Ergastolo ostativo al capolinea? di Andrea Pugiotto Il Riformista, 9 luglio 2020 Per la Cedu viola il diritto alla speranza. La Consulta ha già dichiarato illegittimo l’automatismo secondo il quale chi non si pente resta in cella. Ora la Cassazione esprime seri dubbi sulla sua conformità alla Costituzione, una novità importante. Per il carcere a vita è scattato il countdown. 1. Secondo la Costituzione, puniamo qualcuno per averlo poi indietro, possibilmente cambiato: alle corte, questo sta a significare che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, comma 3). Ecco perché, da sempre, l’ergastolo è pietra d’inciampo. Come può, infatti, mirare al recupero sociale una detenzione a vita, dunque fino alla morte del reo? 2. Per l’ergastolo comune, che pure il codice definisce pena “perpetua” (art. 22), la quadratura del cerchio è stata trovata nel 1962, estendendo per legge anche ai condannati a vita la liberazione condizionale: la possibilità cioè, per l’ergastolano che abbia dato prova di sicuro ravvedimento, di uscire di galera dopo ventisei anni di detenzione (riducibili fino a ventuno grazie al meccanismo degli sconti di pena, se meritati). Scarcerato, vivrà in libertà condizionata per cinque anni, trascorsi i quali - se avrà rigato dritto - la sua pena sarà estinta. Ecco perché quando, anni dopo, l’art. 22 del codice penale venne impugnato davanti alla Corte costituzionale, questa respinse la quaestio come infondata: non essendo più perpetua, la pena dell’ergastolo incapsula una valenza risocializzatrice (sentenza n. 264/1974). Traduco? Secondo quella sbrigativa decisione, l’ergastolo non vìola la Costituzione perché non è più ergastolo. E può continuare a esistere in quanto tende a non esistere. È un sofisma di corto respiro. Capovolto, dimostra che il carcere a vita è certamente incostituzionale: dunque, tutti i colpevoli che hanno scontato un ergastolo fino a morirne sono stati sottoposti a una pena che la Costituzione ripudia. È accaduto. Continua ad accadere anche oggi: a settembre 2019, dietro le sbarre si contavano 1.790 ergastolani, molti in galera da oltre ventisei anni. 3. Per la stragrande maggioranza di essi (1255, pari al 70,1%), quel sofisma non può neppure essere invocato. Sono gli “ergastolani senza scampo” (il copyright è di Adriano Sofri) perché condannati a vita per uno dei gravi reati associativi inclusi nella blacklist compilata nell’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario. In gergo, si chiamano ergastolani ostativi. La loro è davvero una condanna a vita: se non collaborano utilmente con la giustizia, ad essi è automaticamente precluso l’accesso alla liberazione condizionale. Per loro, e solo per loro, ogni giorno trascorso è un giorno in più (e non in meno) di detenzione. Per loro, e solo per loro, l’espressione gergale “finire dentro” vale alla lettera, nel senso inedito e senza speranza di chi in carcere è destinato a finire, cioè a morirvi. L’ergastolo torna così ad essere quello che è sempre stato: l’ambiguo luogotenente della pena capitale, “una pena di morte nascosta” (come lo chiama Papa Francesco). La novità è che, ora, l’ergastolo ostativo sembra arrivato al capolinea. È del 3 giugno scorso, infatti, l’ordinanza con cui la Prima Sezione penale della Cassazione dubita della sua conformità a Costituzione. Le domande precedono sempre le risposte, e quelle formulate dalla Cassazione sono davvero serrate: vediamole. 4. La prima è particolarmente insidiosa, perché usa parole spese in passato dalla stessa Corte costituzionale: “se la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca” (sentenza n. 161/1997). Tertium non datur. E così la stampella argomentativa, fin qui adoperata a puntellare l’ergastolo comune, viene meno per la sua variante ostativa. Come un boomerang, torna indietro ritorcendoglisi contro. 5. La seconda domanda chiama in causa la Corte di Strasburgo. La sua giurisprudenza non è contraria a pene perpetue, purché riducibili de jure (ad esempio, attraverso la liberazione condizionale) e de facto (dovendosi riconoscere all’ergastolano una prevedibile e concreta possibilità, ancorché condizionata, di scarcerazione). Diversamente, la detenzione a vita vìola il divieto di pene inumane o degradanti (art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). Qui la Cassazione invoca un diretto precedente contro l’Italia, la sentenza Viola n° 2, pronunciata un anno fa, che ci ha condannati proprio in ragione del regime ostativo applicato all’ergastolo: per i giudici europei, infatti, è un meccanismo che “limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena”. Negando il diritto alla speranza dell’ergastolano, ne degrada la dignità che inerisce ad ogni persona, anche criminale certificato, perché la dignità umana “non si acquista per meriti né si perde per demeriti” (così Gaetano Silvestri, già Presidente della Corte costituzionale). Precedente non trascurabile, la sentenza Viola n° 2, riguardando “una vicenda pienamente sovrapponibile” a quella oggetto del mio procedimento, scrive la Cassazione. Dunque, nei suoi esiti interpretativi, è doppiamente vincolante: perché espressione di un orientamento consolidato a Strasburgo e perché calco esatto della quaestio ora promossa davanti alla Corte costituzionale. 6. L’ultimo quesito posto alla Consulta ne chiama in causa, di nuovo, un obbligo di coerenza giurisprudenziale. Qui, il riferimento è alla ratio decidendi della sua sentenza n. 253/2019, che ha aperto una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria riconoscendo la possibilità di domandare - e non il diritto di ottenere - il beneficio del permesso premio (anche) all’ergastolano ostativo non collaborante. È una sentenza che ha smontato la presunzione legale secondo cui chi non parla, pur potendolo fare, è socialmente pericoloso. Per legge, infatti, quel silenzio è sempre omertoso, prova invincibile della permanente adesione del reo al sodalizio criminale. Non contano le ragioni del suo silenzio (magari dettato dal timore di ritorsioni a danno di sé o dei propri familiari). Non conta il suo percorso rieducativo fatto durante gli anni di reclusione (anche se ne attesta un’autentica revisione critica delle pregresse scelte criminali). O ti penti o rimani in cella per sempre. Con la sua sentenza la Corte costituzionale ha censurato tale automatismo. Perché la collaborazione può essere premiata, ma non estorta con il ricatto di una detenzione più afflittiva. Perché nega, a priori, rilevanza giuridica al processo di risocializzazione del detenuto. Perché il decorso del tempo in prigione può contraddire la presunta “immutabilità, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere”. È il giudice di sorveglianza, dunque, a dover valutare, caso per caso, entrambi i fattori, al fine di concedere o meno il beneficio penitenziario richiesto dal reo non collaborante. A questa ratio decidendi la Cassazione fa appello. Una ratio che non può non valere anche per la liberazione condizionale, traguardo di un percorso trattamentale di cui il permesso premio è solo il punto di partenza, altrimenti sterilizzato nella sua “funzione pedagogico-propulsiva”. 7. Sono pronto a scommettere che l’ordinanza della Cassazione farà da apripista ad altre analoghe impugnazioni da parte di Tribunali di sorveglianza non pavidi. Se accadrà, le relative questioni di costituzionalità potranno arricchirsi di ulteriori profili. Ad esempio, la violazione del diritto di difesa (art. 24, comma 2), perché il diritto al silenzio garantito nel processo si rovescia nell’obbligo di collaborare in sede di esecuzione della pena. O la violazione del divieto, assoluto e incondizionato, della morte come pena (art. 27, comma 4), perché l’ergastolo ostativo alla concessione della liberazione condizionale è una pena fino alla morte. O il divieto di tortura (artt. 13, comma 4, e 117, comma 1), che la pertinente convenzione ONU del 1984, ratificata anche dall’Italia, definisce come «ogni atto con il quale viene intenzionalmente inflitto ad una persona un grave dolore o sofferenza, fisica o mentale, per propositi quali ottenere da essa […] informazioni o confessioni». Da ultimo, l’ottusità di un simile regime ostativo può generare un autentico paradosso kafkiano, nel caso non improbabile di errore giudiziario: solo il colpevole, infatti, può utilmente collaborare con la giustizia, non l’innocente, che – condannato all’ergastolo ostativo – dovrà rassegnarsi a morire murato vivo. Amen. 8. Prima che la contraerea preventiva dei soliti noti inizi a sparare la sua mediatica potenza di fuoco, censurando come improvvida l’iniziativa della Cassazione, tentando così di condizionare i giudici costituzionali, va segnalata un’ulteriore novità. Se possibile, ancora più clamorosa. È la stessa Commissione parlamentare antimafia, nella sua relazione approvata il 20 maggio scorso, a prendere atto – alla luce della giurisprudenza più recente delle due corti dei diritti – che «la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo». Seguendo indicazioni già presenti nella sentenza n. 253/2019, la relazione prefigura «nuove soluzioni normative», che introducano «un più rigoroso procedimento di accertamento da parte della magistratura di sorveglianza» circa i presupposti per la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, quando richiesti dal condannato che non collabori con la giustizia. Di tali proposte di riforma si può discutere. Ma ciò che conta, qui e ora, è il loro assunto di partenza: l’incompatibilità, costituzionale e convenzionale, di un ergastolo senza scampo. 9. È dunque iniziato il countdown: per giudicato costituzionale o per scelta legislativa (o, com’è più probabile, perché l’uno trascinerà l’altra), sull’ergastolo ostativo calerà il sipario. Com’è giusto che sia. È così semplice da capire, quasi elementare: se l’orizzonte costituzionale è quello del recupero del condannato alla vita sociale, allora davvero il fine della pena esige la fine della pena. Carceri, finisce l’effetto virus. Le celle tornano a riempirsi di Giulio Isola Avvenire, 9 luglio 2020 Almeno un “effetto collaterale” benefico per, il carcere italiano, il Covid l’aveva prodotto: cancellare (o quasi) il cronico sovraffollamento delle celle. Ma purtroppo il piccolo vantaggio sta già annullandosi perché, dopo il costante calo da marzo a maggio (dalle 7 alle ottomila presenze in meno), i numeri forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 30 giugno fanno segnare un’inversione di tendenza rispetto al periodo dell’emergenza. Il grafico è presto tracciato: a fine febbraio i detenuti nelle carceri italiane erano oltre 61mila, in progressiva crescita tra 2019 e inizio 2020 e a fronte di una capienza regolamentare ferma a 50.472 posti nei 189 istituti di pena sparsi sul territorio italiano. Poi - “grazie” al Coronovirus e al forte pericolo di contagio per tre mesi le presenze sono calate bruscamente, facendo addirittura sperare che sarebbe stato raggiunto il dato “storico” di un pareggio fra la capacità teorica e la popolazione carceraria effettiva: ad aprile infatti si era arrivati a 53.904 detenuti, a fine maggio se ne contavano circa 53.300. Ora invece il livello è risalito a 53.579 (17.510 stranieri, 2.250 donne): un aumento in sé relativo, ma che indica come l’“effetto pandemia” nelle patrie galere si sia esaurito. Non solo: poiché è da presumere che durante il lockdown le autorità giudiziarie competenti abbiano “rinviato” un certo numero di arresti, diventa probabile che per recuperare il tempo perduto il numero dei “ristretti in carcere” torni presto ai livelli del passato. Dall’altro lato delle sbarre, peraltro, i sindacati di Polizia Penitenziaria denunciano un secondo calo ben poco fisiologico: quello degli agenti, passati da 45mila a 41mila (di cui però solo 37mila in servizio attivo) quando ne occorrerebbero 47mila anche per fronteggiare le rivolte che - altra conseguenza del virus - in marzo hanno interessato una trentina di istituti, con morti tra i detenuti, feriti nella polizia e devastazioni sulle strutture. A torto o a ragione, infatti, la paura del contagio (1.500 detenuti hanno problemi psichici) ha dato un’ulteriore spinta all’aumento delle aggressioni e delle violenze nelle celle. Nel frattempo anche in cella si passa alla “fase 2”. La settimana scorsa la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e la Conferenza nazionale Volontariato Giustizia si sono riunite (in streaming) per aggiornarsi sulla situazione dei penitenziari anche in vista di un graduale rientro nelle carceri degli operatori del terzo settore. Le raccomandazioni sono le solite: triage di ingresso, distanziamento di un metro e mezzo dai detenuti, uso puntuale di mascherina e gel igienizzante. È comunque importante che - soprattutto in questo periodo estivo - non vengano interrotte le attività formative e di rieducazione o reinserimento, magari distribuendole in gruppi più limitati e spazi ampi o all’aperto. Deve inoltre proseguire l’esperienza “da remoto”, particolarmente adatta per i servizi di sostegno individuale e le attività di scolastiche ed educative, ma pure per i colloqui familiari; il digitale anche (e ancor più) nelle carceri ha infatti dimostrato in questo periodo tutte le sue potenzialità ed è divenuto un’opportunità aggiuntiva per approfondire alcune attività o creare nuove iniziative. “Ora un mondo senza carcere...” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 9 luglio 2020 “Il tema del carcere è complesso perché non riguarda soltanto le strutture, ma principalmente le persone. Bisogna avere un’attenzione particolare per le famiglie dei detenuti, i figli dei detenuti, che non hanno alcuna colpa rispetto ai reati commessi ma subiscono gli effetti della detenzione”. Con le parole di Fiammetta Borsellino, figlia minore del magistrato andare a trovarlo. Ogni giorno pregavo che quell’incubo finisse, ma non finiva mai”. Mentre dietro la telecamera Gaetano Santangelo - vittima nel 1976 di un clamoroso errore giudiziario io dicevo: perché un uomo che subisce la condanna ingiusta dello Stato, deve subire anche quella della società?”. Nelle sue parole c’è tutto il senso di giustizia che non si trova dentro un libro di diritto, tutta quella umanità che non si contiene in un articolo di giornale. Come lei, altre donne, altri figli, ci accompagnano in questo percorso di conoscenza e “svelamento” di quella realtà stipata dentro le celle affollate del nostro paese. Dall’estremo Nord al punto più a Sud d’Italia, quello che incontriamo è lo stesso desiderio di spiegare, mostrare, denunciare: il carcere ha fallito, il nostro sistema penitenziario non funziona e va cambiato, anche se ci rifiutiamo di guardare. A dirlo non è solo l’ex magistrato Gherardo Colombo che con la sua testimonianza e il suo appello ad “abolire il carcere” ha dato avvio a questa narrazione. Provare a superare il moderno concetto di detenzione significa tentare un investimento più potente, impegnarsi ad ascoltare le voci dei volontari, del personale penitenziario, dei detenuti che hanno avuto una seconda possibilità. Il carcere di oggi, quello che intravediamo tra le sbarre inaccessibili a chi abbia voglia di guardare in profondità, è lo specchio di una società malata a cui si offre una medicina inadeguata. “Mi sono reso conto che dentro le prigioni è recluso tutto il disagio di questa società. Dopo questa esperienza mi sento di ribadire che non bisogna restare in superficie, che chiunque può sprofondare in un vortice più grande di sè”, spiega Roberto Sensi, protagonista del tour ciclistico che dal Brennero si conclude a Capo Passero. Dalla sella della sua bici è stato il testimone di un paese affaticato, spezzato ulteriormente dall’emergenza sanitaria che ha esarcerbato tutte le contraddizioni e la violenza del nostro sistema detentivo: “La mia visione del carcere si è rafforzata attraverso le testimonianze dirette di chi lo ha vissuto. Con la pandemia ognuno di noi ha sperimentato, seppur in piccolo, la privazione della libertà, e ne ha conosciuto il prezzo. È da qui che bisogna ripartire”. Dap: tavolo con Sindacati penitenziari per nuovo modello di custodia agenzianova.com, 9 luglio 2020 Il documento a cui sta lavorando il gruppo di lavoro del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per lo studio di un nuovo modello di custodia si avvarrà anche del contributo offerto dalle organizzazioni sindacali del comparto sicurezza non dirigenziale, dei dirigenti penitenziari e di Polizia penitenziaria e del comparto funzioni centrali. Lo ha fatto sapere il capo del Dap, Bernardo Petralia, il quale ha disposto la convocazione di un apposito “tavolo” con i sindacati penitenziari al fine di acquisire spunti e riflessioni quali contributi utili all’elaborazione di un nuovo modello custodiale. Il tavolo si articolerà in tre riunioni, la prima delle quali è stata già fissata con i sindacati del comparto sicurezza non dirigenziale per venerdì 10 luglio prossimo alle ore 9.30. Seguiranno altre due riunioni con i sindacati del comparto dei dirigenti penitenziari e di polizia penitenziaria nonché con i sindacati del comparto funzioni centrali. Ferraresi: aggiornamento modello custodia di concerto con sindacati - E’ allo studio del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un nuovo modello organizzativo della vita detentiva finalizzato a ridisegnare la custodia dinamica rendendola più confacente ad esigenze di sicurezza e recupero dei detenuti. A elaborarlo, un gruppo di lavoro coordinato dal vertice del Dipartimento e costituito da un provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, due direttori di istituto, un comandante, un ispettore e un agente. In merito il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi ha dichiarato: “Bene ha fatto il Dap ad avviare questo cambiamento. L’obiettivo è definire in modo più preciso e adeguato le regole della custodia e della sorveglianza dinamica nelle carceri italiane, conciliando la sicurezza del personale di Polizia Penitenziaria e i diritti dei detenuti. Nei prossimi giorni al Dap si terranno tre tavoli di lavoro con le rappresentanze sindacali di tutto il personale penitenziario per raccogliere i loro contributi sul tema”. Il gruppo di lavoro entro la fine di luglio elaborerà una relazione finale che aggiornerà, alla luce dei nuovi spunti e delle riflessioni emerse, il precedente lavoro concluso nel novembre 2019 e costituirà la base di una successiva circolare del Dap. Fp-Cgil: bene Petralia su confronto per modifica sistema di custodia - “Un atto concreto che potrebbe portare ad un reale cambiamento tale da far uscire il sistema carcere dalla profonda crisi in cui versa”. “Abbiamo chiesto con forza la convocazione di un confronto per modificare l’attuale sistema custodiale adottato nelle carceri del nostro paese e per questo accogliamo con favore l’iniziativa assunta dal Capo del Dap, Bernardo Petralia, di aprire un confronto sul tema con le organizzazioni sindacali”. Questo il commento della Fp Cgil alla notizia della convocazione giunta dal vertice del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Dopo tante inutili passerelle di politici che quando sono all’opposizione si fanno fotografare al fianco dei poliziotti penitenziari - prosegue la Fp-Cgil - mentre quando sono al governo non fanno nulla per migliorare le loro condizioni di lavoro, finalmente un atto concreto che potrebbe portare ad un reale cambiamento tale da far uscire il sistema carcere dalla profonda crisi in cui versa da tempo”. Per il sindacato si tratta, inoltre, di “un atto che assume maggior rilievo per la decisione assunta dai vertici del Dap di confrontarsi con le rappresentanze di tutti i lavoratori che operano nel sistema carcere, poiché da questa crisi si esce solo con un progetto forte e ampiamente condiviso che punti ad unire il mondo del lavoro e non a mettere gli uni contro gli altri come qualcuno sta tentando di fare. Noi abbiamo pronte le nostre proposte e siamo determinati a fare la nostra parte. Non è più il momento degli spot elettorali, servono interventi urgenti e qualificati”, conclude la Fp-Cgil. Giornata per le vittime di errori giudiziari, Pd e 5Stelle non votano e Renzi vota con la destra di Simona Musco Il Dubbio, 9 luglio 2020 La giornata per le vittime di errori giudiziari passa in commissione giustizia ma la maggioranza si spacca. Pd e 5Stelle non votano e ci pensa Italia Viva a far passare il disegno di legge. La giornata per le vittime di errori giudiziari passa in commissione giustizia ma la maggioranza si spacca. Pd e 5Stelle non votano e ci pensa Italia Viva a far passare il disegno di legge. “Spiace che Pd e 5Stelle abbiano votato contro il mandato al relatore sul disegno di legge di istituzione della ‘Giornata per le vittime degli errori giudiziari’, nonostante l’esponente di Italia Viva si fosse espresso a favore e spaccando, di fatto, la maggioranza. Il Pd, in particolare, prima ha presentato un emendamento che svuotava il corpo della legge, provando ad impedire che questa giornata di ricordo diventasse patrimonio di tutti gli italiani, a cominciare dai piu’ giovani, attraverso la celebrazione nelle scuole; poi lo ha ritirato accodandosi al M5S. L’importanza e la necessita’ di questa legge e’ dimostrata dai numeri: in media ci sono 1000 innocenti vittime di errori giudiziari l’anno, oltre 26mila negli ultimi 25 anni. Con questo atteggiamento Pd e 5Stelle hanno dimostrato ancora una volta di non avere a cuore la diffusione del valore fondamentale della liberta’ e della presunzione di non colpevolezza come regola di giudizio”. Lo dichiarano i senatori di Forza Italia, membri della commissione Giustizia, Giacomo Caliendo, Franco Dal Mas, Massimo Mallegni e Fiammetta Modena. “L’istituzione della Giornata delle vittime degli errori giudiziari è un atto con il quale vogliamo ricordare l’alto numero di coloro che hanno subito la gogna mediatica alla quale è seguita l’ingiusta detenzione o la estraneità ai fatti per i quali sono stati indicati al pubblico ludibrio”. Lo sottolineano in una nota Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale che ringraziano il Presidente della Commissione Giustizia Andrea Ostellari “per aver depositato la nostra proposta di legge” e i membri della Commissione “per averla sostenuta con il loro voto”. “Con l’istituzione della Giornata - osservano - lo Stato riconosce di aver fatto un torto alle vittime, auspichiamo che con la massima celerità l’aula del Senato e poi la Camera istituiscano formalmente la giornata delle vittime degli errori giudiziari. Continua ad essere urgente e necessaria la riforma complessiva della Giustizia per prevenire nei limiti del possibile e dell’impossibile che il sistema continui a generare errori, cioè a sottoporre liberi e innocenti cittadini a una violenza di Stato inaudita. E comunque, se colpevoli, non li getti in quei luoghi che sono la negazione radicale dei principi e del dettato costituzionale”. “Il voto contrario del Partito Democratico e del M5S - concludono - è un segnale grave e pericoloso” Cesare Mirabelli: “Magistratura, basta correnti bisogna recuperare autorevolezza e dignità” di Angela Stella Il Riformista, 9 luglio 2020 In questa intervista Cesare Mirabelli, giurista e presidente emerito della Corte Costituzionale, esalta il ruolo dell’avvocatura, critica l’influenza delle correnti sulle decisioni del Csm e aspira ad un Ministro della Giustizia con lo spessore di Giuliano Vassalli. Quanto è grave la crisi della magistratura? Parlerei piuttosto di crisi del sistema giustizia: crisi della durata dei processi civili e penali, crisi dell’organizzazione giudiziaria e crisi anche della magistratura per quanto concerne le recenti vicende del Csm. La magistratura deve recuperare autorevolezza e credibilità. Secondo Lei le correnti andrebbero sciolte? Sono correnti dell’Anm, ossia di una associazione privata, di antichissima data. Ricadono nell’ambito della garanzia della libertà di associazione. Occorre però che le correnti non esprimano il dominio nelle e sulle istituzioni, cioè sul Csm. Possono essere un luogo di dibattito ma il Csm è un organismo istituzionale di rilevanza costituzionale e dovrà essere eventualmente il sistema elettorale a ridurre l’impatto delle correnti, oltre che un cambiamento complessivo di costume. Per la riforma del Csm si è parlato di molte possibilità: sorteggio, sistema misto. Che ne pensa? La Costituzione prevede che siano eletti i componenti. Tuttavia i meccanismi elettorali possono essere molto vari e tali da ridurre il peso che hanno i centri organizzati del consenso sulla elezione. Se non ricordo male, per i quattro posti riservati ai pm alle elezioni sono state presentate quattro candidature: significa non eleggere ma nominare. A proposito di pm, secondo uno studio dell’Ucpi in Italia ci sono circa 250 ricorsi al Tar da parte di magistrati contro le nomine fatte dal Csm. C’è qualcosa che non va. I ricorsi al giudice amministrativo per le nomine deliberate dal Csm riguardano non solamente i posti di procura ma tutti gli uffici direttivi. Le promozioni manifestano una legittima aspirazione alla carriera ma sono effettuate con metodi che, come abbiamo visto recentemente, trovano una forte influenza da parte delle correnti. Ciò non significa che non siano adeguatamente qualificati ma che c’è un vantaggio per gli appartenenti alle correnti. Le procure però non hanno troppo potere e per questo i magistrati si fanno la guerra per ambire a certi posti, come successo nello scandalo Palamara? È vero che ci sono effetti politici della iniziativa penale che anticipano addirittura il contenuto delle sentenze. Lo stesso accade negli organi di informazione, con la pubblicazione di atti e di intercettazioni. Tutto ciò ha un effetto di condanna e di incisione sulla credibilità delle persone che hanno un ruolo pubblico prima che ci sia una verifica giudiziaria. Ma è anche vero che la politica a volte utilizza queste situazioni, avendo interesse ad usare come strumento di lotta politica le iniziative penali o le sentenze ancora non definitive. A fine luglio si discuterà alla Camera della proposta di legge sulla separazione delle carriere dell’Ucpi. Che ne pensa? Saremmo con una magistratura non solo distinta in giudicante e requirente ma anche con distinzione di ruoli e di accessi e di governo, con due Consigli Superiori distinti. Invito dunque ad una riflessione: nel contesto attuale gli uffici del pubblico ministero e le procure diventerebbero così una corporazione ancora più potente di quanto non lo siano oggi? Salvo che non ci sia un controllo politico sulla iniziativa penale ma in quel caso cambierebbe profondamente il sistema. Il past presidente dell’Ucpi Beniamino Migliucci ha ribadito come sia “solo una leggenda metropolitana che con questa riforma il pm vada sotto il controllo dell’esecutivo”. Bisogna stare molto attenti su questo, affinché il risultato che si ottiene non sia quello non voluto, ossia rafforzare la corporazione dei pubblici ministeri, anziché indebolirla. Quello che bisogna rafforzare molto è l’elemento del giudizio, cioè ogni iniziativa del pm deve essere rapidamente sottoposta al vaglio di un giudice imparziale e nella parità di posizioni tra accusa e difesa, tra procura e avvocatura. Senza avvocatura e senza difesa non c’è giurisdizione. Secondo Lei quando un magistrato giudica c’è il rischio che talvolta venga influenzato dalle sue idee politiche? La Costituzione dice che i magistrati sono sottoposti soltanto alla legge. Perciò devono interpretare e applicare la legge. Il giudice ha il dovere di distaccarsi dalle sue posizioni politiche, non può decidere in base a simpatie o antipatie. Nel caso Berlusconi che abbiamo sollevato un tribunale civile ha ‘ribaltato’ una decisione della Cassazione. Come può esserci una giurisprudenza così non uniforme? Non conosco il contenuto delle due sentenze, quindi mi è difficile esprimermi. In generale, uno dei difetti del sistema giustizia è proprio quello della scarsa prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Ciò ha anche degli effetti nel mondo economico e della iniziativa imprenditoriale. Se esiste una incertezza della interpretazione delle norme, ciò diviene o una dissuasione alle iniziative di investimento o un rischio rispetto al quale mi devo assicurare in qualche modo. La giurisdizione ha le sue responsabilità ma anche il legislatore è responsabile del disordine normativo. Prima Diego Marmo verso Tortora, poi Amedeo Franco con Berlusconi. Può esserci in un magistrato del turbamento? Distinguerei due aspetti: chiunque giudica, non solo un magistrato, ha permanentemente una sofferenza del giudizio; è reale che si abbiano dei dubbi sulla correttezza delle decisione presa, soprattutto quando si tratta di valutazione delle prove e non solamente di interpretazione delle norme. Il rischio dell’errore c’è sempre e l’ordinamento per questo si preoccupa di far porre riparo agli errori giudiziari o prevede l’istituto della revisione. Detto questo, diverso è se è professionalmente adeguata la condotta dei giudici che vanno a cercare le persone nei cui confronti hanno emesso il giudizio per esprimere il proprio rammarico o per autodenunciarsi. Questo può avere qualche elemento di singolarità. Il neo-ministro della Giustizia francese è Eric Dupond-Moretti, conosciuto per il record di assoluzioni. Questa scelta ha suscitato molte polemiche. Anche qui da noi c’è un Ministro della giustizia che di professione faceva l’avvocato. Non esprimo un giudizio su un Ministro in carica. Se dovessi pensare ad un avvocato e giurista come Ministro della Giustizia farei il nome di Giuliano Vassalli: penalista illustre, vero avvocato non marginalmente impegnato nella professione, con un certo spessore: rinchiuso nel carcere nazista di via Tasso, rischiò di essere portato alle fosse Ardeatine. Ha operato insieme a Pisapia padre per un nuovo codice di procedura penale che valorizzasse la posizione della difesa. Ripeto: l’avvocatura è a pieno titolo un elemento della giurisdizione. Non bisogna vedere la magistratura come potere e l’avvocatura come funzione ancillare. Quindi che sia un avvocato il Ministro della Giustizia non dovrebbe suscitare perplessità come sta accadendo in Francia. La Corte Costituzionale si è aperta all’esterno con diverse iniziative: il Viaggio nelle scuole e nelle carceri, da poco i podcast. Cosa ne pensa di questa operazione di comunicazione? Ogni strumento di diffusione della conoscenza della Costituzione che consenta ai cittadini di essere partecipi dello spirito costituzionale e di difendere la Costituzione è positivo. Di Matteo e Ardita nuovo strappo contro Davigo e Bonafede di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 luglio 2020 I due pm aderiscono alla Campagna “Uguale per tutti”. Se il dibattito parlamentare sulla riforma della giustizia e del Csm, a causa soprattutto del “Palamara Gate”, è paralizzato da mesi, si susseguono invece le iniziative dei diversi gruppi associativi della magistratura. Fra le varie proposte merita, però, di essere segnalata la raccolta di firme sul blog “toghe. blogspot. com”, la piattaforma creata da alcuni magistrati non aderenti ad alcun gruppo associativo per evidenziare i mali del correntismo in magistratura. Tre i temi: sorteggio per l’elezione dei componenti del Csm, rotazione degli incarichi direttivi, abolizioni dell’immunità per i consiglieri del Csm. Fra i firmatari, i consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Antonino Di Matteo. L’adesione dei due pm antimafia segna una “spaccatura” nel gruppo di Piercamillo Davigo e una presa di distanza nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il Guardasigilli, infatti, è da sempre un grande estimatore dei due magistrati. Contenti dell’appoggio, i promotori dell’iniziativa si dichiarano “consapevoli della responsabilità che i due colleghi hanno esercitato nel manifestare la pubblica condivisione delle nostre tre proposte”. La battaglia, proseguono, è sempre quella contro “le aggressioni improprie del correntismo, alle quali assistiamo quasi impotenti da decenni”. Sul sorteggio del Csm è necessario un passo indietro. Nel programma originale dei pentastellati, poi modificato in corso d’opera, era previsto che i membri del Csm si dovessero scegliere con il sistema del sorteggio fra una rosa di nominativi. In questi termini, però, la proposta non era stata inserita nel celebre contratto del governo gialloverde. Terminata l’esperienza del Conte uno, la proposta del sorteggio era finita nel dimenticatoio. Anzi, all’ultimo congresso nazionale dell’Anm tenutosi lo scorso dicembre a Genova, Bonafede ne aveva preso pubblicamente le distanze. Lo scoppio del Palamara Gate aveva per qualche settimana “rivitalizzato” il dibattito sul sorteggio, senza che venisse però incardinata alle Camere alcuna discussione. Si dovrebbe trattare di un sorteggio temperato: elezioni della componente togata del Csm tra un numero di candidati sorteggiati; sorteggio di un numero di magistrati pari a dieci volte il numero dei componenti da eleggere tra tutti i magistrati sorteggiabili; richiesta di disponibilità di candidatura a tutti i magistrati; individuazione di una serie di requisiti di sorteggiabilità, alcuni dei quali connessi a precedenti incarichi dei magistrati; ripartizione del territorio in collegi nazionali, uno per ciascuna delle categorie di componenti del Csm. Altro è tema, invece, riguarda il criterio da adottare nella nomina dei capi degli uffici giudiziari, argomento da sempre al centro di accese discussioni e definitivamente esploso con il Palamara Gate. Il Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, superando il paramento dell’anzianità di servizio e concentrandosi sulla capacità organizzativa del magistrato, ha aumentato a dismisura il potere discrezionale del Csm. La rotazione eliminerebbe sul nascere tale potere discrezionale e, di conseguenza, il ruolo delle correnti della magistratura, affermano i promotori. Si tratta della “rotazione turnaria” delle funzioni direttive e semidirettive fra i magistrati dell’ufficio. Una proposta già risalente che era stata etichettata dall’ex consigliere del Csm Pierantonio Zanettin (FI), come “maoista”. I fautori sottolineano che “considerando l’attuale pianta organica, i posti di vertici disponibili sono solo per il 10% delle toghe. Ciò determina che il rimanente 90% si ‘ disinteressa’ da subito dell’autogoverno”. All’obiezione che non tutti i magistrati hanno uguali capacità organizzative, replicano che “quotidianamente ciascuna toga organizza il proprio ruolo: il sistema, dunque, tollera ‘l’incapacità’ del collega ad organizzare la gestione dei propri processi ma si ‘allarma’ se quello stesso magistrato dovesse essere chiamato a svolgere un turno di gestione di un Tribunale”. I magistrati, poi, in vista di quel “dovere di dirigenza” parteciperebbero necessariamente ed attivamente alle scelte via via adottate dal dirigente pro tempore, dando vita addirittura ad un loop virtuoso. Scuola per futuri magistrati? Si insegni deontologia di Marco Demarco Il Riformista, 9 luglio 2020 Il nuovo percorso di studi promosso dall’Università Suor Orsola Benincasa, visti i tempi, è quasi una misura di pronto intervento. Oggi l’annuncio. Mezzo secolo fa, Salvatore Satta - una colonna del nostro Novecento - immaginò che uno studente gli chiedesse cosa fare per diventare giurista. “Gli direi - scrisse - che occorrono la cultura e l’esperienza”. Poi, però, entrò più nello specifi co e gli consigliò, prima, la lettura della Divina commedia (“Se non si è letto Dante, se non si è ricreato il proprio spirito in Dante, non si può chiamarsi giuristi”) e poi la lettera che Gargantua scrisse al figlio Pantagruele quando questi si avviò agli studi. Eccone un frammento. “Figlio mio, io intendo e voglio che tu apprenda le lingue perfettamente: in primo luogo il greco, come prescrive Quintiliano; in secondo luogo il latino; e poi l’ebraico per le sacre scritture, e il caldaico anche e l’arabico”. A parte Dante, una tale pretesa oggi suonerebbe alquanto eccessiva. O no? Ma c’è una ragione perché tutto questo mi è venuto in mente. Proprio oggi, infatti, alle 15 in diretta streaming, l’università Suor Orsola Benincasa annuncerà la nascita della prima “scuola per la magistratura”: del primo percorso di studi universitari fi - nalizzato alla preparazione dei futuri magistrati. Con i tempi che corrono, è sicuramente una buona notizia. E lo è doppiamente aver scelto come sede Napoli, città di grandi giuristi. Ma quel che più conta è il momento scelto per l’iniziativa, che fa della scuola quasi una misura di pronto intervento. Lo scandalo Palamara, le dimissioni dal Csm, l’imbarazzo dell’Anm, le polemiche sulle chat dei magistrati pubblicate sui giornali, il caso Berlusconi: cos’altro deve ancora succedere? Mai la magistratura italiana è stata così fortemente delegittimata da una serie tanto impressionante di fatti. Ed ecco perché una scuola arriva a proposito. Le ragioni della débâcle giudiziaria sono note, dalle riforme mancate, ai privilegi togati mai sacrifi cati in nome dell’interesse pubblico. Ma è inutile, ora, insistere su questo tasto o, viceversa, sul patriottismo eroico di tanti magistrati che hanno difeso la democrazia italiana. Più opportuno, piuttosto, potrebbe essere immaginare anche noi cosa insegnare ai magistrati di domani. E gira e rigira, forse anche oggi non restano che due cose: l’uso delle parole e il dominio dei comportamenti. I fatti recenti ci dicono che i magistrati devono anche imparare a comunicare e a stare in società. E poiché le cose e le parole si tengono, ciò spiega perché a molti magistrati capiti di comportarsi male e di esprimersi peggio. Si sono scritte intere biblioteche sul giuridichese, su questa lingua ostentata come sacrale, ma in realtà banalmente gergale, infarcita di pseudotecnicismi, di arcaismi, di sociologismi, di narcisismi, di luoghi comuni e di locuzioni dall’apparenza specialistica ma nella sostanza inessenziali. Il punto però è che tutto questo parlar male spesso non esprime altro che il mero compiacimento per il potere esercitato. Un potere che dovrebbe essere libero da condizionamenti e che invece non lo è affatto, specialmente quando si avvina troppo alla politica rappresentativa, addirittura fino a mutuarne le liturgie e le peggiori finalità. Ma c’è un problema. Per una scuola, insegnare a usare le parole giuste non è diffi cile: basta, ad esempio, impegnare uno scrittore ex magistrato come Carofiglio (devo a lui, tra l’altro, il riferimento a Salvatore Satta). Più diffi cile, invece, è educare alla sobrietà dei comportamenti. Un corso specifi co di deontologia professionale? Magari, perché no. Nel frattempo, però, può valere come spinta motivazionale proprio il fi nale della lettera di Gargantua, sempre quella. Caro futuro magistrato, “guardati dalle lusinghe del mondo; non perdere il tuo cuore in cose vane... Servi il tuo prossimo e amalo come te stesso. Onora i tuoi precettori. Fuggi la compagnia di quelli ai quali non vorresti somigliare, e fa’ che non siano vane le grazie che Dio ti ha elargito...”. Credo possa andar bene anche per i non credenti. Intercettazioni, Milano anticipa la riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2020 Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano - Direttiva Intercettazioni (Dl 30/2019) - Circolare 6 luglio 2020. Intercettazioni senza espressioni in danno della reputazione e senza indicazioni del contenuto, se l’intercettato è un parlamentare o un avvocato; se rilevanti poi, di norma ne è esclusa la riproduzione letterale; sui trojan, attenzione all’indicazione dei luoghi nei quali l’operazione di ascolto è effettuata. Sono questi alcuni dei punti chiave della linee guida con le quali la Procura di Milano, in una direttiva firmata dal Procuratore Francesco Greco, anticipa la riforma delle intercettazioni che dovrebbe entrare in vigore a settembre (fatto salvo l’ennesimo rinvio). Una riforma da sempre tormentata e che visti contrapposti anche Pd e 5 Stelle, alla caccia di una difficile sintesi poi trovata a fine anno, ma già oggetto di un nuovo slittamento causa Covid-19. Centrale il tema dei rapporti con la polizia giudiziaria e la vigilanza che il pubblico ministero deve effettuare nella selezione dei contenuti rilevanti nelle indagini e utilizzabili nel procedimento. E allora, le linee guida dettagliano le ipotesi possibili, partendo dalla necessità di omissione di qualsiasi indicazione sui contenuti nei casi di conversazioni che contengano espressioni lesive della reputazione oppure dati sensibili; in queste situazioni, se possibile, andranno indicati solo i soggetti in comunicazione, la data e orario della conversazione e la qualificazione come irrilevante della comunicazione. Esito analogo, omissione del contenuto e sommaria identificazione della comunicazione (soggetti, data e orario della conversazione), quando parte della conversazione è un parlamentare o un avvocato difensore. Tutto il materiale non rilevante o inutilizzabile finirà comunque nell’Archivio delle intercettazioni, restando disponibile anche per le difese che però non ne potranno fare copia. Delle intercettazioni rilevanti, invece, “la polizia giudiziaria riferirà al pubblico ministero con annotazioni riassuntive del loro contenuto, riproducendo il tenore letterale delle stesse solo qualora risulti strettamente necessario per la compiuta rappresentazione dei fatti”. A queste informative o annotazioni saranno poi allegati i relativi verbali che riporteranno lo stralcio del solo contenuto rilevante o, su richiesta del Pm, dell’intera conversazione. Per quanto riguarda la “nuova frontiera” delle intercettazioni, l’utilizzo dei trojan (proverbiale l’indagine condotta sull’utenza dell’ex leader di Unicost e consigliere Csm Luca Palamara), la direttiva Greco sottolinea la crucialità del luogo, ricordando che al captatore informatico di regola si può fare ricorso nelle abitazioni private solo quando esiste un motivo fondato per ritenere che vi si stia svolgendo un’attività criminale, con l’eccezione di alcuni gravi reati, mafia e terrorismo per esempio, e, di recente, dei principali reati contro la pubblica amministrazione se puniti con pena superiore a 5 anni. Sarà così il pubblico ministero a invitare la polizia giudiziaria al monitoraggio costante dei luoghi di svolgimento delle conversazioni, verificata la necessità, se possibile, di indicarli pure nei verbali. Ergastolo confermato per Cubeddu. Il superteste: “Dichiarazioni estorte” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 luglio 2020 Il 25enne condannato per l’omicidio di Gianluca Monni e Stefano Masala. “I carabinieri mi hanno estorto ammissioni che io non avrei voluto nemmeno fare”. A dirlo è Alessandro Taras, il teste fondamentale per l’accusa nei confronti del 25enne Alberto Cubeddu - difeso dagli avvocati Mattia Doneddu e Patrizio Rovelli - dove si è visto da pochi giorni confermare in appello l’ergastolo per l’omicidio di Gianluca Monni avvenuto in Sardegna, a Orune (provincia di Nuoro), e con il sequestro, l’omicidio e la distruzione del cadavere, mai trovato, di Stefano Masala di Nule. Si tratta di un passaggio di un’intercettazione riportata nella denuncia a firma di Cubeddu stesso, da poco depositata alla procura generale di Cagliari, al procuratore di Sassari e al comandante della legione dei carabinieri Sardegna. Non è di poco conto e che apre, di fatto, delle falle all’impianto accusatorio nei confronti di un ragazzo che rischia definitivamente di scontare un ergastolo per dei delitti che probabilmente non ha commesso. Alessandro Taras, di Ozieri, inizialmente è stato accusato, in concorso con Alberto Cubeddu, di aver incendiato l’auto di Stefano Masala. Il pubblico ministero Andrea Vacca aveva concluso la sua requisitoria sollecitando una condanna a 10 mesi per incendio doloso. Ad aprile del 2017 è stato assolto, ma nel frattempo era diventato il superteste dell’accusa. Cambia versione e diventa il principale accusatore - Dal 18 settembre 2015, data in cui Taras è stato sentito dai Carabinieri della Compagnia di Nuoro come persona informata sui fatti, si sono susseguiti una serie di accadimenti che lo avrebbero motivato nel corso dei mesi successivi a cambiare le proprie dichiarazioni proponendo una diversa ricostruzione dei fatti in chiave accusatoria. Accadimenti che risultano, appunto, dal contenuto delle conversazioni telefoniche intercettate nel corso dell’attività investigativa svolta e, tra i quali, hanno avuto un peso determinante gli incontri con i familiari dello scomparso Stefano Masala e i molteplici colloqui con gli investigatori. Già dal febbraio 2016 i parenti dello scomparso si sono impegnati a individuare chi fosse la persona indagata insieme ad Alberto Cubeddu per la distruzione della Opel Corsa, nonché quale auto egli guidasse all’epoca dei fatti. I familiari dello scomparso sono riusciti a individuare l’allora coindagato Alessandro Taras. In tale occasione, come si evince dal contenuto delle intercettazioni, Taras ha proposto ai suoi interlocutori una versione di quanto accaduto nella notte tra l’ 8 e il 9 maggio 2015 assolutamente sovrapponibile a quella offerta agli investigatori quando è stato assunto a sommarie informazioni il 18 settembre 2015. Ovvero aveva escluso qualsiasi responsabilità di Cubeddu in merito ai fatti per i quali qualche giorno fa è stato condannato. Quei colloqui riservati e non verbalizzati - Ma poi cambia versione, perché? Dalla denuncia presentata ieri, emergerebbe che già a partire da ottobre Alessandro Taras è stato più volte convocato dai carabinieri in modo informale per colloqui riservati, mai verbalizzati né oggetto di relazione di servizio. Incontri segreti dei quali i legali di Cubeddu sono venuti a conoscenza solo attraverso un’attentissima analisi delle intercettazioni telefoniche agli atti del processo. Taras, parlando con i suoi interlocutori nei giorni di ottobre tra cui una sua amica avvocato, alla quale solo in un momento successivo conferirà mandato difensivo e che in quel momento non risultava essere suo difensore (anche perché egli non era ancora iscritto nel registro degli indagati), ha ricostruito dei fatti che secondo la denuncia presentata da Cubeddu sono di estrema gravità. Ossia, subito dopo l’incontro con il Luogotenente e i Carabinieri del Nucleo Investigativo, Taras ha confidato alla stessa che i militari che lo avevano incontrato avevano preteso che modificasse la sua ricostruzione dei fatti dichiarando che Cubeddu non era in macchina con lui la sera tra l’ 8 e il 9 maggio 2015, bensì alla guida della autovettura dello scomparso Stefano Masala utilizzata per l’omicidio di Gianluca Monni. Gli avrebbero inoltre contestato il percorso, riferito nell’audizione di settembre sulla base della loro ricostruzione, e minacciato di una revoca indebita e ingiustificata del suo porto d’armi e di un aggravamento della sua posizione, ipotizzando - sempre secondo quanto racconta Taras all’amica - un diretto coinvolgimento nell’omicidio di Stefano Masala e Gianluca Monni. Taras ne parla anche con un amico. Dalle intercettazioni emerge la confidenza che il suo racconto gli sarebbe stato fermamente contestato, nonostante lui fosse stato più che chiaro che qualsiasi modifica alle sue dichiarazioni avrebbe significato dichiarare il falso. Nella medesima intercettazione emerge anche un ulteriore dettaglio. Ossia la pretesa da parte dei carabinieri del nucleo investigativo di rivedere quanto dichiarato nella sua prima audizione, che si sarebbe accompagnata alla garanzia e alle rassicurazioni che così facendo non avrebbe patito alcuna conseguenza. Tali incontri con i carabinieri, però non si sarebbero fermati ad ottobre, ma sarebbero continuati nel tempo. Il 24 marzo 2016, Taras confida ad un amico: “Mi hanno fregato i carabinieri che mi hanno fatto dare una deposizione che non si può usare al processo perché non c’era il mio legale” “me l’hanno estorta” “pressandomi me l’hanno.. mi hanno messo in bocca delle parole che io non avrei nemmeno voluto dire”. La denuncia nei confronti dei carabinieri - Nella denuncia da parte di Cubeddu, che ha nominato come difensore l’avvocato Mattia Doneddu, si fa presente - per corroborare un presunto accanimento nei sui confronti - anche l’informativa dei carabinieri ritenuta veritiera per tutte le successive fasi delle indagini fino al processo di primo grado. Nell’informativa, risalente al 9 maggio 2015, c’era scritto che “il ragazzo risulta indagato per tentato omicidio e rapina in concorso con il cugino Paolo Enrico Pinna”. Si riferisce a un episodio avvenuto ad Ozieri il 6 gennaio 2014, una sparatoria contro un automobilista che stava facendo benzina con il solo obiettivo di rubare la macchina. I magistrati hanno prestato fede all’informativa e l’hanno ritenuta sufficiente a supportare la custodia cautelare descrivendo Alberto come una persona violenta, dedita alle rapine, pericoloso capace quindi anche di uccidere. Peccato che tale informativa si è rivelata una bufala, smentita alla Procura dei minorenni e e da quella di Sassari che hanno certificato che Cubeddu non è mai stato iscritto per quei fatti. In realtà tali ricostruzioni esposte nella denuncia, in occasione dell’udienza del 5 luglio 2018 presso la Corte d’Assise di Nuoro, erano state fatte presenti dall’avvocato Patrizio Rovelli, chiedendo alla Corte di trasmettere gli atti alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Cagliari al fine di far valutare dall’organo disciplinare i comportamenti della polizia giudiziaria di Nuoro e in modo particolare degli appartenenti al Nucleo Investigativo di Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri. Ma nulla da fare. La Corte d’Assise di Nuoro non ha assunto alcuna determinazione in ordine alla richiesta. Eppure sono elementi che mettono in discussione uno dei pilatri fondamentali dell’accusa e che ha determinato la condanna all’ergastolo del 25enne. Secondo la denuncia, tutti questi fatti troverebbero come unica spiegazione la volontà dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Nuoro di inchiodare Alberto Cubeddu a responsabilità per fatti che non ha mai commesso. Resta sullo sfondo una domanda. Parliamo di intercettazioni che provengono da atti ufficiali del processo, perché non ne hanno tenuto conto per valutare l’attendibilità del superteste Taras? Quando Alberto è entrato in carcere aveva 20 anni e potrebbe trascorrerci gran parte della sua vita. I familiari, in particolare la sorella Gabriella, non si arrendono. La storia come la sua, in fondo, potrebbe riguardare tutti. Sempre necessaria una motivazione analitica nel caso di reati fallimentari di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2020 Corte di Cassazione - Sentenza 15427/2020. E’ onere del giudice di appello motivare adeguatamente la sentenza nel caso di reati fallimentari, evitando di ricorrere ad un richiamo generico al provvedimento di primo grado non idoneo a garantire adeguatamente il diritto di difesa dell’imputato. Lo afferma la corte di cassazione con la sentenza n.15427/2020. Un imputato, infatti,,condannato in secondo grado per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale accertati nel corso di un fallimento, ricorreva per cassazione al fin di ottenere l’ annullamento della pronuncia di secondo grado. Il legale dell’ imputato osservava come la sentenza emessa nei confronti del proprio assistito avrebbe dovuto essere riformata, in quanto contrastante con le disposizioni vigenti in materia di redazione dei provvedimenti di condanna relativi a reati fallimentari che prevedevano ben altre modalità ed oneri per i giudici di merito. Precisava infatti il difensore come i giudici di appello, avessero motivato il proprio provvedimento con un semplice richiamo generico alla decisione emessa in primo grado. La loro pronuncia pertanto difettava di tassatività, dato che aveva omesso di prendere posizione su tutti i punti della tesi difensiva tanto da comportare una lesione irreversibile ed irreparabile del diritto di difesa del ricorrente odierno che ne richiedeva la tutela. Concludeva pertanto il legale come da tale omissione non potesse che derivare la nullità del provvedimento oggetto dell’ impugnazione. Il procedimento dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso con la sentenza n.15427/2020 qui in commento. La problematica decisa nel caso di specie, riguarda le modalità di redazione delle sentenze di condanna e gli oneri che incombono sui giudici di merito in tali casi. I giudici della corte suprema assumono una posizione piuttosto rigorosa circa tali modalità individuando in capo ai magistrati precisi obblighi ed oneri che debbono essere in ogni caso ottemperati in sede di redazione dei provvedimenti di condanna per reati fallimentari. Osservano infatti gli ermellini come i giudici di appello che intendano emettere un provvedimento di condanna nei confronti dell’ imputato, non possano motivare la loro decisione con un semplice richiamo apodittico e generico al provvedimento di primo grado, necessitando in tali casi una diversa tecnica redazionale molto più analitica ed estesa diretta a garantire ad ogni modo il diritto di difesa dell’ imputato. Nel caso infatti in cui il provvedimento venga motivato con il generico richiamo alla decisione di primo grado, l’ imputato verrebbe leso nei propri diritti fondamentali ed in particolare nel proprio diritto di difesa tutelato nel corso del procedimento penale dall’ articolo 24 della costituzione. Infatti nel caso in cui i giudici di appello redigessero la motivazione della loro decisione compiendo un semplice richiamo alla decisione di primo grado l’imputato non potrebbe avere la contezza esatta delle ragioni della sua condanna e delle motivazioni del rigetto delle proprie tesi difensive rappresentate nel caso di specie. I giudici della corte di appello, infatti, debbono al fine di emettere un provvedimento valido, motivare adeguatamente la propria decisione prendendo posizione su tutti i punti della tesi difensiva rappresentata dall’ imputato nel caso oggetto del giudizio. Solo in tale caso il diritto di difesa previsto a chiare lette nel dettato costituzionale si può considerare adeguatamente tutelato in sede di giudizio di secondo grado. Permesso di soggiorno temporaneo per i genitori stranieri. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2020 Per gravi motivi connessi allo sviluppo psicofisico del minore. Straniero - Minori - Autorizzazione temporanea alla permanenza dei genitori - Gravi motivi connessi allo sviluppo psicofisico del minore - Art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 - Generica tutela della coesione familiare - Insufficienza. I gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, che consentono la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del suo familiare, secondo la disciplina prevista dall’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, devono consistere in situazioni oggettivamente gravi, comportanti una seria compromissione dell’equilibrio psicofisico del minore. Legittimo, pertanto, il diniego a permanere sul territorio italiano in forza del diritto all’unità e coesione familiari qualora i minori si trovino da meno di due anni in Italia e stante l’insufficiente integrazione del nucleo familiare, in assenza di attività lavorativa dei genitori e alloggio presso parenti, di talché non è ravvisabile per i minori alcun rischio di sradicamento ambientale, in caso di rientro nel paese d’origine. Neanche l’età (sotto i dieci anni), né la presenza d patologie perfettamente curabili nel paese di provenienza né il rischio del rientro in un paese asseritamente caratterizzato da un livello di vita inferiore sotto il profilo del generale benessere della popolazione, di per sé, possono costituire circostanze sufficienti a ritenere la sussistenza dei detti gravi motivi. • Corte di Cassazione, sezione VI, Ordinanza 23 giugno 2020, n. 12269. Stranieri - Minori - Richiesta di autorizzazione alla permanenza dei familiari - Disciplina di cui all’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 - Finalità - Generica tutela della coesione familiare - Non sussiste - Presupposto dell’autorizzazione - Gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore. I “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico” ex articolo 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, sono rappresentati da situazioni oggettivamente gravi comportanti una seria compromissione dell’equilibrio psicofisico del minore, non altrimenti evitabile se non attraverso il rilascio della predetta misura autorizzativa. Pertanto, la norma in esame non si presta ad essere intesa come generica tutela del diritto alla coesione familiare del minore e dei suoi genitori, interpretazione che, avrebbe l’effetto di superare e porre nel nulla la disciplina del ricongiungimento familiare “tutte le volte in cui per effetto dell’espulsione del genitore irregolare si realizzi la rottura dell’unità familiare comprendente un minore, muovendo dal presupposto che quest’ultima comporti per lui sempre e comunque un danno psichico”: ne conseguirebbe l’applicazione automatica dell’autorizzazione de qua, in tal modo trasformata da eccezione a regola. • Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 16 gennaio 2020, n. 773. Minore straniero - Richiesta di autorizzazione alla permanenza dei familiari - Disciplina di cui all’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 - Finalità - Generica tutela della coesione familiare - Non sussiste - Presupposto dell’autorizzazione - Gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore - Conseguenza - Onere di allegazione. I “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico” del minore, che consentono la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del suo familiare, secondo la disciplina prevista dall’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, devono consistere in situazioni oggettivamente gravi, comportanti una seria compromissione dell’equilibrio psicofisico del minore, non altrimenti evitabile se non attraverso il rilascio della misura autorizzativa; la normativa in esame non può quindi essere intesa come volta ad assicurare una generica tutela del diritto alla coesione familiare del minore e dei suoi genitori. Sul richiedente l’autorizzazione incombe, pertanto, l’onere di allegazione della specifica situazione di grave pregiudizio che potrebbe derivare al minore dall’allontanamento del genitore. • Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 16 aprile 2018, n. 9391. Minore straniero - Richiesta di autorizzazione alla permanenza dei familiari - Disciplina di cui all’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 - Finalità - Generica tutela della coesione familiare - Non sussiste - Presupposto dell’autorizzazione - Gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore - Conseguenza - Onere di allegazione. La temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non richiede necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla sua salute, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave che in considerazione dell’età o delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psico-fisico, deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto. Deve trattarsi tuttavia di situazioni non di lunga o indeterminabile durata e non caratterizzate da tendenziale stabilità che, pur non prestandosi ad essere catalogate o standardizzate, si concretino in eventi traumatici e non prevedibili che trascendano il normale disagio dovuto al proprio rimpatrio o a quello di un familiare. • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 25 ottobre 2010, n. 21799. Campania. Le prigioni scoppiano? Certo, la metà dei reclusi è in attesa di giudizio di Viviana Lanza Il Riformista, 9 luglio 2020 In Campania il 42% della popolazione carceraria è formato da persone che aspettano una sentenza definitiva. Sfiorata la tragedia nel tribunale di Napoli Nord: un 55enne ha tentato di impiccarsi prima di affrontare l’udienza. Ad affollare le celle di Poggioreale e delle altre quattordici carceri campane, inclusi gli istituti penitenziari femminili e quelli per minorenni, ci sono tanti detenuti in attesa di un primo giudizio o di una sentenza definitiva. Corrispondono a circa il 42% della popolazione carceraria presente sul territorio regionale, e se si considera che la media nazionale è del 34,5% e quella europea del 22,4% si capisce che il dato è tutt’altro che trascurabile. L’ultimo report del Ministero della Giustizia rilevava, nel 2019, la tendenza a un ricorso più ampio alla misura cautelare rispetto all’anno precedente, con un aumento de Ad affollare le celle di Poggioreale e delle altre quattordici carceri campane, inclusi gli istituti penitenziari femminili e quelli per minorenni, ci sono tanti detenuti in attesa di un primo giudizio o di una sentenza definitiva. Corrispondono a circa il 42% della popolazione carceraria presente sul territorio regionale, e se si considera che la media nazionale è del 34,5% e quella europea del 22,4% si capisce che il dato è tutt’altro che trascurabile. L’ultimo report del Ministero della Giustizia rilevava ì, nel 2019, la tendenza a un ricorso più ampio alla misura cautelare rispetto all’anno precedente, con un aumento delle misure in carcere (2.212 a fronte delle 4.316 complessivamente applicate in un anno) e con un lieve calo di quelle agli arresti domiciliari. Cosa vuol dire? Che in carcere si sono tanti detenuti sottoposti a carcerazione preventiva. Troppi, non solo per i garantisti ma anche per il Consiglio d’Europa che ha più volte bacchettato l’Italia per l’eccessivo numero di reclusi in attesa di giudizio e per le carceri tra le più sovraffollate del continente. La cronaca e le statistiche segnalano eccessi e criticità, mentre all’interno delle mura carcerarie si continuano a consumare piccoli e grandi drammi. L’ultimo ieri mattina. Se non si è contata una nuova vittima è perché un agente della penitenziaria si è accorto in tempo del gesto estremo di un detenuto e con i colleghi è riuscito a intervenire prima che si verificasse l’irreparabile. “Ancora qualche attimo e l’insano gesto avrebbe avuto conseguenze drammatiche”, ha spiegato Emilio Fattorello, segretario nazionale della Campania del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria, sottolineando l’impegno degli agenti. Napoletano, 55 anni, Ugo (il nome è di fantasia) era nella camera di sicurezza del Tribunale di Napoli Nord, ad Aversa, attendendo il turno dell’udienza del processo in cui è imputato per maltrattamenti in famiglia. Ieri mattina, come altre mattine, si era svegliato presto, gli agenti lo avevano prelevato dalla sua cella nel carcere di Poggioreale e lo avevano scortato fino al blindato. Chissà a cosa pensava mentre percorreva con lo stesso passo i lunghi corridoi del carcere. Chissà a cosa ha pensato mentre, raggiunto il Tribunale, se ne stava seduto nella stanza dove gli imputati vivono le attese più lunghe, quelle delle udienze, quelle delle sentenze. D’un tratto Ugo ha deciso di interrompere quell’attesa: voleva mettere fine anche alla sua vita. Ha sfilato i lacci dalle scarpe, li ha annodati uno con l’altro. Si è assicurato che fossero solidi come un’unica corda e l’ha stretta al collo, come un cappio. Voleva farla finita. Un agente della penitenziaria lo ha notato, ha gridato, è intervenuto. Assieme ai colleghi ha strappato Ugo dall’asfissia che lo avrebbe portato alla morte. Ugo è stato soccorso e portato all’ospedale civile di Aversa: ora non è più in pericolo. Resta la disperazione del gesto. Il suo tentativo di suicidio finirà nell’elenco dei cosiddetti “eventi critici”, quello che serve a fare valutazioni sulle carceri e su come si vive al loro interno, a stimolare dibattiti e a sollecitare ancora una volta interventi che la politica si mostra restia ad adottare. Storie e numeri sono importanti per tracciare la realtà. In Italia il popolo dei detenuti è composto da 53.579 persone, a fronte di una capienza regolamentare di poco meno di 50mila posti. Gli stranieri sono 17.510 (il 32,68%), 102.604 sono i soggetti seguiti dagli uffici di esecuzione penale esterna, 1.348 i minorenni e giovani adulti presenti nei servizi residenziali e 13.279 quelli in carico ai servizi della giustizia minorile. Secondo dati aggiornati al 30 giugno scorso, nelle quindici carceri della Campania (con Poggioreale al primo posto come istituto di pena più grande e più affollato) si contano 6.428 detenuti: 6.130 uomini e 298 donne. Tra questi ci sono 3.764 condannati e sono 2.608 gli imputati, cioè le persone in cella per processi che si stanno celebrando o stanno per cominciare, detenuti, quindi, per i quali la carcerazione preventiva rischia di essere l’espiazione anticipata di una condanna che potrebbe non arrivare mai. Bologna. Decine di detenuti indagati per la rivolta alla Dozza di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 9 luglio 2020 Inchiesta in Procura e provvedimenti disciplinari. I reclusi fanno ricorso. Incendio doloso, danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale, atti vandalici, devastazione e interruzione di pubblico servizio. È lunga la lista dei reati iscritti nel fascicolo che la Procura ha aperto sulla rivolta nel carcere della Dozza scoppiata il 9 marzo scorso e durata più di 24 ore. Nell’inchiesta in fase di indagine ci sono già i nomi di decine di detenuti che, secondo le relazioni di servizio della polizia penitenziaria e i filmati acquisiti, parteciparono alla violenta sommossa. I reati contestati potrebbero anche essere più gravi, visto che nel Reparto giudiziario non tutti presero parte alle proteste e dopo molte ore di disordini, con gli animi ormai stremati, alcuni dei più duri si rifiutarono di permettere l’uscita dalle sezioni di quelli che volevano arrendersi. La Procura ha acquisito le relazioni della Penitenziaria, le testimonianze, i filmati, compresi quelli girati con il telefonino di un detenuto, con il quale furono filmate le devastazioni, immagini poi inviate anche all’esterno. Se l’inchiesta penale è ancora in corso, la direzione della Dozza ha invece già presentato il conto sul piano disciplinare a una cinquantina di detenuti. Le sanzioni vanno dalla sospensione dalle attività e dalla socialità per dieci o quindici giorni al trasferimento in altra struttura per chi ha avuto le condotte più pesanti. Dieci giorni di sospensione dalla socialità sono stati inflitti anche a Davide Santagata, 51enne pilastrino noto alle cronache per gli assalti ai bancomat e perché fratello dei più noti William e Peter, anche loro vecchie conoscenze delle forze dell’ordine per rapine in banca, ma accusati ingiustamente per i fatti della Uno Bianca. Secondo gli agenti penitenziari era tra quelli usciti fino ai cancelli che brandivano oggetti, ma Santagata, sentito ieri in videoconferenza dal magistrato di sorveglianza Anna Rita Coltellacci a cui il suo avvocato Paola Benfenati ha presentato ricorso contro la sanzione, ha dichiarato: “Non mi sono mai allontanato dalla mia cella”. Un’altra decina di ricorsi sono stati discussi ieri al Tribunale di sorveglianza dai legali Luigi Prete, Matteo Sanzani, Giovanni Voltarella e Donatella De Girolamo. Tutte le sanzioni sono state prese sulla base di una corposa relazione che mette nero su bianco i nomi di chi avrebbe partecipato alle devastazioni, costate al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria quasi un milione di euro. Alcuni avrebbero “aizzato e istigato” i compagni, altri danneggiato ciò che si trovavano davanti, altri ancora dato alle fiamme due auto della Penitenziaria, saccheggiato gli ambulatori medici (un 35enne straniero morì di overdose due giorni dopo). Nella relazione si legge anche che “alcuni detenuti molto attivi nel fomentare la rivolta, di fronte ai malesseri di altri compagni, si erano arresi per prestare soccorso”. Ma anche questi sono stati sanzionati e trasferiti. La rivolta era scoppiata, come in altre carceri, per il blocco dei colloqui deciso dal governo a causa dell’emergenza Covid e per la paura del virus diffusasi tra le celle a causa del sovraffollamento. Alla Dozza, con una capienza di circa 500 posti, al momento della rivolta erano presenti 900 detenuti, di cui 400 nel reparto interessato dai disordini. Oggi ci sono in totale circa 700 reclusi. Bergamo. Così il carcere è rimasto immune al Covid-19 Corriere della Sera, 9 luglio 2020 Solo 3 contagi, Via Gleno scelto per celebrare la Penitenziaria. Il numero dei detenuti oscilla tra il prima e il dopo, perché la pandemia ha fermato i reati più comuni. Spaccio, furti. Un anno fa superava i 500. A maggio è sceso a 400, ora è risalito a 430. È facile, invece, fare calcoli sul contagio: solo 3 ospiti della casa circondariale di via Gleno hanno contratto il Covid. Sono tutti guariti. Proprio il carcere di Bergamo è stato scelto dal Provveditorato della Lombardia per celebrare i 203 anni dalla fondazione della polizia penitenziaria (in ogni regione è stato selezionato un solo carcere per limitare i contatti). Vuole dire molto dopo il burrascoso periodo delle inchieste e, ora, il difficile lockdown, segnato anche dalla perdita di don Fausto Resmini. “È stata una scelta per testimoniare la vicinanza dell’amministrazione penitenziaria al territorio - spiega la direttrice Teresa Mazzotta - e l’apprezzamento verso il corpo di polizia penitenziaria. C’è chi tra gli agenti ha vissuto in prima persona l’esperienza del virus e nonostante questo siamo riusciti a lavorare bene, tutti hanno capito che era importante la loro presenza”. Per la sicurezza, certo, specie nei giorni più tesi delle rivolte in altre carceri. Ma anche “per il sostegno e il conforto - prosegue Mazzola. Sono stati veri punti di riferimento”. Per esempio, nello svolgimento dei colloqui con le famiglie o delle udienze di convalida, tutto a distanza, spesso con connessioni internet da inventarsi al momento. Dal punto di vista sanitario “è stato fondamentale intervenire subito - dice la direttrice -, già il lunedì dei primi casi eravamo a colloquio con il Papa Giovanni e abbiamo provveduto a dotarci dei dispositivi di protezione individuale”. In quella fase, i colloqui erano ancora consentiti, ma si usava già la mascherina. Ha giocato a favore avere all’interno un dirigente sanitario che è virologo. Per il resto, “molto ha fatto il territorio: il Comune, con il sindaco Gori, ci ha donato pc che con i telefonini ci hanno permesso di organizzare i colloqui, ma anche di completare le lezioni scolastiche”. Napoli. Ingiusta detenzione, è record di risarcimenti di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 9 luglio 2020 I dati della relazione del Ministero depositata al Senato. Presentata al Senato la relazione annuale sull’applicazione delle misure cautelari personali e sui provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione predisposta dal Ministero della Giustizia. I dati: come numero di ordinanze di risarcimento, 129, il distretto di Napoli detiene il record italiano, seguito da quello di Reggio Calabria (120) e da quello di Roma (105). È in aumento nel distretto giudiziario di Napoli il numero delle persone risarcite per un’ingiusta detenzione, mentre cresce anche la somma erogata: se nel 2018 le ordinanze che disponevano il risarcimento erano 113, l’anno successivo sono state 129; quanto all’importo dei risarcimenti, è passato da due milioni e 400.000 euro a tre milioni e 200.000. La media per ordinanza è salita da 21.000 a 24.000 euro. I dati sono contenuti nella relazione annuale sull’applicazione delle misure cautelari personali e sui provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, predisposta dal Ministero della Giustizia e presentata al Senato dal ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà. Come numero di ordinanze di risarcimento, 129, il distretto di Napoli detiene il record italiano, seguito da quello di Reggio Calabria (120) e da quello di Roma (105). Quando si passa alle cifre, tuttavia, il primato passa a Reggio, dove per i risarcimenti, lo scorso anno, sono stati erogati ben nove milioni e 800.000 euro. Il distretto di Napoli è preceduto anche da quello di Roma (quattro milioni e 897.000 euro), di Catanzaro (quattro milioni e 458.000), di Catania (tre milioni e 576.000), e, sia pure di di Palermo (tre milioni e 217.000). In tutto, in Italia, nel 2019 le ordinanze di risarcimento sono state mille, a fronte delle 895 dell’anno precedente. La somma accreditata a quanti sono stati detenuti ingiustamente è passata da 33.373.830 a 43.486.630 euro, con un importo medio di 43.487 euro per provvedimento (nel 2018 era stato di 37.289). La tabella - si sottolinea nella relazione - “evidenzia che gli esborsi di maggior entità riguardano provvedimenti dell’area meridionale”. Il report contiene anche altri dati interessanti, per esempio quelli relativi alle misure cautelari personali. Nel 2019, infatti, i giudici del Tribunale di Napoli (stavolta dunque il riferimento non è al ben più ampio distretto di Corte d’Appello) hanno applicato 4.316 2.212 delle quali erano ordinanze di custodia cautelare in carcere. La percentuale è del 51%, molto superiore alla media nazionale che è del 33,6%. In altri 1.143 casi si trattava di arresti domiciliari, in 365 di obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, in 304 di divieto o obbligo di dimora, in 289 di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Infine sono state emesse due ordinanze di custodia cautelare in un luogo di cura e un divieto di espatrio. Dai dati contenuti nella relazione emerge poi che l’ufficio gip, retto da Giovanna Ceppaluni con la vice Isabella Iaselli, benché oberato di lamisure, voro, ha tempi accettabili o addirittura brevi: sulle 4.316 misure emesse nel 2019, infatti, 3.356, pari al 78 per cento, si riferivano a procedimenti iscritti nello stesso anno; 707, invece, quelle relative a procedimenti avviati negli anni precedenti. Un altro dato di interesse riguarda infine le condanne: su 542 procedimenti in cui è stata applicata la misura cautelare in carcere pervenuti a una decisione di primo grado, 468 (pari all’86%) si sono conclusi con una sentenza di condanna; 60 le assoluzioni, 14 i procedimenti che hanno avuto un esito diverso e non meglio precisato. Colpisce dunque che, con percentuali così alte, siano in aumento i risarcimenti assegnati per le ingiuste detenzioni. Parma. “Nel carcere aperto un solo piano per 40 detenuti” La Repubblica, 9 luglio 2020 Il provveditore regionale per l’Amministrazione penitenziaria replica ai sindacati sul nuovo padiglione. “L’apertura dei restanti piani detentivi avverrà solo a seguito di una ulteriore assegnazione di personale di polizia penitenziaria”. “Nell’istituto penitenziario di Parma non è stato aperto il nuovo padiglione (da 196 posti), ma solo un piano detentivo di esso a cui saranno destinati circa 40 detenuti di media sicurezza, individuati dalla direzione tra quelli degli altri reparti che presentano un basso indice di pericolosità e che hanno già avviato un percorso trattamentale”. Lo rende noto, in una nota, il provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per l’Emilia Romagna e le Marche, in riferimento a una nota diffusa mercoledì dai sindacati della polizia penitenziaria. “Scopo di tale movimentazione è quello di assicurare con urgenza la disponibilità, all’interno degli altri padiglioni, di spazi dove ospitare detenuti arrestati nel circondario di Parma, al fine di garantire a tutti coloro che faranno ingresso in carcere e ai trasferiti da altri istituti l’isolamento precauzionale anti-Covid che le autorità sanitarie regionali hanno stabilito in 14 giorni”, viene precisato. “Proprio in vista dell’apertura del padiglione, il Dap, all’esito degli ultimi tre corsi di formazione per agenti di Polizia Penitenziaria, aveva assegnato un congruo numero di unità, che è stato ulteriormente incrementato dal Provveditorato Regionale con l’invio in missione presso la sede parmense di altre unità, contestualmente all’ordine di apertura”. “Di tutto ciò le organizzazioni sindacali regionali sarebbero state debitamente informate nel corso della riunione convocata per lo scorso 12 giugno, alla quale tuttavia hanno ritenuto di non partecipare. L’apertura dei restanti piani detentivi avverrà solo a seguito di una ulteriore assegnazione di personale di Polizia Penitenziaria, anche a seguito della revisione della pianta organica dell’istituto già richiesta al Dap dal Provveditorato Regionale Emilia Romagna e Marche”. Napoli. A Scampia nasce “Fuori le mura”, la bottega dei sapori con i prodotti dei detenuti linkabile.it, 9 luglio 2020 Ciambriello: “da qui riparte la speranza”. Cambiare il corso della propria vita mediante un impegno concreto a servizio degli altri. A Scampia nasce la bottega “Fuori le mura”, uno spazio stabile di esposizione e vendita dei prodotti realizzati grazie alle diverse attività che si svolgono negli istituti di pena campani. Un progetto portato avanti dalla cooperativa Elle Bi e sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese. “In un momento storico in cui, più che mai, si muore di carcere in carcere, da qui, riparte la speranza per la valorizzazione del lavoro dei detenuti”, sottolinea il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello presente all’inaugurazione. Lo scopo della bottega, nata a due passi dall’auditorium di Scampia, in Viale della Resistenza 15, è mettere sul mercato prodotti del commercio equo e solidale, mediante l’impegno costante nella promozione delle realtà produttive del territorio con l’obiettivo di apportare benefici all’intero tessuto sociale. Dalla Verdura Bio di stagione coltivata dai detenuti di “CampoAperto” nella casa circondariale di Secondigliano al vino prodotto dalla Fattoria Sociale “Al Fresco di Cantina” nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino), ma anche borse, accessori e bigiotteria: nella bottega “Fuori le mura” c’è l’impegno, la dedizione, il sudore e la voglia di riscatto di tanti detenuti che sorge all’interno dei locali della Cooperativa sociale “L’uomo e il Legno” di Scampia, nata nel 1995, da sempre impegnata nella lotta per affermare il diritto alla dignità di tutti e di ciascuno attraverso il lavoro, anche grazie al fondamentale contributo di partner commerciali come l’Azienda Agricola Rusciano. Caltanissetta. “Ridotte le video-chiamate e non possiamo più portare cibo” di Gandolfo M. Pepe caltanissettalive.it, 9 luglio 2020 Inizio d’estate calda e non solo per le alte temperature di questi primi giorni di luglio all’interno della Casa Circondariale di Caltanissetta. I detenuti a metà della scorsa settimana avevano cominciato lo sciopero della fame, avendosi visto togliere le giornaliere chiamate da 10 minuti con i propri cari, ridotte a 2 chiamate al mese. Non solo l’eliminazione delle video chiamate, con cui ai detenuti viene in pratica impedito di vedere i bambini, ma anche i colloqui visivi ridotti ad uno al mese e per solo un’ora. “Niente video chiamate, colloqui visivi ridotti - segnala una moglie di un detenuto - ma non possiamo più portare nemmeno mangiare ai nostri mariti. Non possiamo portare nessun tipo di cibo, tanto meno salumi e formaggi che possono però essere comprati in carcere a 35 euro al chilo. Tutto questo è disumano, abbiamo bisogno di aiuto”. Lo sciopero in realtà adesso è finito e la situazione non è mai degenerata. Le restrizioni maggiori tra l’altro riguardano i detenuti nelle sezioni di alta sicurezza. Video chiamate che come segnalano i vertici del carcere sono state diminuite e non eliminate, essendo riprese però le visite. Casa Circondariale di Caltanissetta che grazie alle alte paratie e garantendo il distanziamento riesce a garantire tranquillamente le visite. Normative queste non imposte dalla Casa Circondariale ma sono le nuove disposizioni previste con la legge 70 pubblicata in Gazzetta ufficiale. Le chiamate e le video chiamate erano state previste durante la fase più acuta della pandemia, mentre adesso pur ancora in emergenza, sono riprese le visite e ridotte le video chiamate. Pisa. Con le “Lettere dannate” e con il rap dei detenuti, si è chiuso il corso teatrale di Andrea Martino pisainvideo.it, 9 luglio 2020 Si è concluso il corso annuale della Scuola di teatro Don Bosco, a cura della Compagnia I Sacchi di Sabbia, realizzato grazie al contributo di Fondazione Pisa e Regione Toscana. Il Covid19 non ha fermato questo momento importante per la cultura e rieducazione all’interno dell’Istituto ed anzi, è andato in controtendenza rispetto al susseguirsi di lezioni, seminari e tutorial tutti rigorosamente on line. Il corso ha rispolverato la carta, il cartaceo, le epistole, le lettere. Il team di docenti Francesca Censi, Gabriele Carli, Letizia Giuliani, Carla Buscemi, Davide Barbafiera ha elaborato materiali da inviare periodicamente ai detenuti in forma epistolare. E’ nato così il progetto “Lettere dannate”: a partire dalle storie dei personaggi della Divina Commedia, si è creato uno scambio di spunti e suggestioni drammaturgiche, in forma di epistola cartacea, decisamente desueta ai nostri tempi. Attraverso le lettere, i detenuti allievi hanno ricevuto materiali elaborati in forma di dialoghi o monologhi o racconti delle storie dei personaggi della Divina Commedia: ad ogni elaborato gli allievi potevano rispondere con commenti suggestioni e disegni, inerenti alla storia del personaggio in oggetto. Le “missive” inviate ai detenuti su cui hanno lavorato sono state 15. Alle stesse, gli aspiranti attori hanno risposto con commenti, domande e disegni. Tutto il materiale prodotto in questo periodo è divenuto materia di studio teatrale quando a partire da giugno è stata avviata la didattica a distanza, questa volta avvenuta col supporto del web. Le lezioni, della durata di due ore ciascuna, si sono tenute a cadenza bi-settimanale sino alla interruzione estiva. La prima parte dell’anno (settembre - dicembre 2019) ha visto i detenuti allievi della Scuola di teatro impegnati nello studio del linguaggio poetico sui testi della poetessa Alda Merini: attraverso lo studio della dizione, dell’impostazione vocale e dell’improvvisazione fisica sulle immagini suggerite dai versi, si è costruito un breve spettacolo di poesia rappresentato con successo da un gruppo di detenuti allievi in occasione del meeting Ti insegnerò a volare organizzato dall’Opera Cardinal Maffi di Pisa, presso il Park Hotel di Tirrenia il 18 ottobre 2019. In seguito, nei mesi di novembre, dicembre 2019 e gennaio 2020 il laboratorio di teatro si è impegnato nello studio e nella messa in scena del testo teatrale In alto mare di Mrozek. Durante questo periodo gli allievi detenuti hanno potuto fruire, oltre che delle docenze solitamente previste per le materie di teatro, delle lezioni di un docente di musica e ritmica vocale, Davide Barbafiera dei Campos, che ha lavorato con loro sul linguaggio rap e le sue possibili declinazioni e utilizzo nella messa in scena teatrale del testo in oggetto. Lo spettacolo, frutto di questo periodo di lavoro, avrebbe dovuto essere rappresentato il 27 marzo 2020, in occasione della giornata nazionale di teatro in carcere, ma l’emergenza sanitaria provocata dal Covid 19 ha imposto una brusca interruzione. Prima puntata all’interno del progetto “Eduradio - Liberi dentro” Ristretti Orizzonti, 9 luglio 2020 Prodotta dalla Redazione Ristretti – Parma. La Redazione Ristretti Parma, parte del progetto “Liberi dentro-eduradio”, esordisce con la prima puntata settimanale. Si parte con il primo di alcuni appuntamenti con Ornella Favero direttore di Ristretti Orizzonti e Luigi Pagano già vice-capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Seguirà la rubrica “scrivere di sé”: pochi minuti in cui verranno letti anche scritti brevi raccolti nelle carceri. Ci sarà poi la rubrica: un autore per via Burla, con l’intervista di Maria Inglese alla scrittrice Antonella Moscati. Per ascoltare la trasmissione cliccare al link: https://drive.google.com/file/d/1keCJlUkV2Ik8EkE85u1Xnqab4-ZwvrvH/view Chi era Mauro Mellini, che ha lottato fino alla fine per una giustizia giusta di Gianfranco Spadaccia Il Riformista, 9 luglio 2020 Nel 1953, quando lo conobbi, io stavo entrando all’Università e lui si era da tempo laureato e stava cominciando l’itinerario della sua professione di avvocato. Mauro Mellini politicamente si era formato nell’Unione Goliardica Italiana di Marco Pannella, Franco Roccella, Sergio Stanzani e di tanti altri di noi, studenti universitari laici di quella stagione. Nel 1954 anticipò di un anno la scissione del Pli insieme a Pannella e a Giovanni Ferrara, fondando insieme a loro la Giovane Sinistra Liberale, aperta anche ai laici che, come me, non provenivano dalla GLI ma da un altro o da nessun partito. Nel 1955 fu, con tutti noi, fra i fondatori del Partito Radicale. Mauro Mellini è stato uno degli indiscutibili protagonisti della rivoluzione culturale prima che politica e legislativa dei diritti civili. Fu con Marco e con Loris Fortuna, uno dei padri della Lega del divorzio, che divenne l’indispensabile strumento organizzativo di aggregazione popolare intorno a quella decennale battaglia. Nel 1962 era stato, al secondo congresso del Partito Radicale, uno dei firmatari della mozione della Sinistra Radicale che chiedeva alla maggioranza del partito e alla sua classe dirigente di allora (quella del Mondo) di imperniare le proprie lotte laiche e anticlericali sulle riforme dei diritti civili, a cominciare dalla lotta per conquistare il diritto al divorzio, che allora sembrava impossibile conseguire (ed eravamo ritenuti pazzi a pretenderlo). L’incontro con Loris Fortuna nel 1965 e la presentazione del progetto di legge che porta il suo nome innescò in tutto il paese una battaglia popolare, che rivelò alla sinistra come la questione del divorzio non fosse, una rivendicazione borghese o, come si diceva allora, una mera “questione sovrastrutturale” ma una grave questione sociale che riguardava le condizioni in cui erano costretti a vivere centinaia di migliaia di “fuori legge” del matrimonio. La vittoria parlamentare del 1970 e il grande successo laico nel referendum del 1974 spianarono la strada a quella che io definisco la “rivoluzione dei diritti civili”: obiezione di coscienza, riforma dei codici e dei tribunali militari, voto ai diciottenni, abolizione del reato di aborto e sua legalizzazione, abolizione dei manicomi, riforma del diritto di famiglia, parità dei diritti tra uomo e donna: un esito che dieci anni prima tutti giudicavano impensabile. Segretario del Partito Radicale dall’ottobre 1968 a tutto il 1969 (aveva accanto come tesoriere Angiolo Bandinelli), deputato per 4 legislature dal 1976 al 1992, Mauro è stato l’unico giurista radicale a far parte, come membro “laico” eletto dal Parlamento, del Consiglio Superiore della Magistratura. In tutta la sua vita ha affrontato con coraggio, spesso come è capitato a molti di noi in condizione di solitudine, le sue battaglie per “una giustizia giusta”. Ricordo che, per sua iniziativa e proposta, già negli anni 60 ci davamo appuntamento davanti ai Palazzi di Giustizia per organizzare delle “contromanifestazioni” alle inaugurazioni degli anni giudiziari che venivano celebrati all’interno di quei Palazzi. E fu tra i primi a comprendere e a denunciare che l’origine dei guai della nostra giustizia derivava proprio dalle scelte compiute alla assemblea costituente. Prima ancora che nella mancata separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri o nella prassi dilagante che vede moltiplicarsi gli incarichi extragiudiziari dei magistrati, il primo e più grave vulnus che è stato inferto da allora al rapporto fra i poteri dello Stato è rappresentato dall’articolo che stabilisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Venivamo da una dittatura ed era comprensibile che si decidesse di sottrarre le scelte sulla politica giudiziaria al potere esecutivo. Ma la soluzione adottata, nell’impossibilità evidente di perseguire tutte le notitiae criminis, affidava di fatto ai singoli procuratori della Repubblica, o peggio ai singoli magistrati inquirenti, la scelta sulla priorità dei reati da perseguire e quindi, di conseguenza, sui processi che devono o non devono celebrarsi e sul loro ordine di priorità: un vulnus inflitto anche alla nostra democrazia perché nessuna autorità pubblica si assume la responsabilità di queste scelte e nessun organo democratico (neppure il Csm) può metterle in discussione o interferire su criteri in base ai quali vengono compiute. Sulla base di queste convinzioni abbiamo lottato insieme contro il processo 7 Aprile e affrontato con determinazione il “caso Tortora”. Raccogliemmo le firme per tre referendum sulla “giustizia giusta” fra cui quello sulla “responsabilità civile” dei magistrati. Poi sul finire degli anni 80 e all’inizio dei 90 venne il momento per me doloroso delle separazioni. Si oppose alla trasformazione del partito radicale in partito transnazionale e se ne allontanò. Rispettai la sua scelta anche se credo sbagliasse nel ritenere che essa comportasse l’abbandono delle lotte per i diritti civili: Per due motivi: perché la lotta per i diritti umani, che è stata al centro del partito transnazionale, era intrinsecamente connessa a quella per i diritti civili e richiedeva un impegno assai forte per l’affermazione del diritto sul terreno inter- e sovra-nazionale e perché, come hanno poi dimostrato Piergiorgio Welby e Luca Coscioni, la stagione dei diritti civili non era affatto conclusa. Credo che non solo noi ma il Paese gli debba molto. Addio Mauro. Che la terra ti sia lieve. Migranti. Conte e i decreti sicurezza: “C’è l’accordo per cambiarli” di Carlo Lania Il Manifesto, 9 luglio 2020 “Siamo pronti a portare in parlamento alcuni profili dei decreti sicurezza che ci paiono meritevoli di essere cambiati. C’è già un accordo di massima tra le forze politiche”. Da Madrid, dove si trova in visita ufficiale, il premier Giuseppe Conte conferma che il lavoro per rimettere mano ai decreti anti-immigrati voluti da Matteo Salvini potrebbe essere vicino alla fine. Oggi pomeriggio alle 17 al Viminale tornano a riunirsi i rappresentanti della maggioranza impegnati nella riscrittura dei provvedimenti. Nell’ultima riunione il M5S ha fatto passi avanti in direzione degli verso alleati presentando un documento in cui si propone di fatto la ricreazione del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) più che dimezzato da Salvini quando era ministro dell’Interno, la riduzione da 180 a 90 giorni del tempo di detenzione nei Centri per i rimpatri (Cpr) e l’allargamento delle categorie per le quali è possibile accedere alla protezione umanitaria. Tutti punti che hanno trovato l’accordo di Pd, LeU e Italia Viva. Le posizioni restano invece ancora lontane su due punti: le multe alle navi delle ong impegnate nel salvataggio dei migranti, che i pentastellati vorrebbero mantenere per come erano previste nella versione originale del decreto sicurezza bis (tra i 10 mila e i 50 mila euro), mentre gli altri vorrebbero che non se parlasse proprio più. Infine i tempi del nuovo decreto, che il Movimento di Grillo vorrebbe far slittare a settembre. Su questo punto il premier ha preferito non sbilanciarsi: “Concorderemo un piano con i capigruppo - ha spiegato -perché il parlamento sta lavorando tantissimo per convertire i tanti decreti legge dovuti alla pandemia”. Quello che è certo è che non c’è tempo da perdere visto quanto accade tutti i giorni nel mediterraneo. Si è appena conclusa la vicenda della nave Ocean Viking con lo sbarco a Porto Empedocle di 180 migranti, che ieri Alarm Phone ha segnalato l’ennesima tragedia: un gommone riportato indietro dalla cosiddetta Guardia costiera libica dopo essere rimasto in mare una settimana durante la quale sette migranti sarebbero morti. Di quanto accade nel tratto di mare tra la Libia e l’Italia ieri è tornato a parlare anche papa Francesco, in occasione del settimo anniversario della visita a Lampedusa, suo primo viaggio da pontefice. E lo ha fatto per condannare i respingimenti in mare dei migranti, riportati a forza in un paese, la Libia, che per loro è un “inferno”, un “lager”. “Ci danno una versione “distillata”, ha detto parlando di quanto accade nei centri di detenzione. “La guerra sì è brutta, lo sappiamo, ma voi non immaginate l’inferno che si vive lì, in quei “lager” di detenzione. E questa gente veniva soltanto con la speranza di attraversare il mare”. A chiedere la chiusura dei centri di detenzione libici è anche l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, preoccupata oltre che dalle violenze compiute sui migranti anche dall’espandersi in Libia dell’epidemia di Coronavirus. Missioni militari, il ritorno di Minniti di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 9 luglio 2020 Libia e non solo. L’approvazione anche stavolta arriva da una sovra-coalizione patriottica, e anche stavolta in aperto dispregio della nostra Costituzione che “ripudia la guerra” e delle nostre leggi (che vietano la vendita di armi a paesi in guerra e che violano i diritti umani). In fondo non è successo nulla di nuovo. E questo è davvero grave. Il voto in Senato sulla Libia, dove riconosciamo come interlocutore istituzionale la cosiddetta “guardia costiera libica”, è stato bipartisan, come è quasi sempre accaduto dalla guerra in Iraq del 1991. L’approvazione anche stavolta arriva da una sovra-coalizione patriottica, e anche stavolta in aperto dispregio della nostra Costituzione che “ripudia la guerra” e delle nostre leggi (che vietano la vendita di armi a paesi in guerra e che violano i diritti umani). Ben 260 sì, 142 della maggioranza che sostiene il governo Conte e 118 delle opposizioni di destra. Benvenuta dunque la pattuglia - che ci piace definire “di sinistra” - di 14 senatori che hanno detto no e i due che si sono astenuti. Ma può bastare a fare chiarezza sul ruolo del governo Conte? Francamente no, perché appare chiaro a tutti che così torna in auge l’ex ministro Minniti che in un altro agosto, nel 2017, avviò il “modello” per la Libia: finanziamento delle milizie locali libiche - centinaia dopo la guerra Nato del 2011, bande di predoni che controllano le città della costa, legate ai traffici più ambigui quando non allo jihadismo e che ora spadroneggiano impegnate nella guerra civile contro l’autoproclamato leader della Cirenaica Haftar; milizie pronte ad indossare la casacca della fantomatica “Guardia costiera” per fermare, per noi e da noi pagate, la fuga disperata dei profughi. Che, in fuga dall’Africa profonda dell’interno attraversata da guerre e miserie delle quali siamo spesso responsabili, arrivano in Libia e lì vengono bloccati e catturati - impossibilitati ad essere soccorsi mentre il Mediterraneo è diventato la fossa comune dei loro tentativi - e poi finiscono inesorabilmente in detenzione nei campi di concentramento e nelle prigioni. Per le violazioni libiche dei diritti umani non si contano i documenti di condanna, prove alla mano, delle Nazioni unite verso il ruolo dell’Italia e dell’Ue che plaudì al modello Minniti. È stata l’esternalizzazione delle frontiere europee assegnate in Libia a bande criminali o a milizie paramilitari - sarà così anche per la Turchia del Sultano Erdogan. Il tutto, spiegava l’allora ministro Marco Minniti - rimpianto da una infinità di editoriali del “sinistro” Il Fatto quotidiano - che così facendo “si salvava la democrazia e lo stato di diritto in Italia” minacciati dalla destra populista anti-migranti. Insomma chiudere in campi di concentramento e in galere la condizione di migliaia di esseri umani, serviva alla nostra democrazia. Come sappiamo l’operato di Minniti è servito al contrario solo ad aprire la strada al pericoloso razzismo-sovranismo di governo dell’ex ministro degli interni Matteo “voglio i pieni poteri” Salvini, scatenato poi nella battaglia contro le Ong corse in mare in aiuto dei migranti. Questa “filosofia” concentrazionaria di stile imperial-coloniale torna ora d’attualità nelle missioni militari riproposte dal governo Conte - che certo le eredita da altre, precedenti stagioni bipartisan e avventure belliche, ma così facendo le rilancia in grande stile. Ora dopo il Senato il provvedimento sarà approvato nello stesso modo alla Camera, magari sempre agitando la chiacchiera inascoltabile e cara a Di Maio - diventata la mediazione nella coalizione di governo - della “promessa di Tripoli di modificare il Memorandum per salvaguardare i diritti umani”. Intanto sull’intero, negativo pacchetto delle missioni militari è silenzio. Perché non si tratta “solo” di Libia e il tutto accade nel periodo post-Covid ma sempre in emergenza. Una fase che suggerirebbe tutt’altro che spendere più di 2 miliardi di euro per più di 8.500 soldati impegnati in avventure belliche che riproducono se stesse, che non ci difendono dal terrorismo ma lo alimentano, che subordinate ad altre leadership mettono a repentaglio i nostri interessi strategici, che accrescono solo il mercato delle armi che ci vede brillare per produzione ed export. Unica eccezione positiva, da sostenere, sarebbe l’Unifil in Libano, di interposizione e non a caso prodotto di una politica estera italiana per il Medio Oriente. Ma dopo 19 anni di occupazione militare dell’Afghanistan, il Parlamento ha mai discusso sul senso di questa guerra infinita al seguito di Stati uniti e Nato? Restando alla Libia: possiamo essere servi di due padroni committenti - come ha scritto su il manifesto Alberto Negri -, dando armi su un fronte al golpista egiziano al-Sisi che bombarda in queste ore in Libia le forze turche che sostengono a Tripoli il “nostro” al-Sarraj, e sull’altro fronte trafficare in armi con l’alleato atlantico Erdogan che lavora alla spartizione del Paese, perdipiù lasciando nel mezzo, a Misurata, 300 militari italiani e un ospedale da campo ormai retrovia della guerra civile in corso? Dov’è la politica estera ridotta ai budget del complesso militare industriale, privato e di Stato? E che senso ha imbarcarsi nella nuova missione nel Sahel al seguito di Macron nella sanguinosa, quanto taciuta, guerra in Mali, Niger e Chad? Magari con l’intento di contenere la disperazione dei profughi a nord con la guardia costiera libica, e al sud con truppe fresche che “vigilano” lungo un confine di 5mila chilometri? È una assurdità. Ma una assurdità bipartisan. Non è cambiato nulla, lo stile è tardo-coloniale. Del resto come definire una concezione di governo che, in piena globalizzazione, fa vanto e s’ingegna per garantire nei percorsi ardui del potere finanziario internazionale, i fondi per elargire magro welfare e “grandi opere” all’interno del “proprio” paese, mentre all’esterno delle nostre ristrette frontiere, il dividendo per gli ultimi della terra è fatto di campi di concentramento, galere, torture e guerre chiamate “missioni militari”? Cannabis, in migliaia per #IoColtivo: “Sia consentita per uso personale” di Antonella Soldo Il Riformista, 9 luglio 2020 “Sono uno dei 6 milioni di consumatori di cannabis in Italia e uno dei 100mila italiani che la coltivano in casa ogni anno. Ho iniziato ad autoprodurre per due motivi: da consumatore voglio avere il diritto a una sostanza controllata e non una sostanza tossica come quella che si trova nelle piazze di spaccio. Inoltre, non voglio che dietro il mio consumo ci sia una rete di organizzazioni criminali. Chiedere la legalizzazione della cannabis vuol dire far fronte anche a questi due problemi sociali fondamentali”. Matteo Mainardi, attivista e dirigente di Radicali italiani e collaboratore dell’associazione Luca Coscioni - per intenderci: uno cresciuto alla scuola della disobbedienza civile di Marco Cappato - rivendica in conferenza stampa a Montecitorio di aver violato la legge che punisce con una pena fino a 6 anni di carcere la coltivazione di cannabis nel nostro paese. Mainardi è una delle oltre 2500 persone che dal 20 aprile hanno aderito alla campagna #IoColtivo (www.iocoltivo.eu): una grande iniziativa di disobbedienza civile collettiva lanciata da Meglio Legale, Radicali Italiani, Associazione Luca Coscioni, Dolcevita, Forum Droghe, Freeweed e una rete di altre venti associazioni. L’invito era quello ad autocoltivare cannabis, denunciandosi postando foto e video sui social con l’hashtag della campagna. Nonostante il lockdown l’iniziativa ha raccolto in poche settimane migliaia di adesioni. La richiesta è quella di decriminalizzazione della coltivazione personale, e ciò in linea con le indicazioni di una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, nel dicembre scorso, ha stabilito come “la coltivazione per uso personale non è più punibile penalmente, ma è da considerarsi, al pari della detenzione per uso personale, un illecito amministrativo.”. A fare da scudo politico-istituzionale alla campagna ci sono quattro parlamentari che hanno disobbedito, coltivando essi stessi cannabis a casa e documentandolo con foto e video: Riccardo Magi, Caterina Licatini, Matteo Mantero e Aldo Penna. Per tre di loro - Magi, Mantero, Licatini - è scattato sequestro e denuncia di piante di cannabis nel corso della stessa manifestazione del 25 giugno scorso. “Abbiamo deciso di coltivare per stare vicino a tutti gli altri cittadini che hanno aderito alla disobbedienza civile e contribuire a inserire questo tema nell’agenda istituzionale del paese”. Così i quattro parlamentari denunciano la condizione di incertezza normativa e rivolgono il proprio invito ai colleghi ad aprire un dibattito serio e responsabile. Un primo possibile risultato è a portata di mano e riguarda l’esame - già incardinato in commissione Giustizia della proposta di legge 2307, a prima firma Magi, sulla decriminalizzazione della coltivazione di cannabis ad uso personale. Una proposta che mira esattamenta a dare attuazione alle indicazioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e a perfezionarle, superando anche le sanzioni amministrative. Si tratterebbe del “minimo sindacale” nella riforma del Testo unico degli stupefacenti, eppure di un cambiamento i cui effetti sarebbero immediatamente misurabili perché libererebbero risorse, forze dell’ordine e tribunali oggi impegnati nel contrasto di un fenomeno ampiamente diffuso. Lo scorso anno, infatti, sono state sequestrate 532.176 piante di cannabis: quasi il doppio dell’anno prima (+94%). Nelle settimane scorse oltre 100 parlamentari hanno firmato un appello rivolto al presidente del Consiglio Conte per chiedere di discutere di legalizzazione della cannabis agli Stati generali per il rilancio economico del paese. Insomma, a livello parlamentare un dibattito per troppo tempo sopito è stato - seppur faticosamente - riavviato. I colpi di coda sono molti e potenti: basti pensare alla bocciatura, pochi giorni fa, degli emendamenti su cannabis light al Decreto rilancio. È fisiologico, in una sfida così complessa: ma abbiamo buone ragioni per credere che gli strumenti della ragionevolezza e del buonsenso prevarranno. In questi giorni a Roma abbiamo fatto affiggere 1400 manifesti e locandine con due semplici messaggi: con la legalizzazione si toglierebbero alle mafie fino a 7 miliardi all’anno e si creerebbero fino a 350mila nuovi posti di lavoro. Anche un’affissione a pagamento è stata un’impresa: infatti Atac, a cui Meglio Legale si era inizialmente rivolta, ha dato un diniego e trovare delle aziende private è stato complicato. Ma ce l’abbiamo fatta. E forse un giorno tutto ciò sarà semplicemente normale. No al politicamente corretto. La lettera di 150 intellettuali di Cristina Marconi Il Messaggero, 9 luglio 2020 Da Rusdhie a Chomsky, un manifesto “contro tutte le intolleranze. Il sacrosanto percorso verso la giustizia sociale e razziale non può avvenire a scapito della libertà d’opinione. E la “cancel culture”, ossia la tendenza a rigettare tutto ciò che è controverso, dalle statue alle idee, sta succhiando via la “linfa vitale di una società liberale” e per questo deve essere ripensata, tanto più in un momento in cui “le forze illiberali hanno un potente alleato in Donald Trump”. A dirlo sono ben 153 famosi intellettuali dalle sensibilità politiche diverse, da Margaret Atwood a Noam Chomsky a Salman Rushdie al poeta nero Reginald Dwayne Betts fino a una JK Rowling fresca di feroci polemiche con gli attivisti transgender, in un lungo testo pubblicato da Harper’s Magazine e intitolato Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto. Le proteste seguite all’uccisione di George Floyd hanno portato a una richiesta di maggiore inclusione nel mondo accademico e culturale, e questo secondo i firmatari va applaudito, ma non si può tacere davanti “all’intolleranza dei punti di vista opposti, alla moda della gogna pubblica e dell’ostracismo, alla tendenza ad dissolvere questioni complesse in certezze morali accecanti”, si legge nella lettera, che denuncia come sia “ormai fin troppo comune sentire richieste di una rapida e severa punizione davanti alle trasgressioni percepite nel linguaggio e nel pensiero”. La Rowling e la Atwood, ad esempio, hanno posizioni diametralmente opposte sulla questione dei transgender: la prima ha scritto una lunga presa di posizione contro l’idea che “le persone che hanno le mestruazioni” possano essere altro che donne e questo le è costato il sostegno pubblico di alcuni attori che hanno raggiunto una fama stellare grazie alla saga di Harry Potter, mentre per l’autrice ottantenne de I racconti dell’Ancella “la biologia non agisce in compartimenti stagni”. Ma tra i firmatari ci sono casi ancora più eclatanti, come David Frum, che scriveva discorsi per George W Bush e che ha coniato la frase asse del male, la femminista Gloria Steinem, il conservatore Francis Fukuyama e il linguista, filosofo e attivista politico di sinistra Chomsky. Alcuni hanno detto di non sapere chi altro ci fosse nella lista mentre in due si sono addirittura ritirati. Nella lettera, ripresa in tutto il mondo, si osserva come in questo clima i leader politici tendano a reagire con uno spirito di “contenimento dei danni dettato dal panico”, finendo col punire in modo sproporzionato invece di portare avanti le riforme richieste. Ma al di là della sfera politica, l’attenzione è rivolta ai casi in cui “i direttori dei giornali vengono cacciati per aver pubblicato pezzi controversi” e i professori vengono indagati per aver letto una certa opera in classe o qualcuno viene licenziato per aver fatto “un goffo errore”. La soluzione sarebbe tornare a una “risposta robusta e anche caustica” davanti a ciò che si percepisce come ingiustizia, anche perché intellettuali e scrittori stanno diventando sempre più “avversi al rischio” e timorosi di sbagliare, quando invece un’eventuale cattiva idea dovrebbe essere contrastata con il dibattito e la discussione. “Dobbiamo preservare la possibilità di un disaccordo in buona fede senza conseguenze professionali negative”, sostengono gli intellettuali, tra cui ci sono anche Martin Amis e l’autore di Middlesex, Jeffrey Eugenides. L’iniziativa, partita un mese fa per iniziativa dello scrittore afroamericano Thomas Chatterton Williams, ha suscitato molte, inevitabili polemiche e l’accusa che i firmatari siano un gruppo di privilegiati molto sensibili e angosciati dalla prospettiva di diventare irrilevanti davanti all’avanzata di una nuova classe di intellettuali. Altri hanno accusato i firmatari di ipocrisia per essersi ribellati solo quando questa tendenza alla censura colpisce i loro interessi. Al New York Times, Williams ha detto che il presidente americano “Trump è il capo-cancellatore”, ma che la “correzione dei suoi abusi non può trasformarsi in una correzione eccessiva che irrigidisce i principi in cui crediamo”. La presenza della Rowling è stata oggetto di molte critiche, alle quali ha risposto citando la drammaturga americana e attivista comunista Lillian Hellman, vittima della caccia alle streghe di McCarthy: “Non posso e non posso aggiustare la mia coscienza per adattarla alla moda di quest’anno”. Stati Uniti. Sei un adolescente (nero o ispanico) il tuo destino è la galera di Marica Fantauzzi Il Riformista, 9 luglio 2020 Quando vengono processati hanno molte meno possibilità di essere assolti o di accedere a misure alternative di detenzione. Se non stai sanguinando o morendo, puoi scordarti l’infermeria. Come un gioco del telefono perfettamente riuscito, in cui la frase finale arriva all’ultimo destinatario integra e mai alterata, così tra una brandina e l’altra, i giovani detenuti negli istituti penitenziari della California si passano sommessamente quella prima informazione: l’infermeria non esiste. Tra il 1990 e il 2000 il Djj, il Dipartimento di Giustizia Minorile amministrato dallo stato della California, teneva reclusi 10.000 ragazzi fra i 15 e i 24 anni. Oggi, nei tre istituti penitenziari ancora rimasti attivi, ce ne sono 800. Il vertiginoso calo del tasso di detenzione - circa il 93% - è iniziato nel 2005, dopo una serie incalcolabile di abusi, violenze e suicidi avvenuti all’interno delle strutture gestite dal governo dello Stato. Il Center on Juvenile and Criminal Justice (Cjcj), organizzazione non governativa che si occupa di monitorare le condizioni di detenzione californiane, ha pubblicato in proposito alcune testimonianze di quegli 800 detenuti, l’88% dei quali afroamericani e ispanici. Degli ultimi due rapporti della Cjcj, uno è uscito a cavallo della pandemia da Covid-19. “Per intere decadi - si legge - il sistema di gestione statale della detenzione minorile ha messo a rischio la salute e la sicurezza di giovani e giovanissimi e la crisi epidemica da Covid-19 non ha fatto altro che accelerare questo processo”. Gavin Newsom, governatore democratico della California, poco dopo essere stato eletto - un anno fa - annunciò che entro la fi ne del suo mandato avrebbe interamente riformato il sistema di giustizia minorile dello Stato, arrivando a prospettare la chiusura degli istituti penitenziari. Poi la pandemia e i 54 miliardi di dollari di defi cit hanno accelerato la necessità di tagliare i costi e anche, precisa Newsom, di occuparsi della salute dei minori. Ogni anno la California spende 300.000 dollari per ragazzo detenuto in condizioni che lo stesso governatore definisce “terribili”. Sembra sia servita una pandemia, afferma da San Francisco Renee Menart del Cjcj per rendere improvvisamente insopportabili le condizioni in cui vivono quei minori. “Che il carcere, specialmente questo carcere, sia controproducente per persone che in media hanno 19 anni non è più oggetto di interpretazione. Il 76 % di esse infatti viene riarrestato, il 50 % viene incriminato per un reato diverso dal primo e il 26 % ritorna in carcere dopo appena tre anni dalla liberazione”. In gran parte degli Stati Uniti il numero di adolescenti condannati per reati gravi è sensibilmente diminuito, passando dai 2.8 milioni del 1998 agli 800.000 del 2015. Nonostante questo, molti stati americani hanno continuato a costruire nuovi penitenziari, aspettandosi un costante aumento di reati per mano di minorenni. L’attenzione, politica e mediatica, posta sulla violenza degli adolescenti (soprattutto afroamericani) è stata fomentata negli ultimi decenni dal riproporsi di teorie bio-deterministe che puntavano a colpevolizzare il minore in quanto più propenso a commettere reati violenti. Pubblicazioni sistematicamente smentite impiegate in maniera strumentale per giustifi care la costruzione di nuovi istituti penitenziari, la mancata chiusura di quelli rimasti vuoti e il costante aumento di risorse per la polizia. Marsha Levick, avvocato minorile e cofondatrice del Juvenile Law Center, denuncia come le misure di contenimento da Covid-19, in alcuni penitenziari, siano state utilizzate come giustifi cazione inevitabile di un abbrutimento della pena. “Per controllare l’epidemia interna, di George Floyd”. “Se un ragazzo bianco trasgredisce la legge - conclude Marsha Levick - ha molte meno probabilità di fi nire in carcere. E se è vero che praticamente tutti i minori che commettono reati, a prescindere dal colore della pelle, vivono condizioni di forte disagio socioeconomico, è altrettanto vero che i minori afroamericani o ispanici hanno meno possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione”. Se entro il 2023 il governo della California dovesse veramente chiudere le tre prigioni minorili, rimarrebbero quelle delle contee. La contea di Los Angeles ha da sola, circa 150 istituti penitenziari. Ecco perché, precisano gli attivisti della Youth Justice Coalition, se i fondi, prima destinati alle tre prigioni statali, venissero semplicemente destinati a quelle locali, il governatore avrebbe solo spostato il problema. Le risorse devono servire per “deistituzionalizzare” la giustizia minorile e per tutto ciò che c’è fuori dal carcere, per la scuola, per la comunità e per la strada. “La povertà e la violenza, non la conformazione del cervello, mandano i ragazzini in galera”. In uno dei rapporti pubblicati dal Cjcj si legge che il grande mistero americano non è tanto cosa ci sia di sbagliato in questi adolescenti, ma quanto invece ci sia di giusto nel lasciarli vivere in un paese dove la possibilità di essere uccisi da un’arma da fuoco è 25 volte più elevata che in qualsiasi altro luogo. Quando - nel 2010 - venne chiuso un riformatorio in Florida, sulle prime si sosteneva fosse per problemi economici. Era la Arthur G. Dozier School for Boys, considerato un modello di educazione e disciplina. Solo dopo vennero scoperti 55 corpi, per lo più afroamericani, in un campo clandestino. Alcuni giovani detenuti, però, riuscirono a scappare e a raccontare. “Il riformatorio accompagnava alla porta i ragazzi il giorno del loro diciottesimo compleanno, con qualche spicciolo e una rapida stretta di mano. Liberi di tornare a casa o di trovare la propria strada in un mondo incurante, probabilmente deviati su uno dei binari più diffi cili della vita. I ragazzi arrivavano alla Nickel già guastati in vari modi, e subivano altri danni mentre erano lì. Spesso li attendevano passi falsi più gravi e istituti più spietati. I ragazzi della Nickel erano fottuti prima, durante e dopo il periodo che trascorrevano in quel posto, se si voleva descriverne la traiettoria generale” (Nickel di Colson Whitehead). Messico. Le bugie di Stato su 43 morti di Alessia Grossi Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2020 Caso Ayotzinapa: trovati i resti di una vittima, smentita la versione dell’ex presidente Peña Nieto sul massacro del 2014. Christian è l’unico figlio maschio di Clemente Rodriguez e Luz Maria Telumbre. Alto, moro, occhi neri il suo sogno è studiare per garantirsi un futuro e aiutare la sua famiglia. La sua passione, da quando è un bambino, tuttavia, sono i balli folkloristici. Nella sala prove della Casa della Cultura di Tixla manca il rimbombo dei colpi dei suoi tacchi sul pavimento di legno, da quando, il 26 settembre del 2014 “Socho” “Sonchito”, o anche “Clark” o “Hugo”, a seconda se a chiamarlo fossero i suoi compagni di ballo o quelli di classe, è scomparso insieme agli altri 42 alunni della scuola normale rurale di Ayotzinapa, stato di Guerrero, Messico. Le due sorelle non lo riabbracceranno più. Cinque anni, 286 giorni e 13 ore dopo, la polizia scientifica del cosiddetto “Caso Ayotzinapa” ha confermato che il corpo ritrovato a novembre scorso è il suo. Un corpo che parla, come vuole la tradizione dei morti in Messico e che - in questo caso - con la sua sola presenza nel luogo del ritrovamento, cancella la famosa “verità storica” con cui l’ex presidente Enrique Peña Nieto ha cercato di chiudere il caso degli studenti spariti, a soli due mesi dalla scomparsa. “Uccisi dai sicari di “Guerreros Unidos”, (uno dei gruppi criminali locali di Iguala sorti dallo smembramento dei grandi cartelli della droga, ndr), con la connivenza di agenti corrotti, mentre andare via da Iguala su tre autobus con cui volevano raggiungere Città del Messico. I 43 sono stati trascinati nella discarica di Cocula e i loro corpi incendiati”. Così l’8 novembre 2014, il procuratore generale Jesús Murillo Karam, visibilmente commosso, confermava la morte dei ragazzi a telecamere accese, facendo a pezzi le flebili speranze delle famiglie dei giovani che viaggiavano sugli autobus - ritrovati vuoti e crivellati di colpi - di rivedere i propri figli o poter dare loro degna sepoltura. Il motivo dell’attacco da allora è solo uno dei tanti misteri che avvolgono il caso dell’ennesima macelleria messicana, anche se una Commissione internazionale ha stabilito nel 2016 che si è trattato di un atto di violenza della polizia con l’appoggio dell’esercito e dei Servizi. Ora a porre una pietra tombale sulla narrativa ufficiale è arrivato il corpo di Christian, non ritrovato accanto alla discarica come i due compagni, Alexander Mora e Jhosivani Guerrero, i cui resti giacevano sulla strada del fantomatico agguato, bensì a 800 metri da Cocula. Lì in teoria già unità della ormai defunta Procura generale della Repubblica, Pgr, diretta da Murillo Karam, avevano cercato palmo a palmo senza risultati. Peccato che a dirigere le ricerche dell’agenzia di Indagini criminali fosse Tomás Zerón, oggi latitante, ricercato dall’interpol per tortura, sparizione di persone e reati contro l’amministrazione pubblica. È a lui - oltre ad altri 46 funzionari pubblici, tra cui Carlos Arrieta e Julio Dagoberto Contreras, rispettivamente capo della Polizia ministeriale suo sottoposto - che il procuratore generale del Messico, Alejandro Gertz, imputa la partecipazione nella sparizione degli studenti. Ma, soprattutto, Zerón è accusato di “aver alterato il corso delle indagini”, “occultando prove” durante le ricerche. Il famoso “affaire del rio San Juan”, in riferimento al suo viaggio sul luogo del presunto delitto, la discarica, con uno dei detenuti del clan. In questa occasione, quest’ultimo gli avrebbe indicato di cercare nel fiume adiacente, il rio San Juan, in cui effettivamente avvolti in buste di plastica vennero ritrovati resti umani, identificati poi con Alexander Mora, uno dei 43 studenti scomparsi. Il problema è che Zerón nascose ogni cosa, finché, scoperto, divulgò un video, rieditato, delle ricerche nella zona. Ma per allora le famiglie dei desaparecidos già non credevano a una parola delle dichiarazioni ufficiali, né avvocati e periti indipendenti erano sicuri della versione della discarica. Potrebbe trattarsi di un caso isolato di funzionario corrotto come tanti in Messico, se non fosse che la carriera fulminea di Zerón - volato a fine anno, non appena ritrovati i resti di Christian, in Canada - sia così legata a Peña Nieto. Arrivato alla Procura nel 2013 con il presidente, aveva lavorato con lui già in al tempo in cui era governatore di Guerrero e dal 2009 al 2013 era stato coordinatore della Procura e poi titolare dell’unità speciale contro il crimine organizzato. Dopo Ayotzinapa, proprio a settembre 2014, assunse il ruolo di viceprocuratore e capo dell’agenzia di Indagine criminale: il super-poliziotto del Messico.