Le carceri dove ci si ammala di Covid e il decreto-Lapalisse del Guardasigilli di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 maggio 2020 Il nostro ordinamento prevede già che i giudizi di sorveglianza possano riconsiderare a breve le ordinanze di scarcerazione. Il caso del detenuto di Bologna ricoverato una prima volta e poi rientrato in cella. Basta leggere le recenti più discusse ordinanze di scarcerazione di detenuti con gravi patologie per constatare che già ordinariamente i giudici di sorveglianza vi prevedevano la riconsiderazione a breve, e al massimo entro 5 mesi (ora l’ultimo decreto legge di sabato notte la imporrà entro 15 giorni e poi ogni mese) del bilanciamento tra caratura criminale del detenuto malato e gravità dei motivi di salute. Basta leggerle per riscontrare che nella valutazione dei giudici sono sempre entrate, quando erano fornite dalle Procure generali, eventuali informazioni sull’attualità di legami criminali di mafiosi e narcotrafficanti (ora il penultimo decreto legge aggiunge l’obbligo di attendere il parere anche dei pm antimafia distrettuale e nazionale). Basta leggerle per verificare che i differimenti della pena in detenzione domiciliare sono stati decisi solo quando il ministeriale Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria-Dap, e la sanità penitenziaria di competenza dal 2008 delle Regioni, non erano stati in grado di assicurare le terapie indifferibili per la vita dei detenuti (ora l’ultimo decreto legge prescrive che il giudice riesamini i casi connessi al virus Covid quando gli venga comunicata la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto). La Corte di Strasburgo - Dunque è solo un decreto-Lapalisse quello approvato dal governo sabato notte (il secondo decreto legge sulle carceri in due settimane e il terzo in due mesi), pubblicizzato invece dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (al Tg1 delle 13.30 di domenica) come “provvedimento straordinario per momenti straordinari”, dopo il quale “i giudici dovranno rivalutare le scarcerazioni che hanno disposto”. Intanto sarà interessante vedere come quelle strutture sanitarie, che oggi le cronache hanno appunto dimostrato mancare o scarseggiare, potranno essere di colpo allestite se “dall’attuazione del presente provvedimento” (avverte al solito l’articolo 6 del decreto legge) “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. E quanto al “dover rivalutare”, è imperativo che forse il Guardasigilli potrebbe iniziare ad applicare al proprio Ministero, tuttora inadempiente ad esempio al rarissimo ordine urgente impartito all’Italia il 7 aprile dalla “Corte Europea dei Diritti dell’Uomo” di Strasburgo, di far cessare l’illegale detenzione in carcere a Rebibbia da novembre 2018 di un giovane paziente psichiatrico, per il quale il Ministero e le Regioni non trovano un posto nelle “Rems-Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza”. Vicenda tuttavia poco o per nulla alla ribalta, come del resto la morte per Covid-19 l’altro giorno in ospedale di un detenuto contagiatosi in febbraio nel carcere di Bologna, ricoverato una prima volta il 31 marzo, fatto rientrare in cella l’11 aprile, quindi di nuovo ricoverato il 18 aprile nell’ospedale dove è morto. M.G., 67 anni, ex tossicodipendente, affetto da patologie pregresse, era in attesa di perizia psichiatrica e agli arresti per aver aggredito la madre, morta poi per embolia dopo (o a causa) delle lesioni. Non ha avuto una riga a livello nazionale, questo ottavo morto nell’universo del carcere (quattro detenuti, due agenti e due medici penitenziari), benché a parole tutta la scomposta polemica di questi giorni poggiasse proprio sul contrabbandare il rischio-virus come inesistente “scusa” e strumentale “pretesto” per supposte superficiali scarcerazioni di detenuti già affetti da patologie per le quali il Covid-19 può essere palese concausa di aggravamento. Amnesie selettive, perché elidere dall’informazione pezzi di realtà è forse l’unico modo per poter serenamente continuare a spacciare, al posto della realtà, la fiction del carcere come “luogo più sicuro al mondo”. Covid-19, nei penitenziari con il fiato sospeso di Luciana Matarese huffingtonpost.it, 11 maggio 2020 La situazione non è precipitata come si temeva, il sistema complessivamente ha tenuto, ma il Covid-19 continua a circolare anche dietro le sbarre, l’allerta resta alta e la fase successiva al lockdown nelle carceri è tutta da programmare. Da più parti si concorda sul fatto che, in strutture sovraffollate come le prigioni italiane, bisogna proseguire sulla strada intrapresa con le scarcerazioni, ricorrendo a misure alternative al carcere. Per continuare a liberare spazio. Al momento i focolai in corso sono tre - nel carcere di San Vittore a Milano, in quello delle Vallette Torino e nella casa circondariale di Verona - i contagiati sono 159 tra i detenuti, 208 tra i poliziotti penitenziari e 7 tra gli addetti alle funzioni centrali, 2 gli agenti penitenziari morti per il nuovo coronavirus. “Ma, come per l’esterno, non conosciamo il numero degli asintomatici nelle carceri”, spiega Massimiliano Prestini, responsabile nazionale polizia penitenziaria della Fp Cgil. Non l’unico ostacolo sul fronte della pianificazione necessaria ad avviare la fase due, che si aprirà ufficialmente dopo il 18 maggio. Fino a quella data, infatti, i colloqui “in presenza” tra i detenuti e i familiari, sono bloccati. Quale fase 2? Ma dopo, quando riprenderanno, con il Covid-19 ancora in circolazione, cosa succederà? “Serve un’attenzione maggiore rispetto a quella con cui è stata gestita la fase dell’emergenza vera e propria - aggiunge Prestini - durante la quale il Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità, dove non si sono registrati contagi, è stato gestito meglio di quello della Giustizia per adulti”. Nel primo caso, per esempio, si è fatto - “ed è questa una risorsa su cui puntare per la fase due”, fa notare Prestini - molto ricorso allo smart-working, soprattutto per gli assistenti sociali, “concesso invece con una certa reticenza agli educatori nelle carceri per adulti”, puntualizza il sindacalista. Nell’immediato futuro, dunque, è necessario potenziare, dove possibile, il ricorso al “lavoro agile” anche negli istituti penitenziari per adulti e poi aumentare le forniture dei dispositivi di protezione individuale e incrementare igienizzazione e sanificazione dei locali e degli ambienti di lavoro. Della necessità di attivare protocolli specifici per adeguarsi alle disposizioni del Governo e salvaguardare personale e detenuti si discuterà il 14 maggio in un incontro tra i sindacati e l’amministrazione penitenziaria. “Rispettare la regola del distanziamento sociale è un problema sia per noi che per i detenuti”, scandisce Stefano Branchi, coordinatore nazionale della polizia penitenziaria Fp Cgil - vanno ripensate le attività che svolgono i detenuti, da sorvegliare magari con dispositivi da remoto. Come li scaglioniamo escono per l’ora d’aria? E quando si avvicinano tra loro come interveniamo?”. Il pensiero va alle rivolte nelle carceri di marzo. “Non possiamo permettercene altre”, sospira il sindacalista. Ancora, va deciso come gestire i colloqui. “Stante la regola del distanziamento sociale, come faremo a fare le perquisizioni ai parenti in visita? Le nostre relazioni di servizio - conclude Branchi - evidenziano che attraverso i colloqui entrano in carcere, sovente nascosti nelle parti intime così che lo scanner non li rilevi, telefonini e droga. Servono dunque perquisizioni visive e al tatto, ma abbiamo bisogno di indicazioni precise che tutelino la salute di tutti”. Allarme droga e telefonini. La ripresa dei colloqui, al momento effettuati per via telematica, preoccupa anche Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria S.PP. “Significherà riattivare l’ingresso dei telefonini (nell’ultimo anno ne sono stati ritrovati circa 2600) e lo spaccio di droga nelle carceri, quest’ultimo anche un segno di forza delle organizzazioni criminali dentro le prigioni”, spiega Di Giacomo. Il traffico di sostanze stupefacenti dietro le sbarre - va avanti il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria S.PP. - frutta ai cartelli criminali milioni di euro annui, centinaia di migliaia ogni mese, in questo lockdown andati in fumo. “Nella sola Campania ammontano a oltre 400mila euro le perdite delle organizzazioni che gestiscono la droga nelle carceri. Se fosse vero che i proventi di queste attività sono riutilizzati per finanziare i conti degli appartenenti ai clan detenuti e le loro famiglie, si capirebbe facilmente l’aspettativa riposta sull’apertura dei colloqui”, puntualizza Di Giacomo, chiedendo massima allerta sulla fase due per stroncare questi traffici. Di qui la proposta di “spalmare” le visite su tutta la settimana per poter effettuare controlli capillari sui familiari, mettendo a disposizione della polizia penitenziaria strumenti che rilevino il contatto con la droga come avviene negli aeroporti. Scarcerare. E poi, spiegano da diversi fronti, bisogna continuare con le scarcerazioni, ricorrendo a misure alternative - per coloro che hanno residui di pena bassi e siano in carcere per reati di bassa pericolosità sociale - anche nella fase 2. Nonostante i recenti provvedimenti che - sullo sfondo le polemiche per l’uscita di galera di alcuni boss mafiosi e ieri l’approvazione del decreto per la stretta sui permessi generati dall’emergenza coronavirus - hanno segnato una riduzione nel numero dei detenuti (da 61.230 a 53.174) le carceri restano sovraffollate. I posti sono circa 50.000, di cui solo circa 47.000 effettivamente disponibili. “Ancora adesso siamo ben oltre i limiti di capienza previsti. Non dovremmo farci trovare impreparati da una eventuale ripresa del contagio”, ha dichiarato qualche giorno fa in un’intervista il presidente dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. La Fp-Cgil è sulla stessa lunghezza d’onda. “Chi ha residui di pena bassi e bassa pericolosità sociale deve essere destinato a misure alternative al carcere”, taglia corto Prestini. Per la coordinatrice nazionale dell’associazione “Antigone”, Susanna Marietti, “bisogna fare ancora più spazio di quello che si è fatto, puntando nei casi di bassa pericolosità sociale e bassi residui di pena, sulla detenzione domiciliare per esempio. Per gestire al meglio la fase 2 sarebbe importante anche effettuare quanti più tamponi possibile e assicurare ai detenuti - “è questo lo sforzo che deve fare l’amministrazione - un contatto con l’esterno garantendo smartphone a sufficienza, cosa che durante la fase 1 in alcuni è stato fatto solo in alcuni istituti”. I contatti, la didattica, il rischio. E poi ci sono i colloqui in carcere che riprenderanno dopo il 18 maggio. “Vanno fatti in estrema sicurezza - tiene a precisare la coordinatrice dell’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” - “e posto che nulla sostituisce il contatto in presenza, se dovessero essere limitati per ragioni sanitarie legate al coronavirus, bisogna assicurarsi di potenziare i supporti per le videochiamate”. E insistere sulla didattica a distanza. “A Torino e Bologna per fare le lezioni in carcere ci si è affidati alle radio locali, ma non si può sempre contare sull’inventiva dei singoli. La fase di convivenza col virus sarà lunga, è impensabile che il carcere si fermi o che i detenuti stiano in cella tutta la giornata”. Senza perdere di vista “la necessità di liberare spazio”. Perché, spiega Marietti, “se il virus dovesse entrare in qualche istituto bisognerà creare sezioni isolate per i positivi. L’emergenza potrebbe esplodere e si sa, in luoghi chiusi, sovraffollati e promiscui come sono le carceri i numeri salgono con estrema rapidità. Un rischio che non possiamo correre”. Mafiosi scarcerati, il magistrato di sorveglianza deciderà sul ritorno in cella Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2020 Dopo giorni di durissime polemiche sulle scarcerazioni dei boss nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, il consiglio dei ministri ha varato sabato notte il decreto che punta a limitare i danni. Sarà il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, sentito il Procuratore distrettuale antimafia (e in specifici casi il Procuratore nazionale antimafia), a valutare entro quindici giorni, e poi ogni mese, la posizione dei mafiosi condannati definitivamente ma scarcerati e destinati alla detenzione domiciliare a causa dell’emergenza sanitaria. Analogamente, sarà il Pm a valutare nel caso di accusati di mafia che erano detenuti per custodia cautelare. Il decreto dopo la bufera su Bonafede - Dopo giorni di durissime polemiche sulle scarcerazioni dei boss nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, il Consiglio dei ministri ha varato sabato notte il decreto che punta a limitare i danni, frutto della mediazione tra le forze della maggioranza e di un confronto con il Quirinale. Il provvedimento è stato firmato dal presidente della Repubblica. La situazione, cavalcata dalle opposizioni che hanno presentato una mozione di sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è precipitata quando il 21 marzo scorso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (il cui direttore è stato poi sostituito), ha inviato una circolare ai direttori delle carceri invitandoli a segnalare all’autorità giudiziaria i detenuti a rischio Covid. I giudici hanno iniziato a disporre i domiciliari anche per detenuti per mafia, con problemi di salute, verificata l’assenza di posti idonei nei centri sanitari penitenziari. Alla fine, ad avere beneficiato della scarcerazione sono stati 376 detenuti per reati gravi (155 condannati, 196 imputati; 21 in affidamento ai servizi sociali e 4 con esecuzione presso il domicilio di pene inferiori all’anno), solo 3 di questi erano al 41bis. La replica di Bonafede - “Nessuno può pensare di approfittare dell’emergenza sanitaria determinata dal Coronavirus - ha commentato al termine del Consiglio dei ministri il ministro della giustizia - per uscire dal carcere. È un insulto alle vittime, ai loro familiari e a tutti i cittadini, che in questo momento stanno anche vivendo tante difficoltà. I magistrati applicano le leggi e come sempre io rispetto la loro autonomia e indipendenza. Da stasera (sabato 9 maggio, ndr)?c’è una nuova norma che mette ordine alla situazione. In un momento così straordinario si stava andando avanti con vecchi strumenti”. Mafiosi ma anche terroristi e trafficanti di droga - Il decreto si applica ai detenuti “per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354”. Il provvedimento modifica - si legge nel comunicato finale del Cdm, “il regime relativo al beneficio della detenzione domiciliare per gli imputati in custodia cautelare e per i condannati, nonché, per questi ultimi, a quello del differimento della pena, nei casi di reati associativi a fini sovversivi, di terrorismo, di tipo mafioso o connessi al traffico di stupefacenti”. I tempi della revoca della scarcerazione - La valutazione è effettuata immediatamente, anche prima della scadenza dei 15 giorni indicati, nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena. Decisione collegiale - L’autorità giudiziaria deve in ogni caso prima sentire l’autorità sanitaria regionale (il Presidente della Giunta della Regione), sulla situazione sanitaria locale e acquisire dal Dap informazioni sull’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il detenuto scarcerato possa riprendere la detenzione senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. L’autorità giudiziaria provvede quindi a valutare se permangano i motivi che hanno giustificato la scarcerazione nonché la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei. I colloqui con i congiunti - Per prevenire il rischio di contagio da Covid-19, negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni, dal 19 maggio sino al 30 giugno 2020 i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati, possono essere svolti a distanza, anche mediante apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica. Bonafede alla prova del Parlamento. Polemica per le scarcerazioni degli under 30 di Fabio Martini La Stampa, 11 maggio 2020 Ai domiciliari mandati i detenuti meno a rischio virus. Oggi l’informativa sulle accuse del magistrato Di Matteo. A palazzo Chigi è stato pensato come un provvedimento scaccia-problemi, ma il decreto sulle scarcerazioni non ha allentato la catena di diffidenze, ostilità e rischi politici che circondano il ministro Guardasigilli, Alfonso Bonafede. All’ombra della giornata domenicale, che di solito spegne i riflettori mediatici, si è consumato un primo problema: il decreto approvato sabato notte dal governo ha avuto qualche problema nel superare i rilievi di manifesta costituzionalità che spettano alla Presidenza della Repubblica. La procedura che accompagna un decreto-legge approvato dal governo sino al Colle è sempre informalissima, perché i testi licenziati dai Consigli dei ministri sono “invisibili” e nel corso degli anni questo ha talora consentito modifiche in corso d’opera, finalizzate alla piena operatività e congruità costituzionale dei provvedimenti. Stavolta il decreto è stato firmato dal Capo dello Stato domenica sera, al termine di un approfondito setaccio nel corso del quale si sarebbe arrivati ad ipotizzare un ridimensionamento quantitativo dell’articolato ma a tarda sera la Gazzetta ufficiale straordinaria non aveva ancora pubblicato il testo “vidimato”. Ma non c’è soltanto l’iter accidentato del decreto Bonafede a rendere problematico il futuro prossimo venturo del ministro della Grazia, chiamato nei prossimi giorni a due passaggi parlamentari: il primo dei quali è fissato domani mattina alla Camera. Bonafede è chiamato a fornire un’informativa sulla originalissima vicenda del magistrato Nino Di Matteo, che ha accusato in tv il ministro di aver subito pressioni della mafia. Bonafede ha ottenuto che le sue comunicazioni fossero derubricate a informativa e dunque le Camere non voteranno, cosa che però saranno chiamate a fare in occasione della mozione di sfiducia (ancora non calendarizzata) presentata dal centro-destra. E su quel voto peserà la vicenda delle scarcerazioni, che non sembrava chiusa col decreto di sabato, che prevede l’obbligo di rivalutazione di tutte le ordinanze sin qui emesse dai magistrati di sorveglianza. Nei giorni scorsi aveva suscitato la protesta quasi unanime dei partiti l’invio ai domiciliari di oltre 400 detenuti condannati per reati di alta pericolosità sociale, considerati a “rischio Covid” e ai quali l’amministrazione penitenziaria non è stata in grado di garantire la certezza di non contrarre il virus. Ma nelle ultime ore - ecco la novità - stanno affiorando voci sull’età degli scarcerati che, confermate, potrebbero creare nuovi grattacapi al ministro. Più della metà degli scarcerati avrebbero un’età compresa tra il 30 e i 55 anni, una trentina sarebbero under 30 e uno di loro avrebbe 23 anni. Naturalmente sono stati tutti avviati ai domiciliari sulle base di ordinanze ben motivate ma la non alta percentuale di anziani (di regola i più a rischio) è destinata ad accendere l’interesse delle opposizioni parlamentari. Tutto da verificare ma si tratta di casi che potrebbero chiamare in causa anche il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), una struttura sotto la giurisdizione del ministero della Giustizia. Il ministro comunque ha espresso tutta la sua soddisfazione: “Nessuno può pensare di approfittare dell’emergenza sanitaria del coronavirus per poter uscire dal carcere”. Ma attorno al ministro c’è una generale diffidenza: “Il 70 per cento del Parlamento sarebbe d’accordo sulle scelte essenziali per la giustizia - sostiene Enrico Costa, capofila del centrodestra in questo campo - ma Bonafede è come se avesse indosso una cintura esplosiva: lui è il capo-delegazione 5 stelle al governo e forte di questo, prova a paralizzare tutto”. “Il nuovo decreto può funzionare. Ma sarà decisivo il lavoro del Dap” di Eduardo Izzo La Stampa, 11 maggio 2020 Intervista a Alfonso Sabella, ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo. “In molti casi funzionerà. Fondamentale sarà il lavoro del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: vanno individuati dei posti all’interno di strutture sanitarie o all’interno delle stesse carceri per conciliare la pena con il diritto alla salute”. Parola di Alfonso Sabella, magistrato siciliano ed ex delegato alla Legalità del Comune di Roma all’epoca del sindaco, Ignazio Marino. L’ex pm, soprannominato il cacciatore di mafiosi, non dimentica che i detenuti “anche quelli che si sono macchiati di crimini gravi” sono persone e vanno tutelate, perché il diritto alla salute è sacrosanto e vale per tutti. Dottor Sabella, lei dice che il nuovo decreto “può funzionare”, ma con le strutture carcerarie attuali e l’emergenza coronavirus non si rischia l’esplosione di un’epidemia tra detenuti? “A mio parere sarà fondamentale il ruolo del Dap: vanno individuate strutture idonee perla detenzione dei soggetti a rischio. La realtà è che molti penitenziari non sono idonei ad affrontare l’ordinario, figuriamoci la pandemia. Gli spazi a disposizione per ogni detenuto sono ridottissimi e noi siamo addirittura più avanti rispetto al resto d’Europa: abbiamo più spazi e più agenti penitenziari in rapporto ai carcerati, ma non basta”. C’è sempre un problema di sovraffollamento… “Bisognerebbe pensare a un modello diverso da quello attuale, che metta al centro l’essere umano. Perché il diritto alla salute in carcere deve valere per tutti i detenuti: altrimenti rischiamo che si crei un paradosso, che la sanità penitenziaria diventi appannaggio dell’alta sicurezza. Va creato un nuovo modello sanitario penitenziario, costruendo nuove carceri dove è necessario. Spesso le scelte vengono fatte per motivi politici e non per motivi organizzativi”. Con il nuovo decreto i detenuti che erano stati scarcerati torneranno davanti ai giudici di Sorveglianza. Si chiederà il parere della Direzione distrettuale antimafia. Non vede criticità in questo sistema? “Verrà chiesto uno sforzo straordinario al Dap. Per quanto riguarda le Dda non credo ci sarà un problema di questo tipo, sono ben strutturate e credo abbiano la forza per reggere questo tipo di lavoro. Servirà una buona organizzazione, ma ce la faranno. Mi sembra più complicata la situazione del tribunale di Sorveglianza: serviranno più magistrati e più cancellieri”. Prima i mafiosi tornavano a casa festanti, ora con il decreto arriva un messaggio opposto. Qual è la morale di questa vicenda? E soprattutto: funzionerà? “Io non ci vedo nessuna morale, ma l’ennesimo fallimento di un sistema che fa “buchi” e mette una toppa. Era però tutto prevedibile: abbiamo sempre messo toppe”. Il nostro Paese oscilla tra “svuota-carceri” e “pacchetti sicurezza”… “Ripenso al caso di Bernardo Provenzano: a mio parere sarebbe dovuto rimanere in carcere, ma non al 41bis. È stata una forma di tortura. Per questo siamo stati redarguiti a Strasburgo. Problemi di questo tipo vanno affrontati con laicità, non con la pancia”. Cosa pensa del recente scontro tra il pm antimafia, Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia? “Non credo che Bonafede abbia ceduto alla pressione dei mafiosi e non credo che lo pensi neanche Di Matteo. Credo piuttosto a un errore diplomatico da parte del ministro, che ha anticipato una nomina che in quel momento non era sicura”. Fiandaca: scarcerazioni boss, basta polemiche Quotidiano di Sicilia, 11 maggio 2020 Intervista al garante per i detenuti in Sicilia. Le Procure antimafia “per deformazione professionale esprimono una concezione unilaterale del trattamento” dei carcerati. E lo scontro Di Matteo-Bonafede “Non è un affare importante”. Sullo scontro tra il ministro Alfonso Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo taglia corto: “Non è un affare importante”. Per Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale e garante dei detenuti in Sicilia, sono altre le questioni collegate alle polemiche sulle scarcerazioni che meritano di essere poste al centro della discussione pubblica. In primo luogo i “gravi problemi di strutture, gestione e disciplina legislativa complessiva del sistema carcerario”. Il problema dei problemi è il sovraffollamento che avrebbe potuto essere in parte alleggerito con innovazioni nell’esecuzione della pena e con un ricorso più idoneo alle misure alternative. E questo non avrebbe comportato, secondo Fiandaca, effetti critici sulla sicurezza perché gran parte della popolazione carceraria non è accusata di reati di mafia. E poi, aggiunge, “l’anima del diritto contemporaneo richiede di contemperare valori, diritti ed esigenze concorrenti”. Quindi anche ai detenuti per mafia va riconosciuto il diritto costituzionale alla salute. Le polemiche sono quindi diversive e hanno per Fiandaca un vizio d’origine in quello che chiama il “conflitto culturale” aperto soprattutto dai magistrati d’accusa e delle Procure antimafia in modo particolare. “Esprimono - dice - una concezione unilaterale del trattamento dei detenuti e pretendono di allineare la gestione del sistema carcerario a una logica puramente repressiva legata al ruolo del pm. Deformazione professionale”. È per questo che Di Matteo non è diventato capo del Dap? “Non basta - dice Fiandaca - essere un simbolo antimafia, con tutto il rispetto per l’attività da lui svolta su cui non ho mancato comunque di esprimere qualche perplessità. Ci vogliono altre attitudini. Quella di Dino Petralia, ora nominato capo del Dap, mi sembra una scelta promettente: è un magistrato di grande equilibrio, competenza giuridica e capacità organizzativa”. Il governo sta introducendo nuovi limiti al potere discrezionale dei giudici di sorveglianza. È una giusta misura di cautela la richiesta di parere alle Procure sulle domande di scarcerazione? “Si poteva chiedere anche prima - risponde Fiandaca - anche se non era obbligatorio. Ma su questo punto condivido le preoccupazioni di Antonietta Fiorillo, responsabile del coordinamento dei magistrati di sorveglianza. Non vorrei che dalla Procure arrivassero solo carte e si intasassero gli uffici. I dati cartolari devono essere aggiornati sulla pericolosità attuale del detenuto. E vanno integrati con notizie sull’evoluzione dei rischi di contagio e sulla adeguatezza delle strutture sanitarie intramurarie”. Il rischio più grave che Fiandaca paventa è che sulle scarcerazioni “si diano ora risposte palliative e buone solo per tranquillizzare l’opinione pubblica e salvare a Bonafede il posto di ministro”. “Bisogna rompere il monopolio del carcere” di Nicola Mirenzi huffingtonpost.it, 11 maggio 2020 Intervista a Luciano Violante: prevale una concezione per cui gli impuri vanno esclusi dal mondo. Non è col diritto penale che si risolvono i problemi sociali. Vanno ridotti al minimo i reati puniti con la reclusione. In carcere è stato chiuso una volta sola: “Studiavo ancora all’università e facevo l’assistente penitenziario, una forma di volontariato per i detenuti. Portai le uova per festeggiare il compleanno di un recluso. La frittata era il suo piatto preferito. Quando le guardie passarono per chiudere le celle, rimasi dentro per chiacchierare un altro po’ con i tre detenuti. “Tanto poi ti fanno andare”, mi dissero. Alla fine della sera bussai per uscire. La guardia mi rispose dallo spioncino: “Qui tutti vogliono uscire”. Mi preoccupai e chiesi di parlare con il direttore. Mi rispose ancora: “Qui tutti vogliono parlare con il direttore”. Non ci fu nulla da fare. Passai la notte dormendo seduto sul pavimento. La mattina dopo, quando vennero per la battitura, mi beccai un ceffone. Dovevano essere tre in cella. Eravamo quattro. Credettero avessi fatto il furbo”. Da allora - erano gli anni sessanta - Luciano Violante non è stato mai imprigionato in un ruolo e basta. Ha fatto il giudice, il magistrato istruttore di processi sul terrorismo politico rosso e nero, ha messo in piedi l’inchiesta sul Golpe bianco di Edgardo Sogno, è stato professore di diritto penale e pubblico, parlamentare con il Partito comunista, il Pds, i Ds, presidente della commissione antimafia e poi della Camera dei deputati. “Il processo di liberazione dal carcere ha fatto negli ultimi anni molti passi in avanti. L’idea di abolirlo che sostiene Gherardo Colombo è un’utopia nobile. Però io ho come riferimento un’espressione di Marx: l’utopia realistica. Non credo che oggi ci si possa emancipare dal carcere in maniera assoluta, chiudendolo domani mattina. Però sono convinto che possiamo - anzi, dobbiamo - liberarci dal carcere in maniera relativa, rompendo il monopolio della pena carceraria. Limitando la galera al massimo, e solo ai casi in cui non è possibile fare altrimenti. Già oggi ci sono 53 mila persone che scontano la pena in prigione e 61 mila che la scontano fuori. Bisogna andare ancora più avanti, ancora più a fondo. Riformando l’intera concezione della pena, che è rimasta ferma al Settecento, quando nacquero le istituzioni totali”. In una di queste, Violante è nato: “I miei furono rinchiusi in un campo di concentramento in Etiopia. Mio padre era andato in Africa perché sotto il regime fascista era l’unico luogo in cui poteva vivere liberamente, pur essendo comunista. Quando arrivarono gli inglesi, chiusero tutti gli italiani lì dentro, sia che fossero fascisti, sia che fossero antifascisti. Passai in quel posto i primi tre anni della mia vita. Ma non ricordo niente. I miei non ne parlarono mai. Credo pensassero che chi non aveva vissuto quell’esperienza non poteva capire. Solo una volta mia madre, vedendomi tornare dal supermercato con un sacco di roba, mi disse: ‘Lo capisco, con tutta la fame che hai patito da piccolo’”. Ha qualcosa in comune con il nostro carcere? In parte, l’idea che sei un nemico, che devi essere allontanato dalla comunità. Il carcere è il luogo attraverso cui ci liberiamo di chi ha rotto la relazione umana. Lo buttiamo via, senza preoccuparci di cosa gli avviene. Negli ultimi anni ha preso piede, non solo in Italia, una cultura politica che concepisce la società come un mondo da purificare. Dal quale gli impuri, le persone che commettono reati e i sospettati, vanno radiati, con il diritto penale e con il carcere. La purezza però è una fantasma che si sporca facilmente. Questo alimenta il sospetto e, intorno a esso, costruisce un apparato di repressione capillare. Un dispositivo autoritario pericoloso. È su questo che si basa anche il nostro diritto? Negli anni, è cresciuta una visione pervasiva del reato, secondo la quale ogni trasgressione deve essere punita penalmente. Interi pezzi di società, più alcuni settori delle istituzioni e del mondo politico, pensano che il diritto penale sia un mezzo per risolvere i problemi sociali. Per qualsiasi cosa non vada, si istituisce un reato. Credendo di ripulire la società, in realtà la si soffoca. Dando vita a un imperialismo giuridico. Questa volta, senza colpa dei magistrati. Le carceri sono piene per questo? Anche per questo. Oggi la questione centrale è riflettere sul senso della pena. A cosa deve servire nel Ventunesimo secolo? Noi siamo fermi a un’idea antica, secondo la quale chi rompe la fiducia della comunità merita di essere estromesso dalla società, spinto in un luogo ai margini, com’è il carcere. A cosa dovrebbe servire, invece? In una concezione moderna, la pena dovrebbe servire a ricostruire la relazione. Già nell’Antico testamento c’è un concetto che è stato sepolto sotto millenni di pratica dell’emarginazione del colpevole. La parola tsedakah viene tradotta con il termine giustizia, ma in realtà significa “ristabilire il rapporto”. Riconciliare chi ha infranto le regole della comunità con la comunità stessa. Il carcere non dovrebbe servire proprio a questo? È amaro dirlo, però non è così: il carcere non educa a niente. Instaura solo un rapporto di soggezione tra il detenuto e il potere, sia quello pubblico, sia quello dei criminali che conservano un ruolo dentro. L’unico carcere che fa bene al detenuto, è il carcere che si libera di se stesso. È quello che riesce a offrire la possibilità di lavorare, di riprendere un ruolo nel mondo. Cosa che succede di rado. Le è capitato di vederlo? Una volta, nel carcere di Padova, stavo tenendo una lezione. Un detenuto si alzò e tirò fuoro il suo modello 740. Mi disse: ‘Questa è la mia dignità. Lavoro, pago le tassè. Era un uomo con quattro ergastoli. Non aveva alcuna possibilità di uscire. Eppure, aveva ricostruito un rapporto con la comunità. Allora il potere penale può funzionare? Meno punisce, più funziona. Il potere penale lacera, non ricostruisce. È uno strumento di rottura sociale, non di ricomposizione. In tutte le sue fasi: dal processo, sino alla condanna. Per questo, deve essere usato con grande senso della misura. Lei l’ha avuto? Quando, da giudice, dovevo decidere la galera, mi domandavo: “Ma che significa dare cinque anni di carcere per un determinato reato?”. Era un riferimento astratto, senza alcuna adesione alla realtà. Un conto sono cinque anni in un carcere vicino casa, un altro conto è passarli a centinaia di chilometri di distanza. Una cosa è finire in un istituto civile come quello di Opera, una cosa completamente diversa è essere sbattuti in una cella minuscola, insieme ad altre persone, in condizioni igieniche, sanitarie e psicologiche squallide. Quando ha capito che era un problema? Appena misi piede nel carcere. Ero ancora uno studente di giurisprudenza. Quello che studiavo sui libri era il diritto penale dei giorni di festa, dove si racconta la pena che redime ed edifica un uomo nuovo. Quello che vedevo era il diritto penale dei giorni feriali, dove vivevano un gran quantità di poveretti abbandonati in luoghi fatiscenti, la cui probabilità di ritornare salvi dentro l’umanità era calcolata nell’ordine del miracolo. Perché allora mantenere in piedi il carcere? Il carcere di quegli anni era abissalmente diverso da quello di oggi. La generazione di direttori penitenziari che si sono laureati dagli anni settanta in poi ha così tanto assorbito i principi di libertà della Costituzione da far compiere ai penitenziari progressi enormi. Eppure,ci sono ancora carceri in condizioni orrende. Che danneggiano, oltre i detenuti, gli uomini della polizia penitenziaria, i medici, gli operatori sociali. Si può davvero togliere la libertà senza ledere la dignità? Se anziché insistere sulla pena ci concentrassimo sul ripristino del legame con la società, credo di sì. Il detenuto non è una categoria dello spirito. È un essere umano, ha una storia singolare, unica. C’è chi è stato punito per furto, chi per gravi delitti mafiosi. Non si possono trattare entrambi allo stesso modo. Per il primo è necessario porre la questione del superamento del carcere, attraverso misure alternative. Per il secondo il carcere serve, per impedirgli di fare ancora del male, e per offrire un risarcimento alla società. Da dove partirebbe la riforma di cui parla? Da una restrizione radicale del concetto di reato, che riduca al minimo il numero di casi punibili con la detenzione. Tipo quali? Direi che il reato dovrebbe essere limitato ai soli in casi in cui si verifica una lesione di un bene che non è più recuperabile. La vita, per esempio. Lei riesce a immaginare una discussione del genere in parlamento? Questa non è una questione che possono porre solo i politici. È una svolta che deve partire dalla cultura, come tutte le grandi innovazioni dell’uomo. Le intelligenze del nostro tempo dovrebbero mobilitarsi per creare il sistema penale del Ventunesimo secolo. I giuristi ripensando la pena. Gli altri immaginando i modi con i quali è possibile ristabilire la relazione tra la comunità e chi l’ha ferita. Altrimenti, il potere penale continuerà a lacerare la comunità, imponendo la purezza dell’ordine dello stato sul disordine della vita. Opposizioni (e Italia Viva) contro Bonafede: “Il Dl Boss non rimedia alle scarcerazioni” Il Dubbio, 11 maggio 2020 Salvini fa sapere che non ritirerà la mozione di sfiducia contro il ministro. Le Camere Penali: “Il decreto legge è una vergogna, vuole sottomettere l’indipendenza dei magistrati”. “Aver scarcerato ergastolani, assassini, pluriomicidi, è un errore di dimensioni incalcolabili. Occorre ritirare la circolare del ministero, non basta dire ti faccio una visita ogni 15 giorni”, ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini, confermando che l’opposizione andrà avanti con la richiesta di sfiducia individuale contro il Guardasigilli. “Noi abbiamo presentato una mozione di sfiducia. Ci sono state rivolte in carcere, detenuti morti, poliziotti feriti, carceri incendiate e oltre 400 mafiosi in libertà, usciti di galera. Peggio di così cosa deve fare un ministro della Giustizia”. Dello stesso avviso anche Forza Italia: “Parere obbligatorio di Dna e Dda e rivalutazione delle misure alla luce del mutato quadro sanitario per i detenuti al 41bis ed in alta sicurezza. Ecco quanto predisposto dal Guardasigilli per frenare, a suo dire, l’emorragia e chiudere il cerchio” ha scritto in una nota la deputata di Forza Italia, Giusi Bartolozzi, segretario della commissione Giustizia e componente della Commissione Antimafia, commentando il decreto sulle carceri. “Ancora una volta - prosegue - fumo negli occhi per i cittadini italiani da parte di chi si è dimostrato incapace di prevedere e gestire l’emergenza carceri durante la pandemia. Circa il parere della Dna ricordiamo al ministro che, per questa particolare tipologia di detenuti, i magistrati italiani provvedono già a chiederlo preventivamente. Quindi la novella sembra l’ennesimo ammonimento privo di reale contenuto precettivo”. Insomma, il Dl non è sufficiente nei contenuti a chiudere quella che la maggioranza ha definito una “falla nel sistema”, portando alla concessione dei domiciliari per motivi di salute legati al pericolo coronavirus nelle carceri a 372 condannati per mafia e altri reati gravi. Ferri (Italia Viva): “Il decreto del Governo non potrà porre rimedio alle scarcerazioni” - A sorpresa, anche se aveva già manifestato il suo dissenso, arriva anche un intervento di Cosimo Ferri - deputato di Italia Viva e magistrato- contro il ministro: “Il decreto del Governo non potrà porre rimedio alle scarcerazioni dei boss mafiosi. Questa è la realtà, purtroppo. Il ministro con questo nuovo decreto prova a metterci una pezza ma non si può rimediare a ciò che è accaduto”. Così Cosimo Maria Ferri componente commissione Giustizia Camera dei Deputati, che aggiunge: “Il decreto impone termini più stringenti per il riesame delle misure alternative già concesse ed introduce un obbligo di riesame ravvicinato da parte della magistratura, che però non è necessario perché i giudici emettono già i provvedimenti sulla base di una prognosi medica. Quindi cosa cambierà? Per il passato poco, per il futuro ci sarà certamente un maggiore coordinamento tra Dap e magistratura di sorveglianza. Viene, infatti, riconosciuta, come necessaria una più efficace interlocuzione con il Dap e sottolineato però ciò che in realtà è già nella legge: privilegiare cure interne al circuito penitenziario, quando possibili, e particolare attenzione nei confronti degli autori di reati associativi e boss mafiosi”. “Le soluzioni adottate non potranno porre rimedio a provvedimenti giudiziari già adottati sulla base di leggi in vigore. Non si possono revocare i provvedimenti emessi dalla magistratura sorveglianza se non verranno meno i presupposti, valutazione che può essere rimessa solo ai magistrati - aggiunge. È giusto introdurre i pareri delle procure antimafia sulla pericolosità sociale dei condannati per reati associativi per fornire maggiori elementi di valutazione ai magistrati di sorveglianza e sottolineare l’importanza di una interlocuzione con il Dap, che nei fatti già esiste, ma che non ha funzionato nelle ultime scarcerazioni. Il Dap potrà solo collaborare in maniera più efficace per il reperimento di soluzioni per garantire a tutti i detenuti cure adeguate, predisponendo centri clinici specializzati d’intesa con le autorità sanitarie delle regioni dove si trovano gli istituti di alta sicurezza”. La reazione dei 5 Stelle - “Il decreto approvato ieri in Consiglio dei ministri rappresenta una risposta forte e tempestiva da parte del governo e del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in merito alle scarcerazioni dei detenuti per reati gravi o sottoposti al 41- bis. Con questo provvedimento i giudici avranno modo di rivalutare, in base al nuovo quadro sanitario, le scarcerazioni disposte per alcuni detenuti in regime di massima sicurezza, a causa della diffusione del Covid-19”. Lo dichiarano i parlamentari del Movimento 5 Stelle della commissione Antimafia. “Si tratta di un lavoro sinergico che coinvolge il Dap e le strutture sanitarie e i magistrati potranno avere un quadro chiaro sulla disponibilità delle strutture penitenziarie o dei reparti di medicina protetta e valutare se il condannato possa tornare in regime di detenzione. Aggiungiamo che già la scorsa settimana è stato approvato il decreto che rende obbligatoria la richiesta del parere della direzione nazionale e delle direzioni distrettuali antimafia e antiterrorismo nel caso in cui un magistrato debba decidere di assegnare la detenzione domiciliare. Tutto questo dimostra con i fatti l’incessante lotta di questo governo contro tutte le mafie e la criminalità”. I penalisti: “Questo decreto è una vergogna” - “La bozza del decreto-legge volto a sottomettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati di sorveglianza alle esigenze propagandistiche dell’esecutivo ed al controllo delle procure distrettuali antimafia, tradisce la cultura poliziesca che lo anima”. Lo sottolinea la giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane parlando di una “vergogna”. “Oltre ad imporre un insensato obbligo di rivalutazione legato ad improbabili criteri cronologici, esso prevede il parere degli uffici dell’accusa - concludono i penalisti - ma ignora del tutto il titolare del diritto alla salute a tutela del quale è stato assunto il provvedimento, ed il suo difensore. Tutti hanno voce, fuorché il detenuto e la sua difesa tecnica. Una vergogna, degna della incultura del diritto e della infedeltà alla Costituzione che avvelena il Paese”. Bluff di Bonafede sui boss scarcerati di Luca Fazzo Il Giornale, 11 maggio 2020 Il dl si limita a chiedere ai giudici di rivalutare le decisioni. Centrodestra all’attacco. Due settimane di tempo concesse ai giudici che hanno scarcerato in massa mafiosi e narcotrafficanti per ripensarci, anche alla luce dell’allentamento della pressione del virus, e riportare in cella i detenuti: questa è l’unica sostanza del decreto che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha portato sabato notte all’esame del governo, e che ieri mattina è stato ufficialmente varato. È un decreto che il ministro presenta con una certa enfasi, annunciando che “nessuno può pensare di approfittare dell’emergenza sanitaria determinata dal Coronavirus per uscire dal carcere”, e persino che “in momenti straordinari, servono provvedimenti straordinari”. Di straordinario, in realtà, il decreto ha poco. Il provvedimento si limita a infliggere ai magistrati di sorveglianza l’obbligo di rivalutare periodicamente la situazione dei già scarcerati, e per le nuove richieste ribadisce quanto era peraltro già stabilito nel decreto precedente, ovvero la necessità di un parere preventivo da parte delle procure antimafia prima della concessione degli arresti domiciliari ai detenuti condannati per reati particolarmente gravi. Non toglie, né poteva farlo a meno di venire asfaltato dalla Corte Costituzionale, la competenza ai tribunali sui provvedimenti di scarcerazione. Ma nemmeno interviene sulla situazione di impreparazione delle carceri all’emergenza Coronavirus, che è alla base di quasi tutti i decreti che nei giorni scorsi hanno ammesso i detenuti agli arresti domiciliari. Neanche una riga, infatti, sugli interventi chiesti da più parti per il rafforzamento dei reparti detentivi negli ospedali, che potrebbero essere la destinazione più ovvia per i detenuti a rischio di contagio. E nulla sulle misure chieste a gran voce dell’avvocatura per riportare in funzione la giustizia penale, attrezzando i tribunali per celebrare i processi dal vivo e in condizioni di sicurezza, in modo da concludere i processi e scarcerare gli imputati assolti o condannati a pene lievi. Sono lacune di cui il ministro dovrà rispondere in Parlamento, dove è atteso probabilmente giovedì prossimo: una audizione che avverrà col Guardasigilli nel mirino della mozione di sfiducia presentata dal centrodestra, e che ieri Matteo Salvini ha fatto sapere di non voler ritirare. “Ci sono state - dice il leader leghista a In mezz’ora in più - rivolte in carcere, detenuti morti, poliziotti feriti, carceri incendiate e oltre 400 mafiosi in libertà, usciti di galera. Peggio di così cosa deve fare un ministro della Giustizia?”. La mozione di sfiducia, sulla carta, non ha i numeri per passare, perché - anche se con qualche imbarazzo e distinguo - Pd e Italia Viva stanno tenendo sponda al Guardasigilli. I renziani, per bocca di Ernesto Magorno, nei giorni scorsi hanno respinto sdegnati l’accusa avanzata da Fratelli d’Italia di un baratto tra la fiducia a Bonafede e il via libera dei grillini alla regolarizzazione degli immigrati. Ma il sospetto continua ad aleggiare La giustizia e l’agenda da cambiare di Giuseppe Pignatone La Stampa, 11 maggio 2020 Depenalizzazione dei reati e riti alternativi. Per la giustizia subito una nuova agenda dopo la paralisi del sistema provocata dal coronavirus e le polemiche sulla scarcerazione dei boss. La polemica politica e giudiziaria divampata in questi giorni dopo l’uscita dal carcere di numerosi detenuti imputati o condannati per gravi reati è un esempio degli effetti collaterali della crisi, innanzitutto sanitaria, innescati dalla pandemia che ha colpito l’Italia e l’intero pianeta. Infatti, gli effetti del virus si sono dimostrati tanto più pesanti quanto più gli organismi colpiti sono deboli e meno efficienti. Questo vale per gli individui, ma anche per le strutture e i settori dell’organizzazione sociale. Devastanti sono stati quindi, e ancora saranno, gli effetti della pandemia sull’intero sistema della giustizia penale, di cui sono noti limiti e difficoltà e che infatti è rimasta sostanzialmente paralizzata fino ad oggi, salvo pochissime attività indilazionabili. Anche la ripartenza sarà molto parziale. Non solo perché dovrà avvenire secondo le nuove regole, a cominciare da quelle sul distanziamento sociale che trasformeranno radicalmente la vita dei nostri Palazzi di giustizia, ma perché modalità inedite, tutte da sperimentare, si sommeranno alle carenze e ai problemi già ben noti. È quindi intuitivo il verificarsi di un pesante rallentamento: meno udienze, meno processi fissati per ogni udienza, meno persone ammesse nelle cancellerie, meno impiegati presenti nelle ore cruciali, enormi difficoltà a trattare i processi con più imputati, specie se detenuti. Né è pensabile che dopo l’estate si torni alla “normalità” del passato, il che determinerà l’accumularsi di ulteriore arretrato in proporzioni molto pesanti, peraltro accresciute dai casi che scaturiranno dalla ripresa delle attività economiche e sociali. Se è vero che la giustizia penale è una delle funzioni primarie e irrinunciabili di qualsiasi Stato, per prima cosa è necessario un impegno corale per contenere i danni già subiti e per ripartire su nuove basi, come sta avvenendo in tanti altri campi. Ma questo non sarà sufficiente. L’intera organizzazione della Giustizia dovrà saper trasformare questa crisi in opportunità, cogliendo l’occasione del cambio di prospettiva che la pandemia impone, fermo restando il limite invalicabile dei principi propri dello stato di diritto, fissati dalla Costituzione, dato che in questo settore sono in gioco interessi vitali del cittadino, a cominciare dalla libertà personale. Non a caso, di fronte all’opposizione dichiarata degli avvocati e alle perplessità espresse da buona parte della magistratura, il governo ha rinunziato quasi del tutto all’udienza da remoto, ritenuta inidonea ad assicurare il livello minimo di garanzie per una decisione giusta. Una scelta che ritengo frutto di saggezza. Serve quindi una riflessione condivisa sulle possibilità offerte dall’informatica, su cui molti ripongono grandi aspettative, con l’attesa di risultati quasi miracolosi. Io non sono così ottimista e proprio in queste settimane abbiamo constatato come nella giustizia penale lo smart-working e, più in generale, il ricorso all’informatica abbiano fatto registrare risultati meno positivi che altrove. Per la carenza delle risorse disponibili, materiali e di personale, ma anche per i limiti, sopra accennati, imposti dalla materia trattata. Restano tuttavia spazi molto ampi per l’uso delle nuove tecnologie e sarà l’esperienza concreta a suggerire già nelle prossime settimane nuovi campi di intervento e nuove iniziative, che richiederanno a tutti, uffici giudiziari e avvocati, la disponibilità ad assumersi nuovi impegni e nuove responsabilità. Sarà anche necessario che, nell’enorme sforzo economico in atto nel Paese, si tenga conto delle esigenze dell’amministrazione della giustizia, fattore decisivo anche per la ripresa economica: e al primo posto di tali esigenze c’è l’assunzione di personale amministrativo giovane e qualificato. Nell’indicato cambio di prospettiva è forse giunto il momento per compiere alcuni passi che competono a Governo e Parlamento, che sarebbero tuttavia agevolati se dai protagonisti del processo provenissero indicazioni comuni, nella consapevolezza condivisa che nessuno trae giovamento dalla paralisi che si è determinata. Il primo passo, fondamentale, è la immediata e radicale riduzione del numero dei reati, attraverso un’ampia depenalizzazione. Oggi la sanzione penale è prevista per fatti di scarso rilievo, che in altri Paesi europei sono illeciti amministrativi definiti rapidamente, mentre da noi impegnano tre gradi di giudizio. E uno degli effetti perversi del panpenalismo dilagante in questi anni, per cui la sanzione penale non è l’extrema ratio cui ricorrere quando nessun altro rimedio è efficace ma, al contrario, è la sola risposta a problemi cui la politica o l’economia non sanno provvedere e che vengono così scaricati sulla giustizia penale, addossandole oltretutto la responsabilità dell’inevitabile fallimento. È un fenomeno culturale ormai diffuso. Lo vediamo ogni volta che si reagisce a un dramma o a un problema chiedendo - o, peggio, facendo chiedere alle vittime - di “fare giustizia”, di “trovare il colpevole e mandarlo in carcere”, magari per sempre. In un primo momento, per fare un esempio, erano state considerate reati anche le violazioni ai limiti di movimento imposti per frenare il contagio. Poi, per fortuna, ci si è resi conto dell’assurdità della scelta che avrebbe portato a decine di migliaia di procedimenti da chiudere, chissà quando, con la condanna a pagare una piccola somma. E così si è tornati all’illecito amministrativo. Occorrerebbe, e da subito, l’impegno convergente delle forze politiche per invertire la tendenza a introdurre sempre nuove figure di reato. In questo modo, fra l’altro, sarebbe più facile verificare che le Procure si muovano secondo criteri di priorità trasparenti e comprensibili. Il secondo passo, dovrebbe essere l’introduzione di modifiche realmente incisive del sistema processuale introdotto dal codice del 1989, avendo ben chiaro “il” problema: non si è mai realizzata la condizione-base per il suo successo e cioè che almeno 1’80%, dei processi venisse definito con i riti alternativi (abbreviato, patteggiamento ecc.). È sotto gli occhi di tutti che le cose sono andate diversamente e che i tempi si sono allungati a dismisura, per cui l’istruzione dibattimentale è spesso una mera fictio, con i testimoni convocati quando ormai non ricordano nulla e finiscono per “recitare” verbali e atti risalenti a molti anni prima. Il sistema non regge più nemmeno il dispendio di risorse imposto dalla contraddittorietà di un primo grado in cui tuttora avviene (meglio: viene ripetuto) davanti al giudice perché “solo così si può arrivare a una decisione giusta”, seguito però da un giudizio di appello che riesamina e giudica sulla base dei soli atti scritti. Sono tutte questioni complesse, ma è possibile introdurre modifiche incisive, che non tocchino garanzie importanti e che consentano l’utilizzo ottimale delle (scarse) risorse disponibili: gli spazi ci sono e sono stati indicati molte volte da più parti. Tra gli altri, l’aumento dei riti alternativi, la limitazione dei casi di appello, la semplice acquisizione da parte dei giudici del dibattimento degli atti rispetto ai quali l’escussione del teste non apporterebbe alcun elemento di novità, il rinvio a giudizio solo se esistono fondate probabilità di condanna (senza, però, che si gridi allo scandalo o all’insabbiamento per le richieste di archiviazione poco gradite, magari dopo anni di indagini infruttuose), l’eliminazione di adempimenti che l’esperienza ha dimostrato spesso del tutto inutili. Fondamentale sarà pure l’espletamento, con le necessarie cautele, di un numero crescente di atti mediante video-collegamento, come già prevedono alcuni protocolli stipulati su base locale tra avvocati e magistrati. Naturalmente, cambiamenti così incisivi troveranno gli stessi ostacoli finora rivelatisi insuperabili da parte dei sostenitori dello statu quo, presenti in tutte le categorie del mondo della giustizia, che rivendicano traguardi idealizzati, tanto affascinanti quanto irraggiungibili. Ma credo che la nuova situazione non lasci più spazio a queste posizioni. Un osservatore tanto prestigioso quanto insospettabile, Franco Coppi, ha lucidamente descritto in una recente intervista alcune di queste problematiche, citando alcuni “fallimenti disastrosi” del Codice del 1989, e auspicando che si trovi il coraggio di “riesaminare la situazione mettendosi attorno a un tavolo”. Tutti insieme, aggiungo, senza tabù né pregiudizi. Bonafede e Di Matteo dovrebbero dimettersi entrambi di Valerio Spigarelli Il Riformista, 11 maggio 2020 Un membro del Csm, a un’ora pericolosamente tarda della sera, interviene in una trasmissione di quelle che fanno, e seguono, coloro che evidentemente non hanno mai visto Quinto Potere, altrimenti si vergognerebbero. Il magistrato, che non è un Pm in servizio, racconta di quando il ministro in carica, allora alleato di Salvini, dopo avergli offerto un posto, s’era rimangiato l’offerta nel giro di ventiquattro ore. Fin qui, a parte la stravaganza di un membro di organo di rilevanza costituzionale che telefona a una trasmissione trash, niente di che. Niente di che da queste parti, ovviamente, avvezzi come siamo al fatto che in nome della notorietà - vera o usurpata alla luce dei risultati non conta - un Pm possa essere nominato al vertice del Dap anche senza avere alcuna esperienza nel campo dell’esecuzione penale, e neppure nell’amministrazione, ma solo in nome della glorificazione del 41bis. Come se la pena, e anche i diritti delle persone private della libertà, di cui la Costituzione parla agli articoli 13 e 27, siano cose da trattare in maniera demagogica proprio come fanno le tricoteuse manettare star del giornalismo italiano da anni. Comunque il racconto si risolve nella cronistoria di una nomina sfumata al miglio finale, insomma di uno che era stato scartato quasi al traguardo. Il che rende dal punto di vista umano più che giustificato anche se un po’ tardivo il suo, diciamo così, disappunto, ma non certo d’interesse pubblico la cosa. Se non che nel racconto si accosta la circostanza che l’eventuale nomina sarebbe stata accolta con terrore all’interno delle carceri, tanto che le puntuali intercettazioni delle reazioni dei detenuti, che evidentemente vivono registrati h 24 come succedeva in The Truman Show, sarebbero state talmente preoccupate che uno, napoletano, avrebbe detto che in tale sventurata ipotesi bisognava “fare l’ammuina”. Notizia che in trasmissione viene commentata da Giletti, sempre più immedesimato nel ruolo a suo tempo interpretato da Peter Finch, come una dichiarazione di guerra. Ora, accostare due fatti, anche senza dire che l’uno, la mancata nomina, dipende dall’altro, cioè la reazione nelle carceri, per trarne la conclusione che Di Matteo non è assurto al vertice del Dap perché il ministro ha ceduto alle “pressioni dei boss”, dovrebbe far ridere tutta l’Italia, tanto è sconclusionata la logica che sorregge l’ipotesi, ma da noi la logica per certi media player è optional, mentre l’insinuazione e il sospetto sono l’anticamera della verità. Ed ecco quindi che per il Peter Finch de noantri è questione di un attimo: guardando direttamente in macchina prorompe in una fatwa antimafia il cui succo è che il ministro deve spiegare perché ha commesso come minimo il delitto di lesa maestà. Accusato di essere messo quasi allo stesso piano di un Andreotti qualsiasi e svegliato da qualche insonne funzionario, il ministro in carica fa quello che sembra normale solo dalle parti nostre: telefona direttamente in trasmissione. Il problema è che poi non fa quello che un ministro dovrebbe fare, cioè dire in primo luogo che un membro togato del Csm non può operare in quel modo e in secondo luogo che la decisione di chi nominare o non nominare a capo del Dap è una faccenda politica, che gli compete e che non deve renderne conto né al diretto interessato né a un imbonitore televisivo. No, con eloquio al solito incerto, e l’aria di chi deve rendere conto, il ministro tenta di spiegare che evidentemente c’è stato un fraintendimento. Come fosse alla Esselunga spiega che aveva proposto due prodotti a scelta, poi aveva pensato che uno dei due andasse meglio, e arriva persino a tirare in ballo il povero Falcone, dicendo che la seconda carica gli era appartenuta e quindi era prestigiosa. Insomma, si assiste alla scena di un ministro che balbetta giustificazioni mentre Giletti lo incalza ribadendo che non si può trattare così, come una persona qualsiasi, il Di Matteo di turno. Nessuno, sia detto per inciso, nello studio quella sera, e su tutti i media sui quali rimbalza la notizia nei giorni successivi, nota che una delle frasi intercettate significa testualmente il contrario del catastrofico e minaccioso intento che gli viene attribuito. Se invece di un cattivo imitatore di Peter Finch in studio ci fosse stato Eduardo, avrebbe infatti spiegato agli astanti che l’ordine “facite l’ammuina”, si narra fosse in voga nella Regia Marina Borbonica in occasione delle visite sulle navi dei vertici militari, quando, per farsi vedere operosi, si ordinava all’equipaggio che “tutti quelli che stanno a basso vanno in coppa, e quelli in coppa vanno abbasso, quelli che stanno a dritta vanno a manca e quelli a manca vanno dritta; passando tutti dallo stesso pertugio”. Insomma, significa facciamo finta o al massimo confusione. Purtroppo sul set di Quinto Potere non si brilla né per la conoscenza delle regole istituzionali né per quelle della storia e la cosa, invece di finire a sberleffi diventa un caso politico di primo piano. E come al solito la politica, quando si accosta a questi temi, dà il peggio di sé. Il ministro, che campa e fa fortuna politica strizzando l’occhio alle tricoteuse di cui sopra, sa anche che la strada per la ghigliottina è stata percorsa alla fine proprio dai giacobini che l’avevano aperta, e dunque, inizialmente, spalleggiato dalle più lucide menti del giornalismo forcaiolo, caldeggia la teoria dell’equivoco garantendo che lui - che di leggi forcaiole ne ha licenziate un pacco e una sporta - è un manettaro doc che non può essere sospettato di collusione. Ma poi cambia linea. Allora va in Parlamento e lì, finalmente non parlando a braccio ma leggendo quello che vivaddio gli hanno scritto i funzionari del ministero, spiega l’ovvio: la decisione è politica e la politica non ne deve renderne conto ai Pm o alle Procure. Lo dice perché glielo spiegano e glielo scrivono, ma non lo pensa, visto che negli stessi minuti proclama urbi et orbi che farà una legge ad personam per riportare in cella quelli che alcuni giudici hanno liberato in tempi di Covid poiché gravemente malati. Cioè fa quello che aveva fatto nel 1991 proprio Andreotti assieme a Martelli - che infatti se ne gloria e glielo suggerisce in diretta - e che all’epoca fece venire la pelle d’oca a tutti quelli che conoscono la separazione dei poteri. Insomma, per rimontare la china fa quello che molti procuratori pretendono che faccia, come al solito, così come aveva appena finito di fare anche prima della trasmissione imponendo che per decidere una istanza magari fondata sull’urgenza i magistrati di sorveglianza attendano giorni e giorni il parere delle procure Antimafia. Ora, visto che questa è la storia, mentre si comprende il compiacimento assai poco cristiano di chi gongola nell’assistere allo spettacolo degli adoratori del sospetto vittime della loro stessa perversione - scena non così originale come dimostra la storia della ghigliottina di cui sopra - davvero non si comprende perché uno dotato di buon senso e di dignità dovrebbe, anche solo per un giorno, smettere di chiedere le dimissioni di questo ministro. Certo, il rischio di essere accostati a quelli come Salvini e la Meloni, che lo sostengono con argomenti che ti fanno venire voglia di scappare alle Tonga, per quanto sono intrisi della stessa logica forcaiola, è alto; ma far diventare Bonafede, anche suo malgrado, un campione di indipendenza della politica non è uno sbaglio: è un imbroglio. Un imbroglio che non a caso fa il Pd che anche in questa vicenda non ha perso l’occasione di trattare le cose di giustizia con doppie verità. E non si dica che così si finisce dalle parti di Di Matteo, che è uno sbaglio ancora più grosso: basta chiarire che le dimissioni le dovrebbe dare pure lui ma dal Csm. Un brutto spettacolo, ovunque lo si guardi, viene quasi la voglia di affacciarsi alla finestra e gridare come Peter Finch, quello vero, “sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più”. Ma è solo il pensiero di un momento: il demagogo lasciamolo fare al Giletti di turno. Via alle udienze con cautela e tanti rinvii di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2020 Da domani la giustizia entra nella fase 2. Ma lo fa con grande cautela e rinviando i procedimenti meno urgenti a dopo l’estate. Anche se oggi si chiude il periodo di sospensione delle udienze e dei termini operativo da inizio marzo, le difficoltà a gestire l’attività giurisdizionale in modo compatibile con l’emergenza sanitaria sono tutt’altro che superate. È questo il quadro che emerge analizzando le linee guida elaborate dai presidenti dei tribunali per gestire la fase 2, che, per ora, durerà fino al 31 luglio. Ogni ufficio ha scelto la propria strada indicando le priorità e le modalità di trattazione con regole che cambiano da una sede all’altra. È comunque possibile individuare dei tratti comuni. Ripresa rallentata - Anche nella fase 1 da cui si esce oggi è stata assicurata la trattazione di alcuni procedimenti, individuati dal decreto legge cura Italia (18/2020) con un elenco via via ritoccato. Si tratta, in sintesi, delle cause civili che riguardano le urgenze delle famiglie e della tutela delle persone e, nel penale, delle convalide di arresto e dei processi che coinvolgono detenuti, se loro o i difensori chiedono di andare avanti. Da domani gli uffici giudiziari continueranno in primo luogo ad assicurare la trattazione di queste cause urgenti e poi amplieranno un po’ il perimetro, ma non sarà possibile garantire i volumi di lavoro pre-Covid. Ad esempio, a Roma, le linee guida prevedono che le cause da trattare vengano individuate dai giudici in base a criteri come: iscrizione a ruolo più risalente, cause relative a diritti fondamentali o che necessitano pronta decisione, cause già istruite o che non richiedono l’istruttoria. Al tribunale di Bari, nel diritto di famiglia, si tratteranno anche le cause di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio e quelle di divorzio congiunto, finora ritenute non urgenti perché partono da rapporti già regolamentati. Mentre al tribunale di Firenze la ripresa è divisa in due step: nel civile fino al 31 maggio ripartiranno alcune udienze, dal 1° giugno tutte quelle compatibili con la trattazione scritta o da remoto. Gli strumenti - L’esigenza di mantenere le distanze e di evitare gli assembramenti si scontra con le vecchie prassi di tenere le udienze in spazi piccoli e molto affollati, spesso nelle stanze dei giudici. Impossibile, quindi, riaprire i tribunali con i flussi di personale ed esterni normali fino a due mesi e mezzo fa. Le parole d’ordine sono, piuttosto, ingressi limitati, prenotazioni, fasce orarie, udienze in numero limitato e a porte chiuse, utilizzo solo delle aule più grandi. Un aiuto per svolgere le udienze in sicurezza arriva dalla tecnologia. Nel civile viene dato ampio spazio alla trattazione scritta, utilizzabile quando è richiesta solo la presenza dei difensori. Viene sfruttato il canale del processo civile telematico, che, dall’inizio dell’emergenza, ha esteso il suo raggio d’azione: è diventato obbligatorio per gli atti introduttivi del processo e ha debuttato in Cassazione. E a puntare sul digitale prova anche l’ufficio del giudice di Pace di Milano e Rho: il processo telematico non opera ma da domani, per evitare un flusso eccessivo di utenti, sarà possibile anticipare gli atti via Pec. C’è poi la strada delle udienze da remoto che nel civile sono possibili quando la partecipazione è limitata ad avvocati, parti e ausiliari del giudice. I collegamenti da remoto sono utilizzabili anche per (alcune) udienze penali. Ma qui la situazione è più difficile perché, oltre alle criticità connaturate all’oralità del processo, lo stop and go del governo ha creato diverse incertezze. Prima, la legge di conversione del Dl cura Italia ha esteso i collegamenti da remoto a indagini preliminari e udienze con imputati liberi. Ma il Dl 28 del 30 aprile, con una parziale marcia indietro, ha reso necessario il consenso delle parti per le udienze di discussione finale e ha escluso la modalità “video” nelle udienze in cui vanno sentiti testimoni, parti, consulenti o periti. L’arma della tecnologia non può però sopperire del tutto all’impossibilità di vedersi in aula. Innanzitutto, non tutte le udienze si possono svolgere senza la presenza fisica delle persone coinvolte. Inoltre, le udienze da remoto richiedono (almeno per ora) tempi più lunghi rispetto a quelli abituali in aula. E ci sono anche i limiti all’attività che il personale di cancelleria può svolgere da remoto: chi lavora in modalità agile non può per ora accedere ai registri e “processare” gli atti depositati. È un collo di bottiglia lamentato da vari uffici, ma che dovrebbe aprirsi un po’ con l’aumento delle presenze in sede degli amministrativi. Misure cautelari: nullità “intermedia” senza parere del procuratore nazionale antimafia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 7 maggio 2020 n. 13994. L’omessa acquisizione del parere del Procuratore nazionale antimafia, sulla revoca o la sostituzione della misura cautelare, non comporta una nullità assoluta ed è dunque soggetta, come tutte le nullità a regime intermedio, alla deducibilità. La precisazione arriva dalla Cassazione, con la sentenza 13994. Il ricorrente, collaboratore di giustizia, indagato per un omicidio di mafia, contestava il no opposto alla sua richiesta di sostituire la custodia in carcere con i domiciliari. In più eccepiva la nullità del provvedimento, perché adottato senza prima sentire il Pna. Per quanto riguarda quest’ultimo punto la Suprema corte sottolinea che in alcune pronunce i giudici di legittimità hanno affermato che, in caso di istanza di modifica delle misure cautelari presentata da un “pentito” indagato per reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, la decisione del giudice presuppone, a pena di nullità, l’acquisizione del parere del procuratore nazionale antimafia, anche se non è stata riconosciuta l’attenuante speciale della dissociazione. Un passaggio utile ad accertare l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e valutare il rispetto degli impegni assunti dal collaboratore. Quello che però le precedenti sentenze non hanno specificato è se la nullità, nel caso il Pna, non sia stato sentito, sia assoluta, e dunque insanabile e rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, o a regime intermedio, in quanto riguarda la partecipazione al giudizio del Pm e non la sua iniziativa nell’esercizio dell’azione penale. Per la Suprema corte si tratta di una nullità a regime intermedio e dunque soggetta alla deducibilità. Nel caso esaminato avrebbe dovuto essere eccepita al massimo nell’appello cautelare, cosa che non era accaduta. Malgrado questo la Cassazione accoglie il ricorso. Il tribunale del riesame aveva infatti respinto la richiesta di sostituzione della misura ritenendo “inutile” la collaborazione del ricorrente, perché riguardava fatti già chiariti da altri collaboratori. La misura meno afflittiva non era stata considerata adeguata anche perché non era dimostrata la dissociazione dai clan. Per la Cassazione la decisione va annullata con rinvio: i giudici l’hanno presa senza considerare l’applicazione delle attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti. In più pesa il deficit di conoscenza dovuto alle mancate valutazioni del procuratore nazionale antimafia. Immigrazione, no al permesso per il padre condannato se la madre può occuparsi dei figli di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2020 Non può restare in Italia per assistere il figlio minore il reo extracomunitario che possa contare sulla presenza legittima e radicata sul territorio della madre del bambino. Lo ha precisato la Corte di cassazione con l’ordinanza 6505 del 9 marzo 2020. Protagonista della vicenda un padre che si era visto negare dal Tribunale e in appello l’autorizzazione a restare nel nostro paese per prendersi cura dei figli. Per i giudici non erano stati provati né i problemi di salute dei bimbi né la necessità di sottoporli a cure e controlli. A pesare, poi, il precedente per detenzione illecita di stupefacenti. Reato ostativo da scontare in detenzione domiciliare. Condizione che gli avrebbe impedito di prendersi cura pienamente dei figli. Il ricorso e la Cassazione - Ma l’uomo non si arrende e presenta ricorso. Diverse, a suo avviso, le norme del Testo unico sull’immigrazione (decreto legislativo 286/98) disattese. In violazione dell’articolo 31, intanto, era stato sottovalutato il rischio per i minori di subire un trauma da privazione della figura genitoriale. Minata, poi, l’unità familiare tutelata dagli articoli 28 del Testo unico e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo sradicamento del nucleo, inoltre, mortificava il diritto dei figli alla bigenitorialità. Violati, infine, anche gli articoli 18 del Testo unico e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989. Ma la Cassazione ha bocciato questa tesi. Ecco il perché. Prima di negare la permanenza del familiare di un minore straniero presente in Italia - come precisato dalle sezioni unite con la sentenza 15750/2019 - non ne basta la condanna, anche se per reato ostativo all’ingresso o al soggiorno, se la sua presenza non costituisce una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o per la sicurezza nazionale. Per questa ragione, accertato un saldo rapporto affettivo tra il richiedente e il minore, si dovrà mirare prima di tutto a salvaguardare il benessere del bimbo assicurandogli la presenza del familiare e - solo a fronte di comportamenti gravissimi del genitore che, all’esito di un esame complessivo e oggettivo, si ritenga possano seriamente minare la sicurezza nazionale - negarne la permanenza temporanea. Le ragioni del “no” - Ciò non toglie, tuttavia, che il genitore possa addurre rilevanti motivi a sostegno della domanda. Ma in tal caso, sarà suo onere provarli (Cassazione 773/2020) non potendo farsi scudo di una generica tutela dei figli. Del resto, se è vero che l’autorizzazione momentanea (articolo 31, comma 3, Testo unico) alla permanenza è tesa a proteggere l’equilibrio del minore dalle ripercussioni negative legate all’allontanamento del genitore (Cassazione 4197/2018), è anche vero che qualora sia adeguatamente seguito dall’altro genitore (nella vicenda dalla madre, regolarmente soggiornante, lavoratrice e proprietaria di casa) l’unità familiare, in un bilanciamento di interessi, deve essere sacrificata di fronte alle esigenze prioritarie di difesa del territorio e controllo delle frontiere. Di qui, la soluzione della Cassazione: rigetto del ricorso e diniego di autorizzazione alla permanenza del papà. Il marito che minaccia la moglie perché ritiri le denunce fa violenza privata di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2020 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 7 maggio 2020 n. 14004. Scatta il reato di violenza privata per il marito alcolista che telefonando alla moglie proferisce la frase “ritira le denunce altrimenti ti farò pentire di essere nata”. Il reato si configura allo stato di tentativo se non sortisce l’efffetto voluto da chi lo commette. In questo caso il ritiro delle denunce a suo carico. La Corte di cassazione ha infatti accolto il ricorso della Procura che contestava la decisione del giudice di pace che aveva inquadrato la telefonata minatoria, appunto nel reato di minaccia, invece che nel tentativo di violenza privata. La decisione è contenuta nella sentenza n. 14004depositata ieri, che rimette la causa al tribunale competente annullando il pronunciamento del giudice di pace. La distinzione tra i due reati - Il distinguo tra le due fattispecie, vicine tra loro, sta nella capacità di coartare la volontà e quindi il comportamento di chi è vittima di minaccia. Le minacce, infatti, di per sé già rappresentano un illecito comportamento che determina uno stato di pericolo per chi le riceve, ma non sono per forza finalizzate a ottenere uno specifico comportamento da parte del minacciato. Quando, invece, sussiste la specifica finalità che si realizzi un determinato accadimento a seguito della minaccia scatta - a seguito della coartazione - il reato di violenza privata. Se poi il fatto voluto, cioè la diminuzione della volontà dell’altro, non si realizza il reato è qualificato come tentativo e non decade a semplice minaccia, proprio per il fine concreto e specifico ricercato dal reo. L’uomo in questione un fine specifico ce lo aveva: il ritiro delle denunce a suo carico da parte della moglie. Foggia. In carcere “solo” 430 detenuti: mai così pochi dal 2007 Gazzetta del Mezzogiorno, 11 maggio 2020 Sono gli effetti-benefici della grande fuga di massa di due mesi fa. In 72 scapparono: i 71 riacciuffati e altri 107 reclusi coinvolti nella rivolta, furono trasferiti in altri penitenziari. Continua a produrre anche effetti... benefici la maxi-evasione dal carcere di Foggia del 9 marzo - una delle più clamorosa della storia dei penitenziari italiani visto che 72 detenuti scapparono - se si pensa che i problemi di sovraffollamento della casa circondariale del capoluogo dauno sono tutt’ora in buona parte risolti. Lo dicono i numeri: la popolazione carceraria dai 600 e passa reclusi rinchiusi nella struttura al rione delle Casermette il giorno della fuga di massa, è scesa alle 430 presenze registrate a fine aprile, a fronte di una capienza ottimale di 365 posti nelle 220 celle del carcere di Foggia. Sono i dati ufficiali del Dap, dipartimento amministrazione penitenziaria. Il calo delle presenze è presto spiegato: dei 72 evasi, 71 sono stati riacciuffati (più della metà nelle ore immediatamente successive alla fuga) e/o si sono costituiti, e tutti sono stati trasferiti in altre carceri d’Italia. Inoltre il 12 marzo, tre giorni dopo l’evasione di massa, 250 agenti di polizia penitenziaria (mentre 150 tra carabinieri, finanzieri e poliziotti circondarono il carcere e bloccarono le strade) si occuparono del trasferimento in massa in altri penitenziari di n 107 detenuti ritenuti coinvolti in quella che era nata come una protesta per le limitazioni ai colloqui con i parenti imposte da un decreto del Governo per fronteggiare l’emergenza coronavirus. La protesta iniziata in alcune reparti penitenziari e che coinvolse poi detenuti al passeggio che usufruivano dell’ora d’aria, era sfociata in una rivolta senza precedenti nei 42 anni di vita del carcere del rione Casermette. La sommossa - sulla quale si attendono gli esiti dell’inchiesta avviata dalla Procura per i reati di evasione, resistenza, danneggiamento, incendio, rapina - aveva coinvolto alcune centinaia degli oltre 600 detenuti rinchiusi a Foggia la mattina del 9 marzo, con danneggiamenti; incendi in uffici e locali; tentativo di irruzione nell’abitazione del direttore; decine di reclusi saliti sui tetti a gridare slogan per invocare amnistia e indulto; e soprattutto la fuga di massa dal cancello principale di 72 reclusi. I video dell’evasione di massa, girati da telecamere della zona e cittadini privati, hanno fatto il giro d’Italia. Il trasferimento da Foggia dei 71 evasi riportati in cella e quello di massa di ulteriori 107 detenuti, fece scendere la popolazione carceraria a 430 unità, numeri ora confermati a distanza di 2 mesi dall’evasione. Se fino al 9 marzo la casa circondariale del capoluogo dauno era il secondo penitenziario più affollato degli 11 pugliesi (in cima c’è Lecce con oltre mille carcerati), adesso è sceso al terzo posto, sorpassato da Taranto con 570 reclusi. Al 30 aprile, i numeri del Dap dicono che a Foggia c’erano 430 detenuti, di cui 21 donne e 81 stranieri: a Lucera erano 172 di cui 50 stranieri, a fronte di una capienza ottimale di 135 posti; a San Severo erano 83, di cui 15, mentre la capienza ottimale è di 62 unità. Si tratta della cifra più bassa di detenuti rinchiusi a Foggia negli ultimi 13 anni. Fu nel 2007 infatti che grazie agli effetti prolungati dell’indulto votato dal Parlamento nel maggio 2006, la struttura si svuotò e rimasero “soli” 380 detenuti, ossia un numero quasi pari a quello della capienza ottimale di 365 posti. Poi col passare dei mesi, i problemi di sovraffollamento si ripresentarono sino ad arrivare ad una media di 750 detenuti, con punte di 780, nel 2012/2013. Tant’è che per rimarcare la situazione drammatica delle carceri pugliesi in quegli anni, il procuratore generale della corte d’appello di Bari citò proprio il caso limite di Foggia nella relazione diffusa in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Tra il 2015/2018 si assistette a un calo delle presenze in virtù dello “svuota-carceri” votato in Parlamento: incentivazione degli arresti domiciliari; sconti di pena per buona condotta passati da 45 a 75 giorni per semestre; possibilità di scontare l’ultimo periodo di pena ampliata da 12 a 18 mesi. E infatti la popolazione carceraria oscillò tra le 490 e le 560 presenze: a marzo 2018 si toccò la cifra più bassa con 468 detenuti. Poi il nuovo aumento che negli ultimi due anni ha visto superare costantemente quota 600 detenuti, con punte sino a 650. Sino alla grande fuga del 9 marzo scorso. Genova. Coronavirus, negativi al tampone 17 detenuti del carcere di Marassi di Giovanni Porcella primocanale.it, 11 maggio 2020 Sono risultati tutti negativi al primo tampone 17 detenuti e 13 addetti del personale del carcere genovese di Marassi sottoposti al test per rilevare la presenza del Coronavirus. I test sierologici effettuati da Alisa avevano evidenziato valori alti per alcuni detenuti e personale addetto e dunque c’era la possibilità che questi avessero contratto il virus. I detenuti erano stati messi in isolamento. Ora servirà fare un secondo tampone per fugare i dubbi. Il test infatti può dare dei falsi negativi. Il Sappe Liguria (sindacato autonomo di polizia penitenziaria) chiede che tutto il personale del penitenziario, compresi gli agenti dunque, possa fare il test per rilevare eventuali positivi, così come anche tutti i detenuti. “Secondo noi per impedire il contagio all’interno degli istituti - spiega il Sappe Liguria - bisogna attuare un protocollo di controllo anche serrato sulle persone che accedono in istituto”. Al momento il test sierologico è stato effettuato su 370 detenuti su 700. “Le epidemie generano timori diversi rispetto a terrorismo e terremoti” di Monica Virgili Corriere della Sera, 11 maggio 2020 Valentina Di Mattei, psicologa clinica e docente all’Università del San Raffaele, riflette sul “dopo”: “Occasione per far capire ai più piccoli che cos’è il senso di responsabilità”. E poi? Dopo le mascherine, gli scaffali vuoti del supermercato, gli eventi rimandati che cosa succede? Quando l’ondata del contagio si ritirerà quali segni resteranno nella nostra psiche di questi giorni di ordinaria emergenza? “Finita la fase dell’allarme e dei comportamenti governati dalla parte più irrazionale - il cervello limbico - si tornerà a ragionare in modo più razionale” dice Valentina Di Mattei, psicologa clinica e docente all’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano. Quanto può durare la fase di allarme nella nostra testa? “Dipende dall’andamento degli eventi, ma la prima fase di reazione istintiva, intensa, quella che porta a fare le scorte alimentari senza che ci sia una ragione o a chiamare i numeri di soccorso anche senza una vera necessità è destinata ad esaurirsi in poche settimane”. Il contagio da coronavirus ha introdotto un nuovo tipo di paura? “Nei giorni “caldi” non sembra ci sia stato tanto il timore del contagio quanto la paura di qualcosa di invisibile e imprevedibile che è arrivato all’improvviso nelle nostre vite e ci ha fatto perdere la percezione di mantenere il controllo. Il lavoro, la scuola, la partita di calcetto rappresentano la routine rassicurante. Le nuove misure cautelative hanno spezzato la routine e introdotto una nuova quotidianità cui bisogna abituarsi”. Hanno creato più timori le disposizioni cautelative del virus stesso? “Sembra paradossale, ma è così. Il fatto è che a differenza di quello che succede in altre culture siamo poco abituati a ragionare in modo collettivo, prevale spesso l’ego, che in alcuni casi dà origine a comportamenti discutibili come aggirare i divieti”. Abbiamo sperimentato altre grandi paure collettive, come quella per il terrorismo o per i terremoti. Sono vissute in modo diverso? “La prima fase dell’allarme produce comportamenti simili, ma si ha una percezione diversa del pericolo. Con il terrorismo c’era il timore di uscire di casa per prendere treni o aerei che potevano essere obiettivi di attacchi, in questo caso non c’è un nemico fisico da evitare. Anche di fronte alle catastrofi naturali c’è qualcosa di reale da vedere, le macerie, i danni, la trasformazione del territorio, che rende concreta la paura. In questo caso non c’è invece nulla che si possa vedere, senza i divieti e le aree isolate, non sarebbe cambiato niente nelle nostre vite”. Dall’ansia possiamo trarre qualcosa di positivo? “C’è il rischio di essere fraintesi, ma è un’emozione che può farci bene se sappiamo gestirla. Possiamo sfruttarla come occasione educativa. Contro il virus le nostre armi al momento sono solo norme comportamentali e igieniche, ecco approfittiamone per far capire ai bambini il senso di responsabilità: lavarsi le mani spesso e non uscire di casa se si teme di essere stati a contatto con persone infette sono azioni civili. Cogliamo l’occasione anche per far comprendere l’importanza dei nostri comportamenti per tutelare la salute, e non affidarsi al pensiero un po’ magico del “faccio quello che voglio tanto poi c’è una pillola che risolve tutto”“. Resterà un segno nei bambini? “Soprattutto i piccoli è probabile che abbiano vissuto la chiusura delle scuole come una vacanza. Mi sembra che l’ansia sia stata più dei genitori con la mania di organizzare il tempo dei figli. Si pensa, sbagliando, che i bambini o i ragazzi non riescano a sopravvivere a casa senza fare niente, ma non è così”. E gli anziani? “Sono i soggetti più fragili, e non solo perché più vulnerabili al virus. Sottolineare, come è stato fatto in modo indelicato ed eccessivo, che le vittime avevano un’età avanzata risponde al desiderio di esorcizzare il problema, serve a riportarlo nei binari della normalità. Un meccanismo che scatta nelle persone che appartengono a una fascia d’età minore, che infatti è quella che veicola l’informazione, ma che può far male a chi invece è più grande e rischia interpretarla come una specie di condanna ineluttabile. Anche in questo caso la paura dovrebbe lasciare spazio alla razionalità. Gli anziani, visto che non vanno al lavoro, sono anche le persone che hanno più facilità ad adottare le misure precauzionali, come evitare spostamenti e luoghi affollati”. Ci saranno più depressi? “È presto per dirlo, sicuramente le persone più fragili sono più turbate da eventi straordinari”. Le emergenze creano anche un “effetto comunità”? “Nelle emergenze cadono le barriere e a volte si è più disponibili a vedere le difficoltà degli altri. Ne è un esempio il lavoro da remoto, che probabilmente avrà uno sviluppo nel futuro prossimo e che viene incontro alle necessità di molte persone con oggettive difficoltà di movimento che fino a ora non sono riuscite a ottenere lo smart-working. Per contro ci sono anche aspetti negativi, come la sovra-informazione: siamo stati bombardati da troppe notizie, troppi dettagli, che rischiano di mandare in confusione, far crescere l’ansia e alla fine percepire in modo sbagliato il livello di rischio”. Del virus si è parlato tanto anche attraverso i social, e con ironia: questo aiuta? “Molto. È un meccanismo di difesa che serve a contenere l’ansia. I social, censurabili quando diffondono odio e fake news, possono diventare un veicolo per esorcizzare i timori con una battuta e un sorriso”. Migranti, gli alleati litigano ancora. Lamorgese tenta la mediazione di Alessandro Trocino Corriere della Sera Il “decreto Rilancio” dell’economia è stato rinviato: nel governo restano alcuni nodi da sciogliere, come quello della regolarizzazione dei migranti. Sulla regolarizzazione dei migranti è stallo nel governo. La trattativa che va avanti da giorni ha raggiunto una condivisione su un testo di base, ma si è incagliata sulla durata del rinnovo del permesso di soggiorno, con la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo e i 5 Stelle che frenano e si mettono di traverso. La soluzione ancora non c’è e la discussione si è trasferita al tavolo di Palazzo Chigi, tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i capi delegazione. Tra i molti argomenti del decreto atteso per oggi, si è discusso a lungo anche sulla proposta di mediazione, messa agli atti dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Da settimane lavorano a un tavolo tecnico quattro ministri: oltre alla Lamorgese e Catalfo, ci sono la renziana Teresa Bellanova e Giuseppe Provenzano. L’idea è quella di intervenire in aiuto del settore in crisi dell’agricoltura (carente soprattutto di stagionali, con conseguenze disastrose per i raccolti). e del lavoro domestico, attraverso una regolarizzazione che faccia emergere i lavoratori in nero. Lo schema dell’accordo prevede due leve, spiegato così dalla Lamorgese: “Con la prima, il datore di lavoro ha la possibilità di concludere un contratto di lavoro subordinato per chi è impiegato in modo irregolare in agricoltura e nei lavori domestici e di assistenza. Questa possibilità riguarda sia l’emersione dei lavoratori irregolari italiani sia di quelli stranieri presenti sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020. Con la seconda leva, invece, si dà al lavoratore straniero, che ha un permesso di soggiorno scaduto dopo il 31 ottobre 2019 e ha già svolto attività lavorativa in questi due settori, la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo che è convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro solo se esibisce un contratto di lavoro subordinato entro il termine indicato”. La prima proposta era della renziana Bellanova e prendeva in considerazione una durata di sei mesi per il rinnovo del permesso di soggiorno temporaneo. Ma i 5 Stelle si sono arroccati e, preso atto delle forti divisioni interne, la ministra Catalfo ha rilanciato con un periodo massimo di un mese. Lasso di tempo decisamente breve e poco praticabile. La ministra Lamorgese ha quindi lanciato la sua mediazione che prevede un periodo di tre mesi, sulla quale convergono sia la Bellanova sia Provenzano. Resta il niet dei 5 Stelle. Il problema è che se non si trova una sintesi si rischia di vanificare tutto, compromettendo sia le esigenze di sicurezza, sia quelle del mercato del lavoro. Intanto è arrivato il parere del Comitato Tecnico Scientifico sulla richiesta che era stata fatta dal ministro per le Politiche agricole alimentari e forestali Bellanova. Il parere, di primo acchito, sembra negativo. Perché spiega che “la richiesta non attiene all’ambito d’intervento del Comitato, che ha esclusiva competenza per valutazioni in ambito sanitario relative all’attuale epidemia di Sars-CoV-2”. Ma poi aggiunge: “Il Comitato valorizza il potenziale rischio descritto nella nota del Sig. Ministro rappresentato da una comunità di persone che vivono in condizioni igienico-ambientali degradate, senza alcuna possibilità di azioni di prevenzione, in particolare per l’epidemia in corso, per questa categoria di lavoratori che si appresta ad essere impiegata sul territorio nazionale in attività agro-alimentari”. L’impiego, senza regolarizzazione, di queste persone, spiega il Comitato “comporta il rischio di contagi interpersonali decisamente pericolosi per “i lavoratori stranieri irregolari e privi di permesso di soggiorno” e per la popolazione residente nelle medesime aree dove i migranti saranno destinati al lavoro”. Silvia Romano e il percorso verso la conversione: “Ho chiesto il Corano, ora mi chiamo Aisha” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 11 maggio 2020 Il racconto della prigionia in un diario, mentre c’è chi dice che l’abbiano fatta sposare con uno dei carcerieri, addirittura che sia incinta. Ai suoi carcerieri Silvia Romano aveva chiesto un quaderno. Voleva appuntare ogni dettaglio, annotare date e spostamenti, esprimere sensazioni. È diventato il suo diario. I carcerieri glielo hanno preso prima di liberarla, ma adesso, seduta di fronte al pubblico ministero Sergio Colaiocco e ai carabinieri del Ros, le consente di ricostruire i suoi 18 mesi di prigionia. Lo fa con la voce squillante, il tono sereno, anche se il movimento delle mani tradisce l’emozione e le sofferenze patite. Un racconto angosciante che la giovane volontaria catturata il 20 novembre 2018 in un villaggio del Kenya aveva cominciato con la psicologa che l’ha accolta all’ambasciata di Mogadiscio e le è rimasta sempre accanto anche sul volo che l’ha riportata in Italia. A lei Silvia ha confermato di essersi convertita. Soltanto a lei ha rivelato che “adesso mi chiamo Aisha”. Il viaggio di un mese verso la Somalia - Torna indietro nel tempo Silvia e ricorda i momenti della cattura, i tre uomini che la portano via dal villaggio Chakama, a 80 chilometri da Malindi dove lavora per la Onlus “Africa Milele”. Sono gli esecutori, la consegnano subito alla banda che ne ha ordinato il sequestro. Comincia il viaggio per arrivare in Somalia. “È durato circa un mese. All’inizio c’erano due moto, poi una si è rotta. Abbiamo fatto molti tratti a piedi, attraversato un fiume. C’erano degli uomini con me, camminavamo anche per otto, nove ore di seguito. Erano cinque o sei”. Quando si sparge la notizia che sia rimasta ferita nel conflitto a fuoco e qualcuno ipotizza che possa essere morta, la ragazza è già arrivata nel primo covo. È l’unica donna, la chiudono in una stanza. Ho pianto per un mese - I primi giorni sono drammatici. “Ero disperata, piangevo sempre. Il primo mese è stato terribile”. Poi piano piano si tranquillizza. “Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male, che mi avrebbero trattata bene. Ho chiesto di avere un quaderno, sapevo che mi avrebbe aiutata”. Diplomazia e intelligence sono già al lavoro, cercano un canale per la trattativa convinti che sia ancora in Kenya. È stata la polizia locale ad assicurare che la giovane è sul loro territorio, invece a Natale del 2018 Silvia ha già passato il confine. È stato evidentemente anche questo a ritardare l’attivazione dei canali giusti, ma gli specialisti dell’Aise guidati dal generale Luciano Carta dopo qualche mese riescono comunque ad afferrare un filo. La traccia porta al gruppo fondamentalista Al Shabab. Il negoziato comincia con la richiesta di una prova in vita. Silvia intanto è già stata spostata in una nuova prigione. “Stavo sempre in una stanza da sola, dormivo per terra su alcuni teli. Non mi hanno picchiata e non ho mai subito violenza”. Mentre lo dice Silvia non sa che fuori dalla caserma c’è chi dice che l’abbiano fatta sposare con uno dei carcerieri, addirittura che sia incinta. Non lo sa ma le sue parole bastano: “Non sono stata costretta a fare nulla. Mi davano da mangiare e quando entravano nella stanza i sequestratori avevano sempre il viso coperto. Parlavano in una lingua che non conosco, credo in dialetto”. Lei chiede di poter leggere. “Uno di loro, solo uno, parlava un po’ di inglese. Gli ho chiesto dei libri e poi ho chiesto di avere anche il Corano”. È in questo momento che inizia, probabilmente, il suo percorso di conversione. “Sono sempre stata chiusa nelle stanze. Leggevo e scrivevo. Ero certamente nei villaggi, più volte al giorno sentivo il muezzin che richiamava i fedeli per la preghiera”. “Mi hanno fatto girare tre video” - Passano le settimane, Silvia viene spostata di nuovo. “Non ho mai visto donne, soltanto quegli uomini che mi tenevano prigioniera”. Il canale di trattativa intanto rimane aperto, sia pur tra mille difficoltà. Ma evidentemente funziona perché Silvia racconta che le hanno fatto girare un video in cui deve dire il suo nome, la data, assicurare che sta bene. L’intelligence italiana collabora con i colleghi somali, ma ottiene aiuto anche dalla Turchia che in quell’area ha un’influenza molto forte ed evidentemente sa attivare i contatti giusti. Le “fonti” sono rassicuranti, per avere informazioni certe sono necessarie settimane. Gli 007 tengono costantemente informati il ministro degli esteri Luigi Di Maio e il premier Giuseppe Conte che ha la delega ai servizi segreti. L’unità di crisi della Farnesina gestisce i rapporti con i familiari. A novembre, pochi giorni prima del primo anniversario della cattura, arriva la certezza che Silvia è viva. Il video è evidentemente arrivato a destinazione. “Durante la prigionia - racconta adesso Silvia - ne ho girati tre”. “Segregata in sei prigioni” - C’è la guerra civile in Somalia, gli spostamenti sono difficoltosi. I rapitori decidono comunque di cambiare prigione. Alla fine Silvia ne conta sei, annota tutto nel diario. Lo ripete ora. “Ci muovevamo a piedi o in macchina. Trasferimenti lunghi, faticosi”. Il 17 gennaio gira un altro video. Non lo immagina ma alla fine sarà proprio quel filmato a garantirle la salvezza. Intanto si è convertita. “Leggevo il Corano, pregavo. La mia riflessione è stata lunga e alla fine è diventata una decisione”. Soltanto il tempo dirà se e quanto su questa scelta abbia influito la pressione psicologica subita in questi 18 mesi, la sindrome che spesso lega gli ostaggi alla realtà dei rapitori. Il magistrato e i carabinieri la lasciano parlare senza fare domande, se non quelle che riguardano eventuali violenze. E lei nega di nuovo. I suoi ricordi sono precisi, il suo racconto è zeppo di date e circostanze. E mentre lo fa appare calma, seppur provata. “Venivo spostata ogni tre, quattro mesi, ma a quel punto non avevo più paura”. Di riscatto dice di non aver mai sentito parlare “ma avevo capito che volevano soldi”. Il gruppo è accusato di aver rapito altri occidentali. “Io non ho mai visto nessun altro”, assicura Silvia. L’annuncio sette giorni fa: “Ti liberiamo” - All’inizio di quest’anno la trattativa entra nella fase finale. Si pagano altre fonti, ci si prepara a versare il riscatto. La cifra totale potrebbe oscillare tra i due e i quattro milioni di euro, fondi riservati di cui nessuno avrà mai traccia come sempre accade in questi casi. Poi arriva l’epidemia da coronavirus, il mondo entra in lockdown, la gestione dei contatti appare più difficoltosa, ma comunque prosegue. A metà aprile l’intelligence ottiene il video della prova in vita. “Sono Silvia Romano, è il 17 gennaio”. È trascorso del tempo ma dalla Turchia arrivano nuovi riscontri, il via libera a trattare ancora. Fino a una settimana fa. Quando vengono presi gli accordi per lo scambio. Silvia viene avvisata dai carcerieri: “Ti liberiamo”. Lo conferma adesso lei al magistrato. È l’inizio della fine, il conto alla rovescia per tutti. “Lo scambio e il ritorno a casa” - Venerdì 8 maggio, mentre a Mogadiscio ci sono diverse esplosioni gli emissari dell’intelligence prelevano l’ostaggio. Un viaggio in macchina di circa 30 chilometri e dopo una sosta intermedia Silvia entra in ambasciata. “Sto bene, sono stata trattata bene”, assicura all’ambasciatore Alberto Vecchi. Indossa gli abiti locali, non vuole toglierli. Mangia una pizza, dorme finalmente in un letto. Accanto a lei ci sono sempre gli uomini dell’intelligence e la psicologa che raccoglie il suo primo racconto, la assiste se ha bisogno di rimettere a posto i pensieri. Le parla della conversione, le rivela come ha deciso di chiamarsi. Le spiega che di tutto questo parlerà con la sua famiglia, con sua mamma. “A lei, spiegherò ogni cosa”, dice prima di scendere dalla scaletta dell’aereo di Stato che l’ha riportata a casa. Tra carcere e sanità, tutte le difficoltà delle Filippine di Duterte di Francesco Valacchi affarinternazionali.it, 11 maggio 2020 Il governo del presidente “sceriffo” Rodrigo Duterte si trova ad affrontare una situazione scottante: ad onta delle eccezionali misure messe in forza e minacciate con il lockdown contro la pandemia Covid-19 nelle Filippine sono stati ufficialmente conteggiati circa diecimila contagi con larga proporzione fra il personale sanitario. Pare che proprio il personale medico e infermieristico sia essenzialmente stato lasciato esposto alla malattia nella prima fase della diffusione, salvo poi rendersi conto della carenza di tali specificità di lavoratori nell’arcipelago. In marzo il presidente Duterte ha imposto una serie di misure di lockdown selettive e restrittive che a partire dalla metà del mese hanno riguardato soprattutto l’isola settentrionale di Luzon, dove si trova la capitale Manila. Con una popolazione di quasi due milioni di abitanti e la sua area metropolitana che supera i dodici milioni - per non parlare del fatto che è la città con maggior densità di popolazione al mondo - Manila era apparsa da subito come l’area più esposta alla diffusione del contagio. Manila città fantasma - Le restrizioni nell’isola maggiormente interessata sono state durissime e le Forze armate sono state immediatamente schierate con l’ordine perentorio di usare la forza anche letale per arrestare eventuali violazioni delle misure di isolamento. Anche i controlli in uscita ed in entrata dall’isola sono stati capillari, seppur nei primi giorni l’organizzazione del governo filippino fosse carente sul terreno soprattutto di mezzi: termometri per la misurazione della temperatura, terminali per il controllo dei documenti e anche i fondamentali dispositivi di protezione dei militari (mascherine e guanti). L’impressione che dà la megalopoli di Manila, specialmente nei quartieri dei servizi e residenziali, dove la vita è completamente azzerata, è di stordimento generale; una vera e propria città fantasma. La specificità dell’azione del governo di Duterte appare essere la precisa differenziazione tra misure definite di Enhanced Community Quarantine (Ecq) e più permissivo distanziamento sociale. Nel primo caso qualsiasi tipo di attività al di fuori dell’abitazione di residenza è espressamente vietata a parte l’attività lavorativa dei settori strettamente necessari alla sopravvivenza, non è permesso nessun tipo di attività sportiva o di beneficienza ed è consentito fare spesa di beni alimentari una volta al giorno. Nel secondo caso vengono imposte restrizioni meno rigide (ma che azzerano comunque le possibilità di movimenti tra regione e regione a meno di stretta necessità). A partire da maggio le misure di quarantena più strette sono mantenute, oltre che per la capitale, per l’area centrale dell’isola Luzon e per alcune sue province meridionali e settentrionali; per le province di Pangasinan, di Antique, di Albay, di Cebu e di Davao del Norte; per gran parte dell’isola di Mindoro, per l’isola di Catanduanes; per le città di Iloiolo, Bacolod e Davao. Tale situazione dovrebbe durare sino alla metà del mese, prevedendo, in caso di riduzione dei contagi, successivi allentamenti delle misure. Scarcerazione di quasi 10mila detenuti - Le principali e più scottanti questioni che deve affrontare il governo di Rodrigo Duterte nell’immediato frangente sono legate alla condizione contingente del personale sanitario e alla sicurezza del sistema carcerario filippino. La Corte suprema ha annunciato la scarcerazione di oltre 9.700 detenuti a scopo preventivo, essenzialmente in attesa di giudizio, per le tragiche condizioni di sovraffollamento delle carceri filippine. Il caso più eclatante di diffusione del virus si è verificato in due istituti detentivi della provincia di Cebu, dove su circa 8mila detenuti ne risultavano contagiati circa 350 al 1° maggio. La liberazione dei detenuti senza preavviso e senza un’adeguata analisi a priori potrebbe portare a gravi problemi di sicurezza e quantomeno ad una problematica prosecuzione dell’azione penale se molti di loro tentassero di entrare in clandestinità. Personale sanitario in “fuga” dal Paese - Per quanto concerne la grande problematica del personale sanitario si tratta di una complessa situazione andatasi a corroborare negli scorsi anni: tra l’ultimo decennio del secolo scorso e i primi anni Duemila, la sanità filippina ha subito un eccezionale drenaggio di lavoratori della sanità a favore di Paesi come l’Arabia Saudita, il Regno Unito e gli Stati Uniti (dove ad esempio il personale di origine filippina rappresenta il 4% del totale degli infermieri). L’esilio è dipeso senza dubbio dai salari molto bassi dei professionisti del settore sanitario (dottori, infermieri ma anche semplici operatori di base) e dalla compressione dei loro diritti, come ad esempio la pratica pluriennale di tirocinio obbligatoria soggetta solo a rimborso spese per molti infermieri. Allo scoppiare dell’emergenza il sistema sanitario filippino si è ritrovato a dover implementare il proprio organico di personale specializzato e ci si è resi immediatamente conto della carenza di personale qualificato nell’arcipelago. Oltre a ciò, le precarie condizioni di molti ospedali e l’iniziale carenza di dispositivi di protezione individuali hanno causato un sensibile numeri di contagi fra medici e infermieri. Duterte e il suo ministro della Salute, Francisco Duque, stanno cercando di porre soluzione alle criticità con misure drastiche (come il blocco totale di personale legato alle professioni sanitarie in uscita dal Paese) e di contenimento, distribuzione di mezzi di protezione e controllo costante delle condizioni di lavoro del personale, ma la situazione sembra tutt’oggi ancora molto complessa. Bahrain. Il coronavirus aggrava le violazioni dei diritti umani di Irene Masala osservatoriodiritti.it, 11 maggio 2020 Repressione del dissenso, limitazioni a libertà d’espressione e di movimento della popolazione, torture e privazione della cittadinanza. Ecco come il governo del Bahrain mette a tacere donne, attivisti, difensori dei diritti umani e oppositori. Lo denuncia l’Americans for Democracy and Human Rights in Bahrain. La minaccia globale posta dalla pandemia, causata dalla diffusione del coronavirus, rischia di assestare il definitivo colpo di grazia al rispetto dei diritti umani in diversi Paesi del mondo. Tra i più a rischio c’è il Regno del Bahrain, un piccolo stato tra grandi vicini. Il Bahrain, governato dalla famiglia reale Al Khalifa, si trova infatti in un arcipelago tra l’Arabia Saudita e il Qatar. L’emergenza sanitaria sta esacerbando alcune problematiche precedenti alla pandemia, tra cui la condizione di attivisti e prigionieri politici detenuti nelle carceri del Bahrain. Bahrain e coronavirus: la situazione dei detenuti - “Il governo del Bahrain si è dimostrato incapace di preservare le minime condizioni igieniche all’interno dei centri di detenzione, oltre al negare volontariamente le cure ad attivisti e oppositori politici attualmente reclusi”. Esordisce così Husain Abdulla, direttore esecutivo dell’Americans for Democracy and Human Rights in Bahrain (Adhrb), intervistato da Osservatorio Diritti. “Per questo motivo stiamo cercando di far rilasciare i prigionieri di coscienza durante questa pandemia: se il virus dovesse diffondersi tra i detenuti, il sistema detentivo del Bahrain non sarebbe in grado di fornire le protezioni e le cure mediche minime ai detenuti, il numero di infetti sarebbe elevato”. L’Adhrb è una delle organizzazioni firmatarie, insieme ad altre come Amnesty International e Human Rights Watch, di una lettera rivolta al governo del Bahrain nella quale si chiede l’immediato rilascio dei prigionieri di coscienza e dei prigionieri politici detenuti per aver manifestato pacificamente le proprie opinioni. Sono ancora tantissimi infatti i leader dell’opposizione arrestati per il coinvolgimento nei movimenti di protesta del 2011 per i quali non è stato prospettato alcun rilascio. Il 17 marzo 2020 il Bahrain ha decretato il rilascio di 1.486 prigionieri. Ma secondo il Centro per i diritti umani del Bahrain, su 1.486 detenuti i rilasciati con accuse politiche sarebbero solo 394. Inoltre le prigioni del Bahrain soffrivano di un preoccupante sovraffollamento che ora rischia di aggravarsi sensibilmente a causa della diffusione del coronavirus. Nel 2011, sulla scia delle primavere arabe, più della metà della popolazione del Bahrain è scesa in piazza per manifestare contro la corruzione diffusa nel Paese, contro le disuguaglianze sociali e l’oppressione del governo. Le autorità locali hanno represso le proteste con la forza e dal 2011 a oggi continuano ininterrotte le violazioni dei diritti umani. “In questi anni la situazione non è migliorata, di fatto si è ulteriormente deteriorata. Moltissimi attivisti sono stati fatti tacere chiudendoli in prigione o giustiziandoli. La libertà di espressione è fortemente attaccata, la libertà di associazione non esiste e le persone non sono libere di viaggiare: per esempio, gli attivisti non possono partecipare ai forum internazionali per le conseguenze che potrebbero esserci al loro ritorno”, sottolinea Husain Abdulla. L’Adhrb ha monitorato e documentato più di mille casi di tortura da parte del governo nei confronti di attivisti e difensori dei diritti umani. “Possiamo dire con sicurezza che la maggior parte delle persone arrestate viene sottoposta a tortura o ad altri trattamenti degradanti. Durante le custodie cautelari i prigionieri vengono spesso stuprati o attaccati sessualmente, vengono tenuti in isolamento e privati delle cure mediche. Vi sono sia torture fisiche che psicologiche ed emotive. Moltissime persone hanno paura di twittare o postare sui social media per gli arresti e le torture che ne conseguirebbero. Per le strade le forze di sicurezza si comportano in modo brutale anche contro proteste pacifiche”. “Il futuro di una persona può essere essenzialmente distrutto, questo è il messaggio che gli al-Khalifa mandano ogni giorno alla popolazione: possono distruggere il futuro e la vita di chiunque, ci possono essere ripercussioni anche contro le famiglie, anche oltre i confini del Bahrain”. Negli ultimi dieci anni infatti attivisti, difensori dei diritti umani, membri di Ong, giornalisti e oppositori politici sono stati sistematicamente licenziati, arrestati e condannati, in alcuni casi con pene che possono variare dai 15 anni di reclusione fino all’ergastolo, per aver espresso la loro opinione contro il governo. Un’altra prassi usata dall’esecutivo come deterrente per le opposizioni è quella della revoca della cittadinanza. Dal 2012 a oggi sono circa 900 le persone a cui è stata revocata la cittadinanza, 550 delle quali sono riuscite a riottenerla tramite decreto reale. “La sola pratica di revocare la cittadinanza per poi reintegrarla fa vedere come il governo si comporta nei confronti del popolo. Hanno il potere di decidere sull’identità di una persona”, riferisce Husain Abdulla. “Le conseguenze della revoca della cittadinanza sono molto gravi: non si può viaggiare, si perdono tutti i diritti civili di cittadino, molto spesso si perde il lavoro, i figli non possono avere la cittadinanza, non si riceve l’assistenza medica statale, non si può studiare in scuole e università pubbliche se non pagando come farebbe uno straniero, se si è stata fatta richiesta di una casa popolare la si perde. Si viene trattati come stranieri nel proprio paese. Il solo impatto emotivo e psicologico è tremendo”. Un’altra situazione che desta preoccupazione tra i difensori dei diritti umani è la condizione delle donne all’interno della società. “Nonostante la costituzione preveda parità di genere, permane ancora discriminazione sia nella legislazione sia nella società bahreinita. L’esempio più chiaro è il sistema di custodia vigente che prevede un “guardiano” maschio per ogni donna bahreinita che può essere il marito, il padre, il fratello o persino un figlio”. Così Abdulla introduce alla tematica femminile. “Le donne bahreinite hanno inoltre una limitata partecipazione alla vita politica e sociale del paese, nonostante la situazione sia migliorata negli ultimi anni. Per ultimo, ai prigionieri politici di sesso femminile sono riservati trattamenti degradanti e disumani che nella maggior parte dei casi sfociano in minacce di aggressione sessuale o in aggressioni sessuali e stupri veri e propri, come documentato più volte da Adhrb”. L’associazione, in collaborazione con l’Istituto per i diritti e la democrazia del Bahrain (Bird), ha pubblicato un report nel settembre del 2019 dal titolo Breaking the Silence: Bahraini Women Political Prisoners Expose Systemic Abuses. Nel documento sono stati monitorati ed esposti i casi di nove donne, arrestate per ragioni politiche tra il febbraio del 2017 e il 2019. Le intervistate hanno subìto arresti illegali, torture fisiche e psicologiche e stupri spesso usati come arma per estorcere confessioni. Dal lavoro dell’Adhrb è emersa anche la complicità del governo del Regno Unito e degli Stati Uniti con quello del Bahrain. “Ci sono diverse ragioni dietro a questo supporto tra cui cooperazione militare, interessi economici o interessi geopolitici nella regione, in cui il Bahrain gioca un ruolo fondamentale. Sia il Regno Unito sia gli Stati Uniti chiudono sempre un occhio quando si parla di violazione dei diritti umani in Bahrain. Questo ha fatto sì che il governo del Bahrain avesse una sorta di “via libera” per continuare la campagna su larga scala di arresti, torture, detenzioni arbitrarie, attacchi di natura sessuale su difensori dei diritti umani di sesso femminile e molto altro”. Anche l’Italia non è estranea a queste dinamiche. “Sfortunatamente, il governo italiano e l’ambasciatrice italiana in Bahrain non stanno seguendo o non tengono conto delle linee guida dell’Unione Europea sui difensori dei diritti umani. L’ambasciata rifiuta di incontrare gli attivisti, le famiglie e i legali che si occupano di diritti umani, ed è un fatto estremamente preoccupante: sono stati messi da parte non solo le linee guida europee, ma anche i principi cardine della nostra cultura”, denuncia il direttore dell’Adhrb. “Al momento - conclude - i soldi sono in grado di comprare l’accesso all’Italia. Un esempio è la cattedra dell’Università La Sapienza per il dialogo interreligioso dedicata al re del Bahrain e finanziata dalle istituzioni bahreinite. Hanno creato corsi sul dialogo interreligioso mentre in Bahrain la maggioranza sciita viene fortemente discriminata”.