti Pm. Ebbene, secondo il decreto, anche i Gip, e gli stessi Pm, dovranno occuparsi a tempo pieno dei detenuti eventualmente scarcerati. Perché ogni 15 giorni anche loro dovranno motivare una sentenza di scarcerazione. Un Gip che scarcera dovrà rispondere al Pm che gli ha chiesto l’arresto, e ogni 15 giorni spiegargli perché il suo detenuto (suo: ormai c’è un nesso di proprietà tra pm e detenuto) non è più in prigione. Se non lo farà, l’ex prigioniero tornerà prigioniero. Ci sarebbe quell’articolo della Costituzione, quello sul giusto processo (il 111), il quale spiega che accusa e difesa sono sullo stesso piano, e che poi c’è un giudice terzo. Con questo decreto il giudice terzo invece non esiste più, deve rispondere al Pm (sia il giudice di sorveglianza sia il Gip) e la difesa è del tutto fuori gioco. Avete qualche dubbio sul fatto che questo decreto sia incostituzionale? No, nessuno ha dubbi su questo. La tesi di chi ha varato il decreto, e dei giornali che lo hanno spinto a fare ciò, è che della Costituzione ci se ne può anche fregare. Soprattutto ora che siamo in emergenza. Voi dite: ma c’è una emergenza mafia? No, non c’è, ma c’è l’emergenza virus che è sempre un’emergenza, e quindi possiamo benissimo mandare la Costituzione a quel paese. Poi voi dite: ma tutti questi scarcerati sono boss della mafia, come dicono i giornali? No, nessuno di loro è un capomafia e la maggioranza di loro con la mafia non c’entra niente. Ma resta l’emergenza virus che ha il potere di rendere boss mafioso anche un piccolo spacciatore. Chi pagherà per questo abominio da Stato di polizia? I detenuti prima di tutto. E poi, sanguinosamente, il nostro Stato di diritto, che ne esce a pezzi. Sembra proprio - dicevamo all’inizio - di essere tornati ai tempi dei tribunali speciali. Cos’altro sono, questi, se non tribunali speciali? Fiandaca: sulle scarcerazioni dei “boss” polemiche diversive ansa.it, 12 maggio 2020 Sullo scontro tra il ministro Alfonso Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo taglia corto: “Non è un affare importante”. Per Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale e garante dei detenuti in Sicilia, sono altre le questioni collegate alle polemiche sulle scarcerazioni che meritano di essere poste al centro della discussione pubblica. In primo luogo i “gravi problemi di strutture, gestione e disciplina legislativa complessiva del sistema carcerario”. Il problema dei problemi è il sovraffollamento che avrebbe potuto essere in parte alleggerito con innovazioni nell’esecuzione della pena e con un ricorso più idoneo alle misure alternative. E questo non avrebbe comportato, secondo Fiandaca, effetti critici sulla sicurezza perché gran parte della popolazione carceraria non è accusata di reati di mafia. E poi, aggiunge, “l’anima del diritto contemporaneo richiede di contemperare valori, diritti ed esigenze concorrenti”. Quindi anche ai detenuti per mafia va riconosciuto il diritto costituzionale alla salute. Le polemiche sono quindi diversive e hanno per Fiandaca un vizio d’origine in quello che chiama il “conflitto culturale” aperto soprattutto dai magistrati d’accusa e delle Procure antimafia in modo particolare. “Esprimono - dice - una concezione unilaterale del trattamento dei detenuti e pretendono di allineare la gestione del sistema carcerario a una logica puramente repressiva legata al ruolo del pm. Deformazione professionale”. È per questo che Di Matteo non è diventato capo del Dap? “Non basta - dice Fiandaca - essere un simbolo antimafia, con tutto il rispetto per l’attività da lui svolta su cui non ho mancato comunque di esprimere qualche perplessità. Ci vogliono altre attitudini. Quella di Dino Petralia, ora nominato capo del Dap, mi sembra una scelta promettente: è un magistrato di grande equilibrio, competenza giuridica e capacità organizzativa”. Il governo sta introducendo nuovi limiti al potere discrezionale dei giudici di sorveglianza. È una giusta misura di cautela la richiesta di parere alle Procure sulle domande di scarcerazione? “Si poteva chiedere anche prima - risponde Fiandaca - anche se non era obbligatorio. Ma su questo punto condivido le preoccupazioni di Antonietta Fiorillo, responsabile del coordinamento dei magistrati di sorveglianza. Non vorrei che dalla Procure arrivassero solo carte e si intasassero gli uffici. I dati cartolari devono essere aggiornati sulla pericolosità attuale del detenuto. E vanno integrati con notizie sull’evoluzione dei rischi di contagio e sulla adeguatezza delle strutture sanitarie intramurarie”. Il rischio più grave che Fiandaca paventa è che sulle scarcerazioni “si diano ora risposte palliative e buone solo per tranquillizzare l’opinione pubblica e salvare a Bonafede il posto di ministro”. Scarcerazioni facili… e non facili di Vincenzo Vitale L’Opinione, 12 maggio 2020 Nella gazzarra pubblica che da settimane occupa i giornali e le televisioni in relazione alle scarcerazioni di centinaia di detenuti, occorre prima di tutto fare chiarezza in punto di fatto. In breve, occorre precisare che dei 376 scarcerati, 196 erano soltanto in attesa di giudizio e che di questi oltre la metà non aveva ancora ottenuto neppure la sentenza di primo grado. Si noti allora intanto che per questi 196 non si trattava di detenuti già sanzionati quali colpevoli, ma di presunti innocenti ancora in attesa di sentenza definitiva e perciò mettiamoli fuori da ogni polemica, fosse pure soltanto per una pura ragione di civiltà e di decoro. Dei rimanenti 180 scarcerati, ebbene soltanto 3 - dico 3 - si trovavano a scontare la pena al regime del 41bis destinato ai mafiosi molto pericolosi. Tuttavia, si è imbastita una enorme caciara ipotizzando che gli scarcerati fossero tutti o quasi altamente pericolosi già al 41bis: così non è e non è mai stato. I rimanenti 177 erano detenuti non al 41bis ma in regime di sicurezza speciale, come dire che si trattava di detenuti di pericolosità media e non certo elevata come quelli invece detenuti al 41bis. I detenuti in questo grado di sicurezza sono complessivamente in Italia circa 9mila. Ne viene che gli scarcerati rappresentano meno del 2 per cento di tutti costoro. Di questo parliamo e non di altro. Ma occorrono altre precisazioni. In particolare, a scarcerare i primi 196 sono stati non i magistrati di sorveglianza ma i giudici di merito, per motivi strettamente sanitari. Inoltre, se i magistrati di sorveglianza sono stati gli autori delle altre scarcerazioni, è del tutto evidente lo abbiano fatto in base alle norme vigenti e non certo per capriccio, e anche qui per pure ragioni di salute. Se il nostro è uno Stato di diritto - almeno così si suole affermare - è anche perché il bene della salute è ritenuto prevalente su altri beni, pur meritevoli di tutela, quali la sicurezza pubblica. Può non piacere, ma è così. Inoltre, il ruolo del Dap in queste scarcerazioni è marginale, per il semplice motivo che è impossibile immaginare che esso potesse trovare 180 posti utilizzabili presso strutture sanitarie adeguatamente protette per gli altri scarcerati: il tutto ovviamente nell’arco di due o tre settimane. Per questa ragione, la eventuale responsabilità del capo del Dap è a dir poco evanescente. E ancora, c’è da credere che i magistrati di sorveglianza fossero abbastanza consapevoli di una tale funzione marginale e che per questo non abbiano sofferto remore particolari assumendo i provvedimenti di scarcerazione. Adesso, il governo emana decreti per riesaminare le posizioni degli scarcerati, esigendo periodiche e ravvicinate revisioni delle singole scarcerazioni. I magistrati di sorveglianza ne subiranno un enorme carico di lavoro che facilmente si può ipotizzare condurrà a ben poche revoche fra quelle adottate. Scommetto. Malati terminali, infartuati e disabili: ecco i pericolosi mafiosi “scarcerati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 maggio 2020 Solo 4 i boss reclusi al 41bis che hanno ottenuto un differimento pena - ma temporaneamente, perché la rivalutazione da parte del giudice è contemplata da sempre - per gravi motivi di salute. Gli altri 370, per la stragrande maggioranza, sono andanti in detenzione domiciliare (se definitivi) o agli arresti domiciliari (se in attesa di giudizio) non per il Covid 19 come quasi tutti i mezzi di informazione dicono all’unisono, ma per le loro gravi patologie incompatibili con l’ambiente penitenziario. Nella lista dei nomi ci sono casi che proprio Il Dubbio ha sollevato. Storie che addirittura risalgono a due anni fa, quando la pandemia non era ancora nell’anticamera dei nostri pensieri. C’è ad esempio Rosa Zagari, citata nella trasmissione di “Non è l’arena” di Massimo Giletti senza però spiegare la sua vicenda e che patologie avesse. Non è una spietata assassina, non fa parte nemmeno di alcuna organizzazione mafiosa, ma ha fatto l’imperdonabile errore - ovviamente del tutto ingiustificato - di proteggere il suo compagno, ovvero il boss Ernesto Fazzalari, un appartenente alla famiglia dei Viola-Fazzalari della ‘ndrangheta. Si sarebbe fatta anche utilizzare come intermediaria e per questo le è stato contestato il reato associativo. Ma perché ha avuto il differimento di pena? Come riportato da Il Dubbio a febbraio dello scorso anno, Rosa Zagari, mentre si trovava presso la casa circondariale di Reggio Calabria, a seguito di una caduta si è procurata una fattura duplice alle vertebre. Parliamo del febbraio del 2019. Via via ha avuto un peggioramento per cure del tutto inadeguate. Dopo tanti solleciti da parte dall’associazione Yairaiha Onlus al Dap e al ministro della Giustizia, è stata trasferita presso il centro clinico del carcere di Messina. Nulla da fare. Cure inadeguate con un rischio di paralisi. Non riusciva a camminare autonomamente, tanto da farsi sostenere dalla sua compagna di cella. Alla fine la gip, alla luce del complessivo quadro di salute della detenuta e dell’insuccesso delle terapie mediche e riabilitative seppur praticate con costanza presso il carcere, “al fine di salvaguardare le sue condizioni di salute - scrive - ormai peggiorate e non efficacemente fronteggiabili presso l’istituto di detenzione, risulta necessario disporre la sostituzione della misura carceraria con gli arresti domiciliari”. Non si fa alcun cenno al Covid-19. Non c’entra nulla. Inoltre i domiciliari le sono stati concessi il 23 marzo, quando ancora la famosa e tanto ingiustamente criticata circolare del Dap era giunta due giorni prima e ovviamente l’istanza - presentata tempo addietro - non ha nulla a che vedere con essa. Nella lista compare il nome di Zafer Yildz con patologie gravi. Fine pena 2027, ha scontato 14 anni e 10 mesi di una condanna a 19 anni: con la liberazione anticipata gli erano rimasti 3 anni di carcere. I familiari hanno informato l’associazione Yairaiha Onlus che Zaafer, appena ha iniziato a capire la portata dell’emergenza Covid-19 e consapevole dei rischi che correva, ha chiesto l’isolamento assieme ad altri 3 detenuti con patologie gravi. Ha fatto 15 giorni di isolamento ed è uscito il 2 aprile scorso. Anche qui non c’entra nulla la circolare del Dap e l’emergenza Covid-19. Perché? Come spiega Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus, a Zafer gli è stata accolta l’ultima istanza presentata prima dell’emergenza coronavirus. Compare nella “lista nera” Fido Salvatore con fine pena tra 3 mesi. Aveva finito la parte ostativa ad aprile 2019 e il suo avvocato ha richiesto lo scioglimento del cumulo: dopo vari solleciti il magistrato di sorveglianza di Padova ha accolto l’istanza. “Non conosciamo tutte le storie dei detenuti finiti nella lista “riservata”, - spiega Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus - ma abbiamo buoni motivi per ritenere che siano state tutte legittimamente motivate. Le liste dei detenuti in nostro possesso, per ognuna delle quali abbiamo presentato sollecito, rispecchiano una realtà ben diversa: malati terminali, plurinfartuati, morbi rari, leucemie, malattie autoimmuni, disabili e anziani allettati. Soggetti che, a prescindere dal rischio contagio e dal titolo del reato, non dovrebbero stare in carcere ma in luoghi di cura”. La Berardi conclude: “Il diritto alla salute dei detenuti, che finanche Mussolini non si sognò di precludere a nessuno, non può essere abolito a colpi di frettolosi decreti dell’ultim’ora”. C’è pure Giorgi Attilio, difeso dagli avvocati Chiara Penna e Giuseppe Lemma, affetto da patologie serie che lo hanno reso immunodepresso. In realtà il Covid 19 è solo un’aggravante. I suoi legali aveva presentato già un’istanza a luglio del 2019 e all’esito di questa, in autunno, lo hanno portato al centro clinico del carcere di Siano (Catanzaro). Lo hanno tenuto un mese e mezzo e dopo solo alcuni accertamenti l’hanno rimandato al carcere di Cosenza. Eppure, con precedenti istanze e solleciti, sono state documentate condizioni di incompatibilità, dovute dall’impossibilità dello stesso Dap a dar corso ad accertamenti e terapie adeguate. Quindi gli avvocati hanno presentato una nuova istanza sicuramente legata anche all’emergenza Covid, ma l’avevano già preparata a prescindere. “Le nostre decisioni prese sempre nel rispetto dei diritti fondamentali” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 maggio 2020 Fabio Gianfilippi è il magistrato di sorveglianza di Spoleto, componente del Tribunale di sorveglianza di Perugia, che ha portato all’attenzione della Consulta, sollevando dubbi di legittimità costituzionale, l’ergastolo ostativo e il divieto per i detenuti al carcere duro di ricevere libri e anche quello di cuocere cibi. Un magistrato, dunque, attento all’esecuzione della pena nel rispetto dei parametri costituzionali. Domenica è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge che dispone la totale revisione delle scarcerazioni. Qual il suo parere in merito? Sentite lesa la vostra autonomia? Mi sembra che sia preservata la valutazione autonoma da parte della magistratura di sorveglianza. Viene introdotto però un sistema molto complesso di rivalutazione ravvicinata delle decisioni già assunte, quando riferibili a condannati per reati di criminalità organizzata. Occorre ricordare che i provvedimenti di differimento della pena nelle forme della detenzione domiciliare, al di là dell’impugnazione, sempre possibile, ove concessi in via d’urgenza dal magistrato di sorveglianza, prevedono già anche entro poche settimane una rivalutazione dinanzi al Tribunale, ed ove invece assunti dal Tribunale sono comunque sempre a tempo, per cui si ha modo di rivalutare sia le condizioni di salute che il comportamento della persona durante la sottoposizione alla misura domiciliare. L’applicazione retroattiva di questi termini molto più stretti e per una sola categoria di condannati non appare esente da criticità, sia organizzative per gli uffici, sia di rapporto con le decisioni già assunte ed i termini di durata, salvo proroga, in esse stabiliti. Bisognerà inoltre sciogliere caso per caso la formula relativa alla persistenza dei motivi connessi all’emergenza sanitaria che, come ben sappiamo, non sembra purtroppo superata. Con il dl 30 aprile 2020 come cambierà il lavoro della magistratura di sorveglianza? Sarete vincolati ai pareri delle Procure e della Dda? In relazione alle richieste di permesso per gravi motivi (imminente pericolo di vita di un familiare o eventi familiari di particolare gravità) e di differimento della pena nelle forme della detenzione domiciliare per motivi di salute che provengano da condannati per gravi fattispecie associative di reato, sarà obbligatorio richiedere un parere sull’attualità dei loro collegamenti con i gruppi criminali di riferimento e sulla pericolosità, alle Dda e, nel caso di detenuti al 41bis, anche alla Dna. Per come è costruita la disposizione, si tratta di note informative in cui si richiede alle Procure coinvolte un contributo conoscitivo che andrà certamente ad arricchire il compendio istruttorio del giudice, il quale però deciderà, come sempre, effettuando un autonomo ponderato bilanciamento tra diritti fondamentali ed esigenze di sicurezza. Fino ad oggi si sono comunque decisi questi procedimenti, che pure sono di particolare urgenza, con non minore scrupolo chiedendo queste notizie alle forze dell’ordine che operano nei territori. Secondo lei le scarcerazioni diminuiranno ora che sono previsti tanti controlli? È verosimile che le posizioni di detenuti con condizioni di salute particolarmente compromesse siano venute subito all’attenzione dell’autorità giudiziaria e che quindi si sia già provveduto, ove necessario. È a questo che attribuirei una eventuale riduzione del numero di nuove misure domiciliari, da sempre assunte avendo particolare riguardo ai profili di pericolosità dei condannati. Qual è secondo lei la ratio politica sottesa a tali decisioni? La risposta a una emergenza sanitaria o la reazione a polemiche legate alla concessione di detenzioni domiciliari? Le disposizioni introdotte sembrano da collegarsi alle reazioni, piuttosto scomposte, che hanno accompagnato alcuni provvedimenti di concessione di misure domiciliari connesse a gravissime esigenze di salute non adeguatamente fronteggiabili in contesto penitenziario. Non mi pare che possano invece ascriversi al novero degli interventi urgenti assunti, in molti campi, per fronteggiare l’emergenza. Gli uffici di sorveglianza, già tremendamente gravati in questa fase, dovranno svolgere ulteriori e gravosi adempimenti istruttori. E le Procure saranno decisamente oberate. Cerchiamo di fare chiarezza: cosa è davvero accaduto in tema di “scarcerazioni”? Cosa si è trovata a dover affrontare la magistratura di sorveglianza durante questa emergenza epidemiologica? La magistratura di sorveglianza, in prima linea anche quella dei luoghi più colpiti, ha continuato a fare il suo dovere, e cioè verificare che la pena non sia mai contraria al senso di umanità e non perda la sua finalità fondamentale, che è il reinserimento sociale. Ciò significa innanzitutto vigilare affinché i diritti fondamentali, tra i quali la salute, siano rispettati, e lo siano anche per i detenuti più pericolosi. La tutela della salute in carcere è da molto tempo un problema e si fa fatica anche normalmente ad assicurarla come dovrebbe. Con l’emergenza tutto è inevitabilmente peggiorato. Anche là dove per fortuna il virus non ha fatto ingresso, si sono drasticamente ridotti gli accessi degli specialisti e le possibilità di vedersi seguiti in luoghi esterni di cura. Molti sostengono che porre determinati detenuti, come quelli al 41bis e in alta sicurezza, in detenzione domiciliare significhi inserirli nuovamente in contatto con le cosche. C’è questo rischio? I magistrati di sorveglianza sono impegnati da sempre nella gestione di detenuti di particolare pericolosità e conoscono bene i rischi della re-immissione nei contesti di origine delle persone che hanno commesso gravi reati di criminalità organizzata. La detenzione domiciliare per motivi di salute avviene, quando ogni altra strada non è più percorribile, senza che per difetto di cure sia travolta la dignità della persona, che la Costituzione tutela anche se si tratti di chi si è macchiato del più orribile dei delitti. Una strumentalizzazione politica e mediatica ha completamente stravolto il dibattito veicolando un messaggio sbagliato anche in merito al lavoro della magistratura di sorveglianza. Secondo lei cosa non ha funzionato e come migliorare per il futuro? I temi legati al carcere sono complessi e mal si attagliano ad un dibattito frettoloso. Io credo che ci si debba concentrare sul lavoro, necessario, per migliorare i presidi sanitari all’interno degli istituti penitenziari. Se si riescono ad assicurare cure più adeguate in quel contesto, di certo si ridurrà la necessità del ricorso alla detenzione domiciliare per motivi di salute. Occorre ripartire dalla consapevolezza che tutelare i diritti delle persone detenute contribuisce alla sicurezza della collettività e non è un cedimento alla criminalità. In questo ambito il problema del sovraffollamento non può che rendere tutto più difficile. Quali sono i principi che guidano il vostro lavoro? E vi sentite mai sottoposti a qualche tipo di pressione? La magistratura di sorveglianza è sottoposta a pressioni, né più né meno di ogni altra branca della giurisdizione. Sa come guardarsene, tenendo a mente, come ha ben ricordato il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza in un recente comunicato, la sua soggezione alla Costituzione e alle leggi. L’esecuzione delle pene non può calpestare i diritti fondamentali delle persone detenute, altrimenti non sarà mai in grado di restituirle alla società migliori, o almeno non peggiori, di quando commisero i reati. Questo obbiettivo non è vuoto sentimentalismo, ma consapevolezza che soltanto insegnare, con comportamenti concreti, che ogni persona è un valore in sé, a chi ha dimostrato di non curarsene, commettendo un reato, potrà contribuire a renderlo domani non più pericoloso per la collettività, e magari a farne una risorsa per tutti. Ceraudo: “Troppi errori fatti da chi gestisce le carceri” di Orlando Sacchelli larno.ilgiornale.it, 12 maggio 2020 Il coronavirus ha avuto pesanti ripercussioni anche dietro le mura delle carceri. Sia per chi vi lavora, sia per i detenuti. Le rivolte di marzo sono solo la punta dell’iceberg di un sistema che è stato gestito con approssimazione e gravi errori, come testimoniato dai molti contagi che vi sono stati. Le ultime polemiche in tv, tra il ministro Bonafede e il magistrato antimafia Di Matteo, sui retroscena per la nomina alla guida del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) evidenziano un imbarazzante mix tra pressapochismo e scarso senso delle istituzioni, dove la cosa ancor più grave è che i problemi delle carceri restano sullo sfondo, quasi fossero di minore importanza rispetto al resto. Ne abbiamo parlato con il professor Francesco Ceraudo, che per diversi anni ha diretto il Centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa, ed è stato presidente dell’Associazione nazionale dei medici penitenziari (Aampi) e presidente del Consiglio internazionale dei servizi medici penitenziari (Icpms). Professore, si può dire che vi sono state mancanze da parte di chi amministra il sistema carcerario? Mancanze determinate da una competenza approssimativa, senza il conforto di una esperienza specifica. Troppa autoreferenzialità. Basta citare la circolare con la quale il Capo del Dap individua nel Medico Competente il responsabile della gestione del Covid-19 senza saper che questa figura professionale non è presente nell’organigramma sanitario di molti Istituti penitenziari e poi il Medico Competente si interessa dell’organizzazione del lavoro. L’ex capo del Dap Francesco Basentini, tanto per intenderci, è quello che ha sempre negato il sovraffollamento ricorrendo a logaritmi improbabili. Inizialmente per alcune settimane dal Dap era arrivato l’ordine ai Direttori degli Istituti di pena di non fare indossare le mascherine? Questo è successo in molti Istituti tra cui Bologna e Pisa. È gravissimo, in quanto le Aziende Usl competenti per territorio sono state subalterne alle direzioni delle carceri, travalicando le stesse direttive contemplate dalla Sanità con risultanze devastanti sul piano dei contagi. Due medici penitenziari (a Foggia e a Brescia) sono deceduti per il contagio da Covid-19. Molti altri medici e infermieri sono stati inviati in prima linea a mani nude e sono rimasti contagiati con serie conseguenze. Molti detenuti (di cui 4 sono deceduti per l’infezione da Covid 19) sono stati contagiati. Altrettanto per gli agenti di Polizia Penitenziaria. Si delineano delle responsabilità gravissime. Sono state formulate delle circostanziate denunce all’Autorità giudiziaria per il reato di epidemia colposa. Che mi dice sul distanziamento sociale in carcere? L’Oms ha stilato precise linee di comportamento per prevenire e controllare la diffusione del Covid-19 nelle carceri. Tra queste assume un significato particolare il distanziamento fisico che prefigura la necessità di stare ad almeno un metro di distanza. Questo non può essere assicurato in carcere in preda ad un cronico sovraffollamento (dove un detenuto è accanto all’altro, dove uno è sopra all’altro nei letti a castello) mentre è forte la difficoltà di rispettare accuratamente le norme igienico-sanitarie e le opere di sanificazione degli ambienti. Bisogna decongestionare le carceri, altrimenti rischiamo una ecatombe, una catastrofe umanitaria. La salute dei detenuti va tutelata. Cosa è mancato e manca, secondo lei, nel nostro Paese? Ci troviamo costretti a parlare di una riforma della Medicina Penitenziaria tradita, di una riforma purtroppo violentata nello spirito più concreto di applicazione. Dopo circa 12 anni registriamo con viva preoccupazione risultati fallimentari. Addirittura siamo arrivati al punto che il Consiglio dei Ministri dell’Europa ha condannato il nostro Paese per l’inadeguatezza delle cure mediche in carcere. Come ci siamo potuti ridurre in simili condizioni dove i detenuti vivono peggio delle bestie. Bisogna avere il coraggio di ammettere che i cani, i polli, i maiali vivono meglio. Tutto questo è successo perché è mancata la cultura del carcere. Sono venuti meno gli investimenti. È prevalsa la linea rigidamente ragionieristica delle Aziende Usl. Manca alle Aziende Usl la coscienza dei propri diritti e delle proprie responsabilità. Manca la consapevolezza dei propri compiti. L’Azienda Usl è entrata in carcere in punta di piedi, fondamentalmente si sente estranea. I Centri clinici penitenziari hanno perso la loro operatività. Del resto i detenuti sono i nuovi ultimi e tali devono rimanere. Non hanno alcun valore sociale e tanto meno politico. Per quanto riguarda il personale che lavora nelle carceri? I medici penitenziari dovevano diventare i diretti protagonisti del processo riformatore, invece sono stati collocati in posizioni marginali senza alcun potere decisionale e senza alcuna possibilità di assumere iniziative laddove sono stati messi alla porta senza alcun giustificato motivo facendo venir meno in modo paradossale un importante patrimonio di conoscenze e di competenze specifiche. Dominano il precariato e il turnover continuo, mentre non viene rinnovato il contratto da ben 14 anni. A Marzo con le rivolte nelle carceri ci sono stati scontri pesanti, morti e danni ingenti. Che idea si è fatto? A lei è mai capitato di vivere un momento così drammatico? In 40 anni di attività professionale espletata in prima linea al massimo livello di responsabilità, non ho mai assistito ad avvenimenti così drammatici. 15 detenuti morti, sequestri di personale sanitario a Modena, Melfi, Bologna, Rieti, danni ingenti alle strutture, una tragedia immane. Il coronavirus è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma il malcontento, il disagio covava ormai da tempo, perché erano venute meno importanti garanzie assicurate dagli Stati Generali dell’azione penale. Da un momento all’altro, senza alcuna, relativa valutazione e spiegazione è stata imposta con una burocratica circolare da parte del Dap a firma Basentini la sospensione immediata dei colloqui con i familiari. In un batter d’occhio tutto è precipitato. Che me dice sulle polemiche a proposito della nomina a capo del Dap? Il duello televisivo Bonafede-Di Matteo è stato assolutamente inopportuno e fuori luogo: una seria mortificazione per le Istituzioni. In termini maldestri hanno amplificato le potenzialità mostruose delle organizzazioni mafiose. Quali le prospettive? Bisogna sforzarsi di concepire il carcere non come valore, ma in alcuni casi come una dura, insopprimibile necessità che non si deve tradurre in afflizione totale, ma deve garantire la dignità e il diritto di cambiare e di sperare. Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità e della persona. Il carcere, invece, è una barbarie senza alcun contenuto pedagogico, curativo, correttivo, rieducativo. Il miglioramento delle condizioni di vita all’interno, l’implementazione delle attività sociali, lavorative, ricreative e della presenza del territorio, la costituzione di una cultura inclusiva, le pene alternative, il riconoscimento del diritto all’affettività sono questioni dalle quali non è possibile prescindere se vogliamo finalmente incominciare a parlare di dignità e di umanità nelle carceri. Se li perdoni sei un traditore di Gioacchino Criaco Il Riformista, 12 maggio 2020 Ora, e da un po’, la collettività non sta con chi ha subito un torto: ne prende il posto. Ignora il dolore, esige la rivalsa. De André se ne tornò dalla prigionia con una canzone, Hotel Supramonte, e un odio a metà: restò duro verso gli organizzatori del suo sequestro e della moglie, e comprese le ragioni della manovalanza, dei pastori coinvolti, per il vivandiere, della banda che lo tenne alla catena quattro mesi, chiese la Grazia, ne firmò la richiesta. L’industriale bresciano Soffiantini perdonò tutti i suoi sequestratori, e molti sequestrati, fi no ad alcuni decenni fa, erano soliti non cedere al rancore contro chi aveva fatto loro un male indicibile. Umanamente, solo chi ha subito un dolore è titolare del potere del perdono, ma pochi, in epoche passate, facevano colpa a chi perdonava, anzi: informazione e opinione pubblica tiravano un sospiro di sollievo nel ridimensionare il sentimento del dolore collettivo, aumentava l’empatia verso la vittima. Il perdono era un valore. Più era grande l’ingiustizia, più ci si sentiva ingiustamente fortunati rispetto alle vittime. Si stava con loro. Ora, e da un po’, non si sta più con le vittime, ci si è sostituiti alle vittime. I torti, alcuni non tutti, appartengono alla collettività, ma non come dolore collettivo, solo come rivalsa verso chi li commette. Meglio, lo sbaglio si ritiene commesso contro tutti, e tutti hanno diritto alla riparazione. Le vittime dirette sono strette in una scelta obbligata, perseguire senza tregua i colpevoli, non fermarsi: stare dietro alla condanna, alla espiazione. Implacabili. Chi sbaglia ha sbagliato per sempre. Le vittime dirette non possono spartirsi da una società che è vittima nella propria interezza: distaccarsi, comprendere, perdonare, non odiare, è un tradimento inammissibile. La vittima oltre al torto subisce la condanna all’odio. Chi non odia diventa complice dei cattivi. Una divisione netta: giusti e negletti. Una regola ferrea che lascia fuori pochi eletti, i padroni dell’etica, quelli che fanno le divisioni del bene del male in virtù della forza mediatica, economica, del potere che posseggono ed esercitano nel periodo storico. Non ci sarebbe stato nessun odio nei confronti di Silvia Romano se fosse tornata carica di odio, se già prima di sbarcare all’aeroporto di Ciampino avesse invocato la vendetta divina e terrena contro chi l’ha tenuta prigioniera per due anni. Molti di quelli che ora si scagliano contro la volontaria milanese si aspettavano da lei un odio che avrebbe nutrito l’odio collettivo, che avrebbe reso sequestrati e quindi vittime buona parte degli italiani. Il volto sorridente e la disposizione degli abiti della cooperante hanno rappresentato un tradimento prima che lei parlasse. E allora i giusti, per paura di essere defraudati di una legittima vendetta, hanno scaraventato Silvia fra i reprobi, prendendosi per intero il dolore di due anni di prigionia, e chiedendone direttamente la giusta e implacabile pena. La tormentata favola delle scarcerazioni di Orazio Abbamonte Il Roma, 12 maggio 2020 L’Italia è un Paese che da sempre stenta a prendere coscienza di sé, preferendo ipocrisie, falsificazioni, deformazioni fiabesche della realtà, nelle quali sguazza, anche mentre sta affogando. È montata la vicenda di Francesco Basentini: il Direttore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, magistrato anche lui, ma finito nelle logiche un tantino contorte dell’ordine giudiziario. Dove recitano prime donne, comprimari e comparse in intrighi d’ogni sorta, caso Palamara docet. Di cos’è accusato il Basentini? Appena appena, d’aver promosso l’uscita di boss della criminalità organizzata dalle carceri. Perché? Questo è il bello. Si dovrebbe cominciare col sapere che il Direttore del Dap non ha il potere di togliere i ceppi nemmeno ad una mosca se condannata. Per questo c’è solo il magistrato di sorveglianza che decide, godendo dell’invidiabile autonomia del Giudice. Ma voglio andare al di là delle forme. La cosa non mi convinceva, ed ho perciò cercato di capire, impresa quasi impossibile, nell’informazione italiana. Nessuno gli ha contestato una qualche precisa condotta: solo che Basentini - magistrato che conobbi a Potenza dov’era Aggiunto in Procura, e per il quale non ho il benché minimo trasporto - avrebbe favorito l’uscita dalle carceri repubblicane di pericolosi boss. Come? Bah, perché ha inviato una circolare alle Direzioni dei patri penitenziari, affinché fosse comunicato “con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza, il nominativo del detenuto che ha una serie di patologie o che ha più di 70 anni, nessuno escluso”. In pratica, in piena emergenza Codiv-19, il responsabile amministrativo delle carceri italiane - dopo la rivolta di un mese fa - ha disposto che, per evitare ulteriori contagi, si portasse all’attenzione dell’Autorità Giudiziaria competente, la situazione di soggetti che fossero ad alto rischio di rimetterci le penne in contesti potenzialmente contagiosi. L’Autorità giudiziaria ha vagliato - suppongo con la consueta durezza, della quale ho buona notizia - e nei casi estremi, quando si fosse alla fine della pena o in presenza di buona condotta e, soprattutto, a rischio della pelle, deve avere deciso di mandare alcuni criminali ai domiciliari - non a passeggio, ai domiciliari - immagino anche sottoposti a varie forme di occhiuto controllo. Di cosa è accusato, dunque, l’ex Direttore delle carceri? D’avere svolto il suo dovere, attivando le competenti articolazioni dell’Amministrazione penitenziaria, per salvaguardare la salute dei detenuti: insomma, di non nascondere la realtà che doverosamente la legge vuole sia esposta al Giudice di sorveglianza. Ed i giudici hanno deciso, in determinati casi, per i domiciliari, sempre nell’emergenza Codiv-19. Singolare coincidenza: in questi stessi giorni il pm siculo Nino Di Matteo (oggi consigliere Csm) - in una trasmissione televisiva, non riferendo ad autorità competenti, ma alla poco informata “opinione pubblica” - ha messo in correlazione la sua mancata nomina due anni or sono a Direttore del Dap (gli fu preferito giustappunto il Basentini), con la presunta ostilità che nei confronti della propria candidatura avrebbe manifestato la criminalità organizzata, come s’evincerebbe da intercettazioni che due anni fa circolavano in ambienti investigativi. A parte l’opinabile appropriatezza del servirsi, in pubblica trasmissione, d’informazioni acquisite - ipotizzo - grazie alla propria condizione d’investigatore, quanto affermato dal Di Matteo ho il dubbio possa meritare la qualificazione di calunnia. Perché non d’un mero fatto si tratta, bensì d’una ricostruzione realizzata sulla scorta del rudimentale criterio epistemologico del post hoc propter hoc: siccome c’era l’ostilità dei boss (sempre sia vero), non io, bensì il Basentini fu nominato al Dap. Non è cosa da poco accusare il ministro della Giustizia d’un simile malestro. E poi, altra coincidenza, nel mentre il Di Matteo forniva dopo due anni siffatta, succosa rilevazione, il Basentini era accusato d’aver favorito (nel modo detto) la scarcerazione dei boss, confermando, mi sembra debba intendersi, la correlazione avanzata dal Di Matteo. Per parte sua, il ministro della Giustizia - improbabile nel ruolo ed indifeso per il suo essere - in luogo di valutare una querela, si prova anche a far rientrare gli scarcerati nelle galere, dimèntico che la cosa non dipende da lui, ma dalla Magistratura di sorveglianza. Ma che razza di Paese a testa in giù è mai questo? Aggiungi che le forze tradizionalmente garantiste ed anti-forcaiole - le cosiddette destre - hanno sùbito messo sulla graticola il Bonafede, non perché non avrebbe mai dovuto ascendere al grado austero del Guardasigilli, bensì perché accusato da un magistrato tra i più avanzati nella cultura del sospetto e tra quelli che più d’ogni altro quest’oggi potrebbero meritare la collocazione tra i professionisti dell’antimafia, categoria, peraltro, anche molto apprezzata e, perché no, apprezzabile, secondo certi criteri. Ma un Paese che vive in una tale gelatinosa commistione d’opportunismi, falsità, confusione, indifferenza verso il serio esame della realtà, che speranze avrà poi mai di costruire qualche solida istituzione e fondare il suo futuro su d’un serio esame dei propri, incancreniti problemi? Nel decreto che serve a restituire liquidità agli italiani, c’è una norma della quale s’avvertiva assai grave l’urgenza: la proroga di due anni per il servizio dei magistrati. Ed il dr. Pier Camillo Davigo, promotore dell’elezione del Di Matteo al Csm e guida carismatica, è sull’orlo della pensione. Post hoc propter hoc. Invasioni di campo alla giustizia di Sabino Cassese Il Foglio Quotidiano, 12 maggio 2020 Magistrati al vertice dell’apparato amministrativo, che però è parte del potere esecutivo. Secondo altre indicazioni apparse sulla stampa, i detenuti in attesa di giudizio sarebbero 231. Le cifre sono incerte, ma riguardano certamente in larga misura persone che non hanno avuto ancora un processo. Al di là di questi elementi di fatto, che sono comunque molto rilevanti, c’è la circostanza che la libertà personale in Italia, in base all’articolo 13 della Costituzione, è nelle mani dei giudici e che le decisioni prese sono dei giudici di sorveglianza, come è giusto che sia, e sono state adottate una per una con riguardo ai detenuti e non possono essere modificate per atto legislativo, perché altrimenti vi sarebbe una invasione del potere legislativo in quello giudiziario. I giudici di sorveglianza svolgono quel compito come giudici, non come “amministratori della pena”. Eseguono l’articolo 123 del decreto legge 18 del 2020, convertito in legge 27 del 2020, il quale prevede che, se la pena non è superiore a 18 mesi, può essere eseguita presso l’abitazione del detenuto, salvo i condannati per reati maggiori e salvo eccezioni fatte per gravi motivi da magistrati. Vuol dire che si è fatta gran confusione tra i poteri, nel senso che le scarcerazioni sono provvedimenti adottati dai giudici di sorveglianza sulla base di una legge? Si può allora aggiungere che il ministro della Giustizia si è difeso in modo inadeguato dalle accuse, a dimostrazione della sua inadeguatezza? Non ho elementi per valutare l’adeguatezza del ministro. Rilevo soltanto che - se la critica che gli è mossa è principalmente quella relativa alla modificazione della esecuzione della pena - essa dipende da una legge deliberata dal Parlamento, a mio parere con le dovute cautele, e a cui, con decisioni singole, i magistrati di sorveglianza hanno dato un seguito. Quindi, la mozione di sfiducia - per questa parte - finisce per invadere il campo dell’azione della magistratura. C’è quindi, un problema strutturale... Non uno, ma più di uno. Legati alla “magistratizzazione” del ministero della Giustizia. Il ministero è parte del governo e, quindi, dell’esecutivo, ma una gran parte del ministero è occupata da magistrati, in particolare le posizioni apicali. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è un magistrato. Viene collocato fuori ruolo. Viene nominato dal governo. È sottoposto al potere di indirizzo e controllo del ministro, in contrasto con la posizione personale del magistrato, che - dispone la Costituzione - “è soggetto soltanto alla legge”. Il ministro della Giustizia risponde dell’operato dei magistrati-funzionari che operano nel potere esecutivo. Si aggiunga quello che Giovanni Fiandaca ha notato l’8 maggio scorso in un articolo pubblicato sul Riformista: si può dire che un “magistrato antimafia” (noti la nuova categoria) sia la persona giusta per svolgere il ruolo di capo del Dipartimento penitenziario? È stato selezionato per questo scopo o è lì perché ritenuto “bon à tout faire”? Consideri che il Dipartimento deve gestire direttamente o indirettamente più di 40 mila persone, tra amministrativi e personale penitenziario, nonché le carceri, che richiedono una gestione alberghiera. Quindi, c’è un difetto che sta nel manico: i magistrati sono scelti per giudicare, ma vengono assegnati a compiti amministrativi, per cui non sono idonei perché non addestrati, né specializzati a questa funzione. Poi, fanno parte di un ordine autonomo, quello giudiziario, ma vengono messi al vertice dell’apparato amministrativo, che è parte del potere esecutivo. Che ne penserebbe Montesquieu, se fosse tra di noi? Capisco: bisogna essere radicali, cioè andare alla radice dei problemi. I posti del ministero sono per amministratori, non per magistrati. Se vengono assegnati a magistrati, si viola la separazione dei poteri e si prepongono ad uffici importanti persone selezionate in base ad altri criteri per un’altra funzione. Si può aggiungere che tutto questo provoca anche una notevole commistione che è in parte all’origine dell’odierna diatriba. Quello che è accaduto è proprio la dimostrazione di questa conclusione. Tanto più importante in quanto a tutti i vertici del ministero (e non solo ai vertici) vi sono magistrati. Il ministero della Giustizia ha quattro dipartimenti, tutti diretti da magistrati (affari di giustizia, organizzazione giudiziaria, personale servizi, amministrazione penitenziaria, giustizia minorile e di comunità). Solo l’Ufficio centrale archivi notarili è retto da un dirigente amministrativo. Tenga conto che il ministero si interessa, oltre che dell’organizzazione giudiziaria, della vigilanza sugli ordini e collegi professionali, dell’amministrazione del casellario, della cooperazione internazionale, della istruttoria delle domande di grazia e della gestione degli archivi notarili. Per rendersi conto del carico amministrativo del ministero, basta che ricordi che, oltre ai circa 10 mila magistrati, gestisce più di 30 mila funzionari amministrativi, più quasi 3 mila persone del ruolo Unep, quasi altrettanti addetti alla giustizia minorile, quasi 500 addetti agli archivi notarili, oltre, naturalmente, ai più di 40 mila già citati addetti all’amministrazione penitenziaria. I magistrati hanno competenza ed esperienza per la gestione di questi apparati? Come si è formato questo “mostruoso connubio” di compiti amministrativi e personale di magistratura? È un fenomeno che si è sviluppato dopo il primo quarantennio di vita unitaria, durante il quale vi era, invece, l’osmosi giustizia-politica. Il personale di magistratura si impadronì del ministero in epoca giolittiana, quando l’ordine giudiziario era considerato un “settore specializzato della pubblica amministrazione”, cioè la divisione dei poteri era molto imperfetta. Ciò servì a uno scopo corporativo, assicurando sbocchi aggiuntivi di carriera nel periodo della romanizzazione dello Stato. E uno scopo istituzionale, da schermo contro l’ingerenza governativa nella giustizia. Ma ora la Costituzione divide i poteri e assicura l’indipendenza della giustizia mediante il Consiglio superiore della magistratura (anche se i magistrati ne hanno fatto un pessimo uso). Torniamo al punto di partenza: la mozione di sfiducia... Che mostra uno dei tanti aspetti di questo groviglio tra politica e giustizia che si è venuto a creare. Un magistrato capo di un dipartimento amministrativo si è dimesso per critiche rivolte (anche) alla gestione politica dell’amministrazione carceraria, ma in realtà rivolte o all’attività legislativa del Parlamento o alle decisioni di singoli magistrati di sorveglianza. Aggiunga questo alla politicizzazione endogena della magistratura (specialmente dei procuratori). La Costituzione aveva assicurato uno schermo all’invasione della politica e del governo nei confronti della giustizia. Non contiene schermi per evitare che il processo abbia una direzione opposta, dalla magistratura verso la politica e dalla magistratura verso l’esecutivo. Ne deriva un generale squilibrio tra i poteri. C’è un potere che pesa più di altri, pur essendo il meno “accountable”. Aggiunga le carenze della funzione propria dei magistrati, cioè i ritardi cronici della giustizia. Capirà perché il paese giri da tempo intorno all’interrogativo: chi ci garantirà nei confronti degli organi di garanzia? Chi garantisce che gli organi di garanzia facciano il loro dovere? Tutto questo debordare non produce anche un altro squilibrio, quello che dà luogo a una generale sottovalutazione della disciplina, del riserbo e dell’equilibrio, come disposti dal decreto legislativo numero 109 del 2006? Il corpo, pur formato da eccellenti giuristi e ottimi giudici, nella sua maggioranza, non è riuscito tuttavia a contenere quei pochi che non sono capaci di rifuggire il “servo encomio” e il “codardo oltraggio”. Magistratura di serie A e Magistratura di serie B di Gian Domenico Caiazza* inchiestasicilia.com, 12 maggio 2020 Occorre rassegnarsi ad un dato di fatto: esiste Magistratura di serie A e Magistratura di serie B. Magistrati che quando arrestano 400 persone vengono portati in trionfo e magistrati che amministrano la giustizia convinti di dover rispettare anche quella regola secondo la quale il diritto alla salute di un detenuto per mafia vale quanto il diritto alla salute di chiunque di noi. Magistratura di serie e Magistratura di serie B. Lungi dal placarsi, l’inverecondo linciaggio di magistrati di Sorveglianza che fanno solamente il loro dovere, il loro difficilissimo ed ingrato mestiere, aggiunge ogni giorno sassi scagliati senza il benché minimo sentimento di misura, di rispetto della verità, e di senso del pudore. Stando alla solita filiera mediatico-giudiziaria dei guardiani della ortodossia politica, etica e legalitaria che imperversa senza freni nel nostro Paese, dobbiamo allora necessariamente presumere che magistrati di Sorveglianza da sempre ansiosi di sguinzagliare liberi ed impuniti per il Paese mafiosi, ‘ndranghetisti, terroristi e criminali di ogni genere e natura, abbiano colto la ghiotta occasione della pandemia per realizzare finalmente la turpe missione alla quale hanno votato la propria toga. Occorrerebbe almeno che ci venisse data una spiegazione. Giudici di Sorveglianza. Chi sono costoro? - Chi sarebbero, costoro? Giudici imbelli? Ricattati? Corrotti? Intimoriti? Sodali di quei criminali? Mi rendo conto che riuscire ad ottenere una risposta, o almeno avviare una riflessione, mentre fischiano i sassi di questa indignazione berciante, protetta da un conformismo protervo e stomachevole, è impresa impossibile. E tuttavia, mentre puntuali giungono le notizie di ispezioni e tonitruanti riforme normative di stampo poliziesco, nemmeno è possibile rassegnarsi, tacendo di fronte a questo spettacolo indecoroso, indifferente ai fatti. Che sono due. Il primo fatto - Il primo riguarda un signore che ha espiato pressoché per intero la pena inflitta di poco più di 14 anni di reclusione, per gravi fatti di estorsione ed altri reati connessi di stampo mafioso. Detratta l’ultima quota di sicura liberazione anticipata (ha già fruito legittimamente delle precedenti), sarebbe uscito dal carcere tra otto mesi. Senonché, ha un cancro al colon in uno stadio che -apprendiamo - il Tribunale di Sorveglianza ha accertato essere talmente avanzato da determinare una condizione di incompatibilità con il permanere (per quei residui otto mesi) in carcere. Gli indignados - Gli indignados che straparlano di inaudito cedimento al ricatto mafioso hanno dunque notizia che tale condizione sia falsa, o pretestuosa, o ingigantita ad arte? Non ho letto nulla del genere; non una tra quella pioggia di vituperanti e fiammeggianti parole di sdegno si è soffermata su questa senz’altro allarmante ipotesi. Nemmeno ci viene spiegato cosa cambierebbe, per la sicurezza sociale messa così irresponsabilmente in pericolo, l’anticipazione di qualche mese di quella libertà che il detenuto avrebbe comunque e definitivamente riguadagnato tra una manciata di settimane. Perfino un mafioso torna libero - Perché vi comunico una notizia su come funzionano le cose: perfino un mafioso, quando ha scontato la pena inflittagli, ritorna libero tra di noi. Oddio, i guardiani della pubblica moralità potrebbero cogliere l’occasione per proporre il carcere a vita per qualunque reato di mafia, e questo - mi diano retta - è il governo giusto per provarci con successo. Nel frattempo, tuttavia, le cose funzionano come vi ho detto. Il secondo fatto - Il secondo è un condannato per fatti di camorra che ha un cancro alla vescica, giunto ad uno stadio che richiede cure specialistiche indisponibili nel carcere dove attualmente è ristretto. Il Tribunale chiede formalmente al Dap di indicargli altra struttura detentiva attrezzata all’uopo, dove trasferire il malato. Il Dap non risponde, e dopo oltre venti giorni di silenzio, il Giudice di Sorveglianza, al quale non possiamo chiedere né di cancellare d’imperio il diritto alla salute del detenuto, né di assumersi responsabilità gravissime e personali, lo scarcera perché possa curarsi. Magistratura di serie e Magistratura di serie B - In quale modo, per quale ragione minimamente seria e credibile si deve immaginare che un Paese civile possa crocifiggere quei giudici? Occorre allora rassegnarsi ad un dato di fatto: esistono magistrati di serie A e magistrati di serie B. Magistrati che quando arrestano 400 persone vengono portati in trionfo, senza attendere di sapere (e sarebbe decisamente il caso) se e quanti di quegli arrestati saranno poi giudicati effettivamente colpevoli. E magistrati che amministrano la giustizia convinti di dover rispettare anche quella regola secondo la quale il diritto alla salute di un detenuto per mafia vale quanto il diritto alla salute di chiunque di noi. Se osi dire una parola sui primi, sarai crocefisso; se lanci la prima pietra sui secondi, seguirà linciaggio di massa, e l’immancabile decreto-legge: per aumentare il potere dei primi, guarda caso. *Presidente dell’Unione Camere penali I danni alle istituzioni generati dal metodo Di Matteo di Mariarosaria Guglielmi* Il Foglio, 12 maggio 2020 Non bastava lo sconcerto prodotto nell’opinione pubblica dalle dichiarazioni del dottor Di Matteo. Un magistrato, noto per il suo impegno nella lotta alla criminalità organizzata, ora con un ruolo istituzionale quale componente del Csm, sceglie una platea televisiva - e l’inevitabile massimo clamore mediatico - per esternazioni che chiamano in causa l’attuale ministro della Giustizia (e il contenuto di un colloquio riservato), che di fatto chiedono conto delle ragioni della sua scelta per i vertici del Dap e che inevitabilmente mettono in relazione un “ripensamento” del ministro con la notizia della contrarietà dei vertici della criminalità organizzata alla designazione del dottor Di Matteo. Con le domande, fatte proprie e divulgate dal direttore di una importante testata giornalistica, che l’altro giorno si interrogava su possibili “trattative” intercorse fra lo stato e i detenuti dopo le rivolte di marzo nelle carceri e sulla relazione con le scarcerazioni disposte in questi giorni dai magistrati di sorveglianza, si completa il corto circuito innescato dalle esternazioni del dottor Di Matteo. Per le suggestioni non esistono smentite. Le smentite vanno bene per i fatti. E non esistono argomenti per dare convincenti risposte alle domande e ai dubbi che, come le suggestioni da cui originano, sono destinati a “rimanere nell’aria”. Quanti cittadini in questi giorni si sono chiesti se il nostro è uno stato di diritto solido, in grado di tutelare la sua collettività, o se invece quelle organizzazioni criminali, che hanno duramente colpito le istituzioni della Repubblica e scritto pagine tragiche della storia del nostro paese, ancora oggi riescono ad avere la forza di “ricattarci” e di condizionare in qualche modo anche le decisioni prese ai più alti vertici dello stato? Come non porsi queste domande di fronte al dubbio che inevitabilmente sorge quando un magistrato mette in relazione proprio alla sua cifra professionale il fatto di essere rimasto escluso da un incarico istituzionale di particolare rilevanza? Qual è l’effetto a lungo andare di queste domande, destinate a rimanere senza credibili e convincenti risposte, perché ciò che le origina non sono i fatti (di cui si può affermare e dimostrare la verità o la falsità) ma il loro contenuto evocativo e tutto ciò che suggerisce il loro accostamento? È stato già ricordato in questi giorni, anche dall’Anm, che dovere dei magistrati è esprimersi con equilibrio e misura, tenendo conto delle ricadute che hanno le nostre dichiarazioni sia nel dibattito pubblico che nei rapporti tra le Istituzioni. Basta essere convinti delle “proprie buone ragioni”, sia rispetto alla “verità” di ciò che si dice sia rispetto alla necessità di doverla rendere nota, per saltare a piè pari tutte le cautele che il nostro ruolo ci impone? Non dobbiamo forse chiederci, quando scegliamo la platea mediatica e il libero dibattito sulla stampa, cosa resta delle nostre affermazioni - una volta spenti i riflettori e cessato il clamore - all’opinione pubblica, a quella generalità indeterminata di persone che abbiamo scelto come nostri interlocutori ideali? Non fa parte della nostra responsabilità rispetto alle funzioni che esercitiamo, e ai nostri doveri verso la collettività, chiederci quando prendiamo la parola quale traccia vogliamo lasciare nel dibattito pubblico e in che modo, come magistrati partecipi di questo dibatto, vogliamo contribuire a quella “consapevolezza comune” che ci rende comunità? L’esigenza di dire la propria “verità” e di rimettere le “cose al giusto posto” ci libera da ogni dovere di farci carico del significato che nel circuito pubblico le nostre affermazioni sono destinate ad assumere? E, prima ancora, non è la nostra stessa funzione a richiedere che, dentro e fuori dalle aule di tribunale, il magistrato appaia sempre capace di dubitare, di rimettersi in discussione, più che portatore di verità assolute? I grandi stati d’animo collettivi, ha scritto Marc Bloch, hanno il potere di trasformare in leggenda una percezione alterata. Un rischio destinato ad aggravarsi in tempo di “guerra”. Per Bloch era il primo conflitto mondiale. Per noi è oggi la lotta contro un nemico invisibile, che non minaccia solo le nostre esistenze. È la paura che inocula in ciascuno di noi e nella comunità, rimettendo in discussione tutti i valori della convivenza civile. In questo stato d’animo collettivo, ancor più che nel recente passato, è difficile far comprendere ciò che alla magistratura è richiesto dal ruolo costituzionale di garanzia della giurisdizione, e quanto siano complesse le scelte che deve compiere. Alla magistratura di sorveglianza oggi spettano decisioni particolarmente difficili, che devono garantire un’esecuzione della pena conforme al rispetto dei principi costituzionali di tutela della salute e di umanità del trattamento, e che devono realizzare un attento bilanciamento tra il diritto del detenuto e l’interesse pubblico alla sicurezza sociale. Come magistrati siamo consapevoli della necessità di dover rendere conto dei provvedimenti che adottiamo e dell’importanza di essere chiamati a rispondere, di fronte all’opinione pubblica, del nostro operato. La voce della libera stampa è fondamentale perché questo “circuito di responsabilità”, per la magistratura come per ogni altro potere dello stato e ogni organismo pubblico, sia sempre vigile ed effettivo. La libertà di informazione è un bene prezioso di ogni democrazia: è ciò che, nel confronto fra il pluralismo delle idee, forma la sua coscienza critica e costruisce la coesione della sua collettività intorno ai valori condivisi. Ed è per questo fondamentale che il dibattito pubblico in corso riceva oggi dalla libera stampa quell’apporto di consapevolezza critica necessario per affrontare tutte le sfide che l’emergenza sanitaria pone alla democrazia. Se i magistrati di sorveglianza diventano gli “scarceratori”, della complessità del loro lavoro e delle loro decisioni, che si devono confrontare con la storia di ciascuna persona che è dietro a un provvedimento e con i parametri di giudizio che impongono la ricerca del difficile punto di equilibrio fra tutela della salute e ragioni di sicurezza, non resta nulla. Resta la suggestione di decisioni immotivate, qualificate solo dal risultato che producono: aprire le porte del carcere, senza attenzione alle esigenze di tutela della collettività. Se si ventila l’idea di stato che tratta con la criminalità organizzata, e dei suoi giudici esecutori - imbelli o consapevoli - di un patto inconfessabile che ha barattato la necessità di riportare l’ordre dans la rue con l’alleggerimento del regime detentivo e la scarcerazione di pericolosi capimafia, di quel diritto/dovere di fare domande e di chiedere conto delle decisioni prese in nome dell’opinione pubblica non resta nulla. Resta una suggestione, che incrocia lo stato d’animo collettivo. E che può diventare, per citare sempre Bloch, la falsa notizia, specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti. Non sono le domande senza risposta ma le ineffabili suggestioni che una democrazia, specie quando duramente provata dagli eventi, non può permettersi. *Segreteria generale di Magistratura democratica La fase 2 della giustizia parte tra polemiche e contestazioni di Patrizia Maciocchi e Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2020 Avvio della fase 2 all’insegna delle polemiche. E i tribunali non fanno eccezione. Si parte in ordine sparso, affidando ai capi degli uffici il compito di allargare le maglie dell’attività giudiziaria, limitata nella fase 1 alle udienze indifferibili. Con la possibilità di scegliere in un ventaglio di misure logistiche e organizzative. Il risultato è che sono oltre 200 i provvedimenti che dettano le linee guida. Un numero che ha indotto l’avvocatura, a proclamare lo stato di agitazione, per invocare una disciplina omogenea, in assenza della quale anche le udienze da remoto rischiano di non potersi svolgere. Rincarano la dose i penalisti che in una lettera a ministro della Giustizia e Csm mettono nel mirino quella che sta emergendo come una prassi diffusa e cioè l’interpretazione da parte della magistratura della fase 2, di un periodo cioè di oltre 2 mesi e mezzo, come caratterizzato da un’ulteriore e corrispondente sospensione dei termini. Con la conseguenza di rinvii delle udienze pressoché in automatico e anche al 2021. L’avvio “a macchia di leopardo” produce anche, sottolineano le Camere penali, situazioni paradossali dove, a fronte di aree geografiche nelle quali il contagio è molto vicino a zero, i processi si rinviano minimo a settembre, in altre, a Milano per esempio, dove l’emergenza è lontana dall’essere passata, il presidente del tribunale ha emesso linee guida che impongono rinvii per non più di 15 giorni, per rendere più agevoli future revoche della sospensione. L’Anm, da parte sua, mette nel mirino l’incomprensibilità della norma, prevista dalla versione finale del decreto Cura Italia per quanto riguarda le udienze civili, che obbliga alla presenza in ufficio anche magistrati che potrebbero svolgere la loro attività da remoto. E questo facendo così aumentare il rischio di esposizione al contagio nei confronti delle toghe. Il tutto in un contesto “di strutturale e annosa inadeguatezza” delle sedi giudiziarie quanto a rispetto delle regole minime di sicurezza. Di più. Per l’Anm a mancare sono anche misure sul piano organizzativo che consentano al personale amministrativo di potere accedere ai registri da remoto. Nella situazione attuale, infatti, lo smart working, sia pure largamente praticato, è in buona misura “improduttivo”. Delle differenze che da oggi caratterizzeranno l’amministrazione della giustizia è istruttiva una ricognizione nelle sedi giudiziarie. A Napoli l’ordine degli avvocati revoca la sua adesione al protocollo, sottoscritto con il Tribunale, il 28 aprile scorso, in polemica con l’organizzazione: dalla gestione distaccata di Ischia, al rifiuto di trattare i processi con la presenza degli imputati liberi. Diverso il parere delle toghe “I capi degli uffici - dice Marcello De Chiara segretario dell’Anm di Napoli - hanno avuto il difficile compito di bilanciare la tutela della salute con il diritto alla giustizia. Il risultato è equilibrato, a partire, dal numero di procedimenti possibili ad udienza: non più di tre per il collegiale e massimo 5 per il monocratico”. Ma se l’ordine degli avvocati di Napoli fa un dimostrativo passo indietro dall’accordo, quello di Palermo istituisce un osservatorio misto, avvocati- magistrati, fino al 31 luglio, per monitorare le misure organizzative e, in caso, correggere la rotta. Countdown a Milano, dove si riparte, dando il via libera anche ad udienze meno urgenti ma rigorosamente a porte chiuse. Pronta in ogni sezione penale un’aula per i processi in videoconferenza con l’ok del difensore. A Roma riavvio graduale ma in “crescendo”, se i dati del contagio lo permetteranno. Alle urgenze si uniscono i processi senza dibattimento, seguiti dai reati di genere. Nel civile il criterio è quello dei più “datati” o in cui ci sono in gioco diritti fondamentali. Protocollo speciale a Torino per le procedure concorsuali e le crisi da sovra-indebitamento. Gli avvocati potranno inviare note scritte, nel caso ci siano da adottare provvedimenti, con un contraddittorio assicurato con il Pm, con l’invio degli atti via Pec o e-mail dalla cancelleria al suo ufficio. A Genova, non ci sono aule disponibili per la terza sezione, che tratta diritti reali, dunque fino al 30 giugno udienze da remoto, con l’eccezione del presidente facente funzioni che mette a disposizione la sua stanza. Incostituzionale escludere la stampa dai dibattimenti penali Il Dubbio, 12 maggio 2020 L’osservatorio per la Giustizia: “La libertà di informazione garanzia del giusto processo”. “Non c’è giusto processo senza libertà d’informazione giudiziaria”. È questo il principio in base al quale l’Osservatorio per la Giustizia ha annunciato che denuncerà in tutte le sedi competenti “l’illegittimità costituzionale della normativa sull’emergenza Covid-19 e degli articoli 472 comma 3 e 473 comma 2 del codice di procedura penale, su cui essa si fonda, che non prevedono il diritto della stampa a presenziare ai dibattimenti penali”. Secondo il presidente dell’Opg, l’avvocato Patrizio Rovelli, in pericolo c’è il diritto di informazione. Da qui la critica all’attuale disciplina che in nome della salute dei cittadini nega, di fatto, “il diritto della stampa di presenziare alle udienze penali”, disposizione che “contrasta con l’articolo 21 della Costituzione e con i principi del Giusto processo”. “Non è costituzionalmente legittimo ammettere che dipenda da una decisione discrezionale del Giudice consentire o meno che la stampa, dotata di tutti i dispositivi sanitari individuali necessari, possa assistere ai dibattimenti penali - afferma nella sua nota Rovelli. Già domani la questione sarà sollevata davanti al Tribunale penale di Cagliari nel corso di un delicato processo per associazione a delinquere, in cui è costituito parte civile il ministero dell’Interno. L’Opg auspica che i protocolli sottoscritti dai presidenti degli uffici giudiziari possano superare l’attuale silenzio in materia con una disciplina più garantista di quella attualmente prevista dal codice di procedura penale”. La libertà di informazione, conclude il presidente di Opg, “non è una concessione ma un diritto fondamentale che assicura la democraticità dell’amministrazione della giustizia. I palazzi di giustizia, soprattutto in questa delicata situazione emergenziale, non possono diventare fortezze escludenti avvolte dal segreto ma devono continuare a rappresentare il baluardo dello Stato costituzionale di diritto”. Avvocato domiciliatario non risponde per patrocinio infedele di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2020 Tribunale di Frosinone - Sezione penale - Sentenza 21 settembre 2019 n. 1098. I rapporti tra cliente e avvocato possono essere molto delicati e, in caso di insuccesso nella lite o controversia, possono incrinarsi al punto tale da finire dinanzi al giudice penale. Se a ciò si aggiungono i poco chiari e lineari rapporti tra “dominus” della causa e semplice “domiciliatario”, allora la vicenda può divenire paradossale. In questi termini si può descrivere la vicenda analizzata dal Tribunale di Frosinone nella sentenza n. 1098/2019, che ha visto come imputato per il reato di patrocinio infedele, ex articolo 380 cod. pen., un avvocato che aveva assunto il ruolo di domiciliatario in relazione a un procedimento di esecuzione immobiliare da promuovere nei confronti di alcuni debitori. Tale procedimento si era concluso con l’inefficacia del pignoramento a causa della notifica negativa a uno dei debitori e con la conseguente cancellazione dal ruolo della procedura esecutiva. La vicenda - Il cliente riteneva il legale infedele ai propri doveri e sporgeva denuncia nei suoi confronti per il reato ex articolo 380 cod. pen., in quanto il professionista aveva omesso di provvedere entro i termini previsti dall’articolo 497 cod. proc. civ. al deposito dell’istanza di vendita del compenso pignorato. Di qui la citazione diretta a giudizio dell’avvocato, il quale però faceva semplicemente notare di non essere mai stato il procuratore della parte offesa e che il suo ruolo nella vicenda era soltanto quello di domiciliatario, tenuto cioè a eseguire le istruzioni impartite dal dominus, ovvero il legale incaricato dal cliente per seguire e portare avanti la procedura esecutiva. Durante il giudizio il cliente riferiva di aver sporto querela nei confronti dell’avvocato domiciliatario, perché ritenuto responsabile di non aver eseguito le richieste del suo dominus. Tuttavia, le deposizioni dell’imputato, di altri colleghi e dello stesso dominus delineavano una diversa versione dei fatti, in cui emergeva una cattiva comunicazione tra i due legali e un risentimento del procuratore del fatto che il cliente avesse in due occasioni contattato direttamente il domiciliatario. L’inconfigurabilità del patrocinio infedele - All’esito dell’istruttoria dibattimentale, il Tribunale assolve così il domiciliatario per l’assoluta carenza dei presupposti richiesti dall’articolo 380 cod. pen. Ebbene, il giudice ricorda che il delitto di patrocinio infedele è un reato plurioffensivo, che tutela “sia il buon funzionamento della giustizia, sotto il profilo della garanzia di un leale svolgimento delle funzioni di difesa e assistenza delle parti, sia l’interesse particolare della persona assistita, in quanto lesa dalla condotta infedele”. Inoltre, per la configurabilità del delitto devono sussistere: un incarico professionale; il corretto e leale svolgimento dello stesso; un’attività svolta davanti a un giudice, procedure stragiudiziali escluse; un danno per il cliente, inteso come mancato conseguimento di beni giuridici o benefici anche di ordine morale. A ciò si aggiunge il fatto che si tratta di un reato proprio, che cioè può essere commesso “unicamente dal “patrocinatore”. Concludendo, il Tribunale sostiene che l’ipotesi di reato avrebbe dovuto essere contestata ad altro soggetto, ovvero all’avvocato incaricato, nei confronti del comportamento del quale il giudice “ritiene di dover stendere il velo dell’oblio”. Sorte peggiore tocca, invece, al cliente, per il quale si è disposto l’invio degli atti alla Procura per valutare la sussistenza del reato di calunnia, ex articolo 368 cod. pen., in quanto costui ha presentato querela nei confronti dell’avvocato domiciliatario ben consapevole della estraneità dello stesso ai fatti e, pertanto, sapendolo innocente. Le registrazioni della Siae valgono come prova delle trasmissioni “pirata” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 11 maggio 2020 n. 14212. Utilizzabili come prova delle violazioni del diritto d’autore, da parte dell’emittente televisiva, le registrazioni fatte dalla polizia giudiziaria e dagli incaricati della Siae. La Corte di cassazione, con la sentenza 14212, respinge il ricorso contro la condanna inflitta agli amministratori di una Tv privata per aver trasmesso, abusivamente, opere musicali protette dal diritto d’autore. Ad avviso degli imputati infatti, non c’era certezza sulla riconducibilità alla loro emittente delle trasmissioni “incriminate”, perché nelle trasmissioni via etere possono verificarsi delle interferenze di segnale o sovrapposizione di immagini. Per la difesa l’obbligo posto a carico delle emittenti Tv di conservare per tre mesi le registrazioni dei programmi avrebbe, infatti, proprio lo scopo di attribuire a queste la responsabilità di quanto messo in onda, tanto che il Garante delle Comunicazioni, impone l’indicazione del logo della Tv. Da qui la conclusione dell’illegittimità delle captazioni e della successiva analisi fatta dalla Siae e dalla Pg. Una tesi che la Suprema corte non condivide. I giudici sgombrano intanto il campo dai dubbi sulla riferibilità alla ricorrente dei risultati delle captazioni, in virtù della localizzazione del canale e dell’ora. La Cassazione chiarisce poi che la legge (legge 223/1990) di disciplina del sistema radiotelevisivo, non ha introdotto limiti all’accertamento delle condotte penalmente rilevanti, né ha stabilito modalità di acquisizione delle prove, che restano quelle generali. Quanto al dovere di conservare le registrazioni per tre mesi, questo è fissato soprattutto per valutare il rispetto di alcuni obblighi che vanno dalle ore di programmazione alla percentuale di programmi. Ma la norma non stabilisce, come preteso dalla difesa, che le registrazioni conservate dalla tv siano l’unico mezzo di prova. Giustificato anche il no alla particolare tenuità del fatto: le violazioni erano, infatti, messe in atto sistematicamente nell’ambito dell’attività di impresa. Campania. “Il carcere è da abolire, perché disumano e incoerente con la Costituzione” di Massimo Congiu dirittiglobali.it, 12 maggio 2020 Intervista a Samuele Ciambriello, Garante delle persone private della libertà della Regione Campania. È appena uscita la Relazione Annuale del 2019 sullo stato degli istituti di pena campani. Ne emerge un quadro per lo meno critico che mostra le numerose contraddizioni caratterizzanti il regime carcerario odierno fatto di sovraffollamento, disservizi e afflitto da quella che è forse la peggior forma di violenza: l’indifferenza politica e generale che, insieme alle altre problematiche, prima menzionate, colpisce il sistema detentivo di tutto il paese con risvolti inaccettabili dal punto di vista umano e sociale. Per parlarne ritroviamo Samuele Ciambriello, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, curatore della Relazione redatta dall’Osservatorio Regionale delle Carceri presso l’ufficio del garante, nonché strumento di sostegno e consulenza previsto dalla legge istitutiva del Garante del 2006. Signor Garante, cosa presenta il Rapporto del 2019 rispetto a quello dell’anno precedente? I dati sul sovraffollamento mostrano che il numero totale dei detenuti presenti nel 2019 fa registrare un 19% in più rispetto alla capienza regolamentare, con un aumento rispetto all’anno precedente. I disagi continuano, considerando che il 37% delle celle o delle stanze di pernottamento non ha servizi igienici: niente docce né bidet. L’altro problema irrisolto è quello della carenza del personale in diversi ambiti del mondo carcerario. In Campania abbiamo in tutto 3.902 agenti di polizia penitenziaria, ma non di rado accade che un numero compreso fra 450 e 800 agenti non vada al lavoro perché in malattia o per altre ragioni. Così non è raro che in interi reparti un solo agente debba occuparsi di 150-200 detenuti. Abbiamo mediamente 80-100 ristretti per piano, molti di loro sentono di vivere in una situazione di abbandono: molti stranieri non ricevono telefonate, in generale parecchi detenuti non possono svolgere attività di formazione perché non ne vengono organizzate. C’è qualche volontario, sennò sarebbe il deserto. È chiaro che non si può andare avanti così. Qual è, invece, la situazione dell’assistenza sanitaria negli istituti di pena? Nelle carceri campane abbiamo in media 72 visite mediche al giorno, ma sappiamo anche che ci sono 159 detenuti con disabilità che spesso non possono contare su sedie a rotelle o su altre attrezzature a loro necessarie. Il diritto alla salute deve essere garantito a tutti, anche a Caino. Ci sono consiglieri, deputati ed ex ministri che farebbero bene a riflettere prima di fare certe affermazioni sulla realtà carceraria. Nel 2019 circa 6.200 detenuti sono usciti per sottoporsi a visite ospedaliere, mentre altre 1.512 visite in un anno non hanno potuto aver luogo per mancanza di nuclei di traduzione o di veicoli. La proposta del Garante è che le questioni di carattere sanitario siano prioritarie rispetto a quelle legate all’ordine e alla sicurezza e che in questo abbiano voce in capitolo le direzioni sanitarie. Un altro aspetto problematico è quello del modo in cui la struttura carceraria si relaziona con i detenuti stranieri da lei prima menzionati... Ce ne sono 1.001 in Campania. 83 di loro non sanno una parola di italiano. A gennaio e febbraio scorsi gli istituti di pena di Poggioreale, Secondigliano e Salerno sono stati teatro di incontri settimanali poi sospesi. Possiamo immaginare le difficoltà specifiche dei detenuti stranieri che non parlano la nostra lingua, tanto più che non ci sono abbastanza mediatori culturali nel tessuto organizzativo carcerario. Nel 2019 sono stati espulsi 18 detenuti stranieri dalla Campania: 6 da Napoli, 6 da Caserta, 2 da Avellino, 2 da Salerno, 2 da Benevento. Insomma, la situazione è estremamente complicata anche da questo punto di vista. Veniamo al tema delle violenze all’interno dei penitenziari... Ci sono state denunce per alcuni casi di abusi e maltrattamenti. Questi episodi sono stati chiaramente segnalati alle autorità competenti. Per il resto devo dire che nel 2019 ci sono state meno denunce che nell’anno precedente in questo ambito. Mi sembra che ci sia un maggior senso di responsabilità in termini di relazioni fra parti che svolgono ruoli diversi: ci sono agenti che si distinguono per la capacità di comprendere le difficoltà dei detenuti e ristretti che segnalano situazioni di tensione nelle celle. Nel 2018 in Campania abbiamo avuto 10 suicidi, 6 nel 2019, ma l’anno scorso sono aumentati i tentativi di suicidio a volte sventati dall’intervento degli agenti che in quei casi hanno salvato delle persone. Gli atti di autolesionismo hanno superato del 32% la casistica del 2018 e rispetto ad allora abbiamo avuto un 55% in più sul piano degli scioperi della fame. In questi modi il detenuto cerca di attirare su di sé l’attenzione della magistratura, delle autorità sanitarie, della direzione del carcere. Occorre anche sottolineare il fatto che il sistema detentivo non è solo quello dei penitenziari, delle celle… È vero. Esiste un’area penale esterna che nel 2019 in Campania ha fatto registrare una popolazione di 9.020 persone; 3.000 di loro sono agli arresti domiciliari. Ma anche in questo caso ci sono pochi assistenti sociali, nessun educatore o mediatore culturale o altre figure sociali di sostegno. Tutto considerato ritengo siano necessarie misure alternative al carcere; secondo me è necessario un altro percorso se vogliamo veramente recuperare delle persone. Un detenuto sconta la sua pena, viene scarcerato ma non è detto che una volta fuori sia veramente libero. Spesso è prigioniero dei pregiudizi ed è come se fosse marchiato a vita. Io faccio un appello agli assessori per le politiche sociali, a loro chiedo dei piani concreti per queste persone, per evitare il loro ritorno in carcere. La cosa, tra l’altro, comporterebbe un risparmio statale di circa 350 euro al giorno. Il carcere, a mio avviso, non è una soluzione in termini di sicurezza, è da abolire perché è disumano e incoerente con la Costituzione. Ripeto: non può essere una soluzione ai problemi di sicurezza anche perché è esso stesso un problema. Quanti detenuti sono condannati a un anno di prigione? Non possiamo far svolgere loro lavori di pubblica utilità? In Campania un terzo dei detenuti vive in regime di carcerazione preventiva. È un abuso. Non si possono togliere insieme libertà e dignità alle persone. Aggiungo che dal 2001 al 2018, in Italia, 27.000 persone sono state incarcerate ingiustamente. Questo non è tollerabile, anche se la detenzione durasse solo un secondo. Quanto vale la dignità di una persona? In genere le vittime di queste ingiustizie non fanno ricorso perché preferiscono dimenticare e non avere più a che fare con lo Stato. Da quanto detto finora consegue che sia necessario, prima ancora che lecito, interrogarsi sul ruolo del carcere nelle nostre società... Io parto dal presupposto che in molti paesi europei si parla di pene mentre in Italia questo termine si usa al singolare, come se non esistesse un’alternativa al carcere. Torno a sottolineare il problema della dignità umana e aggiungo che i carcerati non sono una specie a sé: sono un miscuglio di contraddizioni, debolezze, esattamente come le persone libere. La situazione negli istituti di pena è sempre più insostenibile; le rivolte carcerarie scoppiate quest’anno sono state attribuite al Covid-19, ma dietro di esse c’è piuttosto il vuoto lasciato da una politica cinica e pavida che non fa chiarezza sulla questione e non prende iniziative a favore di soluzioni alternative alla prigione. Vedremo che il carcere sarà l’unica cartina di tornasole della nostra civiltà. Non si possono lasciare indietro le persone, reclusi non può significare esclusi. Il carcere è un luogo distante dalla società che può emanciparsi solo se riesce ad abbattere il muro dell’indifferenza. Il carcere, soprattutto questo regime carcerario, non è altro che il frutto di un appiattimento su misere posizioni giustizialiste ed è una polveriera dalla miccia corta. Aversa (Ce). Detenuto di 40 anni muore in carcere a pochi mesi dalla libertà di Antonio Lamorte Il Riformista, 12 maggio 2020 Un detenuto è morto domenica 10 maggio nel carcere Filippo Saporito di Aversa. Nunzio Rutigliano, classe 1979, gli mancavano 10 mesi di condanna su una reclusione di 4 anni. Ancora sconosciute le cause del decesso. Il cadavere è stato trasportato presso l’Ospedale di Giugliano, nel reparto di Medicina Legale, dove verrà sottoposto all’esame autoptico. Il detenuto non era da solo in cella e avrebbe sofferto di disturbi psichici e depressivi. Prelevata anche la cartella clinica interna nel carcere per chiarire la situazione del detenuto. Emilio Fattorello, segretario nazionale per la Campania del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, ha dichiarato: “È purtroppo successo che un detenuto lì ristretto, definitivo per reati comuni e con fine pena febbraio 2021, è stato colto da malore ed è passato dal sonno alla morte. Lo sventurato, quarantenne di origine napoletana, è stato trovato senza segni di vita nel proprio letto dal compagno di cella. Scattato l’allarme, a nulla sono valsi i tentativi di rianimazione del personale sanitario e parasanitario della struttura penitenziaria. Inutile anche l’arrivo del 118 che anno riscontrato il decesso per arresto cardiocircolatorio”. Il Garante dei Detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello fa sapere che Rutigliano avrebbe fatto richiesta per l’articolo 123 (decreto Legge Cura Italia sulla detenzione domiciliare, in deroga all’articolo 199 del 2010) ma non era rientrato tra i beneficiari e che era stato condannato per rapina aggravata. Ieri mattina aveva telefonato a una familiare, presumibilmente una zia. Nel pomeriggio è arrivata ai parenti la notizia del decesso. Nello stesso carcere si erano verificati in settimana dei tentativi di suicidio. Dopo le richieste del Garante Regionale Samuele Ciambriello e della direttrice Carla Mauro, i braccialetti sono stati forniti a 10 detenuti che avevano diritto. Il detenuto, un giovane nordafricano, aveva tentato l’impiccagione ma il suo gesto era stato sventato dall’intervento degli agenti della Polizia Penitenziaria. Ciambriello nell’occasione aveva denunciato il mancato arrivo dei braccialetti: “Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sostiene di averne acquistati 5.000 ma intanto anche nella nostra Regione i tempi di attesa per i detenuti che hanno ottenuto un’ordinanza di concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare con applicazione del braccialetto elettronico, sono diventati lunghi e vanno sia a compromettere i contenuti del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 e le scelte della Magistratura di Sorveglianza, sia creano sentimenti di angoscia in coloro che ne sono beneficiari. Tale frustrazione e malessere hanno portato un detenuto del carcere di Aversa a compiere un grave tentativo di gesto estremo, scongiurato soltanto grazie alla professionalità e alla prontezza del personale in servizio”. “Voglio pubblicamente elogiare la Direttrice Reggente del carcere di Aversa, Carla Mauro, per la lettera - denuncia inviata al Ministero della Giustizia - Dap in cui chiede di “interessare nuovamente il ministero dell’interno - dipartimento di pubblica sicurezza - per ogni utile intervento atto a ridurre la lunghezza a dei tempi di attesa, che non soltanto va ad inficiare il criterio di semplificazione sotteso alla normativa deflattiva in parola, ma che soprattutto mina il clima generale dell’istituto, già provato dal particolare periodo di emergenza nazionale. È una vergogna, sia la mancanza di braccialetti, sia il fatto di volerli utilizzare per forza per fare uscire i detenuti che devono scontare ancora solo 18 mesi di reclusione, in misura di detenzione domiciliare. Ma la politica ha capito che il carcere è una polveriera con miccia corta?”. Pietro Ioia, garante dei detenuti del comune di Napoli, ha commento sui social la morte del detenuto ad Aversa: “Nunzio Rutigliano anni 40 morto nel carcere di Aversa, gli mancavano gli ultimi 10 mesi su una condanna di 4 anni, stamattina aveva chiamato la famiglia per telefono e stava bene, poi oggi alle 17 la seconda telefonata dal carcere che era morto. Si continua a morire nelle nostre carceri, ogni volta che ne dò notizia mi sento avvilito e sconfitto sia come uomo che come garante”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, torna a sottolineare la diffusa presenza di patologie varie tra i detenuti: “Dal punto di vista sanitario la situazione delle carceri è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Questo fa capire ancora di più come e quanto è particolarmente stressante il lavoro in carcere per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria e dei Nuclei Traduzioni e Piantonamenti che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici” Bologna. Covid alla Dozza: “Numero irrisorio di tamponi, i contagi tra detenuti non calano” bolognatoday.it, 12 maggio 2020 “La situazione rischia di implodere, visto che ben due sezioni sono riservate ai positivi Covid, ai casi sospetti di contagio e alle quarantene, per cui pochissimi posti rimangono ancora disponibili”. “A due mesi esatti dalla violenta rivolta del marzo scorso avvenuta nel carcere di Bologna, e dopo l’accordo intervenuto con la Regione Emilia Romagna dei primi giorni del mese di aprile, con il quale si prevedevano test sierologici per tutte le Forze dell’Ordine, gli Agenti della Polizia Penitenziaria della Dozza attendono ancora risposte concrete, con la Direzione o non si sa chi rimanda l’effettuazione dei test sierologici di settimana in settimana senza alcuna comunicazione ufficiale sulla tempistica”. A scriverlo in una lettera al Prefetto di Bologna, Patrizia Impreso, Salvatore Bianco di Fp-Cgil: “Nel frattempo moltissimo impegno è stato messo in campo dal personale, con risultati veramente encomiabili che il sindacato reputa di rimarcare, sotto la guida di un comandante facente funzioni, al quale sentiamo di associare i nostri più sentiti ringraziamenti a quelli del personale, per la tenacia dimostrata in un periodo così delicato”, ma l’organizzazione sindacale esprime anche rammarico “per quanto invece non è stato fatto per poter rendere meno gravose le condizioni di lavoro degli operatori. Per la ristrutturazione e la messa in sicurezza del Reparto Giudiziario, luogo della rivolta, sarebbe servito trasferire molti più detenuti dei soli autori della rivolta e/o pochi altri, per poter così chiudere interi reparti ed effettuare i lavori, che in queste condizioni stanno andando avanti a rilento, per tutte le complicazioni dovute al distanziamento fisico da osservare, costringendo il personale a lavorare ancora in luoghi poco sicuri, riuscendo miracolosamente a garantire in circostanze simili le ore di socialità e di aria ai detenuti. Al riguardo, ci si domanda che fine abbia fatto il provvedimento con il quale si disponeva il trasferimento immediato di un congruo numero di detenuti presso i nuovi padiglioni degli II.PP. di Parma disposto dagli uffici centrali del Dap”. Il numero dei contagi da Coronavirus tra i detenuti non risulta diminuisca, come avrebbe dovuto, riferisce Fp-Cgil, “e nonostante questo nei confronti degli Agenti e operatori tutti sono stati effettuati ad oggi un numero irrisorio di tamponi. Molti sono gli uffici nei quali il personale, anche quello civile, continua a prestare il proprio servizio in spazi ristretti e con postazioni pc troppo ravvicinate. La sospensione degli ingressi di detenuti nuovi giunti presso l’Istituto è durato lo “spazio di un mattino” e si è passati paradossalmente ad essere l’Istituto che deve accogliere gran parte dei nuovi ingressi di persone in stato di arresto della Regione, a causa del sovraffollamento degli altri istituti e la chiusura del Carcere di Modena, situazione che rischia di implodere molto presto visto che ben due sezioni sono di fatto riservate ai positivi Covid-19, ai casi sospetti di contagio e alle quarantene, per cui pochissimi posti rimangono ancora disponibili. Risulta poi alla scrivente che negli ultimi giorni si stanno registrando quasi quotidianamente episodi di danneggiamenti ad opera di alcuni detenuti con problemi psichiatrici”. “Diventa davvero difficile comprendere come si possa immaginare che la situazione possa tornare alla normalità, con l’emergenza Coronavirus ancora in corso, con il continuo arrivo di persone in stato di arresto, molte delle quali devono effettuare precauzionalmente un periodo di quarantena, i continui eventi critici e senza nessuna misura concreta per il personale per la prevenzione del Covid-19 - continua il sindacato “a tal proposito possiamo purtroppo solo supporre che nei prossimi giorni dovrebbe partire il servizio di triage, con misurazione della temperatura a tutto il personale che accede in Istituto, ma per l’appunto siamo costretti al condizionale, perché nulla è ormai certo dentro la struttura della Casa Circondariale, considerati i continui rinvii relativi ai test sierologici e le poche decine di tamponi fin ora effettuati, ma soprattutto l’assenza di un canale ufficiale di informazioni certe. Il personale è ormai stanco di aspettare ancora, la Fp-Cgil ritiene necessario denunciare questa situazione di assoluto stallo - e conclude - si rammenta altresì a codeste Amministrazioni l’eventuale responsabilità giuridica per i danni alla salute degli operatori dovuti alla mancata o tardiva adozione delle misure citate”. Torino. Sessantasette detenuti positivi al Covid-19 alla Casa circondariale di Roberto Tartara comune.torino.it, 12 maggio 2020 Il Consiglio comunale ha discusso l’interpellanza generale sul tema della gestione della pandemia negli istituti penali cittadini; la questione è stata posta da tredici consiglieri comunali di minoranza (primo firmatario, Francesco Tresso). Per la Giunta è intervenuta la vice sindaca Sonia Schellino: “Dalle informazioni pervenute dalla Direzione Penitenziaria sono risultati 46 detenuti positivi al Coronavirus all’interno della Casa Circondariale; a seconda dei casi, sono stati predisposti isolamenti in camera di detenzione ed è stato dedicato un padiglione unico (E) per garantire spazi adeguati alle cure. Il padiglione D è usato invece per isolamenti sanitari dei soggetti asintomatici. Alla data del 5 maggio non risultavano ulteriori casi di positività. Per garantire la migliore assistenza sanitaria è previsto il passaggio quotidiano per le visite da parte di un infettivologo. Secondo quanto comunicato dal dottor Minervini risulta un dato storico di 67 detenuti positivi al Covid19, di cui 13 presenti nella struttura. Riguardo il personale di polizia penitenziaria sono dieci le unità risultate positive al Coronavirus su 742 unità in servizio. La vice sindaca ha ricordato che il Comune ha un ruolo di ascolto riguardo al tema. La Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino, Monica Gallo, ad aprile aveva relazionato alla Città riguardo le possibili criticità di cui era venuta a conoscenza. L’Amministrazione comunale ha promosso la trattazione dei rilievi della Garante presso il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. La vice sindaca ha riepilogato le ulteriori informazioni pervenute da Minervini per garantire le migliori condizioni di sicurezza nella Casa circondariale al fine di aumentare il livello di prevenzione al contagio; le misure sono attive a partire dal 25 febbraio. La Città ha dato la propria disponibilità per reperire soluzioni abitative e percorsi a bassa valenza assistenziale a sei donne minorenni, pur sapendo che la copertura finanziaria garantita è di soli sei mesi e che la Città dovrò farsi carico della prosecuzione nei mesi successivi. Riguardo il Ferrante Aporti, Schellino ha detto che al momento non sono rilevate criticità sanitarie riguardo l’emergenza sanitaria in atto; sono state interrotte le attività scolastiche, poi riprese con la formazione a distanza. Al dibattito sono intervenuti i seguenti consiglieri: Francesco Tresso (Lista civica per Torino) Sono contento che la situazione sia in miglioramento. Il fatto che si sia richiesto l’intervento a Medici senza Frontiere testimonia quanto la situazione fosse grave e quanto fossero fondate le nostre richieste di avere informazioni, già da settimane. È vero che la Città non ha competenza diretta sulla gestione dell’emergenza sanitaria in carcere ma la Città avrebbe potuto avere un ruolo propositivo, suggerendo dove allocare alcune persone, considerato che attorno alla struttura ruotano circa tremila persone. Eleonora Artesio (La Sinistra) Ricordo come in occasione di alcune conferenze stampa il carcere sia stato considerato da questa Amministrazione un quartiere di Torino. Deve essere considerato tale anche quando si è chiamati a condividere questioni dolorose. La Città si è mossa in ritardo ignorando le potenzialità che avrebbe potuto attivare per intervenire sulla riduzione del sovraffollamento. La Città è stata attenta ad essere minimamente coinvolta. La vicenda Schellino ha replicato riguardo la dinamica del servizio di assistenza alle sei donne minorenni, motivando la scelta di sostenere un progetto in sintonia con le caratteristiche del servizio garantito dalla Città, senza lasciare delle persone prive di un percorso anche oltre il limite dei sei mesi del finanziamento nazionale. Busto Arsizio. Donate 1.200 mascherine FFP3 ai detenuti del carcere informazioneonline.it, 12 maggio 2020 Sabato scorso, tramite una donazione del Rotary Club “La Malpensa”, sono state consegnate nelle mani del direttore del carcere di Busto Arsizio, Orazio Sorrentini, 1.200 mascherine protettive di tipo FFP3, da destinare ai detenuti dell’istituto penitenziario di via per Cassano. Alla consegna hanno partecipato il presidente del Rotary Club Busto-Gallarate-Legnano “La Malpensa”, Filippo Crivelli, e Giuseppe Navarini, Governatore del Distretto Rotary 2042. Il Distretto Rotary 2042 recentemente ha inviato a tutti i suoi Club uno stock di mascherine da destinare ai Soci. Il Rotary La Malpensa, apprezzando l’iniziativa distrettuale, ha deciso di donare il suo quantitativo di FFP3 ai detenuti reclusi nel carcere di Busto Arsizio. La casa circondariale della città, così come tutte le strutture penitenziarie, deve far fronte quotidianamente alle tante problematicità sanitarie e di assistenza per gli ospiti. La donazione delle mascherine da parte del Rotary costituisce un segnale importante a seguito dell’epidemia da Covid-19 che ha riproposto (e ripropone) con tragicità la condizione dei reclusi. Bologna. Per i detenuti-studenti le lezioni sono in tv di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 maggio 2020 Da qualche giorno gli allievi della sezione carceraria dell’Istituto Keynes di Castel Maggiore seguono in tv e alla radio dalla casa circondariale di Bologna le lezioni dei loro docenti trasmesse sulle frequenze di Radio Città Fujiko e, in tv, ogni venerdì sera alle ore 20 su RTR Canale 292 sino al 26 giugno. L’idea è venuta ai docenti dell’Istituto che quando hanno saputo dell’impossibilità di utilizzare la piattaforma web per la didattica a distanza, hanno pensato di ricorrere a mezzi che potessero comunque superare le sbarre e il lockdown. “Siamo insegnanti, non specialisti - ha raccontato la referente per la scuola carceraria Immacolata Migliozzi a repubblica.it - Proviamo e riproviamo le lezioni più volte, curiamo la voce che sovrapponiamo alle slide. Non è facile la registrazione per chi non è del mestiere, ma l’importante è recuperare il filo interrotto e tornare a fare scuola in carcere, anche se a distanza”. Gli interventi di didattica televisiva sono affiancati dall’invio di materiale didattico e dalla partecipazione alla trasmissione radiofonica “Eduradio”. “La nostra idea era recuperare gli allievi e all’inizio non sapevamo come fare. L’idea della tv pare funzioni, attendiamo un riscontro”. E il riscontro pare ci sia stato: l’audience iniziale è stato di cinquanta detenuti, tre quarti circa degli iscritti ai corsi del Keynes. Potranno utilizzare la didattica a distanza, invece, gli studenti degli Istituti penitenziari di Sondrio e Cremona grazie anche alla partnership fra Ufficio scolastico e società informatica cremonese C2 Group che ha donato 10 computer per le attività didattiche e formative in e-learning ai detenuti delle due case circondariali. Sette i dispositivi consegnati alla direttrice del carcere di Cremona Rossella Padula, mentre gli altri tre saranno assegnati nei prossimi giorni all’istituto di Sondrio. Lezioni riprese in videoconferenza da giovedì scorso anche nel carcere di Lecce. Gli allievi si collegano e interagiscono con i docenti in un’aula adeguata alle esigenze di sicurezza previste dalle disposizioni ministeriali. Per ora l’opportunità è riservata solo a due classi, una nel maschile e una nella sezione femminile per gli allievi che frequentano l’ultimo anno del Corso a indirizzo tecnico economico dell’Istituto Olivetti e che, in vista dell’esame di maturità, hanno bisogno di un valido supporto. Lecce. Video-lezioni in carcere: didattica a distanza anche per i detenuti leccesi leccesette.it, 12 maggio 2020 Così i detenuti potranno concludere il percorso didattico intrapreso: sulla ripresa delle lezioni interviene la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Maria Mancarella. Riprendono nel carcere di Lecce e, vista l’emergenza sanitaria in corso, si ripartirà con corsi in videoconferenza. A chiarirlo è la garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Maria Mancarella, che ricorda come, dalla fine di febbraio, proprio per il Covid sia stato fatto divieto a volontari e docenti di entrare nel carcere. “In questi anni l’esperienza attivata nella Casa circondariale di Lecce - spiega - così come le tante presenti in tutta Italia, ha dimostrato come una buona formazione culturale abbassi notevolmente la recidiva, predisponga la persona detenuta ad un cambiamento di vita e favorisca il suo reale reinserimento nella società civile e nel mondo del lavoro. L’emergenza sanitaria coronavirus ha portato all’attenzione tutti i problemi delle carceri italiane: dal sovraffollamento e dalle condizioni igieniche alla salute, dalla rigidità ad accedere alle misure alternative alle sofferenze di una popolazione detenuta senza prospettive di effettivo reinserimento sociale, alle difficoltà di una scuola che in carcere non riesce ad utilizzare appieno tutte le sue potenzialità” A causa delle restrizioni sanitarie, i detenuti e le detenute, che nel corso dell’anno hanno seguito le lezioni, si sono ritrovati/e, anche a Lecce, improvvisamente nell’impossibilità di terminare il percorso didattico: “Una interruzione particolarmente grave - afferma - che, come ha subito segnalato il Garante Nazionale, rischia di vanificare il grande lavoro fatto per investire sulla cultura, sull’istruzione come veicolo per il reinserimento sociale, mettendo in pericolo il concreto diritto delle persone detenute allo studio e alla formazione”. Difficoltà organizzative, carenza di personale e di spazi adeguati, ma anche pregiudizi che da sempre impediscono l’ingresso della tecnologia in carcere, hanno reso difficoltosa la ripresa delle lezioni nella modalità a distanza, così come è successo in tutte le scuole d’Italia. L’assenza di un rapporto diretto, il non poter comunicare e scambiare non solo conoscenze ma esperienze, sentimenti, preoccupazioni, vita quotidiana, vera essenza della relazione educante, ha reso questa modalità “assolutamente inefficace e spesso inutile”. “Grazie alla costanza, alla caparbietà della Dirigente dell’istituto Olivetti di Lecce - precisa Mancarella - all’impegno dei docenti, alla disponibilità della Direttrice e del personale penitenziari, da giovedì 7 maggio la DaD nel carcere di Lecce è iniziata con una lezione prova e, a partire da questa settimana, alcuni studenti e studentesse potranno riprendere il loro percorso. Anche se l’esperienza coinvolge (ci auguriamo per il momento) solo due classi, una nel maschile e una nella sezione femminile, come Garante dei diritti delle persone private della libertà personale non posso che gioire di questo, anche se timido, riavvio del percorso formativo e fare i miei auguri agli studenti, alle studentesse e agli insegnanti coinvolti”. Saranno 10 detenuti/e (5 per classe) che frequentano l’ultimo anno del corso ad indirizzo tecnico economico che, in un’aula adeguata alle esigenze di sicurezza previste dalle disposizioni ministeriali, per il momento solo per tre giorni a settimana, seguiranno in videoconferenza le lezioni dei loro docenti, interagiranno con loro e si avvieranno, con il loro supporto, verso l’esame di maturità: “Non è molto - conclude - ma è pur sempre un segnale importante”. Padova. Errore e pentimento. Viaggio in tv tra i detenuti del Due Palazzi Avvenire, 12 maggio 2020 Tre ospiti dell’istituto si raccontano in Tutto il mondo fuori, documentario diretto da Ignazio Oliva e scritto con monsignor Dario Viganò e il cappellano don Marco Pozza. In onda mercoledì su Nove Tre detenuti nel carcere di Padova “Due Palazzi”, tre uomini dalle storie diverse fatte di errori, sofferenza e pentimento, si raccontano in “Tutto il mondo fuori”, il documentario diretto da Ignazio Oliva, scritto con la collaborazione di monsignor Dario Edoardo Viganò e il cappellano dell’istituto di pena, don Marco Pozza, in prima tv assoluta sul Nove dopodomani mercoledì 13 maggio alle 21:25. Ispirato all’articolo 27 della nostra Costituzione - “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” - il documentario ha concluso le riprese poco prima del lockdown imposto dall’emergenza Coronavirus. La scelta di mandare in onda il progetto in questo momento assume un significato, una forza e un’attualità ancora maggiori. A presentare il documentario sono stati il regista e gli autori, in una videoconferenza in streaming ospitata dal sito dell’Università telematica internazionale Uninettuno, la cui facoltà di scienze della Comunicazione ha come preside monsignor Viganò. Nel documentario il cappellano del carcere di Padova don Marco Pozza - noto al pubblico di Tv2000 per le sue interviste a Papa Francesco - accompagna lo spettatore seguito dalle telecamere in un mondo poco conosciuto ai più, dove incontrerà il direttore del carcere, gli agenti di polizia penitenziaria, i detenuti e i loro affetti, per raccontare le sfide e le difficoltà della vita carceraria, l’importanza del lavoro come veicolo di riscatto e i desideri per un futuro colmo di speranza. La storia della rieducazione dei detenuti passa attraverso il riconoscimento dei propri sbagli e segue un tracciato fatto di lavoro, studio e sport offerto dall’Istituto di pena, grazie alle cooperative legate al territorio. La comunità protagonista del documentario è la medesima che, per volere di Papa Francesco, ha composto le meditazioni della via Crucis del Venerdì Santo di quest’anno. Un gesto che ha commosso il mondo intero. Per Ignazio Oliva, regista del documentario e volto noto di film al cinema e fiction televisive, “obiettivo è esplorare e valorizzare l’importanza del lavoro dentro e fuori dal carcere. Le pene alternative diventano strumento essenziale per la rieducazione di un detenuto e per un suo possibile reinserimento nella società. Attraverso le testimonianze di don Pozza e di tre detenuti - spiega il regista - raccontiamo come il percorso di lavoro offerto da questa eccellenza carceraria permetta di ritrovare dignità, tramite l’impegno del tempo detentivo con attività utili agli altri e a se stessi. Un viaggio nell’umanità di coloro che per diversi motivi hanno commesso degli errori e scelto un percorso criminale, ma che in questo carcere sono stati messi nelle condizioni di capire e riconoscere il dolore immenso causato alle vittime ed alle loro famiglie, oltre che a loro stessi e, inevitabilmente, ai propri cari”. “Tutto il mondo fuori”, una puntata unica di 75’, è una produzione Officina della Comunicazione, realizzato grazie alla stretta collaborazione con la direzione del carcere Due Palazzi di Padova. Sarà disponibile anche sulla piattaforma Dplay Plus sul sito www.it.dplay.com o scaricabile su App Store o Google Play. Nove è visibile al canale 9 del Digitale Terrestre, (Sky Canale 145 e Tivùsat Canale 9). Messina. Teatro a distanza: l’esperimento “virtuale” nel carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 maggio 2020 Giulio Scarpati, Pamela Villoresi, Elisabetta Pozzi, Maria Grazia Cucinotta: sono solo alcuni dei nomi noti del teatro e dello spettacolo italiano che parteciperanno a “Vorrei una voce con il teatro… ai tempi del Covid-19”, kermesse di incontri e confronti a distanza ideati dal regista Tindaro Granata per il “Piccolo Shakespeare”, teatro della casa circondariale di Messina. Gli artisti, in collegamento video con detenute e addetti ai lavori della “Libera Compagnia del Teatro per Sognare”, daranno voce alle loro emozioni, alla loro storia di una scelta di vita nel segno dell’arte. Un progetto virtuoso e virtuale per continuare a lavorare allo spettacolo “E allora sono tornata”, dedicato alla grande Mina, che sarebbe dovuto andare in scena lo scorso 26 marzo ma che è stato rinviato a data da destinarsi a causa dell’emergenza Coronavirus. “Con Tindaro Granata e con tutta la squadra del laboratorio teatrale femminile che stava lavorando allo spettacolo - spiega Daniela Ursino, direttrice artistica del Piccolo Shakespeare - abbiamo pensato che oggi più che mai, sarebbe stato importantissimo che l’attività di laboratorio potesse continuare e quindi riprendere a distanza. In questo momento particolarmente delicato, potrà essere, per i detenuti, uno strumento importante per affrontare l’emergenza e riuscire a elaborare più facilmente la distanza dai propri cari dando consistenza e un valore a quel ‘tempo senza tempo’ vissuto all’interno delle mura del carcere”. Una modalità poco congeniale alla natura del teatro che, utilizzata in chiave sperimentale per lezioni, prove, scrittura e approfondimenti, sta dando tuttavia risultati interessanti in molti laboratori. “Vorrei una Voce con il teatro… ai tempi del Covid-19”, è realizzato in collaborazione e con il sostegno della Caritas diocesana di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela, sotto la guida dell’arcivescovo monsignor Giovanni Accolla e del direttore don Nino Basile. “Il progetto - conclude Daniela Ursino - sarà dedicato a quelle parole che non potranno essere pronunciate ora, a quelle parole che rimangono sospese in attesa del ritorno, tanto atteso, alla normalità e alla possibilità di fare nuovamente teatro dal vivo”. Zitto e muori in cella! Agli ultimi è vietato soffrire di Frank Cimini Il Riformista, 12 maggio 2020 Nelle recenti rivolte hanno perso la vita 15 detenuti perché “chi è in carcere è già lì per non lasciare traccia”. In “Virus sovrano” di Donatella Di Cesare spunti di riflessione sul mondo recluso. Quando in Italia si sono imposte le prime misure anti contagio sono scoppiate le rivolte nelle carceri. Poche immagini sono passate sugli schermi, poliziotti antisommossa, volanti, droni, lacrimogeni. Ci hanno detto che erano morti 13 detenuti, forse 15. Per metadone trovato nelle farmacie delle carceri. Nessuna lesione sui corpi. Poi tutto è stato dimenticato. Chi è in carcere è già lì per non lasciare traccia. Si concentra anche sui più indifesi, sugli ultimi degli ultimi la riflessione di Donatella Di Cesare autrice del saggio “Virus sovrano? L’asfissia capitalistica”, 89 pagine per le edizioni Bollati Boringhieri. Di Cesare insegna filosofia teoretica alla Sapienza di Roma e in passato aveva già scritto di altri “ultimi”, soprattutto immigrati e di “emergenze” varie. Nel saggio si sottolinea che la crisi sanitaria non può essere il pretesto per aprire un laboratorio autoritario. Questo non vuol dire rifiutare in modo ingenuo e avventato quei rimedi e quelle cure che possono fermare il propagarsi del virus ma le misure securitarie devono rendere vigilanti e spingere a diffidare perfino di sé stessi e delle proprie pulsioni - scrive l’autrice - non si può lasciare che l’epidemia inauguri un’era del sospetto generalizzato dove ognuno è per l’altro un untore potenziale una minaccia permanente. La conseguenza sarebbe non avere più un mondo in comune, non condividere più lo spazio pubblico della polis. Il saggio ricorda che la concorrenza selvaggia è giunta persino al rifiuto di spedire materiale medico a chi ne aveva bisogno, la Ue per l’ennesima volta si è rivelata una assemblea scomposta di comproprietari, un coacervo di nazioni che a colpi di compromessi vacillanti si contendono lo spazio per difendere ciascuno i propri interessi. A tutto vantaggio di regimi autoritari e sovranisti. Era stato Salvini a invocare i pieni poteri molto prima dell’epidemia. Poi imitato anche da “avversari”. La xenofobia di Stato ha trovato un nuovo nemico nel “virus straniero”. La nuova cultura del complotto dissemina il mondo di nemici. E se il coronavirus colpisce il corpo la pandemia è anche una esperienza psichica. Il rischio degli arresti domiciliari di massa è una implosione psichica dagli effetti imprevedibili, il malessere si acuisce e si prolunga. E il carcere tornando a bomba è il sempre eguale senza futuro, è il tempo incarcerato. Siamo anestetizzati all’infelicità degli altri tanto più se sono detenuti. Il nostro occhio su di loro è quello dello Stato. La desolazione penitenziaria non deve trapelare. “Bisogna chiudere le porte e buttare via la chiave”. Queste parole sono scandite spesso da una compiaciuta freddezza vendicativa. Qualche moderato ricorda Di Cesare chiede meno sovraffollamento e più diritto ma diritto in carcere non è una contraddizione in termini? Ma metà mondo ai domiciliari non vuol dire prigionia generalizzata perché ogni confronto è privo di senso. La soglia del carcere non viene meno. Da una parte il mondo di fuori dall’altra quello recluso. Regolarizzazione dei migranti, il M5S fa saltare l’accordo: “Niente condoni né sanatorie” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 12 maggio 2020 Sibilia: non diremo mai sì a un condono penale per i datori di lavoro che si autodenunciano. Già in nottata Crimi aveva detto: “No a una sanatoria mascherata”. Un complicato sforzo di mediazione che - all’una e mezza di notte - fa sì che i 5 Stelle accettino, obtorto collo, di dare il via libera al provvedimento di regolarizzazione dei migranti, con qualche paletto per provare a restringere la platea. Ma è tanto di malavoglia che passa qualche ora e arriva l’altolà di Carlo Sibilia, sottosegretario all’Interno: “Il Movimento non accetterà alcuna forma di scudo penale”. Fino a qual momento, gli altri partner della coalizione avevano ottenuto un ampliamento rispetto alle modalità classiche della regolarizzazione e soprattutto l’inclusione nel decreto in arrivo dal Consiglio dei ministri. A tarda notte, Vito Crimi ancora poneva il suo niet: “Non si può fare, così è una sanatoria mascherata”. La differenza di culture politiche, la paura di dare munizioni facili all’opposizione di Matteo Salvini, rendono difficile un accordo. La Lamorgese si spende a lungo per una soluzione di compromesso. Agricoltura ma anche colf e badanti - Se anche passasse, cosa che l’uscita di Sibilia mette in dubbio, non sarà una sanatoria generalizzata, idea che sarebbe piaciuta al ministro del Sud Giuseppe Provenzano, ma per la quale non ci sono le condizioni politiche. Il ministro renziano Teresa Bellanova aveva scommesso tutto su questo provvedimento, minacciando persino le dimissioni nei giorni scorsi: “La regolarizzazione dei migranti è l’impegno di una vita. Ho contrastato i caporali fin da quando ero ragazza”. La sua idea era quella di intervenire soprattutto sul lavoro nero dei braccianti, viste anche le condizioni difficili per reperire manodopera nel settore dell’agricoltura. Con la consapevolezza che non esistono canali ufficiali di regolarizzazione, sin dalla Bossi-Fini, e che una massa così grande di persone, senza diritti e senza tutele, sono facile preda della criminalità organizzata e possibili vittime della pandemia. I 5 Stelle, al contrario, erano contrari alla sola idea e hanno provato fino all’ultimo a rinviare il provvedimento. L’emersione del lavoro nero - La prima parte dell’accordo raggiunto in nottata riguardava la possibilità che il datore di lavoro possa far emergere il lavoratore in nero autodenunciandosi. È una forma classica di regolarizzazione (l’ultima è stata fatta da Maio Monti), ma in questo caso viene allargata: perché oltre ai lavoratori agricoli stranieri, su impulso anche di Provenzano, vengono aggiunte colf e badanti e lavoratori italiani. A ristoro del datore che si autodenuncia, ci sarebbe l’immunità penale, ed è proprio quella contro cui si scaglia Sibilia. Ma in mancanza, nessun datore di lavoro si autodenuncerebbe e non ci sarebbe emersione dal nero. Il limite dei sei mesi - Oltre alla regolarizzazione classica ma rafforzata, era stata inserita un’ulteriore modalità, quella di un permesso temporanea per ricerca di lavoro. In questo caso si è messo un limite alla platea che, comunque, per la Lamorgese dovrebbe ammontare a circa 180 mila persone. Il limite è temporale, perché i richiedenti devono avere avuto un permesso di soggiorno in passato, che può essere umanitario, di lavoro o turistico, scaduto il 31 ottobre 2019. In più, e qui c’è l’ulteriore limitazione inserita da 5 stelle, l’Ispettorato deve accertare che chi richiede il permesso deve avere lavorato nei settori della regolarizzazione, agricoltura, colf e badanti. Nel frattempo, però, raccontano fonti non dei 5 Stelle, il richiedente potrebbe ottenere comunque il lavoro, e quindi il permesso, liberandosi dunque dall’intralcio dell’Ispettorato. L’altra concessione fatta da Vito Crimi e dai suoi è la lunghezza del rinnovo del permesso, che inizialmente i 5 Stelle volevano in un mese e avevano accettato di portare a sei mesi, come chiesto dalla Bellanova. Il tutto fino allo stop e alla nuova ripartenza delle trattative. Sulla regolarizzazione di braccianti, colf e badanti lo stallo M5S: “Così non reggiamo” di Daniela Preziosi Il Manifesto, 12 maggio 2020 Migranti e non solo. Crimi: no regali ai caporali. Ma il testo esclude chi compie illeciti. In serata il ministro dell’economia: farà emergere il lavoro nero. Il sottosegretario Sibilia: “Il caporalato è una piaga già perseguita quotidianamente, non è il caso di infilare questo dossier in un decreto urgente che si occupa della crisi”. Ma rimandare la norma a un provvedimento successivo rischia di condannarlo ad un binario morto. L’accordo sulle regolarizzazioni di braccianti, colf e badanti il 6 maggio era stato chiuso fra tre ministre e un ministro (Bellanova dell’agricoltura, Lamorgese dell’Interno, Catalfo del Lavoro e Provenzano del Sud), salvo la durata dei permessi di lavoro (sei mesi per il Pd e Iv, uno per 5s). Il giorno dopo era stato scritto nei dettagli dai tecnici degli uffici legislativi. Ieri ha ricominciato a ballare. E dalla certezza che fosse ormai ancorato nel “Decreto Rilancio” che oggi il consiglio dei ministri dovrebbe licenziare, ieri si è fatta strada l’ipotesi di uno stralcio per un provvedimento successivo. Con il rischio di finire su un binario morto. Ma in serata il ministro Gualtieri annuncia la fumata bianca: “La regolarizzazione ci sarà, aiuterà a far emergere il lavoro nero”. Il paradosso è che mentre Leu, +Europa e le associazioni già professano delusione per un intervento che si annuncia settoriale e troppo timido, i 5 stelle alzano i decibel e attaccano l’idea di “sanatoria”. Usando la stessa parola di Lega e Fdi. Una parola poco adatta al provvedimento. Ma di cui non ha avuto paura Maroni quando nel 2002 “sanò” le carte di 647mila persone. Oggi la futura (speriamo) norma sull’emersione del lavoro irregolare dispone una “regolarizzazione” in senso stretto. Non si rivolge a tutti gli irregolari presenti in Italia, cosa pure auspicabile se non altro per ragioni sanitarie. Ma di questo non si è mai parlato nelle trattative della maggioranza. E infatti c’è una incongruenza evidente fra il testo concordato dalla ministra Catalfo (M5s) e le contestazioni dei colleghi grillini. Domenica al confronto fra Conte e i capidelegazione della maggioranza il reggente Crimi aveva ripreso il timone del dossier braccianti. Ma né lui né il ministro Bonafede l’avevano bocciato. E così secondo il Pd l’accordo è fatto. Invece ieri bastava ascoltare il sottosegretario agli interni Carlo Sibilia per capire che per una parte dei grillini il rospo è indigeribile: “Non c’è nessun accordo”, avverte Sibilia, “è impensabile avallare un accordo che preveda il condono penale”, “La sanatoria lancerebbe un messaggio sbagliato persino all’imprenditore agricolo, che si vedrebbe costretto ad usufruire di manodopera non regolare ma “regolarizzata” a posteriori”. Ma nella bozza arrivata sui cellulari dei capidelegazione di maggioranza c’è scritto a chiare lettere che quel rischio non si corre affatto, come ha già spiegato il manifesto di sabato scorso. Il comma 7 del testo - nella versione precedente era il comma 8 - dettaglia la casistica in cui le richieste di regolarizzazione saranno rigettate. E sono: “la condanna del datore di lavoro negli ultimi cinque anni, anche con sentenza non definitiva” per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’immigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite”, e l’”intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”. Insomma nessun condannato sarà condonato. Sono due i canali per le regolarizzazioni: primo, la richiesta congiunta di datore e lavoratore, e cioè il canale tradizionale, lo stesso che fu usato nella sanatoria Maroni. Secondo, l’istanza individuale, per sottrarre i braccianti ai caporali: a chi fa richiesta viene concesso un permesso temporaneo di sei mesi per ricerca di lavoro, convertibili in permesso per motivi di lavoro per la durata del contratto. In questo caso, proprio perché non diventi “una sanatoria mascherata”, c’è un limite di tempo: bisognerà avere un permesso (umanitario, turistico o una richiesta d’asilo) scaduto al 31 ottobre 2019. La platea potenziale di questa tipologia è di meno di 200mila persone. “Il governo abbia il coraggio di investire sulla legalità” chiede Erasmo Palazzotto (Leu). Nei giorni scorsi era filtrata la notizia del pressing di Conte sul provvedimento. Se pressing c’è stato, nelle ultime ore non è pervenuto. Ma una rumorosa fetta degli ex alleati della Lega subisce ancora la propaganda di Salvini e ora è sul piede di guerra: c’è chi chiede una riunione dei gruppi, chi di cancellare l’estensione della norma a colf e badanti anche italiane - richiesta quest’ultima particolarmente nefasta perché nel paese molti anziani stanno tornando a casa dalle Rsa e le famiglie hanno bisogno di canali rapidi per regolarizzare il lavoro di chi le aiuta. I più contrari sono il ministro Sergio Costa, i sottosegretari Sibilia, Ferraresi, L’Abbate, la viceministra Castelli. Crimi, dopo aver sostenuto che la norma avrebbe favorito i caporali - argomento che ha poi dovuto abbandonare per manifesta infondatezza - ieri sulla chat grillina insisteva sul fantomatico condono: “Far emergere il nero abbuonando sanzioni penali significa dire ai nostri imprenditori onesti siete dei coglioni”. Altro che “abbuono”. La realtà è quella che Crimi confida ai suoi più stretti: “L’intesa sulle regolarizzazioni non la reggiamo”. L’Onu chiede scarcerazione di tutti i bambini palestinesi detenuti nelle carceri israeliane agensir.it, 12 maggio 2020 “Seria preoccupazione per la continua detenzione di bambini palestinesi da parte delle autorità israeliane” è stata espressa oggi, in una nota congiunta, da Jamie McGoldrick, coordinatrice umanitaria nei Territori palestinesi Occupati, da Genevieve Boutin, rappresentante Unicef nello Stato di Palestina e da James Heenan, capo dell’Ufficio diritti umani delle Nazioni Unite nei Territori palestinesi Occupati. Secondo il Servizio penitenziario israeliano, alla fine di marzo, sono 194 i bambini palestinesi detenuti dalle autorità israeliane nelle carceri e nei centri di detenzione, principalmente in Israele. Un dato, secondo quanto si legge nella nota, “superiore al numero medio mensile di bambini detenuti nel 2019. La stragrande maggioranza di questi bambini non è stata condannata per dei reati ma è detenuta in stato di detenzione preventiva”. I rappresentanti umanitari ribadiscono che “i diritti dei minori alla protezione, alla sicurezza e al benessere devono essere sempre rispettati. In tempi normali, l’arresto o la detenzione di un bambino dovrebbe essere una misura di ultima istanza e per il periodo di tempo più breve appropriato. Ciò è sancito dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, ratificata sia da Israele che dallo Stato di Palestina”. Per questo, affermano i tre rappresentanti Onu, “durante una pandemia, gli Stati dovrebbero prestare maggiore attenzione alle esigenze di protezione e ai diritti dei minori. I bambini detenuti, infatti, affrontano un rischio maggiore di contrarre Covid-19, con distanziamento fisico e altre misure preventive spesso assenti o difficili da raggiungere”. A complicare la situazione, denunciano i coordinatori umanitari, è il fatto che dall’inizio della crisi Covid-19 “in Israele i procedimenti giudiziari sono sospesi, quasi tutte le visite in carcere sono annullate e ai bambini viene negato l’incontro con le loro famiglie e i loro avvocati. Ciò crea ulteriori difficoltà, sofferenze psicologiche impedendo al bambino di ricevere la consulenza legale cui ha diritto”. Queste pressioni, si legge nella nota, “potrebbe spingere i minori in attesa di processo a dichiararsi colpevoli così da essere rilasciati più rapidamente”. I coordinatori umanitari, ribadendo che “il modo migliore per difendere i diritti dei bambini detenuti nel mezzo di una pericolosa pandemia, in qualsiasi paese, è liberarli dalla detenzione” chiedono alle autorità israeliane e palestinesi “una moratoria sui nuovi ingressi nelle strutture di detenzione”. Iraq. Disposta liberazione detenuti, ancora proteste e disordini dire.it, 12 maggio 2020 Nonostante il nuovo governo dell’Iraq abbia ordinato la liberazione di centinaia di persone arrestate dalle forze dell’ordine nel corso della mobilitazione antigovernativa che ha attraversato il Paese a partire da ottobre, manifestanti sono tornati in strada nella capitale Baghdad e in altre città per chiedere la definitiva “caduta del regime”. La decisione della magistratura è stata comunicata ieri dal neo-designato primo ministro Mustafa al-Kadhimi, che ha detto che il governo si impegnerà nel fare giustizia e nel provvedere a una compensazione per le famiglie delle circa 600 persone uccise nel corso delle manifestazioni. Al-Kadhimi ha rinominato come responsabile delle operazioni anti-terrorismo dell’esercito il generale Abdulwahab al-Saadiun, figura di rilievo delle passate campagne militari contro lo Stato islamico. Nonostante i nuovi provvedimenti ieri, dopo alcuni mesi di relativa calma, si sono verificati scontri tra manifestanti e forze dell’ordine in diverse città del Paese. Secondo testimonianze raccolte dalla stampa locale, dimostranti hanno detto che la mobilitazione è un “messaggio” per il nuovo esecutivo. Stando ad alcuni di loro il governo avrebbe dieci giorni per accogliere le richieste di cambiamento della piazza, altrimenti la situazione “potrebbe degenerare”. Secondo l’organizzazione Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (Icssi), nonostante le indicazioni contrarie del nuovo premier la polizia ha usato forza eccessiva nel gestire le proteste, lanciando gas lacrimogeni e utilizzando cannoni di acqua calda. Sud Sudan. Carceri sovraffollate e a rischio contagio: rilasciati 85 ragazzini di Anna Maria De Luca La Repubblica, 12 maggio 2020 Gli effetti dell’azione combinata dell’Unicef e della missione delle Nazioni Unite (Unmiss) nel Paese africano. Ottantacinque bambini sono stati rilasciati dalla detenzione in Sud Sudan per decongestionare le prigioni a rischio Covid 19. Lo annuncia l’Unicef che sta portando avanti un progetto pilota per formare le forze dell’ordine sui diritti dei bambini (il Sud Sudan Child Act) ed esplorare approcci che mirano a ridurre la detenzione. Il rilascio. È frutto della collaborazione tra l’Unicef, la missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan (Unmiss), la magistratura del Sud Sudan e il Ministero per le questioni di genere, l’infanzia e l’assistenza sociale nel Paese africano, il più giovane dei 54 Stati del continente, essendo nato nel 2011, in seguito ad un referendum che sancì la secessione dal Sudan. Secessione, che ha poi innescato un conflitto interno che, a fasi alterne, ancora dura. dunque organismi internazionali e istituzioni locali stanno lavorando assieme per migliorare il sistema giudiziario, dal momento che nel Paese manca ancora un sistema giudiziario minorile che prenda in considerazione i bisogni specifici dei minori, indipendentemente che siano colpevoli o no. Molti di loro sono infatti imprigionati per reati minori e stanno scontando la pena assieme con gli adulti, in chiara violazione dei principi fondamentali di tutela dei diritti dei bambini. Centinaia di migliaia di piccoli prigionieri a rischio Covid. In stato di detenzione restano però altri 11 bambini, a causa della gravità dei reati, di cui sono accusati ed altri ne sono stati segnalati. “Oltre ai casi segnalati in Sud Sudan - commenta il presidente dell’Unicef Italia, Francesco Samengo - nel mondo centinaia di migliaia di bambini detenuti corrono il rischio di contrarre il virus. Molti si trovano in spazi confinati e sovraffollati, con accesso non adeguato a servizi di nutrizione, assistenza sanitaria e igienica: condizioni che possono facilmente favorire la diffusione di malattie. In queste strutture, l’epidemia potrebbe verificarsi in qualunque momento. I diritti dei bambini alla protezione, alla sicurezza e al benessere devono essere garantiti sempre, anche e soprattutto durante crisi come quella che il mondo sta affrontando oggi. Il miglior modo per garantire i diritti dei bambini detenuti, in questa pandemia pericolosa, è il loro rilascio in sicurezza.” Il rilascio immediato dei bambini. Ed è questa la richiesta che Unicef avanza, in linea con le recenti linee guida sulle azioni chiave da intraprendere per proteggere dalla pandemia i bambini incarcerati. Un appello portato avanti anche dalla missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan (Unmiss). Commenta Mohamed Ag Ayoya, rappresentante Unicef in Sud Sudan: “Dobbiamo stabilire un sistema a misura di bambino, che rispetti i loro diritti anche quando sono in conflitto con la legge e puntare sulla prevenzione: le cause principali dei reati commessi dai bambini sono la povertà, la mancanza di istruzione e di opportunità future”.