Mafiosi scarcerati, la posizione sarà rivalutata ogni mese di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2020 Il Dl Bonafede ieri al Cdm: decideranno i magistrati di sorveglianza. Ogni mese i magistrati di sorveglianza rivaluteranno la posizione di chi, condannato definitivamente per reati di mafia, è stato scarcerato e destinato alla detenzione domiciliare per l’emergenza sanitaria. Ogni mese altrettanto farà il pubblico ministero per chi ha visto sostituire la misura cautelare della detenzione con quella degli arresti domiciliari, sempre per effetto dell’epidemia da Covid-19. E poi colloqui fino al 30 giugno via video o telefono, fatto salvo il diritto ad almeno un colloquio al mese in presenza. Questi i contenuti principali dei 7 articoli del decreto legge esaminato ieri sera dal Consiglio dei ministri per affrontare il nodo scarcerazioni provocato dall’emergenza sanitaria. Il provvedimento, frutto della mediazione tra le forze di maggioranza e un confronto con il Quirinale, interviene per consentire un nuovo esame della posizione degli aderenti alla criminalità organizzata o organizzazioni terroristiche che, già condannati definitivamente oppure ancora imputati ma in detenzione preventiva, sono stati scarcerati sulla base delle condizioni sanitarie determinate anche dal coronavirus. La situazione, cavalcata dalle opposizioni che hanno presentato una mozione di sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è precipitata quando il 21 marzo scorso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (il cui direttore è stato poi sostituito), ha inviato una circolare ai direttori delle carceri invitandoli a segnalare all’autorità giudiziaria i detenuti a rischio Covid. I giudici hanno iniziato a disporre i domiciliari anche per detenuti per mafia, con problemi di salute, verificata l’assenza di posti idonei nei centri sanitari penitenziari. Alla fine, ad avere beneficiato della scarcerazione sono stati 376 detenuti per reati gravi (155 condannati, 196 imputati; 21 in affidamento ai servizi sociali e 4 con esecuzione presso il domicilio di pene inferiori all’anno), solo 3 di questi erano al 41bis. Il decreto ovviamente distingue la posizione dei condannati a titolo definitivo da quella di chi è ancora in attesa del giudizio finale. Identico però l’obiettivo: mettere nelle mani dell’autorità giudiziaria, sia essa rappresentata dal magistrato di sorveglianza piuttosto che dal pm, la riconsiderazione delle ragioni sanitarie che hanno determinato la momentanea cessazione della detenzione a fare data dal 30 febbraio. E questo sulla base di almeno 2 elementi: da una parte la permanenza delle ragioni legate al Covid-19, in una fase di attenuazione dell’emergenza, dall’altra la verifica sulla disponibilità di posti disponibili nei reparti di medicina protetta presso le carceri. In quest’ultimo caso, tra l’altro, è anche possibile un’anticipazione dei termini di effettuazione della verifica rispetto al primo, che sarà di 15 giorni, e a quelle successive, mensili. Nel caso dei condannati al 41bis sarà necessaria anche l’acquisizione del parere della procura distrettuale antimafia e di quella nazionale. Il decreto interviene poi su un altro tema sensibile nelle carceri, i colloqui, che, dal 19 maggio al 30 giugno, potranno essere svolti a distanza. Il direttore del carcere, dopo avere sentito le autorità sanitarie locali, determinerà il numero massimo di colloqui da svolgere in presenza, restando fermo il diritto del detenuto a potere usufruirne di almeno uno al mese. Coronavirus, quindici giorni per rivalutare i casi dei boss scarcerati per la pandemia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 maggio 2020 La decisione sulle scarcerazioni per motivi di salute “connessi all’emergenza Covid” dei detenuti per mafia e droga, resterà esclusiva competenza dei magistrati di sorveglianza. La decisione sulle scarcerazioni per motivi di salute “connessi all’emergenza Covid” dei detenuti per mafia e droga, resterà esclusiva competenza dei magistrati di sorveglianza. Tuttavia, nei quindici giorni successivi alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del decreto-legge approvato ieri sera, 9 maggio, dal Consiglio dei ministri (appositamente convocato dal premier Giuseppe Conte), giudici e tribunali dovranno “valutare la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria, e successivamente con cadenza mensile”. Questo per verificare se il mutamento della situazione può consentire il rientro in prigione o debba essere confermata la detenzione domiciliare o la sospensione della pena. La richiesta all’Autorità sanitaria regionale - In ogni caso, prima di emettere il nuovo provvedimento, i magistrati dovranno chiedere all’Autorità sanitaria regionale se ci siano posti disponibili nelle strutture penitenziarie o nei reparti protetti degli ospedali dove “il condannato” possa “riprendere la detenzione senza pregiudizio per le sue condizioni di salute”. E ancora: “La valutazione è effettuata immediatamente” se per qualche caso specifico il Dap comunicasse una soluzione interna al circuito penitenziario in precedenza non individuata. È questo il cuore della riforma varata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per fronteggiare la contro-emergenza delle scarcerazioni fomentata dalla diffusione dei nomi dei circa 400 detenuti in Alta sicurezza (accusati o condannati per mafia e droga) messi agli arresti domiciliari nell’ultimo mese e mezzo. Decreto faticosamente confezionato negli ultimi giorni - Il nuovo decreto è stato faticosamente confezionato negli ultimi giorni, dopo l’annuncio del Guardasigilli grillino che ora esulta: “Con il parere obbligatorio delle Procure abbiamo fermato l’emorragia. Oggi chiudiamo il cerchio e ribadiamo con fermezza l’impegno dello Stato nella lotta alla mafia”. Il Pd e gli altri partiti della maggioranza sono stati attenti a evitare forzature che potessero anche solo dare l’impressione di intaccare i principi di autonomia e indipendenza dei magistrati; sotto l’occhio vigile del Quirinale, tanto più in una materia così delicata e sensibile come l’intreccio tra diritto alla salute e tutela della sicurezza collettiva. Per i detenuti in attesa di giudizio (oltre la metà di quelli usciti dall’inizio della pandemia), lo stesso meccanismo sarà attivato su input dei pubblici ministeri. I quali, acquisiti gli “elementi in ordine al sopravvenuto mutamento delle condizioni o alla disponibilità di strutture penitenziarie o reparti di medicina protetta adeguate alle condizioni dell’imputato”, potranno attivare il meccanismo per riportare i fascicoli all’attenzione dei giudici. Prevista anche la possibile ripresa dei colloqui “di presenza” in carcere, a seconda delle situazioni sanitarie locali. Nella settimana segnata dalle polemiche sulle scarcerazioni e il ricambio alla guida del Dap, la situazione è cambiata con il monitoraggio in tempo reale delle richieste di arresti o detenzione domiciliari dei detenuti in Alta sicurezza. Una sola domanda per ora accolta - Oltre 450 domande attendono di essere vagliate, ma tra quelle esaminate negli ultimi sette giorni solo una - avanzata da un detenuto legato alla criminalità pugliese - è stata accolta. Per gli altri c’è stato il rigetto o una diversa collocazione nel circuito penitenziario. Tra i reclusi che hanno chiesto la detenzione domiciliare per i rischi connessi al Covid-19 c’è anche l’ex terrorista ergastolano Cesare Battisti (ultrasessantacinquenne affetto da epatite B, scompenso e infezione polmonare, precisa il suo avvocato Davide Steccanella), rientrato in Italia nel gennaio 2019 dopo 28 anni di latitanza. Com’era prevedibile, la sola ipotesi ha immediatamente sollevato le ire di familiari di vittime e politici. In particolare di centrodestra. Ecco il decreto sui boss scarcerati. “Rivalutare subito tutti i casi” di Liana Milella La Repubblica, 10 maggio 2020 La riunione dei ministri ha approvato il provvedimento. Bonafede: “Ribadiamo l’impegno dello stato contro la mafia”. Intanto s’inverte il trend delle persone uscite: in una settimana fuori soltanto un detenuto definitivo che era in alta sorveglianza. Petralia nominato a capo del Dap. Il Consiglio dei ministri iniziato alle 21 è finito dopo un’ora e mezza. E ha approvato in tutta fretta il decreto legge che fissa le nuove regole per le scarcerazioni dei mafiosi e stabilisce che comunque esse dovranno essere verificate ogni 15 giorni per capire se i presupposti che le hanno giustificate sono ancora validi. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha lavorato tutta la giornata al decreto. Il testo ha avuto il via libera del Quirinale dov’è stato mandato nel pomeriggio e che avrebbe anche dato alcuni suggerimenti. D’accordo tutta la maggioranza perché rispetta i criteri di costituzionalità ed equilibrio tra salute e sicurezza. Con il decreto approvato stasera “ribadiamo con fermezza quanto lo Stato sia impegnato nella lotta alla mafia. Un impegno che continuiamo a portare avanti, in onore della memoria di chi su questo terreno ha perso la vita e i propri affetti, nonché per il futuro dei nostri figli. La mafia mina le fondamenta della democrazia del nostro Paese e dobbiamo mettercela tutta affinché la giustizia faccia sempre il suo corso, fino all’ultimo”, afferma il ministro della Giustizia Bonafede. Ecco il contenuto del decreto. Diviso in tre articoli. Il primo sulle “misure urgenti sulla detenzione domiciliare e il differimento della pena per motivi connessi all’emergenza Covid”. Il testo stabilisce che per i condannati per terrorismo o mafia e per tutti i reati che mirano ad agevolare le associazioni mafiose e per quelli che si trovano al 41bis che sono stati “ammessi alla detenzione domiciliare o con il differimento della pena per il Covid dal magistrato di sorveglianza, che ha acquisito il parere della procura nazionale antimafia, il magistrato valuta la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine di 15 giorni dall’adozione del provvedimenti, e successivamente con cadenza mensile”. La valutazione, dice ancora il decreto, viene fatta “immediatamente”, quindi anche prima dei 15 giorni, se il Dap comunica “la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto”. Ma la stretta sui permessi non finisce qui. Perché, come recita l’articolo 2, il magistrato deve “sentire l’autorità sanitaria regionale” per fare il punto sulla situazione sanitaria locale e acquisire anche dal Dap “l’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta” in cui il detenuto ai domiciliari può riprendere a scontare regolarmente la pena. Inoltre, nell’articolo 3 del decreto si specifica che, nel caso degli arresti domiciliari “il pubblico ministero verifica la permanenza dei predetti motivi” e continua a farlo “con cadenza mensile”, salvo quando il Dap comunica che ci sono posti disponibili nelle strutture sanitarie del carcere o comunque nei reparti degli ospedali dedicati al carcere. Ma, nelle stesse ore, trapela un’altra notizia rilevante: da sabato scorso a oggi è stato scarcerato un solo detenuto per motivi di salute. A fronte della lista dei 376 rivelata da Repubblica. Faceva parte dell’elenco dei definitivi. Era nel terzo gradino dell’alta sorveglianza. Ma il suo curriculum criminale, a quanto si apprende, non viene giudicato di grave allarme sociale. Il dato viene valutato positivamente in via Arenula perché dimostra che le strategie messe in atto da Bonafede e dal nuovo vice capo del Dap Roberto Tartaglia stanno funzionando. In particolare il monitoraggio di tutte le richieste di scarcerazione in corso, oltre 400 come ha rivelato sempre Repubblica in aggiunta alle 376 già avvenute, per le quali adesso c’è un contatto continuo tra la direzione delle prigioni e i magistrati di sorveglianza. Nella seduta il consiglio dei ministri ha anche nominato Bernardo Petralia (attualmente procuratore generale alla corte d’appello di Reggio Calabria) come nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Conte accelera e blinda Bonafede. La paura di nuove scarcerazioni di Fabio Martini La Stampa, 10 maggio 2020 A metà giornata il messaggio è arrivato a tutti quelli che contano, ai ministri e ai big della maggioranza: a palazzo Chigi il premier aveva fretta, molta fretta. Voleva chiudere il prima possibile sul “decreto-scarcerazioni”. Certo, nel Palazzo ormai da settimane si susseguono e affastellano decisioni strategiche sui temi più diversi, ma sabato 9 maggio passerà alla “storia” per la fretta di Giuseppe Conte. Mosso da una preoccupazione non confessabile: che i giudici di sorveglianza potessero nelle prossime ore concedere i domiciliari ad altri pezzi da “novanta”: boss della criminalità ma anche l’ex terrorista rosso Cesare Battisti. Trasformando così le legittime ordinanze dei giudici in una Caporetto del governo, di fatto incapace di arginare un fenomeno giuridicamente legittimo ma politicamente destabilizzante per la maggioranza. Una gran fretta che, secondo uno dei partecipanti al summit-videoconferenza della maggioranza, potrebbe essere legato anche a un altro motivo: “Domenica sera è prevista una puntata di “Non è l’Arena” di Massimo Giletti, dedicato a questi temi e vista l’audience e la “grinta” del programma, la fretta potrebbe spiegarsi anche così”. Dietrologie? E un fatto che il passaparola trasmesso da palazzo Chigi ai plenipotenziari della maggioranza, in serata si è trasformato in una convocazione formale del Consiglio dei ministri per le 21 del sabato, anche se la domenica non sono previste udienze dei magistrati di sorveglianza. Ma non è stato semplice chiudere: il decreto (“osservato” a debita distanza dal Quirinale), presentava delicati profili di costituzionalità, perché è impossibile intervenire sulle ordinanze di scarcerazione, o più in generale su sentenze emesse dai giudici, per il fondamentale principio della divisione dei poteri. Ma la difficoltà più seria, emersa nella videoconferenza di maggioranza che si era svolta due giorni fa, è sull’efficacia del decreto nel suo obiettivo di bloccare le scarcerazioni “facili”. Anche i giuristi di fiducia di palazzo Chigi hanno avanzato informalmente un dubbio sugli effetti cogenti del decreto: l’estrema difficoltà, in alcuni casi l’impossibilità, degli istituti di pena di garantire cure e salute ai detenuti non troveranno soluzione col decreto e dunque differimenti di pena e carcerazioni domiciliari sono destinati a proseguire, sia pure in quantità più ridotte. Ma Conte aveva fretta anche perché gli stava a cuore blindare il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede alla vigilia di settimane difficili: lo attendono passaggi delicati. In particolare la mozione di sfiducia presentata da tutto il centrodestra. Mozione che il M5S, al quale Bonafede appartiene, vorrebbe discutere presto, mentre il Pd preferirebbe farla slittare e accostarla a un’altra analoga mozione: quella nei confronti del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Ma al di là delle differenti tattiche di “contenimento” tra Pd e 5S, l’unica incognita è rappresentata da Italia Viva, che non ha sciolto la riserva sul voto dei renziani, che al Senato saranno decisivi, in un senso o nell’altro. Maria Elena Boschi si è espressa in modo enigmatico (“Vedremo...”), ma i messaggi di Matteo Renzi rivolti a Conte sono stati più espliciti: “Ci aspettiamo una decisione risolutiva per il Paese: che il governo faccia proprio il nostro piano choc su grandi opere e investimenti”. Anche se Renzi si attende che, sia pure con 9 mesi di ritardo, Conte gli riconosca il ruolo di “socio fondatore” e co-regista del governo. Le nuove regole per fermare la scarcerazione dei boss agi.it, 10 maggio 2020 Il Cdm approva il dl Bonafede: la concessione dei domiciliari per coronavirus sarà sottoposta a valutazione del magistrato di sorveglianza entro 15 giorni con cadenza mensile. Giudizio immediato se c’è una struttura adeguata per accoglierli. Ripartono i colloqui dei detenuti in sicurezza. Far rivalutare dai magistrati - alla luce del nuovo quadro sull’emergenza Covid - i provvedimenti di scarcerazione di detenuti in alta sicurezza o al 41bis sui quali è scoppiata la ‘bufera’ negli ultimi giorni, dopo la lista di 376 esponenti della criminalità organizzata che hanno ottenuto i domiciliari, tra cui Pasquale Zagaria, boss del clan dei Casalesi. Questo l’obiettivo del decreto legge - 4 articoli in tutto - del guardasigilli Alfonso Bonafede approvato dal Consiglio dei Ministri. Il testo prevede una nuova valutazione dei giudici di sorveglianza entro il termine di quindici giorni “dall’adozione del provvedimento” della detenzione domiciliare, “e successivamente con cadenza mensile”. Ma la valutazione può anche essere effettuata subito, ancor prima della decorrenza dei termini “nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena”. Quindi qualora sussistano le condizioni i mafiosi tornano dentro. L’intesa tra i partiti - Venerdì la riunione decisiva, con il confronto tra il Guardasigilli Bonafede e i partiti della maggioranza. Il Pd e Leu hanno lavorato, insieme al ministro della Giustizia, per migliorare il testo, per far sì che non venisse toccata minimamente l’autonomia della magistratura e non venissero introdotti automatismi di dubbia costituzionalità. Il decreto provvede a “misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, terroristico e mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis”. “Il provvedimento con cui l’autorità giudiziaria revoca la detenzione domiciliare o il differimento della pena è immediatamente esecutivo”, si legge nel testo. Si prevede che “quando non è in grado di decidere allo stato degli atti” il giudice può disporre, “anche di ufficio e senza formalità”, accertamenti sulle condizioni di salute dell’imputato “o procedere a perizia”. Le disposizioni si applicano ai provvedimenti ai provvedimenti di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari “adottati successivamente al 1 febbraio 2020”. Per coloro i quali sono stati “ammessi alla detenzione domiciliare o usufruiscono del differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del Procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo per i condannati ed internati già sottoposti al regime di cui al predetto articolo 41-bis, valuta la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile”. “La valutazione è effettuata immediatamente, anche prima della decorrenza dei termini sopra indicati, nel caso - si legge nella bozza del decreto - in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena”. L’autorità giudiziaria deve però sentire l’autorità sanitaria regionale, “in persona del Presidente della Giunta della Regione”, sulla situazione sanitaria locale e acquisire “dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria informazioni in ordine all’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il condannato o l’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena può riprendere la detenzione o l’internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute”. L’autorità giudiziaria provvede poi “valutando se permangono i motivi che hanno giustificato l’adozione del provvedimento di ammissione alla detenzione domiciliare o al differimento di pena, nonché la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei ad evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell’internato”. Quanto, invece, alle posizioni di chi è ancora in custodia cautelare, sarà Il pubblico ministero a verificare le motivazioni che hanno portato alla concessione dei domiciliari. Il pubblico ministero “quando acquisisce elementi in ordine al sopravvenuto mutamento delle condizioni che hanno giustificato la sostituzione della misura cautelare o alla disponibilità di strutture penitenziare o reparti di medicina protetta adeguate alle condizioni di salute dell’imputato, chiede - si legge nel documento - al giudice il ripristino della custodia cautelare in carcere, se reputa che permangono le originarie esigenze cautelari”. Come funzioneranno i colloqui in carcere - Il decreto reintroduce poi la possibilità per i detenuti, attenuata l’emergenza coronavirus, di poter vedere i propri congiunti una volta al mese. Il governo dispone che “negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni” fino al 30 giugno i colloqui dei detenuti con i congiunti possono essere svolti a distanza “mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica”. Al fine di consentire il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie idonee a prevenire il rischio di diffusione del Covid-19, negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni, a decorrere dal 19 maggio 2020 e sino alla data del 30 giugno 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati” possono - si legge nella bozza del dl - essere svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica”. Ma nel decreto si aggiunge anche che i direttori delle carceri, qualora ci fossero le condizioni, possono avviare la ripresa per i colloqui fisici. Il direttore dell’istituto penitenziario e dell’istituto penale per minorenni stabilisce - si legge nel documento - “il numero massimo di colloqui da svolgere con modalità in presenza, fermo il diritto dei condannati, internati e imputati ad almeno un colloquio al mese in presenza di almeno un congiunto o altra persona”. Covid-19, misure urgenti sui benefici concessi ai detenuti per gravi reati governo.it, 10 maggio 2020 Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati (decreto-legge). Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente Giuseppe Conte e del Ministro della giustizia Alfonso Bonafede, ha approvato un decreto-legge che introduce misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati. Il decreto modifica il regime relativo al beneficio della detenzione domiciliare per gli imputati in custodia cautelare e per i condannati, nonché, per questi ultimi, a quello del differimento della pena, nei casi di reati associativi a fini sovversivi, di terrorismo, di tipo mafioso o connessi al traffico di stupefacenti. Il testo prevede che, nel caso in cui tali benefici siano concessi per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del Procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato e, in specifici casi, del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, valuta la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. La valutazione è effettuata immediatamente, anche prima della decorrenza dei termini indicati, nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena. Inoltre, il testo prevede che, ai fini dell’eventuale revoca del beneficio, l’autorità giudiziaria debba prima sentire l’autorità sanitaria regionale, in persona del Presidente della Giunta della Regione, sulla situazione sanitaria locale e acquisire, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, informazioni in ordine all’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il condannato o l’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena possa riprendere la detenzione o l’internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. L’autorità giudiziaria provvede quindi a valutare se permangano i motivi che hanno giustificato l’adozione del provvedimento di ammissione alla detenzione domiciliare o al differimento di pena, nonché la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei ad evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell’internato. Il provvedimento con cui l’autorità giudiziaria revoca la detenzione domiciliare o il differimento della pena è immediatamente esecutivo. Tale normativa si applica anche ai provvedimenti già adottati. Infine, il decreto prevede che, al fine di consentire il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie idonee a prevenire il rischio di diffusione del Covid-19, negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni, a decorrere dal 19 maggio e sino al 30 giugno 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati, possono essere svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica. Il direttore dell’istituto penitenziario e dell’istituto penale per minorenni, sentiti, rispettivamente, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e il dirigente del centro per la giustizia minorile, nonché l’autorità sanitaria regionale in persona del Presidente della Giunta della Regione stabilisce, nei limiti di legge, il numero massimo di colloqui da svolgere con modalità in presenza, fermo il diritto dei condannati, internati e imputati ad almeno un colloquio al mese in presenza di almeno un congiunto o altra persona. Boss, decreto legge per riportarli cella. E anche Battisti chiede di uscire di Michela Allegri e Marco Conti Il Messaggero, 10 maggio 2020 Il Consiglio dei ministri approva il decreto dopo un incontro tra Bonafede e Lamorgese. Il riacchiappa-boss è finito in tutta fretta sul tavolo del consiglio dei ministri che si è tenuto ieri sera. Una riunione straordinaria, fortemente voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a seguito delle 400 scarcerazioni decise dai magistrati di sorveglianza in un mese e mezzo. Detenzioni domiciliari, per gravi ragioni di salute in considerazione dell’emergenza coronavirus, che hanno portato fuori dalle carceri anche boss di mafia, camorra e ndrangheta, e che sono costate le dimissioni di Francesco Basentini dalla guida del Dap. Il luogo - Lo scorso 29 aprile il primo intervento con un decreto che si è occupato dei casi futuri. Ieri sera è finito in consiglio dei ministri, dopo il vertice di maggioranza della sera prima, un nuovo decreto attraverso il quale si rivalutano le scarcerazioni effettuate. Un’accelerazione che serve al ministro Bonafede per recarsi tra martedì e mercoledì in Parlamento con “il problema risolto” a relazionare su quanto accaduto. Per il premier Conte il Guardasigilli non si tocca, ma a breve dovrà affrontare una mozione di sfiducia presentata dal centrodestra, con Iv che non intende sciogliere la riserva se non avrà rassicurazioni sulla prescrizione. Il decreto di ieri sera è di pochi articoli in base ai quali entro 15 giorni saranno rivalutate le scarcerazioni già disposte e legate all’emergenza Coronavirus. Il magistrato dovrà prima acquisire il parere del Procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo per i condannati ed internati già sottoposti al 41bis, il cosiddetto carcere duro. Solo dopo potrà valutare se persistono i presupposti per la detenzione domiciliare. Ovvero se permangono “i motivi legati all’emergenza sanitaria”. La valutazione sarà fatta “immediatamente”, anche prima dei 15 giorni, nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in ospedali ordinari adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena. In ogni caso l’autorità giudiziaria, prima di provvedere dovrà sentire l’autorità sanitaria regionale, cioè il Presidente della Giunta della Regione, sulla situazione sanitaria locale. E acquisire dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria informazioni sull’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il condannato o l’internato, ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena, può riprendere la detenzione o l’internamento senza pregiudizio. In Bolivia - Il decreto anti-scarcerazioni arriva dopo una riunione top-secret con il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, e nella serata in cui anche Cesare Battisti, l’ex terrorista rosso catturato un anno e mezzo fa in Bolivia dopo una lunghissima latitanza, ha chiesto di tornare a casa per il rischio Coronavirus. Perché, dice, “sono vecchio e malato, qui in carcere ho paura di essere infettato”. Condannato all’ergastolo per quattro omicidi, l’ex membro di spicco dei Proletari Armati potrebbe lasciare il carcere di alta sicurezza di Oristano e tornare a casa dai parenti, agli arresti domiciliari a Cisterna di Latina. E il suo nome potrebbe aggiungersi nei prossimi giorni alla lista di boss già scarcerati. Anche in questo caso sarà il Tribunale di Sorveglianza a decidere. Uno dei primi a commentare è stato l’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini: “Battisti quando ha ucciso non aveva paura però, e non chiese alle sue vittime se avevano paura”. Dello Stesso avviso il presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: “Lo Stato non si pieghi alle richieste di questo criminale. Siamo pronti a fare le barricate”. L’avvocato di Battisti, Davide Steccanella, ha invece spiegato che il suo assistito “rientra nella categoria degli over 65, è affetto da epatite B ed ha un’infezione al polmone, è a rischio per la situazione carceraria e per abbiamo fatto istanza di scarcerazione”. Un colpo di scena che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non può permettersi. Era stato proprio lui ad annunciare la cattura del terrorista, nel gennaio 2019. Da quel giorno sono cambiate tante cose e il Guardasigilli si trova in uno dei momenti politici più difficili, dopo le polemiche per le quasi 400 scarcerazioni di mafiosi, killer, trafficanti. Carcere, “inutili nuove norme se non ci sono risorse per attuarle” di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 maggio 2020 Il Cdm vara il testo del ministro Bonafede sulle “scarcerazioni”. Parla il Consigliere del Csm (corrente Area) Giovanni Zaccaro. Si è protratto fino a tarda notte, il Consiglio dei ministri che ha discusso il testo del decreto legge messo a punto dal Guardasigilli Bonafede sulle cosiddette “scarcerazioni” dei detenuti a causa della pandemia e delle celle sovraffollate. Secondo le prime indiscrezioni, il testo, che ha avuto il consenso del Quirinale, impone a magistrati di sorveglianza e giudici di riconsiderare l’invio ai domiciliari degli imputati o dei condannati per associazione mafiosa e terrorismo “entro il termine di 15 giorni dall’adozione del provvedimento, e successivamente con cadenza mensile”, per verificare se sussistano ancora i requisiti e le condizioni al contorno. Ogni provvedimento dovrà essere preso dopo aver “acquisito il parere della procura nazionale antimafia” e anche dell’autorità sanitaria regionale, per verificare la disponibilità di altre strutture residenziali. Ne abbiamo parlato con il Consigliere del Csm (corrente Area) e giudice presso il tribunale di Bari, Giovanni Zaccaro, che però attende di leggere il testo definitivo prima di commentare i dettagli. Dalle polemiche di questi giorni si potrebbe credere che i pm dell’antimafia siano una sorta di controparte dei giudici o dei magistrati di sorveglianza che stanno inviando ai domiciliari alcuni detenuti ritenuti particolarmente a rischio Covid-19. Ma è proprio così? Si sono usate troppe semplificazioni giornalistiche che hanno descritto i pm antimafia separati dall’ordine giudiziario. Naturalmente va evitata l’autoreferenzialità delle procure antimafia e mantenuta l’interlocuzione continua con il gip, con il giudice del processo e col magistrato di sorveglianza, in modo da riportare tutto nella giurisdizione. Ci sono tanti pm antimafia che sono ben consapevoli di essere parte della giurisdizione e lo fanno tenendo presente gli articoli 27 e 111 della Costituzione (responsabilità e processo penale, ndr). Nei fatti, le decisioni dei magistrati di sorveglianza o dei giudici sulle detenzioni domiciliari o sui differimenti di pena non vengono prese già ora solo dopo aver acquisito il parere delle procure antimafia? Per decidere una misura cautelare, il parere del pm è sempre ascoltato, anche se non è vincolante, e va ricordato che anche i domiciliari sono una forma di detenzione. Quindi non c’è alcuna “scarcerazione”. Detto questo, si parla di circa 370 richieste accolte, ma non si dice mai il numero di quelle rifiutate. Magari sono migliaia, e scriverlo rimetterebbe in ordine il dibattito. Inoltre, si tratta di decisioni tutte diverse: ogni volta il magistrato è chiamato a contemperare le esigenze di sicurezza con la tutela della salute del detenuto, e ciascuno ha la sua storia. Qualcuno crede che l’annuncio di una norma per riportare in cella i “mafiosi scarcerati” fatta dal ministro Bonafede sia stata una sorta di inaccettabile “avviso” che potrebbe favorire la loro fuga. Ma uno Stato può essere così insicuro e debole? Quello della salute in carcere è un problema gigantesco, sempre rimosso dai vari governi - tranne il tentativo finito nel nulla del ministro Orlando con gli Stati generali dell’esecuzione penale - che non può essere affrontato con battute o tweet. E purtroppo non si può neppure risolvere in tempi di emergenza come questi, nei quali vengono al pettine i nodi irrisolti. Ora, io comprendo, e non va sottovalutato, l’effetto simbolico che ha nei contesti mafiosi il passaggio dal carcere alla detenzione domiciliare, ma continuo a pensare che di contro c’è anche l’effetto simbolico opposto: uno Stato che garantisce i diritti basilari anche al più pericoloso dei suoi criminali è uno Stato che riafferma la propria forza. Si potrebbe ribattere che non c’è solo un effetto simbolico, perché le mafie si governano sul territorio, anche stando a casa... Sì, ma si può continuare a fare il boss mafioso anche dal carcere. Ed è per questo che esiste il 41bis. Ma un’amministrazione seria si preoccupa anche della salubrità di chi è in 41bis. Lei non lo abolirebbe, questo regime considerato da più parti lesivo della dignità umana? Non è uno status permanente, il 41bis. È comunque da tempo oggetto di dibattito interno alle aree più progressiste dei giuristi. Chi ama la Costituzione deve sempre pensare all’umanità del trattamento penitenziario, ma tutto sta a garantire le infrastrutture che impediscano la comunicazione dei detenuti con l’esterno e che contemporaneamente attuino un vero trattamento. Secondo le prime indiscrezioni il testo del ministro Bonafede prevede una modifica dell’ordinamento penitenziario per permettere la revoca dei domiciliari nel caso in cui cambino le condizioni di salute pubblica e del detenuto. Ma erano proprio necessarie la sollecitazione del governo e le nuove norme? Per ecologia del dibattito le norme si commentano quando si vedono scritte. Ma posso dire che qualunque intervento del potere legislativo non può non tenere conto del sovraccarico di lavoro che si riverserà sui tribunali di sorveglianza, che sono centrali nella questione. E che avranno il fiato sul collo dell’opinione pubblica. Il Consiglio superiore della magistratura ha fatto un bando straordinario per coprire le vacanze del personale nei tribunali di sorveglianza, che sono sotto stress per l’emergenza pandemica. Ma ci sono poche vocazioni. È inutile fare le riforme se non ci sono persone, strutture e risorse per attuarle. Il nodo è che in un sistema penale evoluto la pena non coincide solo con il carcere. Ultima domanda: la querelle Di Matteo-Bonafede sembra ormai essere sfumata. Ma lei cosa ne pensa? Non ho seguito la vicenda e mi interessa relativamente, però posso dire - anche a proposito delle esternazioni fatte tempo fa dal consigliere Lanzi - che già da lunedì la mia proposta al Csm sarà di lavorare a un “codice” della comunicazione esterna dei singoli componenti. Io rivendico il diritto dei componenti del Csm di partecipare al dibattito pubblico, come sto facendo ora con lei, ma dovremmo metterci d’accordo per trovare le forme più continenti per farlo. I boss, il ministro, le polemiche. “In carcere non serve l’antimafia” di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 10 maggio 2020 Secondo Giovanni Fiandaca non c’è alcun allarme scarcerazioni e la politica sa solo urlare. Nessuno scandalo, nessun allarme per le scarcerazioni. Per Giovanni Fiandaca i problemi dell’Italia sono altri e la politica non li affronta. Si preferisce piuttosto urlare e polemizzare. Quello di Fiandaca è un pensiero dalla doppia prospettiva, di professore ordinario di Diritto penale e di garante dei diritti degli attuali seimila detenuti siciliani. Che ne pensa delle scarcerazioni e delle polemiche che hanno scatenato? “Che sono tutte polemiche retoriche. La situazione è ben diversa da quella che viene descritta, ci sono solo tre detenuti al 41bis che sono stati scarcerati. Le questioni vanno affrontate nella loro portata reale. I problemi ci sono, ma così si fa solo confusione. Ed invece si è polemizzato pure con la magistratura di sorveglianza che darebbe più importanza alla tutela della salute dei detenuti a scapito della sicurezza dei cittadini. Il vero problema è strutturale. Non sono stati affrontati adeguatamente né la questione del sovraffollamento carcerario, né il tema del sistema carcerario nel suo complesso. Un sistema che funziona a macchia di leopardo. Alcune carceri hanno gravi deficit. Non c’è sempre la possibilità che un boss malato e anziano abbia una collocazione sanitaria interna al sistema carcerario”. Quello strutturale non è un problema di immediata risoluzione. Nel frattempo che si fa? “Di sicuro non si può sottovalutare la tutela della salute dei detenuti perché sono mafiosi. Lo impedisce la Costituzione”. Ma se alcuni boss tornano liberi non si finisce per non garantire la sicurezza dei cittadini a cui lei stesso faceva prima riferimento? “Va valutato caso per caso. Il ritorno di un mafioso nel suo territorio di per sé non costituisce un pericolo. Se tornano soggetti anziani e ammalati non è affatto automatico che riprendano un ruolo di comando. Un ottantenne molto ammalato, con scadenza pena vicina (un esempio concreto è quello di Francesco Bonura, boss del rione Uditore di Palermo ndr) non è onnipotente ed emancipato dagli altri limiti di vulnerabilità a cui tutti, anche i non mafiosi, siamo soggetti. Come fa a recuperare la sua pericolosità? Ci sono però tanti casi di boss che una volta scarcerati, anche se anziani, tornano al potere... “Per questo dico che va fatta una valutazione in concreto, caso per caso”. Il ministro della Giustizia ha previsto nuove norme per bloccare le scarcerazioni. Che ne pensa? “La nuova norma avrà un effetto simbolico, d’immagine, nel tentativo di rassicurare l’opinione pubblica e salvare il proprio posto di ministro. Non può essere retroattiva, non può rimandare gli scarcerati in carcere, ma si applicherà solo per i casi futuri. La Corte Costituzionale ha stabilito che il divieto di retroattività in materia penale vale anche per le norme che disciplinano l’esecuzione della pena. Già oggi le norme vigenti del diritto penale e penitenziario consentono di rivalutare la situazione di pericolosità del soggetto, l’evolversi delle sue condizioni di salute e dell’emergenza sanitaria nei contesti territoriali e di vita nelle carceri. Si pensa poi ad una valutazione mensile delle singole posizione che ingolferebbe e aggraverebbe il lavoro. Si ricorre ad una nuova norma di scarsa efficacia per risolvere un problema che è dipeso dalle carenze strutturali delle carceri e dalle difficoltà del Dap nell’affrontare l’imprevista emergenza. La norma contribuirà a ridimensionare l’incapacità del ministero e del Dap di affrontare un grave problema, anche se bisogna riconoscere che non era facile affrontare un’emergenza alla luce della situazione disastrosa delle carceri”. Sta difende il dimissionario capo del Dap Francesco Basentini, o mi sbaglio? “Ne avevo individuavo i limiti di competenza carceraria, ma l’emergenza è stata imprevista e non rendeva facile il lavoro”. Tra le situazioni che avrebbero fatto emergere i limiti di competenza di Basentini i più critici inseriscono la circolare con cui il Dap chiedeva di conoscere l’età e la condizione dei detenuti. Ed invece avrebbe finito per essere un via libera alle scarcerazioni. È d’accordo? “Per niente. L’antimafia più critica ha visto nella lettera del Dap un invito rivolto alla magistratura ed invece è stata l’unica cosa giusta in prospettiva di tutela della salute. Le critiche arrivano dall’unilaterale convinzione dell’antimafia che debba prevalere la tutela della sicurezza”. Ora non c’è più Basentini, ma Dino Petralia.. “È una persona di grande equilibrio”. Equilibrio, forse è proprio questo che è mancato? “Ed è necessario, il mondo delle carceri è difficile. Se non c’è equilibrio e non si bilanciano tutti i valori e le esigenze in gioco si opera male. Non è razionale porre l’antimafia più rigorosa come criterio generale di gestione delle carceri dove ci sono tante tipologie di detenuti che con la mafia non hanno nulla a che fare. La gestione carceraria non può essere improntata alla sola lotta alla mafia, perché è molto più complessa e serve visione di insieme. Non serve la lotta alla mafia, ma capacità di gestire migliaia di detenuti e migliaia di persone che lavorano nelle carceri”. Lei parla di equilibrio, necessità di garantire la tutela della salute e la sicurezza dei cittadini, ma sul nostro sistema carcerario continuano a piovere critiche dall’Europa per la disumanità dei trattamenti detentivi. Ancora oggi le decisioni adottate per Riina e Provenzano dividono... “Non aveva e non ha senso tenere in carcere un mafioso malato. Il modello della lotta alla mafia ha un’efficacia simbolica che risponde all’emotività”. Abbiamo il dovere di considerare il dolore di chi ha perso una persona cara ammazzata dai mafiosi.. “C’è la mia totale e piena comprensione dal punto di vista umano e non mi permetto di giudicare, ma per gestire il mondo carcerario non serve il modello della lotta alla mafia, serve altro”. La politica in molti casi sembra seguire gli umori della gente, a volte assecondare la piazza? “C’è un decadimento politico e culturale derivato dal fatto che la crisi economica ha fatto esplodere nelle persone sentimenti di frustrazione, rancore, aggressività, risentimento. Sono tutti sentimenti comprensibili dal punto di vista umano. Le forze politiche populiste strumentalizzano questi sentimenti e li canalizzano nella ricerca dei nemici sociali come i mafiosi, i corrotti, sino a decidere di chiamare una legge spazza-corrotti, per altro tecnicamente molto modesta. Il diritto penale non è lo strumento più efficace per affrontare e risolvere problemi e i mali sociali come noi penalisti diciamo da tempo. La strumentalizzazione del diritto penale a fini politici è sbagliata. Si illude la gente che i problemi strutturali si risolvono o si riducono con le condanne. La giustizia penale serve per coprire le incapacità della politica di risolvere in problemi. Secondo alcuni, la giustizia penale è un ansiolitico per l’opinione pubblica, la pilloletta sedativa per le frustrazioni delle persone”. Come dire che la politica si limita ad asseconda l’opinione pubblica.. “Una delle cause della crisi della politica e della incapacità di affrontare i problemi deriva dalla soggezione di dare risposte all’opinione pubblica. Se l’opinione pubblica dice di avere paura delle scarcerazioni la politica dovrebbe spiegare che le paure sono sbagliate, fare un’opera di pedagogia collettiva. La politica non deve essere il riflesso dell’opinione pubblica, ma deve cercare di educarla. In questo caso bisogna spiegare alle persone allarmate la necessità di fare un bilanciamento fra sicurezza e salute tale per cui dobbiamo accettare che un certo numero di detenuti debba andare in detenzione domiciliare”. Un’ultima cosa, posso chiederle cosa ne pensa dello scontro fra il ministro Alfonso Bonafede e il magistrato del Csm Antonino Di Matteo? “Non è un tema importante, ma solo una perdita di tempo” Gian Carlo Caselli: “Segnali pericolosi, c’è stata una falla nella lotta alla mafia” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 10 maggio 2020 L’ex procuratore di Palermo: “Il rientro di tanti criminali nelle loro sedi di provenienza consente alle cosche di rialzare la testa”. “Il nuovo decreto risponde a un’idea apprezzabile, ma la realizzazione non sarà facile. Ci sono complessi e delicati problemi di rispetto dell’autonomia della magistratura”, dice Gian Carlo Caselli, 81 anni ieri, già procuratore di Palermo e Torino oltre che capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) oggi nella bufera. Che idea si è fatto delle scarcerazioni dei mafiosi? “Lo Stato deve tutelare la salute di tutti i detenuti (mafiosi compresi) oltre che del personale penitenziario, anche in situazioni di emergenza pandemica. Il paradosso è che i detenuti al 41bis e quelli in alta sicurezza vivono in carcere in condizioni che comportano ben pochi rischi di contagio”. Dunque non bisogna occuparsene, anche se hanno patologie croniche? “Bisogna farlo utilizzando, prima di tutto, le strutture sanitarie che già funzionano nelle carceri o adattando nuovi locali. La scarcerazione deve essere una extrema ratio”. Invece è diventata la regola? “Sono d’accordo con chi le definisce scarcerazioni di massa. Non solo per il numero (quasi 400), ma anche per una certa interpretazione burocratica che è avvenuta”. Che cosa intende? “Non pare sia stata sempre presa in considerazione la pericolosità del detenuto con particolare riferimento all’ambiente d’origine cui viene restituito”. Qual è la conseguenza? “Quando si tratta di mafiosi, le implicazioni sulla sicurezza pubblica sono purtroppo di assoluta evidenza. Il loro rientro sul territorio comporta il concreto pericolo che molti possano approfittarne per rientrare in un modo o nell’altro rafforzandolo nel giro delle attività criminali tipiche della mafia”. Gli arresti domiciliari non sono sufficienti? “Si sa che sono un diaframma molto debole”. Cosa rappresenta questa vicenda per lo Stato? “Una falla nell’antimafia. Un lusso che lo Stato non si può assolutamente permettere. In ogni caso, un segnale di arretramento e debolezza che la mafia potrebbe cogliere per avviare nuove, come dire, “baldanzose” strategie criminali”. In che senso? “Le mafie vivono anche di segnali e il rientro di tanti criminali nelle loro sedi di provenienza viene “venduto” come un fatto che consente all’organizzazione di rialzare la testa. L’Italia non ci guadagna”. Bonafede dice: hanno fatto tutto i giudici. È così? “È vero. Ma al di là delle intenzioni, un ruolo importante sembra aver avuto anche la circolare Dap del 21 marzo che richiedeva a tutte le carceri un elenco dei detenuti sofferenti di certe patologie”. Per quale motivo? “Per difetti di comunicazione sulle sue precise finalità, è stata interpretata come predisposizione di una specie di “lista d’attesa” di scarcerandi. Di qui una corsa alle domande e alle scarcerazioni che sono diventate una slavina”. Sta saltando il sistema repressivo nato negli anni 90? “Il 41bis, letteralmente intriso del sangue delle stragi del 1992, è per Cosa nostra una ferita aperta. Pentitismo e 41bis sono da eliminare (Riina si sarebbe “giocato anche i denti”) e la riprova sta nella sentenza di primo grado sulla “trattativa Stato-mafia”. Quella stagione sta finendo? “Per vari fattori, il regime di giusto rigore del 41bis si è allentato nel tempo, ma potrebbe ancora funzionare bene. È però in atto una campagna per dissolverlo che invoca ragioni umanitarie. Su questo versante non si può scherzare: quando si tratta di mafia occorre bilanciarle con la storia e pericolosità dell’organizzazione, altrimenti si rischia di peccare di astrattezza”. Della campagna fanno parte anche le recenti sentenze di Corte di Strasburgo e Consulta? “Escludo che si possa parlare di campagna. Semplicemente impensabile. Le sentenze della Cedu e della Consulta hanno cancellato l’ostatività dell’ergastolo per i mafiosi: la prima rispetto a qualunque beneficio, la seconda ai permessi premio. Con pieno rispetto, sembrano ispirate a una sorta di distacco dalla realtà. Per esempio sembrano dimenticare che ci sono anche le vittime dei delitti di mafia (familiari compresi), i cui diritti non sono da meno di quelli dei mafiosi detenuti”. Catello Maresca: “No all’indultino mascherato. Il Cura Italia scarcera i mafiosi” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 10 maggio 2020 Non ha dubbi il magistrato napoletano Catello Maresca, a proposito degli effetti del cosiddetto cura Italia applicato alle carceri: “Grazie a questo impianto normativo, stanno uscendo anche i mafiosi: si tratta di una sorta di indulto mascherato che offre anche ai condannati per mafia la possibilità di tornare a casa con almeno un anno e mezzo di anticipo rispetto al fine pena”. Cosa la spinge a pensare che il Cura Italia sia un assist ai mafiosi? Non trova che sia stato chiarito che il Cura Italia non valga per chi sta scontando reati per fatti di mafia? “Le rispondo con un esempio pubblicato dal suo giornale. Prendiamo il provvedimento adottato dai giudici del Tribunale di Sorveglianza di Torino, in favore di Antonio Noviello (condannato a 9 anni e 4 mesi), un caso che rischia di fare da apripista: condannato come esponente dei casalesi, si ritrova a casa con un anno e mezzo di anticipo. La sua posizione è simile a quella di tanti altri detenuti che possono aspirare a lasciare le celle, approfittando degli sconti del Cura Italia”. Su cosa fa leva la sua convinzione? “Leggiamo il provvedimento dei giudici di Sorveglianza di Torino, il cui lavoro - lo dico con sincerità piena - va sempre rispettato. Ebbene, scrivono i giudici: “Rilevato che l’istanza è ammissibile poiché la pena residua è inferiore a 18 mesi di reclusione e le condanne relative a reati ostativi risultano interamente espiate”. Più chiaro di così”. Ci può spiegare in cosa consiste il ragionamento dei magistrati? “Detto in modo più semplice, ci sono detenuti che stanno scontando condanne cumulate per più reati, per diverse tipologie di fatti: quelli di mafia, consumati in nome e per conto di un clan; e reati comuni, consumati individualmente, magari al di fuori di una logica di asservimento al boss di turno. In questo senso, si reputano già scontate le pene legate ai reati “ostativi”, quelli di mafia, mentre si condonano quelle pene consumate da delinquente comune”. Pensa che il caso di Noviello possa rappresentare un unicum? O immagina che ci possano essere altre posizioni di questo tipo? “Per me Noviello è un caso da manuale, che rischia di essere seguito da altri detenuti che hanno questo profilo e non è detto che, tra cumuli e continuazioni, non ci siano tanti altri provvedimenti di questo tipo adottati dai Tribunali di mezza Italia”. Poteva essere un fatto difficile da prevedere, vista la necessità di evitare un impatto drammatico del virus nelle carceri… “Capisco le condizioni di emergenza, ma questo epilogo era largamente prevedibile, alla luce di quanto è avvenuto in Italia, con i vari indulti e indultini”. A cosa fa riferimento? “In Italia è già accaduto in tantissimi casi. Guardi che è storia recente. Parlo dell’indulto del 2005-2006 e quello del 2010, quando abbiamo registrato la stessa traiettoria di scarcerazioni: sconti ai detenuti comuni; poi via via hanno lasciato la cella anche i mafiosi, sempre grazie allo scorporo delle pene o alla detenzione in continuazione con altri reati”. Cosa fare in questa condizione? “Ho una proposta. Se stanno pensando a un decreto legge, è venuto il momento di inserire una modifica del Cura Italia, per tamponare altre scarcerazioni, alla luce delle richieste che potranno essere prodotte nelle prossime settimane”. Dal cambio al Dap solo una scarcerazione. Le richieste anche prima della circolare di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2020 Lo stop del 2 maggio funziona. E non tutto dipendeva da Basentini. C’è perfino chi ha adombrato una nuova trattativa tra Stato e mafia ma le scarcerazioni legate al rischio coronavirus, in realtà, si sono già fermate o quasi. Nell’ultima settimana, tra il 2 e il 9 maggio ce n’è stata solo una. È andato ai domiciliari un detenuto del circuito “alta sicurezza AS3” e poiché sembra che non sia stato chiesto il parere obbligatorio della Dda, come prevede il decreto Bonafede di aprile, il Guardasigilli ha avviato accertamenti. Quest’unica scarcerazione è un dato significativo se si pensa che negli ultimi due mesi sono andati ai domiciliari 376 detenuti, quasi tutti del circuito “alta sicurezza” dove stanno gregari delle cosche e narcotrafficanti e solo tre mafiosi al 41bis. Come si spiega? Il 2 maggio, giorno del suo insediamento, il nuovo vice capo Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), Roberto Tartaglia, ex pm di Palermo, d’accordo con il ministro, dà l’input per una circolare ai direttori delle carceri affinché informino in tempo reale il Dipartimento e la Direzione nazionale antimafia di tutte le istanze dei detenuti al 41bis. Al Dap “sarà inviata altresì la relazione sanitaria”. Così ora il Dap monitora in tempo reale le istanze dei detenuti mafiosi e può intervenire tempestivamente se i giudici chiedono l’indicazione di una struttura sanitaria del circuito penitenziario. Evitando il “concorso di colpa” avvenuto nel caso dei domiciliari alboss dei Casalesi Pasquale Zagaria, per il quale il Dap non aveva indicato in tempo una struttura al tribunale di Sorveglianza di Sassari che, in autonomia, ha mandato il camorrista agli arresti nel Bresciano, zona rossa Covid. E sempre la magistratura che decide, come da Costituzione. Non si può, dunque, attribuire la responsabilità delle scarcerazioni neppure alla circolare del 21 marzo voluta da Francesco Basentini, l’allora capo del Dap poi rimosso. Lì si chiedeva ai direttori delle carceri, in virtù della pandemia, di indicare ai giudici i detenuti con una serie di patologie e sopra i 70 anni. Compresi i mafiosi, che, registrati, la usano per chiedere agli avvocati di presentare istanze di scarcerazione, come documentato dal Fatto. Non ordinava affatto scarcerazioni, né avrebbe potuto, la circolare solo ricordava, in piena pandemia, l’articolo 11 dell’Ordinamento penitenziario che in caso di “sospetta di malattia contagiosa” richiede “interventi di controllo... compreso l’isolamento”. Che al 41bis c’è già. Le istanze peraltro sono iniziate già prima. Quella di Pietro Pollichino, boss corleonese, è di dicembre ed è poi uscito ad aprile. Come un altro mafioso siciliano, Antonio Sudato, ai domiciliari già dal il 2 marzo. Coronavirus. Teatro del carcere: l’Italia tra i primi nel mondo a riaprire di Teresa Valiani Redattore Sociale, 10 maggio 2020 La panoramica nazionale e internazionale nell’intervista a Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale Teatro in Carcere. “Stiamo ripartendo ed è una grande sfida”. Primi collegamenti online, scambio di materiale via web e per posta ordinaria, didattica a distanza: le compagnie teatrali aderenti al Coordinamento nazionale Teatro in Carcere riaccendono i motori da nord a sud del Paese e riprogrammano le attività dei palcoscenici rinchiusi. Mentre il resto d’Europa continua a guardare all’esperienza italiana come a un esempio da seguire. L’emergenza sanitaria ha costretto tutti a uno stop improvviso, ma agli ingressi vietati non sempre è corrisposto un distacco totale tra interno ed esterno. “L’avvio della fase due - racconta Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale - rappresenta una svolta perché molte compagnie hanno chiesto e ottenuto la possibilità di tornare a scambiare materiali e riprendere a sviluppare attività a distanza con i detenuti che partecipano ai laboratori”. Qui Pesaro. A Pesaro, cuore del Coordinamento nazionale, “come Teatro Aenigma - prosegue Minoia -, abbiamo appena intrapreso con la Compagnia ‘Lo Spacco’ un lavoro su Teatro e Basket attraverso le narrazioni dello scrittore Emiliano Poddi, con il coinvolgimento di studenti universitari di Urbino. Stiamo poi seguendo una seconda Compagnia originatasi nella Terza Sezione con un progetto di autopedagogia liberamente ispirato al testo ‘E solo Nina applaude ancora’ di Michele Rossini. Ai due gruppi abbiamo fatto pervenire, grazie all’Area Pedagogica del carcere, materiali di lavoro, ricominciando da Shahid Nadeem e dalla Giornata internazionale del Teatro, e avviato una corrispondenza”. Qui Venezia. Anche il regista teatrale Michalis Traitsis di ‘Balamòs Teatro’, che sta portando avanti due progetti sia al femminile alla Giudecca, sia nell’istituto maschile di Santa Maria Maggiore, ha riallacciato i contatti con le persone recluse. “A Venezia - spiega Traitsis - sono state avviate corrispondenze, in attesa del potenziamento delle linee telefoniche, per permettere la conclusione dell’anno scolastico e dei corsi di istruzione. Al maschile siamo riusciti a svolgere anche collegamenti telefonici e Skipe per sviluppare con i detenuti scritture drammaturgiche sul tema del sogno”. Qui Gorgona. Sull’isola toscana, Gianfranco Pedullà, regista del Teatro Popolare d’Arte di Firenze, sta lavorando con un gruppo di detenuti a un progetto sul rapporto tra l’uomo e il mare, con riferimento a Pietro Citati, che vedrà la costruzione di una performance su ‘Ulisse Nero’. “Fissiamo un appuntamento telematico con il gruppo mediato dall’educatore - racconta il regista - ci salutiamo e leggiamo i testi attinenti allo spettacolo in costruzione che riguardano il tema di Ulisse e il mare. Con i miei collaboratori conduciamo l’incontro, i partecipanti si avvicinano a turno al microfono e leggono anche loro. Io li aiuto nella dizione e soprattutto nel ritmo del parlato e nella tecnica migliore per imparare a comunicare il testo. Conclude l’incontro il lavoro con il musicista che fa ascoltare brani famosi o meno famosi sullo stesso tema e discute con i reclusi il senso dei testi”. Qui Palermo. In Sicilia, Claudia Calcagnile, regista della Compagnia ‘Oltremura’, che opera nella sezione femminile del Pagliarelli, ha sviluppato nelle ultime settimane una ricerca sul tema della Trasformazione, con #libereincamera, un piccolo atto poetico, una ricerca condivisa attraverso la produzione di fotografie e testi, un “esercizio di creazione collettiva”, come lo definisce la regista che attende di avere la possibilità di condividerlo a distanza con le detenute. Nel resto del mondo. “I collegamenti internazionali della Rete “International Network Theatre in Prison” - spiega Vito Minoia - raccontano che in questa fase è difficile avere contatti e riprendere un’attività, considerando la grande emergenza in corso. I colleghi della Compagnia Jubilo di Wroclaw (Polonia) diretta da Diego Pileggi me lo hanno ribadito proprio in queste settimane. Mentre dall’Inghilterra guardano al nostro Coordinamento italiano con grande ammirazione e rispetto (di pochi giorni fa l’intervista https://www.theatreinprison.org/post/educational-theatre-for-a-new-quality-of-life di Nick Awde a Minoia per raccontare l’esperienza italiana ndr). Proprio ieri - prosegue il presidente del Coordinamento nazionale - ho avuto uno scambio con Curt Tofteland che da oltre 25 anni coordina negli Stati Uniti il qualificato progetto Shakespeare Behind Bars in Michigan, dove vive e lavora, oltre che in Kentucky e Illinois. Mi diceva che le carceri sono tutte bloccate e che ci vorranno mesi prima di riuscire a far ripartire tutto. In queste ore sono in contatto anche con Jean Trounstine (vincitrice a Urbania del Premio internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere 2018) che insegna al Middlesex Community College di Bedford, in Massachussetts e opera anche come attivista per i diritti delle persone private della libertà personale. In un dialogo con il collega Walter Valeri, Jean ci fa sapere quanto stia dilagando il contagio e del lavoro incessante dei Servizi legali del Massachussetts, l’organo ufficiale che controlla e opera perché vengano rispettati i diritti dei detenuti”. “Due giorni fa - conclude Vito Minoia - ho sentito anche la collega Jaqueline Roumeau Cresta, coordinatrice di CoArtRe, a Santiago, e mi ha confermato che anche in Cile il lavoro teatrale in carcere è bloccato per la quarantena, senza alternative”. Per facilitare la comunicazione internazionale, la pagina Facebook del Coordinamento nazionale sarà continuamente aggiornata e in grado di diffondere le iniziative e i progetti che in questo periodo complesso tendono verso un’unica direzione: l’avvio di una nuova fase che rappresenta una grande sfida per tutti. Quel silenzio sulla giustizia ferma di Giuseppe Maria Berruti Corriere della Sera, 10 maggio 2020 Non è percepita la fase attraversata dal processo giudiziario inteso come accertamento della verità. Caro direttore, crisi come quella che attraversiamo sembrano fatte apposta per sottolineare il rilievo sociale delle funzioni pubbliche. Il dibattito continuo e ripetitivo non aiuta. Ma è evidente che così come alla libertà si educa con la libertà sono il ragionamento e l’informazione che possono far giustizia delle ipotesi preconcette e della cattiva informazione. In questa confusa fase della storia vi è la particolarità italiana. Fatta di ritardi. Rispetto ai quali mi pare assurdo individuare delle responsabilità, se non in prospettiva storica. Oggi ciò che mi pare evidente è, oltre che l’assoluto predominio delle valutazioni di ordine sanitario ed economico, la scarsezza del dibattito giuridico su ciò che accade. La complessità del rapporto fra le libertà costituzionali dell’individuo e con esso della nazione è percepita anche in modo strumentale. Penso all’applicazione dell’articolo 16 della Costituzione e cioè al principio per il quale la libertà di circolazione e di soggiorno del cittadino in qualunque parte del territorio nazionale può essere limitata solo con legge. Va da sé che primum vivere, postea cogitare. Ma mi pare altrettanto evidente che si dovrà ragionare che sull’applicazione che stiamo facendo, io credo in modo abbastanza corretto, dell’articolo 16 alla pratica quotidiana, anche sulla utilità di introdurre nel sistema l’ordine delle competenze. Ciò che non è percepita è la fase che attraversa il processo giudiziario. Il processo come accertamento della verità, o come accertamento di una affermata responsabilità per fatto illecito o per debito. In questo momento la giustizia è ferma. I tribunali sono chiusi. Si sta rincorrendo la realtà in modo abbastanza convincente per quanto riguarda le necessità del processo penale. Nulla, che mi consti, avviene invece per quanto riguarda quell’essenziale meccanismo di governo della convivenza che è il processo civile. E soprattutto nulla emerge mediante una proposta della magistratura. La magistratura non governa. Applica la legge interpretandola. Tuttavia l’autorevolezza che si è conquistata da che la Repubblica è stata fondata è talmente grande che sempre ha interloquito con il governo. E con il Parlamento. Per segnalare anche criticamente le necessità di chiarimento tecnico e politico. In questa fase io non sento indicazioni di questa natura da parte della magistratura. Magistratura e avvocatura sono perni della democrazia. Tacciono tutte le volte in cui il potere politico, divenuto illiberale, le comprime. Altrimenti si fanno sentire. Io credo che l’invecchiamento del processo civile italiano stia dimostrando la propria strategica drammaticità proprio in questo momento che, per quanto estremo, potrebbe essere affrontato, quanto meno per periodi limitati, con strumenti legislativi e tecnologici adeguati al caso. Non è possibile a mio avviso dire puramente e semplicemente che riprenderemo a fare i processi nel mese di giugno, luglio, settembre, e così via. Non è possibile dire che un Paese per quattro, cinque o sei mesi, o più, rimanga senza la attualità della giustizia. Non è possibile senza che si stabilizzi nell’opinione pubblica spaventata, e confusa nei valori che fondano la convivenza nazionale, un giudizio di inutilità. Perché, è verissimo che quando la gente si ammala e muore bisogna pensare anzitutto ai medici, agli ospedali, ai poveri e, per quanto mi riguarda, ai detenuti. Ma bisogna anche pensare con ragionevolezza e umiltà di fronte alla grandezza del problema, a come far funzionare ciò che è ordinario. La democrazia è ordinarietà. La sua essenza sta nei procedimenti che essa colloca dentro la vita dei soggetti. Il come fare, in democrazia, è fondamentale. Soprattutto nelle emergenze. Perciò il silenzio pubblico e collettivo dei magistrati, mi colpisce. Sono certo che non mancano le idee. Ma non vedo, perlomeno non mi accorgo, di un’azione istituzionale della magistratura che si ponga a rispondere alla emergenza trattandola come problema. Appunto la emergenza da risolvere subito. E non da affrontarne le conseguenze quando sarà passata. Nell’illusione che dopo dell’emergenza venga la normalità. E che si torni alle udienze fissate e poi rinviate, alle tante sentenze scritte da ciascun magistrato, alla prevedibilità della lentezza. Non ho suggerimenti. Sono un utente della giustizia. Le sentenze dei giudici servono al mio lavoro. Perché stabiliscono cosa dice la legge che applico. Dentro confronti e conflitti di interesse fortissimi, di straordinaria centralità dentro la vita economica e la democrazia. Perché la tutela corretta dell’investitore è la tutela del risparmio. Quella che l’articolo 47 della Costituzione ci impone. I giudici, gli avvocati, i processi, sono il diritto del Paese. Ora, mentre il coronavirus colpisce. A proposito dello scontro tra un pm e il ministro di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 10 maggio 2020 Di qua la politica, di là la giustizia. È poi vero? La nostra Costituzione sembra ritenerlo, avendo configurato la magistratura come un “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Lasciamo da parte l’ambiguità della formula che contiene un bisticcio tra ordine e potere; lasciamo da parte le discussioni tra gli studiosi, che si arrovellano sulla maniera di tracciare una linea di confine di qualche consistenza tra attività esecutiva e di governo e attività giudiziaria. Diamo un’occhiata al nostro piccolo quotidiano e allo scontro di questi giorni tra un pubblico ministero e il Ministro della giustizia. Un pubblico ministero ha reso pubblica la sua mancata nomina, due anni orsono, a direttore del Dipartimento degli affari penitenziari (Dap); nomina che, pur rientrando tra le prerogative del Ministro, tocca un punto nevralgico del nostro sistema di sicurezza sociale (oltre che di contrasto alla criminalità e di corretta gestione dell’attività sanzionatoria, perché i diritti dei carcerati, in quanto persone, non possono essere pretermessi). Nel rendere pubblico l’accaduto egli ha (volente o nolente) fatto sì che il cittadino abbia percepito la sua mancata nomina come un cedimento del Ministro nei confronti dei carcerati mafiosi (quelli più pericolosi ed efferati di tutti), i quali avevano lasciato intendere che la nomina del magistrato avrebbe comportato disordini e rivolte nelle carceri. È difficile dire se la difesa del Ministro sia convincente (a me è apparsa debole e imbarazzata). La macchia resta, così come è innegabile che la rivelazione abbia innestato la speculazione politica degli oppositori dell’attuale Governo. Ciò rende evidente che la rivelazione del pubblico ministero non può essere catalogata tra i fatti neutri, che si giustificano per il solo fatto di essere oggettivamente veri. Il pubblico ministero nel farla ha compiuto un atto politico in senso pieno. Non tiriamo in ballo la trasparenza e l’obbligo di verità. Non c’era alcuna ragione che imponeva di rendere pubblico un fatto privato. Di più. Infatti, due possono essere le spiegazioni al suo comportamento: o, non potendo ignorare le conseguenze della sua rivelazione, egli voleva deliberatamente mettere in difficoltà il Ministro oppure, vittima della cultura dell’atto dovuto (propria di chi nel nostro Paese svolge la funzione di pubblico ministero), non si è affatto posto il problema delle ricadute politiche delle sue dichiarazioni (pur non potendole ignorare). Qualunque sia la corretta interpretazione dell’accaduto (per me la seconda è quella più vicina al vero), emerge ancora una volta il problema dello scollamento tra le istituzioni dello Stato; ossia il rischio che, all’epoca della Costituente, fu immaginosamente rappresentato come quello di un potere statale che a guisa di cometa impazzita si allontana dalla traiettoria fissata. Insomma, il contrasto tra il Ministro e il pubblico ministero non può essere catalogato come una piccola vicenda in cui le ambizioni e l’amor proprio di ciascuno hanno avuto il sopravvento sul senso dello Stato. Perché mai, chiediamocelo, un magistrato (che con largo consenso dei colleghi è stato eletto al Csm) dovrebbe intervenire in una trasmissione televisiva in cui si discute delle responsabilità del Ministero nella gestione, in epoca di pandemia, del regime carcerario di condannati particolarmente pericolosi, per far sapere a tutti che il Ministro non volle nominarlo pure avendo egli dato la sua disponibilità? Un intervento del genere alimenta la sensazione che, essendo il governo dello Stato affidato alla politica, la magistratura ritenga di potere e dovere esercitare su quest’ultima una sorta di tutela. Infatti, avendo il pubblico ministero lasciato intendere che se fosse stato nominato lui a quel posto l’accaduto non si sarebbe verificato, trasforma una questione politico-amministrativa in un problema giudiziario. Al contrario, dovremmo soltanto chiederci se la vicenda complessiva del trattamento di carcerati altamente pericolosi nell’epoca della pandemia sia stata gestita con la dovuta professionalità e competenza (e non con lo spirito di dilettanti allo sbaraglio). L’amministrazione del Dap non richiede supereroi o magistrati simbolo. Richiede amministratori capaci e competenti e un Ministro che sappia sceglierli e che sappia bene indirizzarli. Questo è il compito della politica. Senza interferenze. Presunta trattativa stato-mafia, Morra accusa i 5Stelle a sua insaputa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2020 Il presidente della Commissione antimafia dà credito alle parole del pentito Mutolo e apre un’istruttoria sulla presunta nuova trattativa. Peccato però che stavolta a trattare sarebbe un ministro 5Stelle. Su Il Dubbio lo avevamo previsto e scritto, come provocazione, all’indomani della famosa telefonata del magistrato Nino Di Matteo in diretta Tv che aveva messo in imbarazzo il ministro Alfonso Bonafede. Mettendo in fila la sequenza dei fatti che suscitarono tanto scandalo, avevamo individuato tutti gli elementi “logico teatrali” che avrebbero riportato in scena la trattativa Stato Mafia. Ci mancava un colpo d’ala, un nuovo filone che spiazzasse e fosse capace di catturare di nuovo l’attenzione degli spettatori, una specie di “Homeland” settima stagione direbbe Massimo Bordin. Ed ecco qua che il colpo d’ala è arrivato. Il pentito Gaspare Mutolo, interpellato come se fosse un fine conoscitore dell’ordinamento penitenziario, ha detto la sua. In sostanza ha spiegato che, a suo avviso, le scarcerazioni dei boss mafiosi fanno parte della trattativa tra Stato e mafia. Una trattativa - sempre a detta sua - che in realtà non si sarebbe mai esaurita. Da fine conoscitore del Diritto penitenziario, ha spiegato che ora i boss potrebbero ritornare a delinquere. I boss, come oramai è noto, non sono 376 ma ben tre. Tutti vecchi e malati terminali. Se fosse vera l’ipotesi di trattativa, come al solito ha partorito l’ennesimo topolino. Per giunta vecchio e decrepito. Ma poco importa. Nicola Morra, grillino e fan irriducibile del teorema giudiziario della presunta trattativa, ha subito fatto sapere all’agenzia Adnkronos che la Commissione Antimafia da lui presieduta non esclude di aprire un’istruttoria sulle parole di Mutolo. Siamo giunti così all’inimmaginabile. La commissione antimafia presieduta da un grillino potrebbe indagare sulla trattativa che sarebbe in corso tra lo Stato e la mafia. Questa volta, però, il governo sotto accusa è quello dove c’è il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che avrebbe permesso la scarcerazione dei mafiosi. Pensare che le scarcerazioni siano frutto di accordi con la mafia che avrebbe fatto pressione tramite le rivolte, è frutto di superficialità e mancanza di conoscenza. Le rivolte sono provocate dal disagio che imperversa da sempre nelle nostre carceri e l’emergenza Coronavirus ha messo a nudo tutte le fragilità. I mafiosi sono per l’ordine all’interno delle carceri. La ribellione non è nel loro Dna. Le scarcerazioni non hanno ovviamente nulla a che fare nemmeno con quella famosa circolare del Dap, che è un atto amministrativo doveroso in un Paese civile. I magistrati di sorveglianza e i Gip che hanno accolto l’istanza per il differimento pena sono stati indipendenti e lavorato avendo come via maestra la nostra costituzione italiana. Nessun pericoloso boss sanguinario è stato liberato. Nessuna regia occulta. Karl Marx disse che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Prima c’era il ministro della giustizia Giovanni Conso, fine giurista e già presidente della Corte costituzionale, finito nella macchina del fango solo per aver far fatto rispettare una sentenza della Consulta che obbligava di valutare la proroga del 41bis caso per caso e non collettivamente. Oggi, invece, ad essere ingiustamente infangato c’è Alfonso Bonafede, avvocato e già vocalist presso diversi locali (fonte Wikipedia). Il pendolo di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 10 maggio 2020 Qualche giorno fa, il 27 aprile, dalle (immancabili) pagine del Fatto quotidiano Nando Dalla Chiesa (ex parlamentare, e tanto altro, che di professione fa il sociologo) ha usato parole offensive verso i Magistrati di Sorveglianza, accusandoli di “garrula superficialità...estremamente premurosi verso il detenuto, forse ancor più se dotato di prestigio criminale”. Muovendo l’autore dalla premessa di essere “divorato dalle mie allucinazioni domestiche”, l’intollerabile definizione di “Magistrati di badanza”, nonché il riferirsi a “pioggia di richieste di generosità che arriva dai loro avvocati...per ottenere grazie e indulgenze plenarie”, avevo pensato che ciò fosse frutto di un effetto patogeno del lockdown, del quale abbiamo avuto icastiche descrizioni dalle vignette e parole di Michele Rech, nel suo Rebibbia Quarantine - post scriptum (“gli effetti collaterali della pur meritoria opera del Basaglia”). Archiviata la pratica - de minimis non curat praetor - il nostro non si è arreso. Facendosi promotore di una petizione pubblica, dal sito di Antimafiaduemila, con l’accigliata espressione del detenuto domiciliare (come si definisce nel video), Dalla Chiesa disegna un nesso (frutto di allucinazioni di cui sopra) tra le rivolte di inizio marzo e le concessioni di provvedimenti di detenzione domiciliare (a suo dire dipendenti da improvvise - e ovviamente false! - condizioni di salute precarie, mai devolute prima al vaglio dei Giudici). Quando ci sono delle cose gravi il pendolo prende una direzione e poi torna indietro, nei rapporti tra Stato e Mafia; citando Gherardo Colombo, il cui pensiero è sideralmente distante da queste espressioni intrise di luoghi comuni e condizionate da un’ossessione di vita e di morte, Dalla Chiesa si fa paladino dell’Antimafia che fa strame di leggi, Costituzione, separazione dei poteri. Il pendolo oscilla, occorre impedire che torni indietro; bisogna riportarlo avanti. Verso la rupe Tarpea, si fa prima. Aveva ragione Sciascia. Un uomo che non sa liberarsi della sua storia, e che pretende di condizionare quella degli altri; vittima per sempre, lui per primo, di quel paradigma vittimario in nome del quale la vittima è l’eroe del nostro tempo. Non siamo certo qui ad invocare l’intervento di task force anti fake news; ognuno dica quel che vuole. Ma chi insegna, deformando la realtà, e chi promuove petizioni per sollecitare l’interruzione di scarcerazioni facili e la detenzione domiciliare dei boss mafiosi, indossa il grembiule di pelle orlato di porpora, portando con sé gli strumenti del sacrifizio. Secondo l’Enciclopedia Treccani era l’abito dei vittimari, preposti a condurre la vittima all’ara, uccidere la bestia per estrarne i visceri da offrire alla lettura degli aruspici e preparare la porzione riservata agli dei. I vittimari costituivano una corporazione. “Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica” (Gigioli). “La vittima è titolare di una linea di credito inestinguibile. È legittimata alla protesta e al reclamo, obbligando gli altri alla risposta e alla giustificazione” (Pugiotto). A quel punto, Abele è legittimato a pronunciarsi sul destino di Caino Con le parole di Procopio da Cesarea, “il crimine, quando gli si concede licenza, dilaga inarrestabile, se è vero che non lo si riesce a sradicare del tutto, nemmeno quando si colpisce severamente”. Non resta che attendere un decreto legge; l’ennesimo, scritto sotto dettatura (o dittatura). *Avvocato Lecco. Covid, 21 detenuti positivi nel carcere: ipotesi sciopero della fame lecconews.news, 10 maggio 2020 I detenuti del carcere di Pescarenico minacciano lo sciopero della fame mentre i 21 casi di positività da Coronavirus sono stati trasferiti a San Vittore. Il carcere lecchese sta seguendo le linee guida previste dalla particolare situazione, all’ingresso vi è una tenda pre-triage della protezione civile e i contatti con l’esterno sono ridotti all’essenziale, a sette detenuti sono stati concessi i domiciliari, altri cinque sono al vaglio del tribunale di sorveglianza. Tuttavia negli ultimi giorni l’emergenza sanitaria sta facendo salire la tensione nella casa circondariale cittadina dove si contano 60 detenuti e una 40ina di personale. Fino a una decina di giorni fa non si era registrato alcuno contagio, ora invece sono 21 coloro i quali sono risultati positivi al tampone con conseguente trasferimento al San Vittore di Milano dove vi è un reparto dedicato a livello regionale. Nella struttura lecchese si pone così la necessità di sanificare gli ambienti, e di trasferire alcuni detenuti del terzo piano - area ad oggi immune al virus - in alcune celle del secondo piano, dove invece si sono registrati dei contagi. Ipotesi che crea timori e almeno tre carcerati si dicono pronti ad azioni clamorose come lo sciopero della fame. Reggio Calabria. Il Garante Siviglia: “Ad Arghillà lontani dallo stato di diritto” reggiotoday.it, 10 maggio 2020 Il Garante dei detenuti, torna a lanciare l’allarme sulla casa circondariale dove, sino ad oggi, non sono stati effettuati nemmeno i tamponi anti Covid-19. “Purtroppo nella notte tra giovedì e venerdì scorso, intorno alla mezzanotte, un detenuto ha colpito con un pugno il medico di servizio presso il carcere di Arghillà e nel pomeriggio di venerdì lo stesso detenuto ha poi aggredito un agente di polizia penitenziaria colpendolo con un oggetto contundente smontato dal tavolo all’interno della propria cella, oltre a proferire parole offensive nei confronti del comandante di Polizia Penitenziaria”. Lo afferma in una nota il Garante regionale dei Diritti delle persone detenute, Agostino Siviglia. Grave carenza - “Va da sé che questi atti di violenza vanno fermamente esecrati, condannati e, auspico, tempestivamente perseguiti e puniti da parte dell’autorità giudiziaria e dell’amministrazione penitenziaria. Ciò detto, tuttavia, non può non denunciarsi, ancora una volta, in particolare, la grave e persistente carenza di assistenza sanitaria e infermieristica presso il carcere di Arghillà, dovuta al mancato reclutamento delle 8 unità di infermieri previsti ed al mancato, concreto, incremento orario della specialistica psichiatrica e psicologica previsto per lo stesso istituto penitenziario”. Pochi rinforzi - In effetti, nonostante un primo provvedimento dell’8 aprile ultimo scorso, da parte del Commissario regionale alla sanità, Saverio Cotticelli - sottolinea ancora Agostino Siviglia - che prevedeva l’assunzione di 8 unità di infermieri da destinare al carcere di Arghillà, ne sono stati assunti soltanto due e per di più un’infermiera è stata già trasferita ad altra sede ed un’altra infermiera presterà servizio solo per un mese. Mancano i tamponi - “Né i medici o i sanitari o gli agenti di polizia penitenziaria o i funzionari o i cappellani che lavorano in carcere ad Arghillà - evidenzia ancora Siviglia - sono mai stati sottoposti a tampone per verificare un possibile contagio, nonostante le formali richieste effettuate in tal senso. In definitiva, tutte le gravi carenze relative al diritto alla salute in carcere sono scaricate sul senso del dovere e sulla autonoma professionalità del Direttore dell’istituto penitenziario e di tutto il personale penitenziario, educativo e sanitario che presta il proprio quotidiano servizio in trincea, senza le dovute e doverose tutele, finanche per la regolare corresponsione degli straordinari agli infermieri”. Stato diritto da garantire - “Mi auguro davvero che, a questo punto, chi di dovere la smetta di tergiversare e si assuma la responsabilità dei propri compiti e delle proprie funzioni: non è ammissibile lasciare un solo medico a prestare il proprio servizio notturno in carcere per quasi 300 detenuti. La violenza va sempre esecrata e condannata, ma lo Stato di diritto va garantito e salvaguardato, ancor più nei confronti di chi lo Stato lo serve e di che lo Stato ha in custodia”. Palermo. Da martedì si prova a ripartire, ecco come sarà la giustizia nella Fase 2 palermotoday.it, 10 maggio 2020 Si potrà accedere alle aule solo con la mascherina, motivando la propria presenza e sarà misurata anche la temperatura. Molte restrizioni in tribunale, dove il numero di processi che si potranno trattare sarà ridotto, nessun limite invece in appello, se non quello di garantire il distanziamento fisico. Non si torna ai ritmi precedenti alla pandemia - e sarebbe impossibile immaginarlo in un ambiente come il palazzo di giustizia dove normalmente si muovono centinaia di persone al giorno - ma timidamente si prova a ripartire. A una velocità maggiore in Corte d’Appello rispetto al tribunale. Inoltre, proprio perché la situazione sanitaria è in costante evoluzione si è deciso di istituire un osservatorio, composto da magistrati ed avvocati, che ogni 15 giorni farà il punto e valuterà se allargare ulteriormente le maglie o, purtroppo, tornare a stringerle. Le nuove regole per accedere e lavorare al palazzo di giustizia saranno in vigore fino al 31 luglio e sono state diramate tra ieri e oggi. Si potrà entrare nella cittadella giudiziaria solo dopo aver motivato la propria presenza, indossando la mascherina, e dopo che sarà stata anche misurata la temperatura corporea. Non tutti hanno preso favorevolmente le nuove disposizioni e su Facebook è nata pure l’idea di un flash mob per “abbracciare” il palazzo di giustizia martedì mattina. Infine, nonostante le difficoltà, il presidente della Corte, Matteo Frasca, al fine di garantire il diritto all’informazione ai cittadini, sta valutando anche di consentire in qualche modo il ritorno dei giornalisti tra le aule del palazzo. Corte d’Appello con pochi limiti - Prima di arrivare al documento che è stato firmato da Frasca, non solo c’è stato un confronto con gli avvocati, ma si è fatto proprio uno studio delle aule, in modo da stabilire con precisione quante persone possano essere presenti senza inficiare il dovuto distanziamento fisico. La Corte d’Appello ha a disposizione 10 aule di oltre 100 metri quadrati e davanti ad ognuna di esse saranno affissi i criteri di ingresso. Questo studio preliminare ha permesso di non limitare il numero dei processi (che saranno comunque a porte chiuse) da trattare quotidianamente: sarà il presidente di ogni collegio, infatti, a stabilire come procedere, avendo come priorità naturalmente la tutela della salute di tutti. Si lavorerà anche il sabato se necessario. Frasca ha poi ritenuto che fissare tassativamente un orario preciso per ogni singola udienza, come chiedevano gli avvocati, potrebbe paradossalmente diventare un limite: alcune cause si liquidano in pochi minuti, altre richiedono ore ed è proprio in quest’ultimo caso che vi saranno indicazioni precise. Resta naturalmente la possibilità di lavorare da remoto. Tribunale, ripartenza lenta - Le regole fissate dal presidente Salvatore Di Vitale sono state diramate ieri. In questo caso, anche per la conformazione fisica soprattutto delle aule del nuovo palazzo di giustizia, di limiti ce ne sono tanti. Rispetto a ciò che è avvenuto negli ultimi due mesi, però, qualcosa si rimette lentamente in moto. Si lavorerà anche il pomeriggio e, proprio nel nuovo palazzo, la mattina sarà dedicata a monocratico, misure di prevenzione e tribunale del riesame (3 udienze nei giorni dispari, anziché 6 a settimana), mentre il pomeriggio al Gip/Gup. Si potranno celebrare patteggiamenti, abbreviati e udienze preliminari. I vari collegi potranno tenere al massimo 3 udienze al giorno e in ciascuna di esse si potranno trattare al massimo 10 processi. Considerato che, soprattutto al monocratico, in alcune sezioni se ne fissavano anche 60 (molte poi, però, non venivano concretamente trattate) si capisce immediatamente la differenza col passato. La priorità sarà data alle cause più vecchie, a quelle con detenuti (soprattutto se i termini di custodia cautelare rischiano di scadere), ma anche quelli in cui è costituita una parte civile e a quelli ritenuti urgenti. Si ricorrerà anche alle modalità da remoto. Anche qui tutto sarà a porte chiuse e sarà necessario indossare la mascherina. Nel civile, nello specifico, si punterà, in base ai processi, allo scambio di atti per via telematica, alle udienze da remoto e, solo se realmente indispensabile, a quelle fisiche. L’osservatorio e l’accesso ai cronisti - Sia da parte degli avvocati che dei magistrati la volontà è di ripartire, non solo perché di mezzo ci sono i diritti di tutti i cittadini, ma anche per le difficoltà economiche dei legali, che di fatto non lavorano da due mesi, e il rischio che si accumuli un arretrato che tra qualche mese potrebbe diventare ingestibile. Proprio in quest’ottica, e soprattutto per cercare di incrementare l’attività del tribunale, si è deciso di istituire un osservatorio, composto dal presidente del tribunale, dal presidente dell’Ordine degli avvocati, Giovanni Immordino, e da due rappresentanti del Consiglio, nonché dai presidenti coordinatori delle sezioni penali e civili, che si riunirà ogni 15 giorni, farà il punto della situazione e valuterà come procedere. Napoli. Avvocati in stato di agitazione, i giudici: “Inspiegabile, è un momento delicato” di Viviana Lanza Il Riformista, 10 maggio 2020 Avvocati in stato di agitazione, i capi degli uffici giudiziari: “Inspiegabile, è un momento delicato”. Dopo la decisione del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli di proclamare lo stato di agitazione e revocare l’adesione ai protocolli sottoscritti il 28 aprile denunciando “grave situazione di immobilismo” a proposito delle decisioni sulle linee guida per la ripresa dell’attività giudiziaria prevista per il 12 maggio, arriva la replica dei capi degli uffici giudiziari. In una nota il presidente della Corte di Appello Giuseppe De Carolis e il procuratore generale Luigi Riello definiscono la delibera degli avvocati “del tutto inaspettata”, parlando di “un’inspiegabile logica di contrapposizione con la magistratura”, un atteggiamento che ritengono “non consono al clima collaborativo coltivato da tutti i capi degli uffici giudiziari e certamente inidoneo ad affrontare con senso di responsabilità ed efficacia un momento delicato per la giustizia nel distretto connesso alla perdurante critica situazione sanitaria”. Ricordando la collaborazione dell’avvocatura “preziosa e apprezzata” che c’è stata per individuare, sentita l’autorità sanitaria, le misure di prevenzione finalizzate a ridurre il pericolo di contagio e i protocolli d’intesa e i decreti organizzativi emessi nella cosiddetta Fase 1, i vertici del Palazzo di giustizia di Napoli spiegano in una nota che “riguardo il mancato accoglimento della richiesta degli avvocati di trattazione anche dei processi con imputati liberi con la presenza fisica degli stessi, il numero rilevantissimo di processi con imputati detenuti pendenti dinanzi alla Corte di Appello, circa 400 solo nel periodo dal 12 maggio al 30 giugno, impedisce la trattazione anche dei processi a piede libero con la presenza fisica delle parti, tenuto conto della necessità, emersa da tutte le interlocuzioni con l’autorità sanitaria, di limitare al massimo gli accessi di persone nel Palazzo di Giustizia, costituendo questo il primo presidio per ridurre il pericolo di contagio”. Roma. “Tornare sé stesse dopo il carcere” di Sergio Pannocchia uisp.it, 10 maggio 2020 Sentirsi libere dietro le sbarre. La storia di Francesca, ex detenuta del carcere di Rebibbia, e di Ilaria Nobili, responsabile settore danza Uisp Roma. Quando si è in carcere, bisogna organizzarsi le giornate. Si va dalla scrivana e si fanno le richieste per corsi e attività da poter svolgere. Nasce qua la storia di Francesca, ex detenuta del carcere di Rebibbia, e di Ilaria Nobili, responsabile del settore danza dell’Uisp Roma e operatrice a Rebibbia per le donne. Un legame nato in modo naturale attraverso un’intesa spontanea avvertita fin dal primo incontro. Francesca ha sempre avuto la musica nel sangue e da piccola ha svolto lezioni di danza classica, che ha abbandonato però col crescere dell’età. Quando ha trovato il corso di danza sportiva dell’Uisp nel carcere, spinta dalla passione si è segnata. Dopo l’incontro con Ilaria Nobili, il lunedì era diventato il giorno più importante, il giorno che aspettava con più ansia, come un bambino aspetta il carretto che porta i gelati. Quell’ora di lezione è divenuta in breve tempo una vera e propria evasione dalla prigione: era il momento in cui poteva dare libero sfogo alla propria espressione, ai propri movimenti. In poche parole, il tempo passato in compagnia con la danza si poteva chiamare libertà. Per Francesca seguire le lezioni di Ilaria è stato molto importante. La danza l’ha aiutata a ritrovare se stessa, ma anche ad allentare la tensione che si creava all’interno di un contesto dove bisogna avere un determinato tipo di comportamento e seguire le regole. Era l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi con tutte le forze. L’istruttrice Uisp ritiene che lo sport è sempre stato ed è tuttora di grande importanza. In particolare, la danza è l’unica cosa che rende liberi all’interno di un contesto difficile come il carcere. È fondamentale nella danza, ricorda Ilaria, non tanto la tecnica e il movimento del corpo ma ciò che fa sentire la danza, la sensazione di libertà che fa provare a chi balla. Ilaria si approccia ad ogni persona allo stesso modo e non prepara lezioni differenti a seconda del contesto. È abituata a prendere ogni donna per mano e a condurla ad essere se stessa. La grande differenza tra una situazione come quella di Rebibbia e la realtà esterna è la forte sensazione di restrizione: lo spazio è sempre quello, stessi orari e stessi suoni riprodotti. Il carcere, come afferma Ilaria, fa parte della città e le relazioni che nascono al suo interno sono le stesse che accadono tra di noi. Quando si sono incontrate, Ilaria ha avuto la sensazione di conoscere Francesca da sempre ed è rimasta colpita subito da una ragazza sempre sorridente, che accoglieva e spronava tutte le compagne di corso. Francesca è stata la persona che ha coinvolto e fatto iscrivere al corso altre detenute, il ponte che ha unito Ilaria con le altre ragazze. Per Ilaria, l’appuntamento di danza era diventato uno scambio emotivo con tutte le ragazze oltre che un momento in cui ognuna di esse esprimeva cosa voleva ottenere dalla lezione settimanale. Inizialmente è stato difficile, perché le ragazze si erano divise in piccoli gruppetti per via della nazionalità, ma con il tempo il gruppo si è amalgamato e tutte sono diventate donne che facevano semplicemente danza insieme. Ogni lezione non era mai preparata ma costruita di volta in volta a seconda delle loro esigenze. L’assenza poi di agenti in palestra portava le detenute a essere più sciolte sia nella mente che nel corpo. La danza rende liberi e rappresenta, come affermato da Francesca, la luce in una zona di ombra. Insegna ad avere sempre il sorriso in volto, aiuta a riflettere e a migliorare il rapporto con gli altri. Un legame, quindi, quello tra Francesca e Ilaria, che abbatte pregiudizi e che si fonda sulle prime sensazioni. Una storia che ci aiuta a capire quanto sia importante, nei momenti di difficoltà della vita, catturare i piccoli aiuti che ci vengono dati per tornare a respirare ed essere sé stessi. Regolarizzare i migranti è un vantaggio per la nostra economia di Mons. Vincenzo Paglia Il Dubbio, 10 maggio 2020 Dignità del lavoro, sicurezza sanitaria, vantaggio per l’economia. Sono le dimensioni che rendono ragione della regolarizzazione dei “clandestini”. Si stima siano 600 mila persone. Sono invisibili solo per chi non vuole vederli. È una occasione che non deve essere sprecata per visioni miopi. Gli aspetti in campo a mio avviso sono tre: la dignità del lavoro, la sicurezza sul piano sanitario, la dimensione economica. Vediamole una per una. La dignità del lavoro non va neppure discussa. Un grande paese come l’Italia deve assicurare lavoro per tutti. È un dettato costituzionale che fa parte della grande tradizione cristiana e umanistica di un paese come l’Italia. Il lavoro è parte integrante della dignità di ogni persona e della stabilità della stessa società. Lo sfruttamento è il suo opposto. La disgrega irrimediabilmente. Occorre mettere subito un freno allo sfruttamento. Papa Francesco lo ha ripetuto ancora una volta mercoledì: “In occasione del 1° maggio, ho ricevuto diversi messaggi riferiti al mondo del lavoro e ai suoi problemi. In particolare, mi ha colpito quello dei braccianti agricoli, tra cui molti immigrati, che lavorano nelle campagne italiane. Purtroppo tante volte vengono duramente sfruttati. È vero che c’è crisi per tutti, ma la dignità delle persone va sempre rispettata. Perciò accolgo l’appello di questi lavoratori e di tutti i lavoratori sfruttati e invito a fare della crisi l’occasione per rimettere al centro la dignità della persona e la dignità del lavoro”. Il 22 settembre 2013, a Cagliari, incontrando i lavoratori aveva anticipato come questo tema sarebbe stato al centro del suo magistero. “Dove non c’è lavoro, manca la dignità! E questo non è un problema della Sardegna soltanto - ma c’è forte qui! - non è un problema soltanto dell’Italia o di alcuni Paesi di Europa, è la conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia; un sistema economico che ha al centro un idolo, che si chiama denaro”. Il cardinale Bassetti l’altro ieri lo ha ribadito: non dimentichiamo queste persone e troviamo la strada per una loro messa in regola. Sul fronte della sicurezza sanitaria abbiamo una situazione quantomeno contraddittoria. Da una parte sono state introdotte e fatte rispettare regole rigorose di distanziamento sociale e stiamo tutti constatando i vantaggi ottenuti in termini di contenimento e riduzione dei contagi, in vista di una ripresa delle attività economiche, commerciali, sociali. Come possiamo pensare, allora, di avere 600 mila persone in qualche modo fuori controllo? Gli irregolari, anche se invisibili, esistono sul territorio. Hanno alle spalle storie di vita complicate, dolorose, difficili. Non possono continuare a restare ultimi, anzi come degli scarti. Vanno fatti emergere dalla zona grigia della loro irregolarità, uno per uno. Lo dicono le norme più elementari della sicurezza sanitaria per tutti noi. Non sono un tecnico della sanità, ma credo sia davvero irresponsabile lasciare questa bomba pronta per esplodere. Del resto, sappiamo tutti per esperienza diretta, che il coronavirus non conosce confini e non fa distinzione di persone. C’è bisogno di una saggezza in più in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo. Sul fronte dell’economia la regolarizzazione è certamente vantaggiosa per il paese. È un ritornello che gli economisti da tempo ripetono. E credo che su questo il consenso sia largo. Nel Decreto in discussione, peraltro, saggiamente è compresa la regolamentazione anche degli italiani. Di tutti coloro che possono avere un contratto di lavoro. Credo che la pandemia cambi le carte in tavola, nel senso di spingere a regolarizzare il numero più alto possibile. Aiutando poi a trovare il lavoro chi non lo avesse al momento. Insomma la regolarizzazione aiuta l’economia e frena il contagio. C’è poi una lezione che dobbiamo apprendere da questo tempo: non possiamo continuare a comportarci come se gli obiettivi economici e finanziari fossero del tutto slegati dalla concreta realtà dei nostri territori e dalla visione di una società che non scarti nessuno. Per restare al nostro caso, tanti lavoratori stagionali sono ormai parte integrante della nostra economia e lo sappiamo bene tutti: cittadini comuni, imprenditori e amministratori locali. La pandemia peraltro ha mostrato la fragilità della società e dei sistemi economici e politici costruiti su di un tessuto sociale che, oggi, è profondamente cambiato ed esige riflessioni e risposte nuove ed originali. L’architettura dell’umanità va ripensata in senso solidale, fraterno direi, costruendo società dove il diritto al lavoro e alla sussistenza sia garantito per tutti. Già da ora dobbiamo avviarci in questa prospettiva. È una grande opportunità. Tenendo presente che la comune vulnerabilità ci rende consapevoli che le relazioni umane sono la vera forza per costruire un futuro solidale. Non basta la sola tecnica o la sola scienza. La scelta della solidarietà come sostanza della società non è affatto scontata, richiede umiltà e responsabilità, in eguale misura, da parte di tutti, scienziati, politici, intellettuali, gente comune. La solidarietà non è un bene residuo, al quale destinare gli avanzi di bilancio. È un bene primario, al quale assicurare le priorità dello sviluppo. La nostra reazione deve sviluppare “anticorpi solidali” per rilanciare il “bene comune” dei legami e della cura, dell’habitat e dell’ambiente: immunitas, qui, è communitas. La pandemia ha rivelato con chiarezza quanto l’individualismo sia una falsa domanda di libertà e il sovranismo una falsa risposta. La “rivoluzione della fraternità”, abbandonata dalla modernità e rilanciata da Papa Francesco, deve essere la nuova fonte del diritto umano e il nuovo nome della democrazia compiuta. È una antica convinzione dell’insegnamento cristiano. I Padri della Chiesa furono i primi a sottolineare il comune diritto di tutti a usare i beni della creazione: tutti hanno diritto ad abitare la terra. E i beni sono destinati all’intera famiglia umana. Un solo pianeta, una sola casa comune, una sola famiglia sebbene composta da tanti popoli. Il grande vescovo del IV secolo, Giovanni Crisostomo diceva: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”. L’attenzione per i poveri è il filo rosso che unisce venti secoli di storia cristiana. Così pure l’attenzione al lavoro e alla dignità umana come in esso si esprime lega l’intera vicenda cristiana. Il Concilio Vaticano II ha come raccolto in una nuova sintesi questo pensiero. E Papa Paolo VI, nella Populorum progressio, giunge a dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. La terra è della intera famiglia umana; tutti hanno diritto di abitarla e di viverla come la propria casa. L’Italia del dopo Coronavirus inizia già da ora. L’intero Paese è chiamato a virare in una nuova direzione. È utopia? Certo. Ma senza visioni si resta dove si è, anzi si indietreggia. In questo tempo nel quale sperimentiamo una comune fragilità senza eccezione alcuna, siamo chiamati a farne una prospettiva di scelta positiva. La “fraternità” è l’anima di una globalizzazione a misura umana. E questo permetterà una alleanza nuova tra tutti. Mi auguro che prevalga questa visione del futuro del nostro paese. La forza di questa visione ci permette di accogliere la sfida epocale di rendere l’Italia più solidale, più fraterna. Certamente in sicurezza, ma con quel surplus di umanità che rende grandi i popoli. Per noi credenti il “di più” di umanità, mentre ci rende cittadini responsabili della città degli uomini, ci aiuta ad affrettare la realizzazione del Regno che Gesù è venuto ad inaugurare sulla terra. Emma Bonino: “Regolarizzare migranti per un solo mese è ridicolo, Conte trovi una soluzione” di Umberto De Giovannangeli Il Dubbio, 10 maggio 2020 “Un incubo, un pasticcio, una iniziativa che rischia il ridicolo. Ora cosa dovremmo dire a pomodori e pesche: aspettate un po’ a maturare perché abbiamo un problema Crimi. Mi auguro che il presidente del Consiglio stia cercando una soluzione decorosa per tutti”. L’ipotesi che sta avanzando sulla concessione ai migranti lavoratori irregolari di un permesso di uno o tre mesi, non va proprio giù a Emma Bonino, senatrice di +Europa, leader storica dei Radicali, già ministra degli Esteri e Commissaria europea. E in questa intervista a Il Riformista ne spiega le ragioni. Senatrice Bonino, in queste convulse giornate di trattativa, dentro e fuori il Governo, si fa strada l’ipotesi di dare ai lavoratori migranti irregolari un permesso solo di uno o tre mesi… Spero che sia senza fondamento l’ipotesi che circola di una emersione dal nero per forse tre mesi. La cosa è insensata, cioè pomodori e pesche sì, uva no. Il nonno curato oggi, magari fino ad agosto, e poi non si sa. Un pasticcio, un incubo! Non solo per le lavoratrici e i lavoratori, ma per gli imprenditori, le famiglie… E anche sul piano politico non è comprensibile, tanto Crimi, Salvini e compagnia le polemiche le faranno comunque. Quindi tanto vale affrontare questo problema con un po’ di lungimiranza. Lungimiranza, lei invoca. Ma in quale direzione esercitarla? Chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale e sa di cosa si stia parlando, è consapevole che questi 500-600mila lavoratori migranti irregolari non potranno mai essere rimandati a casa. E questo per la concreta ragione, non la sola ma fondamentale, che mancano gli accordi con i Paesi di origine. Perché Salvini o non Salvini, ad oggi gli accordi sono 4: Tunisia, Marocco, Nigeria e uno, antichissimo, con l’Egitto. Quindi di che parliamo! Tanto è vero che lo stesso Salvini ebbe a dichiarare che ci sarebbero voluti più di 80 anni. Dopo un po’, sempre Salvini dichiara che questi irregolari erano in realtà 90mila, ma non si è mai capito né è mai stato detto su quali basi lui sparasse questa cifra. Quali soluzioni immagina? Se tutto questo è il passato, è ovvio che non si può continuare nello stesso modo, con pasticci che per tutti i cittadini, regolari o non regolari, diventano un incubo. Dopo di che, l’urgenza è evidente, perché nessuno può dire ai pomodori o alle pesche: aspettare un attimo a maturare perché abbiamo un problema Crimi. D’altro canto, per una soluzione ragionevole si sono schierati tutti: tutti i sindacati, Confagricoltura, Coldiretti, il terzo settore tutto, cattolico o non cattolico, i vescovi, il Papa, e ci manca Crimi? Persino nei 5Stelle ci sono posizioni diverse: il presidente dei 5 Stelle della Commissione Affari costituzionali della Camera, Brescia, partecipando a una iniziativa Facebook di +Europa, ha assunto posizioni simili alle nostre. La Vice presidente della Camera, Mara Carfagna, si è espressa nello stesso modo. E allora? E Conte? Penso e mi auguro che il presidente del Consiglio stia cercando una soluzione decorosa per tutti. Non si può affrontare e superare un problema drammatico per le famiglie, per il nostro Paese, con iniziative che rischiano il ridicolo. Stati Uniti. Nelle carceri della California oltre 800 detenuti positivi ansa.it, 10 maggio 2020 Oltre 800 detenuti di due carceri della California sono risultati positivi al test del coronavirus: lo ha annunciato ieri l’Ufficio federale delle prigioni (Bop) statunitense, secondo quanto riporta la Cnn online. Entrambi gli istituti penitenziari in questione - uno a bassa e uno a media sicurezza - si trovano a Lompoc, nella contea californiana di Santa Barbara: nel complesso sono risultate positive 848 persone, di cui 823 detenuti (su 2.704, pari al 30%) e 25 membri del personale, mentre due detenuti sono morti a causa del virus. Nel carcere di Lompoc a bassa sicurezza hanno contratto il virus 792 su 1.162 detenuti (il 68%), mentre in quello a media sicurezza si sono ammalati 31 detenuti su 1.542. Kenya e Somalia, un incubo lungo 18 mesi. Gli 007 italiani riportano Silvia in Italia di Francesco Grignetti La Stampa, 10 maggio 2020 Prigioniera degli Shabaab, liberata con la collaborazione dei servizi turchi. Oggi il rientro a Roma. È stata una prigionia interminabile, per la giovane Silvia Romano. Diciotto mesi nelle mani dei suoi rapitori, che l’hanno spostata almeno tre volte in altrettanti villaggi. Quasi sempre nella zona più interna e desolata della Somalia. E le caratteristiche del territorio quasi hanno fatto saltare la liberazione, perché l’area a 30 km da Mogadiscio dove l’avevano portata per lo scambio, in questi giorni è sottoposta a piogge torrenziali, le strade sono alluvionate e ci sono decine di migliaia di sfollati. C’è voluto un sovrappiù di testardaggine, insomma, per riportare Silvia a casa. Ma anche lei dimostra una tempra eccezionale. Ha tenuto testa alla paura per un anno mezzo. E non ha mancato di farlo notare a chi le ha parlato, nel tragitto dalla boscaglia verso la città: “Sono stata forte e ho resistito”. Sì, Silvia è stata forte. Ci ha creduto, che l’avrebbero tirata fuori dall’incubo. E gli 007 italiani non l’hanno delusa. Quel che ignora, è che anche quando anche tutto sembrava a posto, riscatto compreso, non c’è stata certezza del lieto fine finché non ha varcato materialmente la porta dell’ambasciata, s’è abbracciata con l’ambasciatore Alberto Vecchi e non ha chiamato casa. “Sto bene e non vedo l’ora di tornare in Italia”. Ora possiamo dirlo con certezza: a rapirla erano stati gli al Shabaab, il gruppo islamista che taglieggia la Somalia, si batte per instaurare un regime islamico e combatte il governo legittimo con autobombe e gruppi armati. Bande molto pericolose perché terroristi che odiano l’Occidente, ma anche predoni che apprezzano i soldi. Ci sono voluti 18 mesi, insomma, ma i servizi segreti dell’Aise ce l’hanno fatta, grazie ai buoni contatti con le forze somale e grazie anche alla sponda dei servizi segreti turchi che in quella fetta di mondo hanno buona ramificazione. Ora l’Italia intera esulta, a cominciare dal Presidente della Repubblica che ha voluto parlare personalmente con il padre della ragazza e dal premier Giuseppe Conte. Ma se c’è una persona da ringraziare in particolare è il generale Luciano Carta, che tra una settimana lascerà il comando dell’Aise ed è riuscito a coronare il suo periodo di comando con questo successo. Silvia, 23 anni, una fiducia incrollabile nella bontà del mondo, era partita da Milano per portare aiuto ai bambini di uno sperduto villaggio del Kenya, Chakama, a circa 80 chilometri dalla città di Malindi, ma terribilmente vicina al confine somalo. Al di là di una boscaglia, un Paese fuori controllo. Di qua, una parvenza di legalità e benessere. Il 20 novembre 2018, una sera, Silvia decise di andare a fare spese nel centro commerciale. Non sapeva di essere seguita da giorni. Un gruppo di balordi locali aveva visto nella giovane occidentale una preda facile. Tre di loro sono stati individuati e arrestati quasi subito, ma già troppo tardi. L’avevano ceduta ai somali. E i carabinieri del Ros, il pm Sergio Colaiocco, e l’Unità di Crisi della Farnesina, a quel punto hanno capito che Silvia era stata ingoiata in un buco nero. Si iniziava un’altra partita, affidata esclusivamente ai servizi segreti. Lungo tutto il 2019 ci sono stati mesi di silenzio, false piste, presunti mediatori che si rivelavano dei cialtroni. Nel frattempo in Italia ogni tanto qualche articolo squarciava il silenzio, ma molto spesso erano illazioni. La famiglia Romano ha incassato tutto con encomiabile forza d’animo. Si sono sparse molte voci. Anche che Silvia fosse morta. Chiacchiere. E intanto l’Aise andava avanti. “Un lavoro condotto nel silenzio, con grande professionalità e sprezzo del pericolo”, ricorda il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. A gennaio di quest’anno, di colpo s’è sparso un certo ottimismo tra chi seguiva il caso. Con il passare delle settimane, l’ottimismo s’è consolidato. La via “turca” prometteva bene. Quando poi è arrivato un video con la prova che Silvia era in vita, le cose hanno cominciato a correre. L’Aise ha rinforzato la squadra in loco. Ieri mattina è partito un aereo per riportare l’ostaggio a casa. Nelle stesse ore, si organizzava lo scambio sul terreno. I somali hanno messo a disposizione uomini e mezzi per garantire il rientro degli italiani alla base. Alle 17 italiane, avute tutte le conferme, palazzo Chigi ha dato la notizia. Da quel momento è stato un diluvio di reazioni. “Sapere che finalmente potrà tornare in Italia mi rende orgoglioso del nostro governo”, dichiarava il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.