Garanti e Cnvg: “È ora che i volontari possano tornare nelle carceri” Redattore Sociale, 8 luglio 2020 I Garanti dei detenuti e la Conferenza volontariato giustizia propongono la ripresa della attività trattamentali. E che siano utilizzati tutti gli spazi dei penitenziaria per garantire il distanziamento: dalle aree verdi ai campetti di calcio, dal teatro alla biblioteca. Ripresa delle attività trattamentali e ritorno dei volontari: è quanto auspicano la Conferenza dei Garanti dei detenuti e la Conferenza nazionale volontariato giustizia. Nelle carceri italiane, infatti, la fase 2 è iniziata solo parzialmente. Per questo le due Conferenze, che hanno tenuto una riunione ai primi di luglio, propongono “un graduale ma costante percorso di ripresa dell’accesso degli operatori del terzo settore con i dovuti accorgimenti per la prevenzione del contagio”. Durante il lockdown sono stati sospesi sia i colloqui fisici con i parenti ogni altra attività non strettamente necessaria. Ora è il tempo di ripartire. “Pur consapevoli della necessità che al personale sia garantito il piano ferie, si auspica venga fatto ogni sforzo per non ridurre le attività trattamentali durante il periodo estivo”. Ovviamente il rientro dei volontari e la ripresa delle attività trattamentali dovrà avvenire con tutte le precauzioni per evitare contagi. E quindi i volontari “si sottoporranno al triage di ingresso come tutti gli altri operatori”, mentre gli “incontri di formazione e attività rieducative/di reinserimento di gruppi limitati di detenuti si svolgeranno in spazi che consentano un significativo distanziamento dell’operatore dal gruppo (aree verdi, auditorium, sala teatro, biblioteca, campo da calcio)”. Per quanto riguarda i colloqui individuali di sostegno “si svolgeranno con adozione di distanziamento di m 1.50 tra operatore esterno e persone detenute e l’uso puntuale della mascherina protettiva e del gel igienizzante da parte di tutti”. Allo stesso tempo “l’utilizzo delle tecnologie per i colloqui di sostegno individuale e per le attività di gruppo scolastiche, educative e ricreative dovrà essere potenziato, con la possibilità che ogni attività venga gestita sia in presenza degli operatori volontari, sia in remoto, quando questa può essere considerata una opportunità di ampliare e approfondire le iniziative con la partecipazione di esperti significativi dall’esterno”. Dap, a breve conclusi lavori sul nuovo modello custodia per detenuti askanews.it, 8 luglio 2020 Sarà presto a disposizione del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, la relazione aggiornata prodotta dal gruppo di lavoro per lo studio di un nuovo modello di custodia. Lo rende noto il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. L’indicazione di attualizzare ed integrare il lavoro preesistente, avviato nell’aprile 2019 e ultimato nel novembre dello stesso anno, “con ulteriori aspetti meritevoli di trattazione” partita nel giugno scorso proprio su impulso del capo del Dap ed finalizzata alla preparazione di una futura circolare sul tema. Il gruppo di lavoro - costituito da due direttori di istituto, un comandante, un ispettore e un agente, ai quali si unisce un provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria - sar coordinato dal vertice del Dipartimento. Nei prossimi giorni, alle riflessioni del gruppo di lavoro si aggiungeranno gli spunti e i contributi che verranno dalle organizzazioni sindacali penitenziarie, gi convocate per essere ascoltate sull’argomento. La conclusione dei lavori prevista per la fine del presente mese di luglio. La libertà chiamata per nome. L’ultimo rapporto del Garante delle persone detenute di Dario Stefano Dell’Aquila napolimonitor.it, 8 luglio 2020 Il 26 giugno, nell’aula dell’università di Roma 3 adeguata per l’occasione a sala del Senato, è stata presentata la Relazione al Parlamento 2020 del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della liberta? personale, presieduto da Mauro Palma e composto da Daniela de Robert e da Emilia Rossi. Al netto del necessario stile formalmente pacato e istituzionale, la relazione offre numerosi spunti di riflessione, e propone un’analisi così matura che è davvero un peccato rimanga solo un documento per addetti ai lavori; contiene, infatti, elementi di critica radicale che vanno raccolti ed elaborati, dal momento che non parlano del “carcere” (non solo almeno) ma di ciò che è accaduto, sta accadendo e con ogni probabilità accadrà ancora. I dati raccontano di un carcere che negli ultimi cinque anni vede crescere i presenti sino ad arrivare ai 60.791 detenuti a fine 2019, a cui vanno sommati 29.566 detenuti in misura alternativa. Si confermano i numeri bassi di sempre per le donne (2.663 in tutto le detenute), circa un terzo delle presenze è straniero (19.888), un altro terzo circa è in carcere in attesa di almeno una sentenza di primo grado. Un carcere in lento affanno, insufficienza di spazi, assenza di politiche di recupero, prevalenza delle logiche securitarie, i cui fragili equilibri sono stati messi in crisi senza possibilità di fraintendimenti durante la prima fase dell’emergenza Covid-19. Sono state 41 le manifestazioni di protesta nei mesi di marzo e aprile, con oltre 5000 detenuti coinvolti, che hanno fatto registrare 30 feriti tra la popolazione detenuta e 29 tra gli agenti, e circa 2.500.000 euro di danni. Ancora più grave il dato sulle rivolte, 23, con un bilancio impressionante e su cui ancora non si è fatta luce, 13 detenuti morti, nove dei quali nel solo carcere di Modena. Rivolte scoppiate - è bene ricordarlo - durante la fase più acuta di emergenza e nel clima di un lockdown appena iniziato senza che nessuno si preoccupasse di garantire e rassicurare quella parte di mondo sommerso dai rischi del contagio. A oggi si contano 161 positivi tra i detenuti, con almeno quattro decessi, e 211 positivi tra gli agenti di polizia, segno evidente che i timori alla base di quelle proteste non erano poi infondati. Se la crisi non è proseguita è perché, sia pure tra le polemiche strumentali e demagogiche che ne sono scaturite, una parte di detenuti ha usufruito della detenzione domiciliare, e perché sono state adottate, sia pure con ritardo, misure di screening e di test alla popolazione. Ma la ferita lasciata da queste proteste è tutta nelle ferite del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ciò detto, per disegnare un rapido quadro del nostro sistema penitenziario, raccogliamo qui due spunti tra i tanti che la lettura del rapporto offre. Il primo è relativo a un passaggio della lunga relazione, richiamato da Mauro Palma nella presentazione: “La mancanza di una riflessione organica sul disagio psichico in carcere determina, peraltro, anche l’atteggiamento diffuso, privo di un effettivo fondamento e in progressiva crescita di ascrivere ogni forma di disagio di natura emotiva o comportamentale o anche di semplice reazione a condizioni di vita non tollerabili alla sfera della malattia psichica”. Questa sorta di “psichiatrizzazione generale”, riduce “le responsabilità di tutti gli attori che l’autore di reato incontra nel suo percorso di giudizio e di esecuzione della pena, e soprattutto di chi ha il compito di assicurare il ‘ben-essere’ di ogni persona nell’ambiente in cui questa è ristretta. […] Determina inoltre risposte non sempre adeguate al problema, e l’ingolfamento delle strutture dedicate alle patologie psichiatriche vere e proprie”. Quali sono le cause di questa dinamica? “Vuoti, inerzie, carenze, bisogno: la situazione della tutela della salute mentale negli istituti penitenziari italiani, maturata nel corso dell’ultimo anno, si può sintetizzare in questi parametri che toccano, implacabilmente, i campi di possibile azione legislativa, culturale, sanitaria”. L’assenza di una cultura di intervento che porta a considerare la patologia psichica “come la figlia di un Dio minore nel campo della malattia: una sofferenza considerata a tratti inconsistente, a tratti ‘colpevole’ e in, ogni caso, non meritevole di una soluzione”. Una sofferenza che sconta carenze strutturali che portano a privilegiare un approccio segregazionista, spesso concretizzatosi nell’isolare le persone con disagio psichico in sezioni sotto “il controllo diretto del personale di polizia, con il rischio di una impropria assegnazione di responsabilità rispetto a comportamenti e a questioni che non sono di competenza del personale di sicurezza”. Così, in parte, si spiegano i 55 suicidi e, soprattutto, i migliaia episodi di autolesionismo che non possono essere separati dal contesto in cui maturano. In carcere (e di carcere) ci si ammala e non c’è cura, perché questo carcere così come concepito non può dare risposte che non siano di contenimento a quei comportamenti che si pongono come “problematici”. Però attenzione, ci viene da aggiungere, queste stesse risposte di cura che i servizi di salute mentale non riescono a dare nel carcere, in modi diversi non vengono date nemmeno in molti dipartimenti di salute mentale. Il carcere non è una linea di frontiera che i servizi non riescono a raggiungere, ma uno dei tanti luoghi di questo paese in cui le persone, che siano libere o ristrette, devono rassegnarsi all’assenza di una cura che sia “presa in carico” e non mera prescrizione di qualche farmaco. E il carcere non è necessariamente il luogo più violento o pericoloso per chi soffre di una patologia, basti pensare al caso estremo di Elena Casetto, morta in un incendio a soli 19 anni nel letto di contenzione del dipartimento di salute mentale dell’Asl di Bergamo. E qui veniamo al secondo punto. Commetteremmo un grave errore se pensassimo che il problema della privazione della libertà riguarda solo le persone che sono in carcere (circa 60.000), anzi su questo la relazione ci aiuta a mettere a fuoco un concetto importante. Sono prive della libertà (sia pure in modo parziale) anche le persone anziane, disabili e non autosufficienti che sono ristrette in strutture pseudo-sanitarie (circa 340.000), i migranti che transitano nei centri di espulsione (circa 3.000), le persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio (circa 8.000), quelle che passano per le camere di sicurezza delle stazioni delle forze dell’ordine (circa 24.000). Se sommiamo questi numeri, viene fuori innanzitutto che il tema della libertà, e della tutela delle persone che ne sono private per una qualunque ragione, riguarda circa 500.000 persone l’anno; osserviamo poi che si moltiplicano per forma e tipologia i “contenitori” nei quali trascorrono le loro vite da reclusi, a diverso titolo, anziani, disabili, sofferenti psichici, migranti, e che si fa sempre più spazio un approccio psichiatrico-istituzionale che in questi luoghi non si sottrae all’ingrato compito di medicalizzare tutto senza offrire la cura per nulla. Torna, sullo sfondo, ma già vicina all’orizzonte, la logica del manicomio che si moltiplica in mille spore dalla forma diversa, ma che gemmano sempre la stessa pianta che per radice ha l’esclusione e che non offre mai lo sguardo al sole. A questo proposito si legge nel rapporto una bella citazione di Albert Camus: “Quando si comincia a nominare bene le cose, diminuisce il disordine e la sofferenza che c’è nel mondo”. Se chiamiamo libertà il bene più importante della nostra vita, quella di ciascuno di noi, forse possiamo cominciare a chiederci di quanta e di quale prigione abbiamo davvero bisogno. Salvini contro il Garante dei detenuti: l’ennesima dimostrazione di incompetenza di Giusy Santella mardeisargassi.it, 8 luglio 2020 Non ci sono eventi negativi che il leader della Lega Matteo Salvini non tenti di cavalcare per portare avanti la sua becera propaganda politica e riconquistare un po’ di quel consenso di cui inizia ad avere nostalgia. È quanto avvenuto, ad esempio, poche settimane fa per l’apertura delle indagini a carico di 44 agenti in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, accusati di tortura ai danni di alcuni detenuti. In quell’occasione, l’ex Ministro dell’Interno si era precipitato sul posto per difendere a spada tratta i poliziotti coinvolti e giustificare - ancor prima dell’inizio del processo - il loro operato. Dopodiché, aveva ovviamente deciso di partecipare alla manifestazione indetta dal Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria per il 25 giugno scorso e di fare uno dei suoi illuminanti interventi. Presentato come l’uomo a cui dobbiamo molto, che oggi è qui in barba al virus e alle prescrizioni - cosa di cui non andare affatto fieri - e osannato da un gruppo di sindacalisti in maglietta della Lega che gli ha persino dedicato un coro, alla manifestazione Salvini ha iniziato il proprio discorso con uno dei suoi soliti elenchi insensati divenuti oramai celebri meme sui social - la vigilanza dinamica, le lamette, le bombolette, i telefonini infilati dovunque -, per poi concludere con in carcere i delinquenti che sbagliano pagano, non è possibile che a pagare siano sempre i poliziotti. Poche parole eppure così tante inesattezze da far accapponare la pelle, a cominciare dal verbo pagare, utilizzato chiaramente per indicare una punizione che, purtroppo per lui, il nostro sistema penale non prevede tra i fini cui la pena tende. Ma l’avvincente intervento è proseguito promettendo presto un lavoro concreto perché la Lega - testuali parole - non ci metterà molto a tornare al governo, ma contiamo su di voi, così come voi potete contare su di noi. La vicenda di Santa Maria Capua Vetere, invece, è stata liquidata con un se stanno tranquilli i detenuti, stanno tranquilli anche gli agenti, lasciando quindi sottintendere uno spostamento di responsabilità, come a dire che, se anche fosse accaduto qualcosa, gli agenti sarebbero stati pienamente giustificati. Anche stavolta e come in ogni campagna elettorale che si rispetti, Matteo Salvini non ha perso poi l’occasione per denigrare il Ministro della Giustizia Bonafede, con cui non va d’accordo perché io voglio chiudere - accompagnando le parole con un gesto plateale delle mani a simulare delle chiavi - e lui vuole spalancare. I numerosi problemi della giustizia nostrana e del sistema penitenziario sono così stati risolti in quattro battute dall’ex titolare del Viminale che, però, ha dato il meglio di sé quando ha consigliato ai Garanti dei detenuti di trovarsi un lavoro diverso e di occuparsi di altro. Non è la prima volta che il leader del Carroccio si scaglia contro tali organismi indipendenti: è accaduto poco tempo fa, quando lui e alcuni sindacalisti di polizia penitenziaria hanno chiesto le dimissioni del Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello poiché, a loro avviso, le sue denunce sui fatti di Santa Maria Capua Vetere erano inopportune. Come se il suo ruolo non richiedesse proprio la segnalazione delle criticità e di eventuali abusi che possono registrarsi negli istituti penitenziari. Ma, evidentemente, Salvini non sa nulla di questo ruolo fondamentale e lo ha dimostrato in particolar modo definendo il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma il garante dei delinquenti. La reazione scomposta del leader della Lega è arrivata in seguito alla relazione in Parlamento dello stesso Palma, che aveva osato chiedere un ripensamento globale delle politiche di gestione delle frontiere, minacciando così i suoi intoccabili Decreti Sicurezza. “È la conferma che sono decreti fatti bene […] e ad aver bisogno di un Garante non sono detenuti e spacciatori - una categoria sempre comoda da tirare in ballo per ottenere consenso, ndr -ma gli agenti della polizia penitenziaria. Io sono stato scelto dagli italiani, il Garante dei delinquenti da chi è stato eletto?”.Il pressappochismo delle sue affermazioni non è solo dimostrazione dell’incompetenza di Matteo Salvini che, tra l’altro, non sa che il Garante - il cui ruolo fondamentale come presidio di legalità abbiamo già avuto modo di sottolineare - non si occupa solo di coloro che hanno commesso un reato bensì di tutte le persone private della libertà. Ripropone, inoltre, il solito schema di opposizione tra detenuti e poliziotti che invece fanno parte dello stesso sistema penitenziario che nel suo complesso la figura del Garante intende tutelare. Non era la prima volta, comunque, che Mauro Palma riceveva attacchi simili, da Salvini o dal sindacato di polizia penitenziaria, che tempo fa aveva addirittura minacciato un referendum popolare per abrogare l’organismo. “Il 99.99% degli italiani sa da che parte stare tra guardie e ladri, solo qualche radical chic sceglie sempre la parte sbagliata”: così, situazioni complesse come quelle degli istituti penitenziari, del sovraffollamento, delle condizioni inumane per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, sono state ridotte nelle parole di Salvini a un gioco di categorie, a una divisone tra buoni e cattivi e a qualche piccolo oppositore che si è bevuto il cervello. Per sfortuna dell’ex Ministro, però, ci sono ancora molte realtà e singoli che si battono per ottenere un sistema penale realmente rieducativo poiché non dimenticano che coloro che sono detenuti sono uomini i cui diritti vanno rispettati, qualunque sia il reato di cui si sono macchiati. Probabilmente, il modo migliore di reagire è sintetizzato nelle parole del Garante nazionale: “Una persona che, pur avendo per accidente della vita un ruolo istituzionale, si esprime in questo modo rispetto alle altre istituzioni non merita il commento di chi nelle istituzioni realmente crede”. Un altro “Fuori tutti”. Bonafede & C. riprovano a far liberare i criminali di Massimo Malpica Il Giornale, 8 luglio 2020 Il 30 giugno circolare per svuotare le carceri. “Tra 120 e 160 detenuti pericolosi a spasso”. A volte ritornano. Prima ancora che si placasse la polemica per la circolare del Dap sulle scarcerazioni in tempo di Covid che ha mandato ai domiciliari centinaia di detenuti pericolosi tra cui boss di mafia, camorra e ndrangheta, ecco che il ministero concede il bis. Con una nuova circolare, stavolta datata 30 giugno, firmata dal direttore generale Riccardo Turrini Vita e dal nuovo capo del Dap Bernardo Petralia. Il documento detta le “linee guida” per gli istituti penitenziari dopo il 30 giugno. E allega alla circolare una bozza del protocollo per la prevenzione da Covid nelle carceri, dove si ribadisce l’importanza “di favorire l’applicazione di misure alternative alla detenzione per tutti le persone che presentano gravi patologie che possono essere significativamente complicate dal Covid-19”. A parte il refuso sulla grafia del virus, come si diceva, il déjà-vu è inevitabile. Tanto che, come spiega Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Spp, grazie alla nuova circolare, nel caso di un colpo di coda del contagio si può ipotizzare che potranno lasciare le patrie galere “tra i 120 e i 160 detenuti pericolosi, pochi di questi si trovano al 41 bis e la gran parte in Alta sicurezza”. Ed è sempre Di Giacomo che sottolinea come sia “consapevolmente diabolico” non aver previsto, nonostante il precedente, “l’esclusione dei mafiosi e dei 41 bis da questa circolare, come se non esistessero”. Secondo il sindacalista, peraltro, la circolare oltre a ripetere gli errori della precedente andrebbe letta “in un piano molto più ampio di distruzione del carcere duro”, un percorso che per Di Giacomo, che andrà a protestare sotto Palazzo Chigi il prossimo 14 luglio, “punta a smantellare il 41 bis ed è molto preciso, come dimostra anche la riproposizione di questa circolare sul Coronavirus: come può l’amministrazione, di fronte al rischio di ritorno del contagio, ripetere l’errore già commesso mandando a casa 41 bis e alta sicurezza?”. Niente male, considerando il pasticcio che aveva prodotto la precedente circolare, le conseguenti polemiche politiche e la corsa ai ripari dello stesso Guardasigilli Alfonso Bonafede per tentare di riportare dietro le sbarre almeno i boss più in vista che erano stati scarcerati. Per quel documento sono caduti i vertici del Dap, di fronte a una trasversale sollevazione contro l’iniziativa del ministero di via Arenula, che infatti qualche settimana fa aveva addirittura “sospeso” (non revocato) la circolare incriminata. Ora, invece, via per un altro giro. Tra gli increduli anche il sostituto procuratore napoletano Catello Maresca, che in un articolo su juorno.it, due giorni fa, ha lanciato l’allarme: “Con la nuova circolare, pronto un altro liberi tutti di mafiosi”. La toga spiega come, nel documento, si ribadisca “il solito, assurdo, sbagliato e colpevolmente miope principio che prevede al primo posto l’importanza di proseguire ove possibile il percorso già avviato di progressiva riduzione del sovraffollamento delle strutture e all’ultimo di favorire l’applicazione di misure alternative alla detenzione per tutte le persone che presentano gravi patologie che possono essere significativamente complicate dal Covid 19”. A sollevare il caso, anche il responsabile nazionale Giustizia di Fdi, Andrea Delmastro, che accusa Bonafede di “ripristinare lo svuota carceri” e gli chiede l’immediata revoca della circolare, oltre a invocare la rimozione del nuovo capo del Dap, Petralia e ad auspicare che il Guardasigilli “con dignità, torni a fare ciò che sa fare: il dj”. Le carceri italiane e la Circolare del Dap di Andrea Cottone* Il Giornale, 8 luglio 2020 È destituito di ogni fondamento quanto riportato sul contenuto della Circolare del Dap del 30 giugno 2020 nell’articolo di Massimo Malpica “Un altro “Fuori tutti”. Bonafede & C. riprovano a far liberare i criminali”, pubblicato su Il Giornale. Contrariamente a quanto riportato nel titolo, nel sommario e spiegato nel testo, la circolare in questione non riguarda, neanche indirettamente, il tema del sovraffollamento e delle scarcerazioni. Come già spiegato in una nota ministeriale inviata all’Ansa il 4 luglio scorso e non menzionata nell’articolo, si tratta invece di una circolare che, proprio nella prospettiva del ritomo alla normalità anche all’interno delle carceri, fornisce alcune indicazioni generali sulla ripresa delle attività trattamentali e dei colloqui all’interno degli istituti penitenziari. Solo a tal fine la circolare fa riferimento alle indicazioni contenute in una “bozza” di protocollo predisposto da un gruppo di lavoro del Ministero della Salute, di cui si richiamano espressamente alcune e specifiche pagine, che riguardano l’isolamento precauzionale cui sottoporre i detenuti che rientrano in carcere in questa nuova fase sanitaria. Ogni attività del Dap è ispirata all’obiettivo di garantire, in ogni modo possibile, il pieno rispetto del diritto alla salute dei detenuti all’interno degli istituti penitenziari e delle strutture sanitarie ad essi collegate. Occorre evitare che la diffusione di informazioni palesemente errate e distorte finisca per turbare quel difficile equilibrio che connota le dinamiche penitenziari. *Capo Ufficio Comunicazione e stampa del Ministero della Giustizia “Militarizzazione” delle carceri? parole infondate di Daniela Caputo* Il Riformista, 8 luglio 2020 I chiarimenti della DirPolPen sul concorso per dirigenti penitenziari. L’Associazione Nazionale per il Personale di Carriera dei Funzionari di Polizia Penitenziaria - Sindacato Dirigenti del Corpo, con riferimento all’articolo del 28 giugno 2020, “Concorso per direttore di carcere, nuovo tentativo di militarizzazione”, ritiene doveroso chiarire alcuni aspetti in difesa della dignità e del decoro della Polizia Penitenziaria. In primo luogo, un funzionario del Corpo di Polizia Penitenziaria ai sensi dell’art. 6 del Dlgs 146/2000, tra i suoi compiti ha anche quelli legati alla qualifica di sostituto ufficiale di pubblica sicurezza e di ufficiale di polizia giudiziaria, a garanzia di interessi di rilievo costituzionale, pertanto non può che essere dotato di un “bagaglio professionale, normativo ed esperienziale” tale da assicurare “massimamente” il rispetto di tutte le finalità dettate dalla Legge e dalla Costituzione. In secondo luogo, la riserva dei posti a favore dei funzionari del Corpo è normativamente prevista dal Dlgs 63/2006 “Ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria, a norma della legge 27 luglio 2005, n. 154” all’art. 4, comma 4°. Inoltre, il superamento del concorso di cui in oggetto e del correlativo corso di formazione iniziale comporta l’assunzione nei ruoli dei dirigenti penitenziari e quindi l’uscita dal Corpo. Infine, non per ultimo, ai sensi dell’art. 1 delle legge 395/1990, la Polizia Penitenziaria è un “corpo civile” con compiti primari che vanno dalla “sicurezza” alla “rieducazione”, (art. 5 legge 395/2000), che stride con l’infondata (e offensiva) asserita “militarizzazione”. Una corretta informazione sulla Polizia Penitenziaria è doverosa per rispetto dei circa 40.000 uomini e donne che silenziosamente e quotidianamente servono lo Stato, dentro e fuori il muro di cinta. *Segretario nazionale DirPolPen Il nido dietro le sbarre di Roberta Schiralli corrierenazionale.net, 8 luglio 2020 Il problema dei bambini detenuti in carcere con le madri è un tema spesso dimenticato e relegato nel silenzio delle celle dove i piccolissimi imparano a dire “apri” prima che “mamma o papà”; dove nessun bambino dovrebbe essere costretto a vivere e a scontare una pena non sua. Purtroppo non è una realtà inventata: è una amara realtà che esiste in molti istituti di pena del nostro paese. I bambini ospiti delle “patrie galere” sono quasi tutti figli di stranieri, e quasi sempre di etnia rom, ultimi fra gli ultimi nella nuova scala sociale della solitudine e dell’emarginazione. Negli anni la normativa dell’ordinamento penitenziario, ha affrontato il problema in modo diverso e più articolato, ma segnato ancora dall’ideologia tradizionale nei confronti delle madri detenute. Strutture penitenziarie pensate per gli adulti, con problemi di sovraffollamento, che si sono dovute adattare per piccoli “ospiti”, modificando le celle in nidi: malinconiche figure di Topolino e Principesse Disney che impattano su muri grigi, spazi gioco improvvisati, nessuna divisa nelle sezioni che accolgono i bambini. Insomma, parvenze di normalità. La normativa sulle detenute madri può brevemente riassumersi in pochi passaggi normativi, frutto di una sterile evoluzione basata su esigenze punitive e di sicurezza, vano tentativo di arginare il problema dei piccoli detenuti. La legge n. 354 del 26 luglio 1975 “Ordinamento Penitenziario” all’art. 11 comma 9 prevedeva che alle detenute madri fosse consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini l’Amministrazione penitenziaria organizzava appositi asili nido secondo le modalità indicate dall’art. 19 del Regolamento di esecuzione - D.P.R. 30 giugno 2000. L’art. 47 ter della citata legge prevedeva, tra le misure alternative alla detenzione, che le detenute madri di bambini di età inferiore ai tre anni conviventi potessero espiare la pena presso la propria abitazione od in altro luogo pubblico di cura o di assistenza, entro i limiti consentiti dalla legge. Nel 1998 la legge n. 165 (Simeone - Saraceni) all’art. 4 estese la possibilità di usufruire della detenzione domiciliare alle detenute madri di bambini di età inferiore ai dieci anni, sempre che non dovessero scontare pene per gravi reati di cui agli art. 90 e 94 del testo unico 309/90. La legge 8 marzo 2001 n. 40 - la c. d. legge Finocchiaro - introducendo modifiche al all’art. 146 e 147 c.p., ha ampliato l’ambito di operatività degli istituti del differimento e del rinvio obbligatorio della pena, introducendo i nuovi istituti della detenzione domiciliare speciale e dell’assistenza all’esterno dei figli minori (artt. 21bis e 47 quinquies dell’ordinamento penitenziario). Tuttavia questa legge non ha risolto il problema a causa della rigidità dei requisiti per la concessione dei benefici, subordinata all’assenza del pericolo di commissione di nuovi reati, requisito quasi sempre insussistente trattandosi di condanne a carico di donne recidive, in particolare per reati connessi allo spaccio di stupefacenti e contro il patrimonio. Viene da sé che da questi benefici è restata esclusa una notevole percentuale di donne, per lo più straniere, senza fissa dimora e gravate da numerosi precedenti penali. Nel 2011 la legge n. 62 è stata vista come un “faro di speranza”, perché ha ampliato la possibilità di espiazione della pena, fuori dalle mura carcerarie, da parte della madre, in presenza di figli con età compresa tra zero e sei anni (il limite era 3 anni), così da facilitare l’accesso delle madri alle misure cautelari alternative e privilegiando di contro strutture alternative e più consone allo sviluppo psicofisico del minore. Anche questo scoglio non pare superato poiché soprattutto in presenza di donne straniere o senza fissa dimora, l’esiguità di strutture come gli Icam (istituti di custodia attenuata) e delle case protette, ha di fatto reso impossibile l’attuazione della legge, mantenendo inalterata la presenza dei minori negli istituti penitenziari. Secondo il XV rapporto sulla detenzione dell’Associazione Antigone “al 30 aprile 2019 sono 55 bambini di meno di tre anni d’età che vivono in carcere con le loro madri, alle quali non è stata concessa, per decisione del giudice, la possibilità di accedere alle misure alternative dedicate proprio alle detenute madri. Ad essere recluse con i propri figli sono 51 donne, 31 straniere e 20 Italiane. Un numero nuovamente in calo, dopo il picco di 70 bambini in carcere raggiunto a metà 2018. In particolare, i bambini si trovano negli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per detenuti Madri) di Lauro (13), Milano San Vittore (10), Torino (8), Venezia Giudecca (5), nell’istituto femminile di Rebibbia (8) e nelle sezioni femminili di Firenze Sollicciano (3), Milano Bollate (3), Bologna (2), Messina (1), Forlì (1) e Avellino (1). Lo scandalo del Csm, i giudici e la politica debole di Luciano Violante La Repubblica, 8 luglio 2020 Le relazioni costituzionali tra politica e magistratura sono frutto di un patto di libertà fondato sulla fiducia. La magistratura deve esercitare i poteri che la politica le attribuisce per garantire le libertà e i diritti dei cittadini da ogni aggressione e il Parlamento deve definire con chiarezza i confini tra la sovranità della politica e l’indipendenza della giustizia. Questo sulla carta. n pratica, le cose stanno diversamente. Una politica debole ha attribuito alla magistratura penale il compito di vigilare sulla moralità dei propri comportamenti e su quelli di tutti gli altri cittadini. Leggi vaghe e indeterminate; incertezza sui limiti delle responsabilità penali, amministrative e contabili; effetti criminalizzanti connessi a comunicazioni giudiziarie teoricamente dirette a tutelare il cittadino; interdizioni e perdita del controllo di aziende sulla base del semplice sospetto; impunità garantita per la fuga di notizie lesive della reputazione dei cittadini e delle imprese. Non per sua scelta, il magistrato penale, che aveva il compito di accertare le responsabilità dei cittadini, è diventato controllore del buon andamento della politica, della pubblica amministrazione e delle imprese. Nella maggior parte dei casi interverrà un’assoluzione; ma nel frattempo i danni economici, per la reputazione e per le carriere professionali diventano irreparabili. Le forze politiche, nell’illusione di acquisire consenso, si sono addirittura spogliate del potere di decidere i nomi dei candidati alle elezioni e hanno attribuito alla magistratura penale il compito di stabilire chi può essere candidato. Successivamente alcune commissioni antimafia si sono assunte arbitrariamente il compito di redigere liste di presunti “impresentabili”, che più di una volta si sono dimostrate viziate da gravi errori. In qualche sentenze comincia ad apparire la figura del “coinvolto”, persona estranea alle imputazioni, ma nota e che perciò conferisce lustro alle indagini. Oppure ci si dilunga su giudizi morali che non spettano al giudice. Molti si stupiscono della decadenza del ceto politico. Ma occorre un grande spirito di servizio per essere disponibile a una candidatura, con il rischio di vedere compromessi reputazione, patrimonio e professione. Si voleva l’impossibile Paese delle vestali; si è ottenuto un Paese umiliato per non esserlo divenuto. Di settimana in settimana si succedono con gravità crescente notizie che mettono in dubbio la correttezza di alcuni magistrati per poi ricadere su tutti gli altri. Prima che giunga un potere regolatorio non democratico, che imponga i propri interessi, dev’essere la stessa magistratura a prendere atto della insostenibilità della situazione. Nessuna democrazia può vivere a lungo senza giudici credibili e rispettati. Solo un riassetto dei poteri può ricostruire una fase di normalità costituzionale. E illusorio confidare nelle capacità taumaturgiche di una nuova legge elettorale per il Csm; sinora, se non erro, ne sono state approvate sei e nessuna ha risolto i problemi che ne avevano sollecitato l’emanazione. È difficile che la prossima riesca dove le altre hanno fallito. Vanno invece ridiscusse le modalità del governo interno dei magistrati, l’assetto del Csm e quello dei consigli giudiziari. Una magistratura che è diventata parte della governance nazionale ha bisogno di nuove strutture e nuove regole, semplici e inoppugnabili. La gran parte dei magistrati che lavorano nei tribunali, nel Csm e nei consigli giudiziari ha la forza morale per imporre a sé stessa e alla politica le scelte necessarie, con la determinazione propria dei tempi di crisi. Giustizia e riforme, altri 117 anni dopo di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 8 luglio 2020 La legge proposta nel 1903 dal bresciano Giuseppe Zanardelli aveva “l’intento principale (…) di elevare il livello intellettuale e morale della magistratura, di circondarla di garanzie tutelari che valgono a difenderla contro gli arbitrii e le lusinghe altrui, e aumentarne infine la dignità col miglioramento delle condizioni economiche dei magistrati”. Così scriveva La Civiltà Cattolica.. “La legge proposta dall’onorevole Zanardelli (negli ultimi trent’anni ne vennero tentate quasi una quarantina) ha l’intento principale…” Una quarantina di proposte di legge? In trent’anni? Gli archivi di Google books, va detto, riservano più sorprese delle braghette di Eta Beta (Pluigi Psalomone Pcalibano Psallustio Psemiramide Pluff) che da tasche disneyane tira fuori lampadari, ferri da stiro, lampadine, locomotiv Racconta dunque una pagina de “La Civiltà Cattolica. Anno cinquantesimoquarto” del 13-26 marzo del 1903, sotto un anonimo titolino “cronache italiane”: “Il disegno preparato dal presidente del consiglio e dal guardasigilli tenta una delle questioni più gravi e legata a tanti interessi che non è meraviglia se agiterà lungamente le discussioni dentro e fuori la Camera. Più di sessanta deputati si sono iscritti per parlare sulla proposta generale della legge e venti giorni dopo, al momento che scriviamo, gli oratori (...) non hanno finito i lunghi e spesso inutili discorsi. Dopo dieci o dodici di tali dissertazioni, gli argomenti pro o contro la legge sono tutti trattati, e le altre non riescono che noiose ripetizioni più o meno ascoltate”. Che noia, si lagnava la rivista. La riforma proposta dal bresciano Giuseppe Zanardelli, spiegava, aveva “l’intento principale (…) di elevare il livello intellettuale e morale della magistratura, di circondarla di garanzie tutelari che valgono a difenderla contro gli arbitrii e le lusinghe altrui, e aumentarne infine la dignità col miglioramento delle condizioni economiche dei magistrati”. Fin qui, come ovvio, eran tutti d’accordo. “Molti germi della discordia” agitarono invece il dibattito su altri punti, a partire da una “conveniente purificazione del ceto dei magistrati” all’”istituzione di una corte di Cassazione unica la quale sarebbe stata selettiva e non di carriera” fino al “rimaneggiamento delle diverse giurisdizioni con tutta la varietà degli interessi locali e regionali che tali mutazioni trascinerebbero seco”. Non mancò, scrisse il giornale, “un tentativo di agitazione in opposizione alla legge (che) cercò sollevarsi da varie città danneggiate”. Comunque, spiegò il cronista, “tutti in generale convengono nell’ammettere il bisogno di riforme e l’andamento della discussione in prima lettura fa piuttosto prevedere che la legge, benché non risponda le idee di tutti, sarà adottata, almeno per cominciare a fare qualcosa”. Testuale. Dopo una quarantina di fallimenti, in quel 1903, già non ne potevano più. Da allora son passati, senza pace tra le baruffe, altri 117 anni. D’accordo che la gatta frettolosa fa i gattini ciechi ma... Per la magistratura né rose né crisantemi Troppi gli “anonimi” che attendono giustizia di Francesco Nucara Il Dubbio, 8 luglio 2020 Piercamillo Davigo sostiene che “non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”. Se così fosse, quanti magistrati corrotti sono in giro e non ancora “scoperti” ? A parte il fatto che la parola “innocente” non appartiene al pensiero laico ma alla Santa Inquisizione - perché in punta di diritto si dovrebbe parlare di “non colpevole” - questa visione del mondo applicata all’amministrazione della giustizia rappresenta l’emblema del degrado in cui versa la civiltà giuridica italiana, ed è il manifesto di una devianza che rischia di intaccare le garanzie costituzionali. Il tarlo che si annida in quella frase corrode il sistema a tal punto da spingere ad affermare che la soluzione del problema- giustizia non sarebbe la riforma del Csm, ma la riforma dei concorsi per entrare in magistratura. Perché se è vero che la società è corrotta, e se è vero che i magistrati non vengono da Marte, allora è nel reclutamento delle toghe che origina la mala- giustizia. E quindi anche per i magistrati si dovrebbe mutuare quel che Gaetano Salvemini diceva della classe politica: “Per l’ 80% è lo specchio della società, per il 10% è migliore per l’altro 10% è peggiore”. Nonostante siano a rischio (e non da oggi) alcuni dei principi basilari della democrazia, nessuno, per svariati motivi e interessi, ha mai voluto affrontare il tema. Men che meno il famoso circuito politico- mediatico- giudiziario, che in Italia è come “L’isola dei famosi” : appena emergono vicende eclatanti si allestisce il set, si accendono i riflettori e i soliti attori recitano la solita parte, fino allo spegnimento delle luci. Va così ormai da trent’anni, ed è accaduto anche stavolta per l’inchiesta che ruota attorno all’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, e per l’ennesima replica dell’eterno “caso Berlusconi”. Partiamo dal leader di Forza Italia. Il chiacchiericcio si è concentrato sul danno che l’ex presidente del Consiglio avrebbe subito da parte di un collegio della Cassazione. Certamente la dichiarazione del giudice Amedeo Franco e la parallela sentenza del tribunale di Milano, favorevole a Berlusconi sul reato di frode fiscale, alimentano sospetti sull’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Il punto è che questo caso - deflagrato grazie alla notorietà dell’imputato - nasconde centinaia di altri casi che non vengono alla ribalta perché i protagonisti sono anonimi. Ed è in nome degli “anonimi” che andrebbe istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’operato della magistratura. Così la proposta avrebbe valore politico e consenso bipartisan, perché nessun partito potrebbe rifiutarsi di aderire: la Commissione dovrebbe infatti verificare se il sistema giudiziario opera nel rispetto delle guarentigie, cioè della democrazia. Perché è evidente che il vulnus nell’esercizio delle regole danneggia chi non ha i mezzi finanziari e gli strumenti adeguati per potersi difendere. Soffermarsi sul fatto che l’ex premier possa esser stato privato delle sue libertà, fa dimenticare che c’è un popolo di “anonimi” orfano da tempo dei suoi diritti in tema di giustizia. Che le toghe hanno travalicato il loro ruolo. E che una classe politica debole e spesso asservita non solo non si è mossa per impedirlo, ma in certi casi ha persino assecondato il loro disegno. Francesco Cossiga ricordava sempre che la magistratura “è un ordine e non un potere”. I poteri sono quello Legislativo e quello Esecutivo, i quali agiscono “per conto” del popolo italiano, mentre le toghe agiscono “in nome” del popolo italiano. Di quanta fatica deve armarsi un comune cittadino per continuare a credere nell’operato equo, integro e illuminato degli amministratori di giustizia? È in questo contesto che va inserita l’inchiesta su Palamara. Anche qui, il chiacchiericcio del “circuito” si è concentrato sulle intercettazioni, dividendosi tra colpevolisti e innocentisti. In realtà la figura di Palamara è il segno tangibile della corrosione del sistema democratico. Alla sbarra è l’intero CSM e con esso l’intera categoria dei magistrati. All’Assemblea Costituente il repubblicano Gaetano Sardiello disse che “alla magistratura non vanno portate né rose né crisantemi”. Siccome annunciano di voler riformare la giustizia, sarebbe bene che il governo e la sua maggioranza ne traessero insegnamento. Abuso d’ufficio, quella riforma voluta dal premier che imbaraza i grillini di Rocco Vazzana Il Dubbio, 8 luglio 2020 Conte precisa: “reato modificato, non abolito”. “Interveniamo per modificarlo ma non lo aboliamo”. Giuseppe Conte scandisce con cura le parole utilizzate per spiegare la modifica del reato d’abuso d’ufficio contenuta nel dl Semplificazioni appena approvato dal Cdm. Del resto, la formula “salvo intese” con cui il testo supera il primo step la dice lunga sulla fragilità dell’accordo ottenuto dalle forze di maggioranza. E l’abuso d’ufficio è stato uno dei nodi più complicati da sciogliere, con Italia Viva che chiede di mettere a verbale le proprie riserve sulla riforma, e il Movimento 5 Stelle, da sempre ostile a interventi su quella fattispecie di reato. Con la riforma “andiamo a colpire chi non fa, e non più il dirigente che si assume la responsabilità di firmare per sbloccare un’opera”, si affretta a precisare il presidente del Consiglio, sottolineando come su questo punto ci sia “stata larghissima convergenza” tra le forze di maggioranza. “Interveniamo per modificare e circoscriverne la portata ma non lo aboliamo affatto. Prevediamo una violazione di specifiche regole di condotta perché possa scattare la fattispecie criminosa e non più per principi generali”, puntualizza ancora il premier. L’articolo 323 del Codice penale viene modificato nell’ottica di circoscrivere la responsabilità dei funzionari pubblici, che spesso per paura delle sanzioni scelgono di non firmare atti e procedimenti. Un provvedimento, dunque, nato per arginare la cosiddetta “sindrome della firma”. L’obiettivo è definire in maniera chiara gli ambiti di responsabilità dei funzionari pubblici, attualmente considerati passibili per la violazioni di “leggi e regolamenti”, una formula ritenuta troppo ampia e generica che spesso genera immobilismo per paura di infrangere le norme. L’intenzione del governo è quella di specificare le condotte vietate ed eliminare i margini di discrezionalità. Se per le opposizioni si tratta di una riforma troppo timida che rischia addirittura di generare ulteriore confusione, per alcuni partiti di maggioranza la modifica concepita in Cdm genera imbarazzi per ragioni opposte. A cominciare dal Movimento 5 Stelle, che nella scorsa legislatura aveva addirittura presentato, con Alfonso Bonafede, un emendamento per inasprire le pene previste. Solo un anno, fa all’epoca del governo giallo-verde, i grillini avevano sbarrato la porta a Matteo Salvini, convinto, allora come oggi, della necessità di abolire l’abuso d’ufficio per far ripartire il Paese. “Ho sentito dire da qualcuno che questo reato lo si vuole abolire”, scrive nel maggio 2019, sul Blog delle Stelle, il capo politico Luigi Di Maio per stoppare le spinte dell’alleato leghista. “È forse un modo per chiedere il voto ai condannati o per salvare qualche amico governatore da una condanna?”, sono le dure parole rivolte al coinquilino di maggioranza d’allora. “È un reato in cui cade spesso chi amministra, è vero, ma se un sindaco agisce onestamente non ha nulla da temere. Non è togliendo un reato che sistemi le cose. Ma che soluzione è? Il prossimo passo quale sarà? Che per evitare di far dimettere un sottosegretario togliamo il reato di corruzione? Sia chiara una cosa, per noi il governo va avanti, ma a un patto: più lavoro e meno stronzate!”. A poco più di un anno di distanza la questione è di nuovo sul tavolo, solo che questa volta a sponsorizzarla è ilpresidente del Consiglio espresso dal Movimento 5 Stelle. Lo stesso un anno fa, eppure completamente diverso. Bonafede e compagni sono costretti a ingoiare il rospo, non senza mal di pancia però. Ed è plausibile che la formula “salvo intese” lasci ancora margini di manovra agli scettici. Per le opposizioni, invece, quello del governo è un passo troppo timido che rischia di creare danni maggiori. Il leader della Lega rimane sulle sue posizioni: quel reato va semplicemente cancellato. Così come è convinto il responsabile Giustiza di Forza Italia Enrico Costa: “L’abuso d’ufficio è un reato da abolire, perché è fattispecie vaga ed indeterminata e consente ai pubblici ministeri di entrare nelle valutazioni dei pubblici amministratori, facendo rientrare nella “violazione di legge” anche l’eccesso di potere e le violazioni dei principi di cui all’articolo 97 della Costituzione. A questo si aggiunga che è sufficiente una condanna di primo grado per far scattare la sospensione dell’amministratore local”, dice il deputato azzurro. “Il governo si rende conto di queste criticità, ma non ha il coraggio di andare fino in fondo è di cancellare il reato: sarebbe una scelta troppo contraddittoria con la loro consuetudine manettara”. Ma quella del centrodestra non è una voce isolata. Di recente, anche l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, hspiegato che la maggior parte dei procedimenti per abuso d’ufficio vengono archiviati, sottolineando come l’attuale norma “concorre a creare sacche di immobilismo produttivo che bloccano l’intero Paese”, soprattutto per effetto del fenomeno del “rifiuto di firma da parte dei funzionari pubblici, che per paura di finire invischiati in qualche inchiesta evitano responsabilità”. Udienze on line, giusto lo stop ma la riforma penale sfrutti il digitale e i riti alternativi di Guido Camera* Il Dubbio, 8 luglio 2020 L’esperienza delle udienze on-line è finita il 30 giugno. Un emendamento presentato dalle forze di maggioranza alla legge di conversione del Decreto Rilancio voleva allungare alla fine del 2021 la possibilità di celebrare, su accordo delle parti, tutte le udienze penali da remoto, senza più le limitazioni contenute nel Decreto Cura Italia; tuttavia, il testo approvato dalla Commissione Bilancio della Camera dei Deputati venerdì scorso, in aula per la votazione da ieri, è molto ridimensionato, dato che il collegamento da remoto alle udienze penali riguarderà unicamente i detenuti, con il consenso delle parti, e non potrà andare oltre al 31 ottobre di quest’anno. Sotto il profilo politico, la scelta di non forzare la mano, imponendo una stabilizzazione di fatto del processo penale digitale, è stata saggia. E’ una riforma troppo innovativa per introdurla con un emendamento a una legge di conversione a un decreto - legge che è dedicato solo in minima parte a misure relative al settore giudiziario; l’infrastruttura digitale è impreparata per dare esecuzione a un tale cambiamento in modo così massivo e repentino; l’avversione di buona parte dell’avvocatura e della magistratura a tale misura, soprattutto perché “calata dall’alto” senza nessuna vera interlocuzione e condivisione, avrebbe probabilmente stoppato il processo penale telematico prima ancora che iniziasse a marciare a regime. Ma l’esperienza di questi mesi deve essere valorizzata, purchè all’interno di una riflessione complessiva - e il più possibile condivisa - sulla riforma della giustizia penale, della cui necessità si parla da anni.,Prima dello scoppio dell’epidemia, ci eravamo lasciati con un braccio di ferro durissimo, dato che anche all’interno della stessa maggioranza di Governo, sul punto, esistono sensibilità molto diverse, che avevano portato i ministri di Italia Viva a disertare il Consiglio dei Ministri che, a metà febbraio, aveva votato una serie di proposte di legge delega collegate alla riforma della prescrizione; proposte di cui oggi poco ancora si parla, ma che in realtà sono agli atti parlamentari. L’attuale contesto è molto mutato. Lo stop imposto dall’epidemia ha definitivamente messo a nudo le fragilità del sistema penale, e sono necessari interventi concreti per rinnovarlo, mettendo al centro i diritti dei cittadini senza trascurare il fatto che viviamo in un’era digitale: la nostra associazione è convinta che sia il momento per avviare un serio percorso di riforma della giustizia penale, al cui interno trovi stabile, e chiaro, collocamento la presenza delle nuove tecnologie. Come prima cosa bisogna incentivare i riti alternativi, per ridare centralità al dibattimento. Il patteggiamento deve diventare una negoziazione vera e propria tra accusa e difesa, che ampli gli attuali limiti e possa avere per oggetto anche le conseguenze patrimoniali della sentenza, a cominciare dalla confisca e dalle pesantissime ricadute sui rapporti tra imprese e pubblica amministrazione; il giudizio abbreviato deve prevedere un aumento della possibilità di integrazione del fascicolo del pubblico ministero con le prove richieste dalla difesa, in modo da diventare un rito più equilibrato e garantito. Parallelamente, andrà prevista la sistematica telematizzazione di tutti i fascicoli, del giudice e del pubblico ministero, senza discriminazione su base reddituale dei costi di copia per i cittadini, nonchè di tutte le notifiche dei difensori degli imputati e delle altre parti private. In un panorama così rinnovato, si potrà pensare di stabilizzare l’effettuazione da remoto, su richiesta delle parti, delle attività giudiziali da svolgersi in camera di consiglio, in cui non debba perciò formarsi la prova orale, che andrà sempre assunta di persona in aula, in modo da garantire il rispetto dei principi costituzionali di immediatezza e oralità. Le nostre proposte sono pubblicate integralmente sul sito www.italiastatodidiritto.it. *Consigliere Italiastatodidiritto Lo scontro di civiltà tra giustizia virtuale e quella umana e sorridente dei cancellieri di Renato Luparini IL Dubbio, 8 luglio 2020 Metà delle cose che so nel mio mestiere me le hanno insegnate i cancellieri: da dove mettere la marca da bollo, a come compilare una nota di iscrizione a ruolo a come vestirsi in Tribunale. Le notizie pubblicate da Il Dubbio sulla rivolta dei sindacati dei lavoratori della giustizia preoccupati per il ritorno in massa degli avvocati in tribunale mi hanno fatto sobbalzare. Il mondo è proprio cambiato, ho pensato, anche se un rapido giro di telefonate a qualche amico cancelliere mi ha rassicurato. Antonio in Corte d’Appello mi aspetta volentieri per un caffè, Demetrio in Procura mi attende per un commento sul campionato di calcio finalmente ripreso e con Ciccio in Tribunale si parlerà volentieri di qualche posto al sole del Sud. Si tratta di uno scontro di civiltà: quello tra la Giustizia bendata e digitale che si muove a distanza con massimari elettronici e applicazioni anche per andare in bagno e la Giustizia umana e sorridente del Cancelliere che nel corridoio ti canticchia ironico una strofa dell’inno della sua squadre del cuore quando la tua ha perso. Io naturalmente sono un ultrà della seconda. Certo, capisco il rischio che una contiguità troppo stretto tra personale di cancelleria (come viene orrendamente definito in gergo burocratico) e avvocati sia pericolosa per chi immagina una spersonalizzazione totale del diritto e per questo si è inventato l’orrore degli U.R.P. dove l’avvocato degradato a pubblico si mette in coda allo sportello dove uno sconosciuto gli sbatte in faccia l’inevitabile “dica”. Ma io ho una storia alle spalle, fatta di preture polverose in fondo a provincie dimenticate ma bellissime e di lunghe attese nei corridoi e nella aule con le toghe consumate messe sui banchi in attesa di sentenze o semplicemente del turno per il deposito di un atto. Metà delle cose che so nel mio mestiere me le hanno insegnate i cancellieri: da dove mettere la marca da bollo, a come compilare una nota di iscrizione a ruolo a come vestirsi in Tribunale. E poi confidenze sulla giurisprudenza e sulla vita: entri a depositare un appello e ti ritrovi a parlare del concerto di Fred Bongusto a Palinuro nel 1979. Il collega che aspetta magari si sarà lamentato dell’attesa, ma io intanto di come è andato a finire l’appello me lo sono dimenticato, ma della descrizione di quella sera d’estate no e quando tornerò a depositare il ricorso in Cassazione mi faccio pure raccontare di quella sera che il cancelliere amico parlò con Peppino di Capri. Sì lo ammetto: in Cancelleria perdo tempo e mi piace perderlo. Ma quel tempo poi diventa un guadagno di umanità, di comprensione della vita e delle persone : l’essenza della professione di avvocato. E quindi alla faccia del Covid e degli appuntamenti sul sito per ottimizzare tempi e risorse umane che potranno andare bene alle “law firm “ americane ma che non sono propria cosa per gli avvocati nostrali come me, sono lieto e contento di andare a passeggiare per i corridoi del Palazzo di Giustizia con la mia borsa di carte e cartuscelle, come una specie di venditore ambulante sui treni di seconda classe sulla tratta Livorno- Battipaglia. Il piacere non è solo quello di portare a casa il pane, ma di fare due o anche quattro chiacchiere mentre intanto, senza accorgersene passano il tempo e la vita. Questo è stato il Foro da noi in Italia. Non radiamolo al suolo per costruirci sopra una torre di cemento e vetro cieco. “Così ho dovuto confessare un delitto mai commesso” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 8 luglio 2020 Per tutta la vita Gaetano Santangelo si è dovuto difendere dallo Stato. La sua storia ha a che fare con uno dei grandi misteri italiani irrisolti: la strage di Alcamo Marina del 1976 in cui rimasero uccisi due carabinieri trivellati da colpi di arma da fuoco all’interno della casermetta della provincia di Trapani. Dopo oltre quarant’anni, i colpevoli sono ancora ignoti, mentre una lunga vicenda processuale ha restituito alle cronache le vite spezzate di quattro innocenti condannati ingiustamente: Giuseppe Gulotta, Giovanni Mandalà, Vincenzo Ferrantelli e, appunto, Gaetano Santangelo. Vittime di un clamoroso errore giudiziario, gli allora giovanissimi alcamesi sono stati assolti con formula piena in sede di revisione del processo dopo trent’anni dall’arresto. Nel caso di Mandalà, morto nel 1998, la riabilitazione è arrivata troppo tardi: la sua vita è finita dentro una cella. Per raccontare l’incubo di Santangelo, invece, bisogna partire dal 12 febbraio 1976. Nel cuore della notte i carabinieri di Alcamo bussano alla sua porta per trascinarlo in caserma senza fornire alcuna spiegazione. All’epoca Santangelo ha solo 16 anni, con lui in casa ci sono la madre e i fratellini terrorizzati. Nessun mandato di cattura, nessuna accusa formale: il ragazzino viene chiuso in una stanza, semi immobilizzato, mentre quattro carabinieri lo pestano violentemente. Non ha idea di che cosa stia succedendo, l’anima gli viene strappata a forza di pugni. “Sono stato sequestrato dallo Stato”, racconta oggi. Dopo ore di interrogatorio la pelle del volto è martoriata, ha una pistola puntata alla testa: “sì, sì, ho partecipato alla strage della casermetta”, sospira esausto. Il verbale della presunta confessione viene stilato l’indomani alla presenza di un avvocato d’ufficio. Santangelo non sa chi sia. Nel registro matricole del carcere, compilato al momento dell’arresto ufficiale, c’è ancora traccia di tutta la vergogna di quella notte: “Gaetano Santangelo riporta delle ferite sul corpo perché è scivolato su una buccia di banana”. Seguono 58 giorni di isolamento e 27 mesi di reclusione fino alla data del primo processo. Per comprendere quegli anni e la follia che travolse irrimediabilmente l’esistenza di un adolescente di provincia bisogna calarsi nel clima di terrore e sospetto che attraversò l’Italia all’epoca delle stragi e dei delitti eccellenti. Santangelo non apparteneva alla mafia, non venne mai ricondotto ad alcuna organizzazione politica. Al momento dell’arresto la sua vita si svolgeva tra la scuola serale e la campagna di famiglia dove lavorava come contadino. Per stabilire la sua colpevolezza bastarono le parole di Giuseppe Vesco, suo vicino di casa: arrestato per furto d’auto, l’altro giovane alcamese venne trovato in possesso della stessa arma utilizzata nell’agguato alla casermetta. Fu lui a confessare per primo facendo i nomi degli altri quattro indagati: passarono anni prima di scoprire che anche quella dichiarazione era stata estorta sotto tortura. Dalle lettere di Vesco scritte dal carcere San Giuliano di Trapani si legge: “Fui spogliato fino a raggiungere il costume adamitico. Non opposi alcuna resistenza, non sarebbe servito a niente. Appena denudato vengo sollevato di peso e portato come un oggetto sui bauli alti da terra tra gli 80 e i 90 cm. Per la prima volta nella mia vita mi sento come un animale da squartare. Un agente avvolge uno straccio alle mie caviglie. Qualcuno tiene i miei piedi uniti... poi è la volta delle braccia. Il mio corpo si piega come un arco e un dolore acutissimo ma sopportabile si avverte alle gambe all’altezza dei polpacci, alle braccia, alle scapole e agli anelli della colonna vertebrale all’altezza dei fianchi. Uno mi tira i piedi, l’altro le braccia, un terzo è a cavalcioni, un quarto mi tiene la testa per í capelli con una mano mentre con l’altra tappa il naso in modo da non farmi prendere aria”. Di quella sequenza di violenze è Santangelo a parlarci. La sua voce rotta dal pianto non nasconde la rabbia, l’umiliazione: vuole spiegarci quale immenso equivoco ha distrutto la sua vita. Un atto deliberato, un malinteso non casuale, nato probabilmente da una montatura pianificata dagli uomini guidati dall’allora comandante dei carabinieri Giuseppe Russo, poi ucciso dalla mafia. Mentre percorre le tappe della sua storia Santangelo tiene tra le mani dei fogli con delle date annotate. 1981, sentenza di assoluzione in primo grado per insufficienza di prove. Non hanno mai trovato nulla che lo collegasse al delitto. 1982, sentenza di condanna in appello a 22 anni di carcere. Il processo si era spostato intanto da Trapani a Palermo: le pressioni sulla Corte sono enormi, ma nel 1984 la Cassazione annulla la condanna e rinvia il giudizio presso la corte d’appello dei minori: il processo si scinde in due tronconi, Ferrantelli e Santangelo vengono giudicati separatamente dagli altri due imputati. A volersi districare nella vicenda giudiziaria durata oltre trent’anni si prova un senso di vertigine. Di tribunale il tribunale, dalla Sicilia a Roma, il destino di quattro uomini resta in attesa di giudizio. Intanto la vita di Santangelo corre parallelamente: l’incontro con sua moglie, il primo figlio, fino al giorno maledetto del 1992. La Corte di Cassazione conferma la sentenza di condanna emessa un anno prima, che a sua volta riprendeva quella dell’82. Santangelo ormai ha 30 anni, la notizia arriva come una doccia fredda: “Non potevo aspettare che mi venissero a prendere, costringendo la mia famiglia a fare avanti e dietro dal carcere”, racconta spiegando la scelta dell’esilio in Brasile. Comincia la sua vita da latitante. Trovato dall’Interpol, il paese Sudamericano nega l’estradizione in Italia perché in base alla normativa brasiliana il reato è caduto in prescrizione. Passano altri 27 anni: la sentenza di assoluzione definitiva arriva nel 2012 con il processo di revisione, ma Santangelo torna in Italia solo lo scorso anno. Nessuno gli ha mai domandato scusa, ha dovuto affrontare una battaglia legale anche per ottenere il risarcimento dello Stato: ingiusta detenzione, danni psicologici, danni patrimoniali. Non un solo centesimo che possa riparare al dolore: “Quando pronuncia il mio nome, lo Stato italiano deve vergognarsi. Mi hanno perseguitato per 36 anni, e una volta riconosciuto l’errore, non si sono neanche interessati a come stessi, come vivessi in un paese straniero”. Sulle maxifrodi dell’Iva sanzioni anche alle imprese di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2020 Decreto legislativo con norme di attuazione della direttiva 2017/1371. Decreto 231 esteso alle maxifrodi Iva, con punibilità anche del solo tentativo. Estensione dei reati presupposto e allargamento di quelli contro la pubblica amministrazione per i quali le imprese sono chiamate a rispondere per condotte dei dipendenti. Ma anche inasprimento del trattamento punitivo per i delitti che compromettono il bilancio dell’Unione europea. Sono questi alcuni dei cardini del decreto legislativo approvato lunedì notte in via definitiva dal consiglio dei ministri con il quale viene recepita la direttiva Pif (protezione degli interessi finanziari), la n. 1371 del 2017. Il provvedimento evita interventi più incisivi, tenendo conto soprattutto del intervento sul penale tributario dell’nverno scorso che, nell’ambito della manovra finanziaria, tra l’altro introdotto la responsabilità amministrativa delle imprese, per i principali reati fiscali, e chiude il cerchio, stabilendo di colpire le più gravi infrazioni in materia di Iva, se commesse con elementi di transnazionalità. Nel dettaglio, quanto alle modifiche al Codice penale, il decreto interviene per innestare nei reati di peculato attraverso errore altrui, indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato e induzione indebita, le ipotesi in cui i fatti puniti hanno come conseguenza un danno superiore a 100.000 euro per il bilancio Ue; in questi casi la pena detentiva aumenta fino a un massimo di 4 anni. Sul versante dei reati fiscali, escluso un aumento dei massimi di pena quando il fatto è stato commesso anche in parte in un altro Stato e l’Iva evasa supera i 10 milioni di euro, per effetto dell’approvazione delle recenti modifiche, è stata invece introdotta la punibilità del semplice tentativo. Centrale il tema della responsabilità amministrativa degli enti, dove il decreto appena approvato ne estende l’applicabilità ai reati di peculato “semplice”, peculato attraverso errore altrui e abuso d’ufficio quando dalle condotte deriva un danno agli interessi finanziari dell’Unione europea. Inoltre, per i reati di dichiarazione infedele, omessa dichiarazione e indebita compensazione, sempre se commessi nel contesto di frodi internazionali con l’obiettivo di evadere un importo complessivo non inferiore a 10 milioni di euro, si stabilisce una sanzione pecuniaria a carico dell’impresa sino a un massimo di 400 quote. Inserito poi nella lista dei reati presupposto anche il contrabbando con sanzione fino a 200 quote nell’ipotesi base, ma con sanzione che può arrivare sino 400 quote quando i diritti di confine dovute sono superiori a 100.000 euro. Per le frodi agricole sale poi di 1 anno, per attestarsi quindi a 4, il massimo di pena detentiva, se la somma indebitamente percepita è superiore a 1000.000 euro. Occupazione abusiva di spazio demaniale marittimo per la recinzione a ridosso della spiaggia di Francesco Machina Grifeo IL Sole 24 Ore, 8 luglio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 7 luglio 2020 n. 20088. La recinzione posta immediatamente prima della spiaggia - nel caso l’“Ariana” di Gaeta - fa scattare il reato di “abusiva occupazione di spazio demaniale marittimo” (artt. 54 e 1161 codice della navigazione). La Terza Sezione penale della Cassazione, sentenza n. 20088 (segnalata per il “Massimario”), ha così confermato l’ammenda di 516 euro comminata, nel luglio 2018, dal Tribunale di Cassino al ricorente per aver delimitato l’arenile, in assenza di un atto di concessione, con una recinzione e due porte di accesso, utilizzandolo poi per il ricovero di attrezzature da spiaggia, piccole unità di diporto ed un box in legno di 1 mq 1. Né, precisa la Corte, il fatto che l’area fosse sopraelevata di oltre un metro rispetto al livello del mare cambia le carte in tavola. Secondo il ricorrente la natura demaniale marittima dell’area era stata erroneamente desunta da verbale di delimitazione della spiaggia risalente al 1958 e dalla relativa cartografia catastale, che però aveva effetti unicamente a fini tributari. Si sarebbe invece dovuto dare rilievo “all’obiettivo stato dei luoghi”, e cioè al fatto che la zona era sopraelevata rispetto al livello dell’arenile di circa 1 mt e non era raggiunta dalle ordinarie mareggiate, dunque, non faceva parte del demanio marittimo. Una tesi bocciata dalla Suprema corte che ricorda come il reato di abusiva occupazione di spazio demaniale marittimo “è configurabile anche in mancanza di un esplicito atto di destinazione demaniale del bene, derivando la demanialità dalle caratteristiche intrinseche”. In particolare, prosegue la decisione, il demanio marittimo è formato dai beni indicati nell’articolo 822 cod. civ. (lido del mare, spiagge, rade e porti) e nell’articolo 28 cod. nav., che aggiunge le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, bacini di acqua salmastra che almeno durante una parte dell’anno comunicano liberamente con il mare e canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo. Inoltre, spiega la Corte, il procedimento amministrativo di delimitazione di determinate zone del demanio marittimo ha carattere “semplicemente ricognitivo e non costitutivo della demanialità”. Né è possibile la “sdemanializzazione tacita”, proprio perché la demanialità è una qualità che deriva “direttamente e originariamente” dalla legge, potendosi attuare solamente quella espressa mediante un provvedimento di carattere costitutivo da parte della autorità amministrativa. Nel caso concreto, “si verte in ipotesi di arenile, la cui demanialità discende direttamente dalla legge”. Mentre non rileva che la zona si trovi in posizione sopraelevata rispetto al livello della spiaggia, dal momento che “gli arenili, quali zone abbandonate dal mare nel suo ritrarsi, fanno parte della spiaggia e la loro demanialità, discendente direttamente dalla legge (art. 822 cod. civ. e art. 28 cod. nav.) può cessare solo mediante il procedimento, di cui all’art. 35 cod. nav., quando la zona sia stata ritenuta dal capo del compartimento marittimo non più utilizzabile per pubblici usi del mare”. “Né - conclude- a impedire la demanialità dell’arenile, può valere la conformazione orografica rispetto alla spiaggia toccata da mare, come può desumersi dall’art. 55 cod. nav., che, a proposito del lido, fa menzione del ciglio dei terreni elevati sul mare”. “Io, al 41bis da 23 anni dico: lo Stato abbia il coraggio di fucilarmi” Il Dubbio, 8 luglio 2020 L’appello dell’ex boss catanese Salvatore Cappello, condannato all’ergastolo e che da 23 anni sconta il regime di carcere duro del 41 bis: “Illustrissimo Presidente” chiedo di essere Fucilato nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta”. “Illustrissimo Presidente” chiedo di essere Fucilato nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta”. È l’appello contenuto nella lunga lettera inviata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dall’ex boss catanese Salvatore Cappello, condannato all’ergastolo e che da 23 anni sconta il regime di carcere duro del 41 bis. A divulgare la missiva in cui Cappello chiede la ‘grazia’ della morte, è stata l’associazione Yairaiha Onlus che da anni si batte contro l’ergastolo ostativo. “Alla S.V. Illustrissima - scrive Cappello rivolgendosi al Capo dello Stato - affinché intervenga a far eseguire la condanna inflittami dalla Corte d’Assise di Catania e Milano cioè la condanna a morte nascosta dietro la parola ERGASTOLO, con FINE PENA 9999, cioè FINE PENA MAI! Chiedo che la condanna venga eseguita perché dopo 24 anni, di cui 23 passati al 41 bis, SONO MORTO già tante di quelle volte che non lo sopporto più; ogni volta che lo rinnovano muoio; quando guardo gli occhi dei miei figli, dei miei cari, di mia moglie penso che la condanna a morte è anche per loro. E non voglio - prosegue la lettera - che muoiano tutte le volte lo rinnovano con scuse banali e senza fondamento, per questo chiedo di morire”. “Non intendo impiccarmi o suicidarmi - scrive nella missiva indirizzata a Mattarella - perché l’ho visto fare tante di quelle volte che non voglio pensarci. Siete voi che dovete eseguire la sentenza perciò chiedo che venga eseguita tramite fucilazione nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta perché non basta che tu stia scontando l’ergastolo, non basta che lo sconti pure con la tortura del 41 bis, c’è anche la cattiveria”, sostiene aggiungendo una serie di esempi. “Che so… sei un 41 bis? Non puoi farti nemmeno un uovo fritto. È questa la lotta alla mafia? Tu hai preso 30 anni (senza uccidere nessuno) per estorsione ed associazione? Con l’art. 4 bis li sconti tutti senza benefici; ma se tu hai ucciso un bambino, lo hai violentato, sconti 20 anni e niente 41 bis, niente restrizioni. Questo è lo Stato italiano! Che so, rubi un tonno per fame? Sconti dai 3 ai 5 anni; poi - prosegue Cappello - c’è chi ruba milioni di euro, quelli vanno a Rebibbia in attesa dei domiciliari! E sono peggio dei mafiosi perché loro hanno giurato fedeltà allo Stato”. Io sig. Presidente, non sono un santo, sono, o meglio, ero, un delinquente. Ma - prosegue nella lettera - sono 10 anni che ho dato un taglio a tutto per amore dei miei figli e dei miei cari. Ma ciò non è servito a niente perché le procure non vogliono che tu dia un taglio al passato, o ti penti o sei sempre un mafioso da sfruttare tutte le volte che fanno un blitz sfruttando il nome tutte le volte che fanno un blitz sfruttano il tuo nome per dare più risalto per dare più peso al blitz e tu ci vai di mezzo solo perché. scrive l’ergastolano - un megalomane fa il tuo nome; non vogliono nemmeno che i tuoi figli lavorano perché vogliono che seguono le ‘orme del padre’, se trovano lavoro vanno dal datore di lavoro e gli dicono che stanno facendo lavorare il figlio di un mafioso. Se non lavorano dicono che non lavorano. Ma, ringraziando Dio, i miei figli lavorano tutti, lavori umili, ma lavorano, e fanno sacrifici per venirmi a trovare”. “Se chiedo la fucilazione - spiega - lo faccio anche per loro, per non dargli più problemi. Sa cosa vuol dire ricevere un telex che dice che tua figlia è ricoverata in fin di vita, vedi se puoi telefonare? No al 41 bis non posso chiamare; ho un solo colloquio al mese o una telefonata. Se avevo ucciso un bambino - insiste Cappello - non ero ‘mafioso’, non avevo 41 bis, allora si, assassino di bambini se ricevevo un telex tipo ‘mamma ha la febbre’, allora potevo telefonare, chiedere colloqui e tutto. Questa è la legge italiana! Signor Presidente, sono 23 anni che non ho una carezza dei miei genitori, che non abbraccio i miei figli, che non tocco la mano di mia moglie, perciò - conclude l’ex BOSS - mi chiedo ‘è questa la vita che devo fare fino alla morte’? E allora facciamola finita subito, Fucilatemi! P.S. Non restituite il corpo alla mia famiglia, sarebbero per loro altri problemi. grazie” Un morto che cammina ucciso a pezzetti dallo Stato di Gioacchino Criaco Il Riformista, 8 luglio 2020 Le sue parole non hanno niente di strumentale, di falso. Sono autentico orrore, disprezzo puro per il sistema delle pene italiano. Fucilatemi, e buttatemi dove vi pare. “Voglia la S.V. Illustrissima, concedermi la grazia di farmi fucilare, giù nel cortile della prigione”. Anche senza rudimenti di psicologia, conoscenze del mondo carcerario o della mafia, lo si intuisce che la lettera di Salvatore Cappello al Presidente Mattarella non abbia nulla di strumentale, di falso, è autentico orrore, disprezzo pure, per il sistema delle pene italiano. Nemmeno una resa, solo la lucida consapevolezza che la morte sia meno dolorosa della vita. E l’accusa, fuori da ogni ipocrisia, allo Stato. Non sono emendabile, redimibile? Ammazzatemi. Fatelo voi, io non ve lo tolgo questo impiccio. Dovete avere il coraggio di fucilarmi e di non restituire il corpo alla mia famiglia, per condannare, loro non me, ulteriormente. Se alla parola mafia non si provvedesse, retoricamente, di aggiungere: giudici fatti saltare in aria, bambini squagliati nell’acido, servitori dello Stato e vittime innocenti falciati. Se non si associassero i crimini della mafi a ai mafi osi, nulla offuscherebbe l’inumanità del trattamento riservato ai condannati per crimini mafi osi. Niente farebbe da alibi alla terribilità della pena che si infl igge alle coppole storte. Salvatore Cappello, boss catanese, in carcere da più di vent’anni, quasi tutti trascorsi al 41bis, esce dall’ipocrisia, chiede come unico beneficio quello di essere ucciso tutto in una volta e non a pezzi come è accaduto in questi anni. Che morto è morto da un pezzo. È un cadavere che si muove, e dopo aver prodotto dolore alle sue vittime, prima della galera, continua a produrre dolore anche dal carcere ai suoi familiari, che sono anche loro vittime sue, con la colpa di essergli parenti, che devono soffrire anche se non hanno altre colpe. E chissà se davvero le sue vittime di prima se la godano della sua sofferenza? Se ridono delle sue pene, di questa sua lettera, o ritengano che sia insopportabile questo dolore, esagerato, inutile? Chissà se davvero le vittime innocenti, conoscendo il trattamento di Cappello, di quelli come lui, approverebbero la cosa? O magari appoggerebbero la sua richiesta di grazia a morte? O si sentirebbero portatrici di vendetta, non di Giustizia? È che di carcere, del carcere del 4bis, del 41bis, non se ne parla sul serio, non ne parlano quelli che veramente ne conoscano i dettagli. Si fa un discorso da bar, o da talk show, che è la stessa cosa. Se ne parla per sentito dire, per leggende. E Salvatore Cappello, con tutto il suo carico di responsabilità e sangue, rompe un muro, lo fa dalla sua parte sbagliata e rovescia le macerie dalla parte dei buoni: “Volete sapere cosa sia il 41bis, il fi ne pena mai? Eccovelo”. È l’orrore che non fi nirà mai, la tragedia che cammina e infetta chiunque stia intorno al colpevole. È il buio 22ore al giorno, la solitudine senza confini temporali, la voglia di un uovo fritto mancata che non diventa voglia ma ulcera che perfora lo stomaco col bruciore di tutte le vite spezzate, tutto in una volta. La fine senza la fi ne, in una caduta che dura così a lungo dal preferire l’atterraggio nella lava. Anche i buoni, anche le vittime, se conoscessero davvero il 41bis, tiferebbero per Salvatore Cappello, scriverebbero: “Voglia la S.V. Illustrissima concedere la Grazia di far fucilare Salvatore nel cortile della prigione, e non restituire il corpo ai parenti”. Forse anche le vittime innocenti, se sapessero cosa sia sul serio il 41bis, si opporrebbero all’uso che si fa dei loro torti. Morire senza nome in un carcere italiano di Stefano Pierri ecodelnulla.it, 8 luglio 2020 Il suicidio di un 23enne nel carcere La Dogaia di Prato e il silenzio generale dei giornali e delle istituzioni. Parlare di carcere in pubblico provoca sempre reazioni interessanti negli interlocutori. Le idee più diffuse sul carcere prevedono che non sia necessario promuovere un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti: la privazione o restrizione della libertà personale è generalmente vista come un’adeguata misura punitiva nei confronti di chi ha infranto la legge, con poche distinzioni rispetto alla violazione commessa. Per alcuni, anzi, la via giusta è una recrudescenza della carcerazione. In linea di massima quanto più aspra è una condanna tanto più si registra soddisfazione nell’opinione pubblica. A questi luoghi comuni si accompagna quasi sempre una profonda inconsapevolezza della realtà carceraria italiana: i due mondi della detenzione, penale nelle carceri e amministrativa nei centri per il rimpatrio, sono dimensioni parallele che non devono mai incrociare la vita delle persone al di fuori, quelle che non delinquono e si presume quindi siano persone per bene. Scriveva Angela Davis - attivista e docente statunitense a sua volta detenuta in California tra il 1970 e il 1972 - in un passaggio del suo Aboliamo le prigioni? che è assai utile recuperare oggi, a più di 15 anni dalla pubblicazione italiana: In generale, si tende a dare il carcere per scontato. È difficile immaginare la vita senza di esso. Al tempo stesso, c’è riluttanza ad affrontare le realtà che nasconde, si ha timore di pensare a ciò che accade al suo interno. [...] Siccome sarebbe troppo penoso accettare l’eventualità che chiunque, compresi noi stessi, possa diventare un prigioniero, tendiamo a considerare il carcere come qualcosa di avulso dalla nostra vita. Questo antefatto può aiutare a comprendere il clima di indifferenza in cui si è verificato un mese fa il suicidio di un giovane detenuto di nazionalità turca alla Dogaia, la casa circondariale di Prato. Il ragazzo aveva 23 anni e si è impiccato nella sua cella nel pomeriggio di domenica 24 maggio; trasportato in ospedale, è morto tre giorni dopo. Questo e pochissimo altro è quanto si sa di lui, perché il primo dato che si propone in maniera evidente a qualsiasi osservatore è il velo di disinteresse mediatico da cui questa vicenda è coperta. Quasi nessuno tra gli organi di informazione locali ha registrato la notizia nel momento del suicidio, nonostante avessero ricevuto l’agenzia Ansa che ne dava atto; pochi e brevi trafiletti sono stati stampati o pubblicati online al momento del decesso. Un solitario necrologio del Tirreno, il 29 maggio, segnala a pagina 19 la singolare concomitanza tra il suicidio e la morte di un altro detenuto il giorno precedente, causata a quanto sembra da un malore improvviso. Un suicidio in carcere dunque non è una notizia di particolare rilevanza, né una questione da approfondire in un’inchiesta giornalistica. Tantomeno lo era un tentativo di suicidio: i casi sono più di 1000 all’anno, come registrano i rapporti dell’associazione Antigone e del “notiziario dal e sul carcere” Ristretti Orizzonti. Il detenuto senza nome della Dogaia è stato il diciottesimo del 2020, in Italia, a fare questa fine; dopo di lui altri nove commetteranno lo stesso gesto, portando il totale, per ora, a 27. Nei giorni successivi alla tragedia si sono fatte notare alcune eccezioni all’incuranza generale che hanno permesso una ricostruzione almeno parziale di quanto accaduto. Oltre alla Procura, che ha subito aperto un fascicolo d’indagine e ordinato l’autopsia sul corpo, una settimana dopo la morte il deputato Roberto Giachetti, eletto nel vicino collegio di Sesto Fiorentino, ha presentato alla Camera un’interrogazione scritta rivolta al Ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Nell’atto, ancora in attesa di risposta, si chiede conto di un’eventuale indagine interna “al fine di verificare se nei confronti del detenuto morto suicida siano state messe in atto tutte le misure di sorveglianza previste e necessarie”; difficile pensare che la vicenda avrebbe avuto questo esito, se il ragazzo avesse ricevuto tutte le tutele previste dalla legge e dalla costituzione. Giachetti cita anche la risposta del Ministro a una precedente interrogazione, anch’essa riguardante il carcere di Prato, in cui Bonafede minimizzava le criticità presenti ricordando che non si era verificato alcun suicidio nell’ultimo triennio, per poi essere nettamente smentito tre mesi dopo. A tentare di gettare luce su quanto accaduto in quel pomeriggio di fine maggio, però, sono soprattutto due vicini di cella del ragazzo senza nome, e la loro legale Sara Mazzoncini, penalista che si occupa di esecuzione penale. I due compagni di sezione, avendo assistito alla scena del rinvenimento del corpo del giovane da parte degli infermieri, hanno redatto a mano una memoria di quattro pagine, che Mazzoncini ha provveduto a consegnare alla Procura di Prato. Dal racconto emergono chiaramente i dubbi sulla gestione di questo caso; si scopre così che il giovane aveva già mostrato in passato attacchi d’ira e altri segni evidenti di sofferenza e come riferisce Mazzoncini “in diverse occasioni, nei giorni precedenti il tentativo di suicidio del ragazzo turco, gli stessi detenuti avevano segnalato il pericolo che lui potesse compiere gesti autolesionisti. All’amministrazione carceraria, secondo quanto riportato nel memoriale, era stato riferito che il 23enne appariva fragile, che soffriva molto la carcerazione”. Nonostante questo, al momento del gesto il detenuto si trovava in cella da solo, una circostanza non usuale e per ovvie ragioni comune a moltissimi altri suicidi. Perché, una volta riconosciuta la sua condizione, non si è provveduto a trasferire questo ragazzo in una struttura più opportuna, o quantomeno a evitarne l’isolamento? I compagni aggiungono ulteriori informazioni al quadro, rendendo la vicenda ancora più cupa. Il ragazzo, condannato in primo grado, aveva già scontato circa due anni di reclusione dei tre previsti dalla sentenza e aspettava la discussione dell’appello il 28 maggio, quattro giorni dopo il suicidio. Non si hanno notizie sulla sua famiglia. Sempre dalla memoria si apprende che il giovane avrebbe espresso la volontà di tornare a casa; un diritto, quello di scontare la pena nel proprio paese d’origine, garantito dalla convenzione di Strasburgo del 1983, che l’Italia ha ratificato nel 1989, ma attuabile solo quando la condanna è definitiva e non si è sottoposti a misura cautelare detentiva. Come se non bastasse tutto questo, i due detenuti manifestano rimostranze anche sui soccorsi prestati al momento del ritrovamento del corpo, definiti “inadeguati” e “non tempestivi”. Com’è possibile che si verifichi una serie così lunga di errori o negligenze, fino al tragico esito? Qual è il contesto che porta un ragazzo di 23 anni con problemi psichiatrici a togliersi la vita nell’indifferenza generale? I problemi della Dogaia di Prato sono ben noti alle autorità competenti e soprattutto a chi il carcere lo vive quotidianamente: già nel 2017 la sezione locale della Funzione Pubblica, sindacato Cgil dei dipendenti statali, aveva chiesto pubblicamente le dimissioni del direttore Vincenzo Tedeschi in seguito a una rivolta dei detenuti, per denunciare il sovraffollamento e le gravi carenze di personale. Al 29 febbraio, prima dell’emergenza Covid-19, il carcere di Prato contava 629 reclusi a fronte di una capienza di 589. Come riferisce Lorenzo Tinagli, consigliere comunale di Prato intervistato per Radio Radicale da Rita Bernardini, presidente della Ong Nessuno Tocchi Caino, nella Dogaia “si contano due psichiatri a tempo pieno e uno a tempo parziale”; “si riscontra un disagio diffuso, dal momento che tre detenuti su quattro assumono psicofarmaci”. Anche gli educatori, figure fondamentali di ogni penitenziario, sono fatalmente insufficienti: solo tre a tempo pieno e uno part time, un rapporto quindi di 180 detenuti per ogni educatore. Si direbbe che sia un mistero come la struttura possa funzionare in una situazione come questa; e difatti non funziona. A impedirne il collasso l’instancabile lavoro quotidiano e totalmente volontario di associazioni come il Gruppo Barnaba, che fin dall’inaugurazione del penitenziario nel 1986 cura una grande quantità di progetti e attività: a partire dal primo programma di istruzione secondaria fino a protocolli di reinserimento lavorativo e corsi professionalizzanti di panificazione, meccanica o cucito, passando per servizi imprescindibili come i colloqui e il guardaroba. Tutte queste attività sono state sospese allo scoppio dell’emergenza Covid-19, a peggiorare una situazione resa già estremamente difficile dall’interruzione dei colloqui con familiari e affetti in presenza. Alla luce di tutto questo, le cause potenziali del gesto del 23enne diventano più chiare, e con le sue quelle di numerosi altri che, nelle stesse sue condizioni, commettono gesti di autolesionismo e tentativi di suicidio ogni anno, largamente ignorati dalle cronache. La Garante dei diritti dei detenuti nel comune di Prato, Ione Toccafondi, ha terminato il suo mandato già da mesi, ma l’ha esteso in via ufficiosa in attesa di un nuovo bando che tarda ad arrivare. Commenta così l’accaduto: “In questi sei anni durante i quali ho svolto la mia funzione di Garante la situazione carceraria ha subito un’involuzione notevole. Manca, a mio avviso, una visione politica complessiva su quello che si richiede al carcere. In pratica non interessa a nessuno, tranne che quando scoppiano rivolte o si verificano evasioni, quello che succede tra le mura del carcere, e quale sia l’impegno e la fatica degli operatori e la volontà di cambiamento dei detenuti”. La stessa disattenzione da parte della città è registrata da Tinagli nell’intervista a Radio Radicale. Rischia così di cadere nel dimenticatoio anche questa vicenda, ignorata dai giornalisti ed evitata dai politici di ogni livello, forse perché considerata una perdita di tempo, un argomento tabù, o coperta forse una forma di omertà socialmente accettabile. Oggi, a un mese e mezzo dall’accaduto, né il sindaco di Prato Matteo Biffoni né il direttore del carcere Vincenzo Tedeschi hanno rilasciato alcun commento sulla morte di un detenuto di 23 anni, che probabilmente resterà senza nome. C’era una volta un piccolo paese del Friuli con i suoi vecchi… di Gemma Brandi personaedanno.it, 8 luglio 2020 Qualche giorno fa una giovane donna friulana, abitualmente schiva, mentre preparavamo insieme qualcosa, ha voluto mettermi a parte di uno sviluppo che l’aveva colpita. Nel piccolo paese da cui proviene è ospitata una storica e grande residenza per anziani che, a causa della Covid-19, ha subito alcune limitazioni in corso di lockdown. Cosa è accaduto con la chiusura a penetrazioni esterne di detta realtà? Non quello che ci si sarebbe attesi, vale a dire una sofferenza diffusa e aggiuntiva a causa dell’ulteriore depauperamento dei già rarefatti scambi sociali e di affetto. No, non questo furto, peraltro necessario, a danno delle già deboli risorse esistenziali dei suoi cittadini, bensì un improvviso sospiro di paradossale sollievo, una dimensione quieta, gentile e luminosa, una pace imprevista e improvvisa, un minus delle abituali tensioni, con una pecca rilevata da tutti: il cibo confezionato all’esterno non era altrettanto gustoso. Un neo che introduceva una caduta delle piccole gioie quotidiane di una vita ridotta all’essenza. Nello stesso pomeriggio avrei sentito il racconto di una straordinaria direttrice di carcere, che evidenziava come la pandemia avesse inaugurato, in istituti ben governati, un periodo di pace interna e di condivisione nuova. L’accorta professionista segnalava come l’introduzione di videochiamate quotidiane con le famiglie, in cambio di incontri diventati proibitivi, non fosse estranea a questo sorprendente benessere interno e suggeriva sagacemente, a partire dalla sua piccola grande esperienza, di non sospendere il nuovo diritto introdotto nel mondo della pena da un evento avverso come il rischio infettivo. Ho ripensato allora a tutte le emergenze che hanno attraversato la mia pratica di psichiatra nelle istituzioni, quelle della pena incluse, e a come, in maniera diventata con l’esperienza meno imprevedibile, il pericolo repentino abbia sempre determinato la fine netta delle lamentele, delle proteste, delle grida gratuite, richiamando anche chi appariva incontenibile a un nuovo ordine del discorso e della convivenza. In luogo del caos, il disastro ricompone un assetto socialmente compatibile in cui ciascuno recupera il suo posto e lascia che la soluzione sia cercata senza intralciarne il reperimento. Tra tutti i ricordi siffatti continua a fare capolino il drammatico giorno del mio sequestro per ore nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, un sequestro annunciato che chi doveva avrebbe potuto evitare e non evitò, che chi poteva era chiamato ad abbreviare, ma non lo fece, che chi ne portava la responsabilità istituzionale si affrettò soltanto a “ridimensionare”. Eppure a colpirmi, nelle ore disperate che mi incanutirono anzitempo, fu il silenzio della sezione, furono gli internati che si davano da fare per procurarmi del tè e con quello il loro conforto, e furono anche le parole di uno dei sequestratori: “Se una cosa mi dispiace, è che qui ci sia la dottoressa Brandi!”. Direte, una magra consolazione, e invece io lessi in tale ammissione il miracolo di una sana consapevolezza. Se è vero che chi non sa essere amico degli amici, non potrà essere nemico dei nemici, il mio sequestratore aveva ben chiaro in cuor suo che io non facevo parte della schiera dei nemici. Un buon inizio, almeno per lui, e forse anche per me. Quando la cosa si concluse e tornai a lavorare, mi accorsi di non avere maturato avversione e paura nei riguardi dei pazienti, bensì di altri e di altro, certo dei perversi che nascondono il pugnale con cui si preparano a ferire. La mia lucidità, clinica e istituzionale, fu da allora maggiore. Monza. Tossicodipendente morì in cella. La famiglia: riaprite le indagini di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 luglio 2020 Francesco Smeragliuolo ha perso la vita a soli 22 anni l’8 giugno 2013. Era detenuto nel carcere di Monza: “Era a rischio, doveva essere controllato”. Era appena 22enne con pochi anni da scontare nel carcere di Monza, un residuo pena per reati legati alla sua tossicodipendenza, quando è morto. Era in perenne stato di agitazione e compiva gesti di autolesionismo per via dell’astinenza e per questo i medici stessi avevano chiesto che fosse sorvegliato a vista. Ma le misure, a quanto pare, non sarebbero state attuate e l’hanno ritrovato morto, durante l’ora di socialità, in una cella non sua. È accaduto nel 2013, i familiari hanno fatto denuncia per omicidio colposo, ma dopo due anni la magistratura ha archiviato. Ora però, grazie all’aiuto degli avvocati Daniel Monni e Alessandro Ravani, hanno presentato una denuncia presso la procura di Monza integrandola con il reato di condotta omissiva visto che la sorveglianza risultava assente. Ma cosa hanno scoperto i legali? Tramite i diari clinici hanno potuto ricostruire gli eventi accaduti negli ultimi 37 giorni di Francesco Smeragliuolo, così si chiamava il ragazzo. Appena entrato in carcere, il 2 maggio del 2013, presenta già brividi, mialgie diffuse, insonnia. Qualche giorno dopo, i medici hanno riscontrato che il ragazzo presenta una “sintomatologia astinenziale” e ha dichiarato di “rifiutare di assumere il metadone consapevole di stare male per astinenza contro il pare del medico”. A quel punto al giovane detenuto hanno cominciato a somministrargli psicofarmaci. Inizialmente le gocce di Valium. Ma nulla fare. L’insonnia persiste, aumenta la sua agitazione e il 19 maggio, secondo quanto si legge nella cartella clinica, i medici stessi chiedono nei suoi confronti una “grande sorveglianza”. A mezzanotte e mezza Francesco riferisce “ansia non controllata e di avere paure e fobie che riconosce immotivate ma che non sa spiegarsi”. In quella sede i medici ribadiscono la necessità di una “grande sorveglianza fino a visita psichiatrica”. Nel corso della visita al Sert, il 20 maggio 2013, il ragazzo parla di sensazioni di “nodo alla gola e allo stomaco, inefficacia della terapia; insonnia, formicolio alle estremità, incubi e atti autolesivi potenziali”. Ma non solo. Alla psicologa riferisce “con atteggiamento captativo malesseri fisici vaghi ed imprecisati (alle estremità degli arti superiori, disturbi gastrici, senso di costrizione alla gola e insonnia) sostenendo che durante la notte si presentano idee di morte intrusive”. Sussiste, in sostanza, “preoccupazione per il proprio stato di salute”. “Le ferite e la fine dell’isolamento” - Ogni giorno che passa, è un crescendo. Ancora insonnia resistente ai farmaci, nodi alla gola, altri disturbi fino ad arrivare al 28 maggio quando, secondo quanto risulta dal diario clinico, Francesco presenta “diverse ferite lineari in regione latero cervicale destra del collo di cui una più profonda che necessita di due punti di sutura”. Dice di “aver fatto questo perché non ce la faceva più” e di “aver agito in un momento di sconforto”. I medici a quel punto richiedono una “ubicazione in cella priva di suppellettili e grandissima sorveglianza fino a visita psichiatrica che si richiede con precedenza”. Il 31 maggio l’equipe medica concorda per la fine dell’isolamento e quindi il rientro in sezione nella vita comune, ma - sottolineando ancora una volta - sempre con il “regime di grande sorveglianza a scopo precauzionale”. “Francesco era a rischio e andava controllato” - Il dato che emerge è chiaro. Francesco, in forte crisi di tossicodipendenza e imbottito di psicofarmaci come rivelerà l’analisi del sangue, è a rischio. Per questo i medici hanno chiesto che fosse sorvegliato a vista per tutelare la sua incolumità fisica. Però arriviamo all’otto giugno del 2013 quando il ragazzo all’improvviso muore, in una cella non sua. L’altro detenuto che era con lui racconta che improvvisamente Francesco si è accasciato a terra e non ha risposto più ai richiami e lui, quindi, ha provveduto a distenderlo sul letto. A quel punto ha urlato chiedendo aiuto. Il ragazzo si è accasciato intorno alle 17, i soccorsi arrivano alle 18. Non c’è stato nulla da fare, Francesco era già morto.La denuncia presentata in procura è chiara. Il ragazzo era un soggetto ad alto rischio e per tale ragione doveva essere sottoposto a sorveglianza a vista. Così, purtroppo, non è stato. La madre testimonia che, all’ultimo colloquio, Francesco risultava notevolmente dimagrito rispetto a quando ha fatto ingresso in carcere. La salma è risultata piena di escoriazioni e lo screening biologico ha evidenziato la presenza di diversi psicofarmaci. Ricordiamo che recentemente la Corte europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per il suicidio di un detenuto avvenuto 19 anni fa. Il motivo della condanna? Le autorità non hanno garantito il “diritto alla vita” che obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Tale obbligo sussiste, ancora di più, dal momento in cui le Autorità penitenziarie siano a conoscenza di un rischio reale. Nel caso di Francesco Smeragliuolo, gli stessi medici del carcere hanno chiesto una “grande sorveglianza” nei suoi confronti. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Stress da carcere di Maurizio de Giovanni Corriere del Mezzogiorno, 8 luglio 2020 La crisi del carcere di Santa Maria Capua Vetere è l’emblema di una situazione esplosiva del sistema penitenziario italiano, già nel mirino Corte Europea e alla quale nessun governo, quale che sia il colore dello stesso, sembra avere voglia di mettere rimedio. Siamo arrivati a 130 agenti della polizia penitenziaria in malattia per stress da lavoro, e il processo non sembra accennare a fermarsi nonostante gli avvisi di garanzia; il personale inviato dal ministero in sostituzione è insufficiente. Il sovraffollamento, la fatiscenza delle costruzioni, l’endemica mancanza delle risorse rendono i penitenziari luoghi infernali, spesso con condizioni e trattamenti che nulla hanno di umano e soprattutto di rieducativo. L’esplosione della delinquenza e dell’insofferenza degli agenti è un problema che riguarda tutti, anche chi si sente lontano dalla questione. È un problema di civiltà. Bari. Fermi i processi civili: al palo risarcimenti del danno e colpe mediche di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 8 luglio 2020 Processi civili rinviati (anche) al 2022. “Ai miei clienti sto dicendo che per chiudere un processo civile, in questo momento storico, servono almeno dieci anni”. A dirlo è l’avvocato barese Jacopo Metta, uno dei tanti che nel periodo postumo al lockdown si sta ritrovando a gestire il rinvio di cause importanti anche fino al 2022. I rimandi più significativi riguardano i processi per colpe mediche e risarcimenti. La giustizia a Bari e nel viaggia ad un ritmo tanto lento che avvilisce chiunque pensa di poter intentare una causa per far valere un proprio diritto. E questo accade in un Distretto che ha i numeri più alti in Italia per produttività dei magistrati. “Per il 2021 ho già tre cause fissate. Adesso stiamo trattando quelle del 2012. La chiusura dei tribunali per il Covid ha bloccato ancora di più un sistema che era già in affanno con i ruoli dei giudici intasati da sempre”. L’avvocato civilista Jacopo Metta è solo uno dei tantissimi professionisti che in questi giorni sta assistendo a scene surreali, che se non fossero tremendamente vere farebbero anche sorridere. “Per chiudere un processo adesso, se tutto va bene, ci vogliono dieci anni, lo diciamo ai nostri clienti quando arrivano allo studio. Con alcuni colleghi ci ponevamo un quesito, ovvero se fosse più giusta una giustizia ingiusta ma veloce o viceversa”. La sua è chiaramente una provocazione dettata dal momento difficile che gli avvocati, non solo baresi, stanno vivendo. Se per il settore penale, dove c’è la scure della prescrizione, qualcosa lentamente si muove, in quello civile ci si inabissa nei rinvii. “Ci sono stati colleghi che hanno avuto un rinvio nel 2022. Parliamo di cause che interessano direttamente i cittadini e penso a quelle relative ai risarcimenti del danno, a quelle di lavoro, alle colpe mediche - spiega il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Giovanni Stefanì Abbiamo avviato un’indagine per monitorare quanto sia accaduto alla giustizia durante il lockdown e soprattutto quanto potrà accadere dopo”. E la situazione descritta dal presidente Stefanì non è rassicurante. “Manca il personale ma anche i mezzi per poter affrontare, eventualmente, una nuova crisi in autunno. Noi ci auguriamo che il rischio possa essere scongiurato ma se dovesse esserci una nuova ondata di epidemia bisogna stanziare fondi per permettere agli uffici giudiziari di funzionare anche da remoto”. Più computer, collegamenti internet veloci e più uomini. La ricetta sembra semplice ma non è così. “Anche sul palagiustizia abbiamo sollecitato il ministro ma al momento non ci sono riscontri, noi continueremo a fare la nostra parte e la faremo ogni giorno - dice ancora il presidente - Oltre alle sedi inadeguate abbiamo posto anche un altro problema e riguarda le spese che gli avvocati affrontano: vogliamo la sospensione delle tasse e incentivi per i giovani”. Roma. Laboratorio “Papa Francesco”: il progetto per dare dignità lavorativa agli ex detenuti di Manuela Petrin interris.it, 8 luglio 2020 Intervista al presidente di Isola Solida, il dottor Alessandro Pinna: “Dare fiducia alle persone ed evitare che ricadano nel reato”. Un laboratorio intitolato a Papa Francesco che coniuga la lotta allo spreco alimentare con il ridare dignità attraverso al lavoro ad ex detenuti. E’ l’iniziativa promossa da Isola Solidale in collaborazione con il Car - Centro Agroalimentare di Roma - e il ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. Il concetto è semplice: recuperare le eccedenze alimentari di frutta e verdura e trasformarle in succhi di frutta, marmellate e passate. I nuovi prodotti saranno poi distribuiti in parte ai circuiti solidali del comune di Roma. Dare fiducia e restituire dignità ad ex detenuti tramite il lavoro è uno degli obiettivi di Isola Solidale, reso possibile anche grazie a Roma Capitale che ha messo a disposizione 4 borse lavoro, pensando già al futuro di ampliare l’iniziativa fino ad arrivare a sei. Saranno, infatti, uomini e donne con un passato detentivo ad essere impegnati in tale progetto. Interris.it ha approfondito l’argomento con il dottor Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale. Dott. Pinna, quali sono le finalità del laboratorio “Papa Francesco”? “Insieme al Car - Centro agrolimentare di Roma - due anni è nato il progetto ‘Frutta che frutta non spreca’, con il ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, perché c’era una gran quantità di frutta e verdura che, in particolar modo nel periodo estivo, non viene consumata e quindi gettata. Il laboratorio ‘Papa Francesco’ nasce proprio con l’obiettivo di ridurre lo spreco alimentare e per ridurre i costi di smaltimento. Questo nuovo progetto, riparte dalle eccedenze alimentari per riciclare il materiale ancora buono, in modo che venga rimesso in un circolo virtuoso e reinserito in un processo di distribuzione solidale”. I prodotti che raccogliere, come verranno trattati? “Saranno trasformati in marmellate, succhi di frutta, passate, e verrà reinserito nel circuito virtuoso per le persone che sono in difficoltà” Il laboratorio, insieme a Roma Capitale, mette a disposizione delle borse lavoro per ex detenuti: è un modo per dare fiducia a chi è ben visto dalla società? “Il progetto dall’inizio prevedeva che venissero impiegate per il lavoro le persone che sono in fine pena; anche adesso, siccome Roma Capitale ha messo a disposizione delle borse di lavoro, ci saranno delle persone che hanno finito il carcere o sono alla fine. La missione di Isola solidale è quella, come Papa Francesco ha ripetuto più volte, di ridare dignità alla persona. Si può fare in tanti modi e, uno di questi, sicuramente, è dando un piccolo stipendio, poter vivere e non dover delinquere di nuovo. Un progetto importante perchè inizia con il non sprecare il cibo e rimetterlo in circolo, impiegando delle persone fragili che attraverso questo processo avranno un reinserimento sociale adeguato”. Sono molte le famiglie che beneficiano di questi nuovi prodotti? “Durante il lockdown abbiamo distribuito pacchi alimentari a più di 300 famiglie nel territorio del comune di Roma, presumiamo di tener presente loro, ma questo è un dato in evoluzione, anche in base alla produzione di alimenti che avremo”. Quanti sono gli ex detenuti che lavorano al laboratorio? “Al momento sono quattro, ma stiamo lavorando per farli aumentare a sei”. Al momento avete altri progetti attivi? “Si progetti di inclusioni, abbiamo realizzato corsi di agronomia, di alfabetizzazione informatica. Iniziative che portiamo avanti sistematicamente”. Quanto è importante restituire dignità attraverso il lavoro alle persone? “E’ molto importante, anche dal punto di vista della missione di Isola Solidale, che è quella della non recidiva. Quando una persona termina il suo periodo di detenzione non è semplice, a causa di tutti i pregiudizi che ci sono. La cosa più importante è cercare di dare fiducia alle persone ed evitare che ricadano nel reato”. Pisa. Lettere “dannate” e rap dei detenuti, termina il corso teatrale in carcere gonews.it, 8 luglio 2020 Si è concluso il corso annuale della Scuola di teatro Don Bosco, a cura della Compagnia I Sacchi di Sabbia, realizzato grazie al contributo di Fondazione Pisa e Regione Toscana. Il Covid19 non ha fermato questo momento importante per la cultura e rieducazione all’interno dell’Istituto ed anzi, è andato in controtendenza rispetto al susseguirsi di lezioni, seminari e tutorial tutti rigorosamente on line. Il corso ha rispolverato la carta, il cartaceo, le epistole, le lettere. Il team di docenti Francesca Censi, Gabriele Carli, Letizia Giuliani, Carla Buscemi, Davide Barbafiera ha elaborato materiali da inviare periodicamente ai detenuti in forma epistolare. E’ nato così il progetto “Lettere dannate”: a partire dalle storie dei personaggi della Divina Commedia, si è creato uno scambio di spunti e suggestioni drammaturgiche, in forma di epistola cartacea, decisamente desueta ai nostri tempi. Attraverso le lettere, i detenuti allievi hanno ricevuto materiali elaborati in forma di dialoghi o monologhi o racconti delle storie dei personaggi della Divina Commedia: ad ogni elaborato gli allievi potevano rispondere con commenti suggestioni e disegni, inerenti alla storia del personaggio in oggetto. Le “missive” inviate ai detenuti su cui hanno lavorato sono state 15. Alle stesse, gli aspiranti attori hanno risposto con commenti, domande e disegni. Tutto il materiale prodotto in questo periodo è divenuto materia di studio teatrale quando a partire da giugno è stata avviata la didattica a distanza, questa volta avvenuta col supporto del web. Le lezioni, della durata di due ore ciascuna, si sono tenute a cadenza bi-settimanale sino alla interruzione estiva. ùLa prima parte dell’anno (settembre - dicembre 2019) ha visto i detenuti allievi della Scuola di teatro impegnati nello studio del linguaggio poetico sui testi della poetessa Alda Merini: attraverso lo studio della dizione, dell’impostazione vocale e dell’improvvisazione fisica sulle immagini suggerite dai versi, si è costruito un breve spettacolo di poesia rappresentato con successo da un gruppo di detenuti allievi in occasione del meeting Ti insegnerò a volare organizzato dall’Opera Cardinal Maffi di Pisa, presso il Park Hotel di Tirrenia il 18 ottobre 2019. In seguito, nei mesi di novembre, dicembre 2019 e gennaio 2020 il laboratorio di teatro si è impegnato nello studio e nella messa in scena del testo teatrale In alto mare di Mrozek. Durante questo periodo gli allievi detenuti hanno potuto fruire, oltre che delle docenze solitamente previste per le materie di teatro, delle lezioni di un docente di musica e ritmica vocale, Davide Barbafiera dei Campos, che ha lavorato con loro sul linguaggio rap e le sue possibili declinazioni e utilizzo nella messa in scena teatrale del testo in oggetto. Lo spettacolo, frutto di questo periodo di lavoro, avrebbe dovuto essere rappresentato il 27 marzo 2020, in occasione della giornata nazionale di teatro in carcere, ma l’emergenza sanitaria provocata dal Covid 19 ha imposto una brusca interruzione. In Italia la vera condanna è leggere di Antonio Gurrado Il Foglio, 8 luglio 2020 Venti detenuti della casa circondariale di Secondigliano sono stati indotti ad affrontare “Il visconte dimezzato” di Calvino. Il sottinteso è che non possa essere concepita come un’attività piacevole. Chi si macchia di reati sessuali potrà essere condannato a leggere Calvino; e non Calvino nel senso del tetro moralista Giovanni, di cinquecentesca memoria, bensì il più gioioso e dilettevole Italo. È stato il caso di venti detenuti della casa circondariale di Secondigliano, i quali, di età variabile fra i venticinque e i sessant’anni ma accomunati dalla fattispecie di reato, nei mesi scorsi sono stati indotti a formare un gruppo di lettura in cui analizzare e sceverare “Il visconte dimezzato”; esperienza che adesso raccontano in un libro scritto a quaranta mani. Inutile dire che l’iniziativa è stata presentata come occasione di lavoro su sé stessi, dovuta alla consueta illusione che leggere renda migliori; è tuttavia inutile anche dire che il sottinteso è sempre e solo la concezione punitiva che l’Italia ha della lettura e della cultura in genere, talché leggere un libro o andare a teatro o ascoltare Haydn non viene mai concepito come piacere di per sé, fine a sé stesso, ma sempre come occasione per emendarsi e dunque strumento penitenziale. Vabbe’. Del resto già duecentocinquant’anni fa, se non erro, Federico II di Prussia aveva avuto l’idea di condannare uno stupratore a leggersi le ponderose opere dei gesuiti Molina e Sanchez; provateci anche voi, il “De sancto matrimonii sacramento” è un mattone casuistico che vi farà rimpiangere qualsiasi cosa abbiate fatto e impetrare perdono anche se siete innocenti. Alla fine con Calvino (Italo) va ancora bene; già si può fantasticare su un futuro in cui i malviventi si redimano per timore di dover poi commentare Verga, parafrasare Tasso o (i più incalliti) leggere Saviano. Resterebbe solo da stabilire quale colpa immane debba gravare su chi, poi, leggerà i libri che i condannati scriveranno sulla propria esperienza di lettori. Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio, 8 luglio 2020 Nella notte fra sabato e domenica - da mezzanotte all’una, orario avanzato ma elegante - è stato trasmesso da Rai 3 un documentario sulle donne carcerate nelle prigioni di Salerno-Fuorni e di Pozzuoli. Titolo: Caine (femminile plurale di Caino, perché qualcuno non lo pronunci direttamente in inglese) autrice Amalia De Simone con la cantautrice Assia Fiorillo, e la collaborazione della giornalista Simona Petricciuolo. E, va aggiunto, delle direzioni del carcere. Molto bello, rivelatore, sconvolgente e incoraggiante, anche per chi, come me, si illude di conoscere la materia. La prigione femminile si mostra a prima vista simile a quella maschile - “la galera è sempre galera”, le suppellettili, le umiliazioni, sono quelle - ed è tutta un’altra cosa. Continuo a trovare incredibile la disattenzione ostinata alla differenza fra donne e uomini come si manifesta nella criminalità. La quota di donne carcerate, in Italia per esempio, oscilla attorno al 4 per cento. La metà del cielo ha un deficit del 46 per cento per toccare la parità. Forse solo nei grandi Consigli di amministrazione c’è una sproporzione paragonabile, e il confronto porterebbe lontano. Amalia De Simone è una videoreporter napoletana, 46 anni, che ha lavorato per una quantità di destinazioni, soprattutto per il Corriere.it, per la Rai e la Reuters, ha avuto una storia professionale avventurosa perché è una temeraria pescatrice nel torbido, e perché torbidi committenti e personaggi pescati l’hanno temerariamente querelata una quantità di volte. Finché nel 2017 il presidente Mattarella non ha deciso motu proprio di farla cavaliere al merito della Repubblica italiana per “il suo coraggioso impegno di denuncia di attività criminali attraverso complesse indagini giornalistiche”. Fin qui le notizie minime su lei (blog: amaliadesimone.com) che un po’ sapevo, un po’ ho cercato dopo aver visto con emozione “Caine”. Ufficialmente l’abbiamo guardato in 254 mila: gli altri milioni troveranno il modo di recuperare. Voglio citare solo la frase di una giovane detenuta, che mi ha colpito benché scorresse con una sua ovvietà, e mi dispiace di non mostrarvela con la faccia che la pronunciava. La giovane raccontava tutti i tentativi che aveva fatto per venire a capo della cosa, della vita, invano - Potevo fare questo, ma poi…, potevo fare quest’altro, ma a che sarebbe servito… - e in cima a quell’elenco diceva: “Mi potevo uccidere, ma che mm’accidev’a ffa’?” Che anche uccidersi rientrasse nel novero delle strade tentate sperando di risalire una china, e fosse scartato per inutilità, ecco un’idea notevole. Mi uccido, va bene, ma poi? L’ho detto, c’era dell’ottimismo in quella disperazione. A quel punto, l’unica era vivere. Lockdown, l’acuirsi delle diseguaglianze e i rimedi del welfare di Tamar Pitch e Grazia Zuffa Il Manifesto, 8 luglio 2020 Covid 19 circola ancora, in Italia e ancor più nel resto del mondo. Ciò significa che, come si dice, dovremo conviverci a lungo, e non si può escludere che, laddove si rinvengano focolai di contagio, si ritorni a misure più restrittive come il lockdown, magari a livello locale. Di qui la necessità che i governi locali e nazionali traggano dall’esperienza tragica appena vissuta alcune lezioni di fondo. Questo è lo spirito che anima il parere emesso dal Cnb lo scorso maggio, dove si mettono in luce non solo i danni della pandemia, ma anche le conseguenze indesiderate delle misure prese per combatterla (Parere del 28 maggio 2020). L’effetto più grave è stato l’approfondirsi di disuguaglianze lungo le linee del genere, della classe sociale, dell’età, e anche di quelle etniche e di “razza” (nel caso per esempio delle persone Rom e Sinti o dei e delle richiedenti asilo rinchiuse nei cosiddetti centri di accoglienza). Sempre più ci si rende conto che “la salute innanzitutto” è obbiettivo più complesso di quanto si sia voluto far credere, che non può essere schiacciato solo sulla difesa dal virus; e che la dicotomia fra salute e economia è ingannevole. Come scrivono alcuni studiosi (The Lancet, vol.396, July 4th, 21), se per i benestanti la recessione significa taglio di ricchezza, per i poveri implica taglio dei mezzi di sussistenza. Proprio dall’ottica dei più vulnerabili risalta la necessità di considerare le tante facce della salute, tra queste un adeguato accesso a risorse economiche sociali e culturali. Insomma, “siamo sulla stessa barca” è vero solo se con “barca” intendiamo il pianeta che condividiamo con gli altri esseri umani e tutti i viventi, ciò che richiederebbe un’assunzione collettiva e individuale di responsabilità nel prendersene cura. Altrimenti, nella tempesta i primi ad annegare sono i più vulnerabili, che hanno una barca inadeguata al tifone o non ce l’hanno affatto. Molti sono i gruppi che hanno pagato e stanno pagando i costi più alti della pandemia e del lockdown. Oltre alla strage di anziani e anziane nelle Rsa, oltre a quelli e quelle che hanno continuato a lavorare (44.000 i contagiati tra i lavoratori, secondo l’Inail), ci sono i bambini e le bambine, privati della scuola e dei contatti con i coetanei, i malati gravi non- Covid, le persone con disabilità, i detenuti e le detenute, le e i migranti senza permesso di soggiorno. E le donne, naturalmente, specialmente quelle con bimbi piccoli, alle prese con un enorme aggravio di lavoro di cura, oltre, spesso, allo smart working da casa. Le donne, quando un lavoro per il mercato ce l’hanno - e si sa quanto poche siano, rispetto alla media delle donne europee - sono impiegate in maggioranza nella scuola e nei servizi, quelli sanitari inclusi, sono spesso precarie e quindi più a rischio di non poter tornare al lavoro nel post-pandemia. Si possono trarre alcune indicazioni per i decisori politici. Nel caso di un riacutizzarsi dell’epidemia, è bene predisporre misure proporzionate e bilanciate. Se gli scienziati sono fondamentali nell’offrire le conoscenze, la delicata valutazione dei costi/benefici delle misure da adottarsi è il campo precipuo della politica. L’esperienza di questi mesi ha insegnato qualcosa, anche a cogliere le differenze nelle politiche di contrasto: pressoché tutti i paesi hanno fatto ricorso al lockdown, ma con modelli differenti, da valutare con attenzione. In secondo luogo, si richiede una assunzione di piena responsabilità da parte delle istituzioni per diminuire sia le disuguaglianze pregresse che quelle nuove dovute alla pandemia: per investire ad esempio nella scuola pubblica, nell’università e nella ricerca. In una parola, per potenziare il nostro sistema di welfare e renderlo davvero universale. Libia, giallorossi divisi. Ma il sì è bipartisan di Carlo Lania Il Manifesto, 8 luglio 2020 Missioni militari. Al senato la maggioranza tiene, 14 no e 2 astenuti. Assenze a destra. Verducci (Pd): Finanziare la Guardia Costiera di Tripoli fa male anche all’Italia. De Petris (Leu): Riportare nei campi chi fugge è una violazione dei diritti umani, dico no. Alla fine è sì, la proroga delle 41 missioni che impegnano 8.613 militari italiani in tutto il mondo viene approvata dall’aula del senato. Ma dal pomeriggio di discussione rovente, e dalla mattinata di riunioni, avvisi e ultimatum, la maggioranza esce con le ossa rotte. Palazzo Madama si conferma un terreno minato per il governo giallorosso. Il voto resta un’incognita fino alla fine. Il governo trema fino al calare del sole. In mattinata le destre vedono la possibilità di mandare sotto la maggioranza e fanno circolare la voce che voteranno no alla missione libica per chiedere “il blocco navale”. Non è vero, ma il Pd ci crede e il capogruppo Andrea Marcucci avverte: “Chi vota no si assume la responsabilità di far cadere il governo”. Perché alla vigilia quattro senatori del Pd, altrettanti di Leu e altri ex 5s fanno sapere che non voteranno il rinnovo della collaborazione fra l’Italia e la Guardia Costiera libica. È la “scheda 22” della relazione approvata all’unanimità in commissione - nel silenzio generale - a far dire no in aula al dem Francesco Verducci: “Votare il rifinanziamento alla guardia costiera libica è voltarsi dall’altra parte” di fronte a torture e violenze. Le senatrici Emma Bonino (+Europa) e Loredana De Petris (Leu) chiedono il voto per parti separate. “Le missioni internazionali non sono tutte uguali, non si possono votare un tanto al chilo”, dice la storica radicale, “serve un reset totale dei nostri rapporti con la Libia”. Le fa eco De Petris: “Voteremo contro la parte che rifinanzia la guardia costiera libica”. Il Pd alla fine deve cedere. Del resto la maggioranza non può fare altro, per non costringere i “dissidenti” a votare contro (nel caso dei senatori di Leu) o non votare (è il caso dei dem) tutto il pacchetto. Italia viva, che sulla Libia ha mal di pancia alquanto recenti, chiede e ottiene l’approvazione di una mozione, subito bollata come “acqua fresca” dall’ex 5 Stelle Gregorio De Falco. Il testo, messo a punto da Laura Garavini, impegna il governo ad accelerare la riscrittura del contestato Memorandum italo-libico sull’immigrazione firmato nel 2017 dal governo Gentiloni e che pochi giorni fa Tripoli ha assicurato al ministro Di Maio di voler modificare promettendo il rispetto dei diritti umani nei centri di detenzione dove rinchiude i migranti. L’esecutivo si impegna anche a istituire corridoi umanitari con i quali far arrivare i profughi. Oltre che ad addestrare la Guardia costiera libica al rispetto dei trattati internazionali. Impegni generici, ma sufficienti a renziani e governo per superare lo scoglio libico. Alla fine la valanga dei sì mette al sicuro tutte le missioni. Nel voto per parti separate, la parte riguardante la Libia è approvata con 260 sì, 142 della maggioranza e 118 delle opposizioni. I no sono 14 e 2 gli astenuti - sei senatori di Leu, tre Pd (D’Arienzo, Valente e Verducci), Mantero M5S, De Bonis, De Falco, Bonino e Martelli del misto -. Le destre in aula alzano i decibel a dismisura, ma assicurano molte assenze. Ma nel dibattito è la maggioranza a segnare le maggiori distanze interne. “In Libia dobbiamo starci nel modo giusto”, attacca Verducci, ricordando che i dem si erano formalmente impegnati a chiedere la fine della collaborazione con la Guardia costiera di Tripoli. “Da ora collaboreremo con la Marina libica” assicura il dem Alessandro Alfieri, “ma è giusto rimanere in Libia. Altrimenti lasceremo il controllo dei flussi migratori alla Turchia. E rimaniamo lottando perché i diritti umani vengano rispettati. Andarsene migliorerebbe la situazione?”. L’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti giura di aver visto con i suoi occhi i benefìci dei militari italiani sui colleghi libici: “Ho visto personalmente quanto la formazione abbia prodotto effetti migliorativi in ogni teatro in cui i nostri militari hanno fatto formazione. Con risultati importanti per la sicurezza e il rispetto dei diritti umani che dobbiamo rivendicare”. Al Senato alla fine il governo porta a casa la pelle senza problemi. Ma negli stessi minuti alla camera, in commissione, la maggioranza si spacca. Iv non vota la mozione degli alleati. E Laura Boldrini (oggi nel Pd ma già presidente della camera e prima portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati) si astiene con motivazioni all’esatto opposto di quelle dell’ex ministra: “Rapporti dell’Onu e inchieste giornalistiche descrivono il comportamento di elementi della Guardia costiera libica in violazione dei diritti umani e in combutta con i trafficanti. La condizione dei campi di detenzione è spaventosa, l’Onu stessa ne raccomanda la chiusura”. Il deputato dem Matteo Orfini parla di un Pd “che ha cambiato linea” e avverte: “Ne riparleremo”. Ora il provvedimento arriverà a Montecitorio. Ma lì i numeri della maggioranza sono blindati. A Palazzo Madama le opposizioni picchiano duro ma solo a parole: “Il governo è morto nella coscienza popolare e nei numeri del parlamento”, urla Maurizio Gasparri. Poi parla della guerra “sbagliata” contro la Libia nel 2011, dimenticando il dettaglio che al governo c’erano loro. Dettagli. Alcuni anche inquietanti per Palazzo Chigi. Gasparri ricorda che già nel secondo governo Prodi la destra votò sì alle missioni e salvò la maggioranza. “Ma poi”, conclude, “il governo cadde lo stesso”. Ma non fu l’opposizione a farlo cadere. Libia. Ankara punta a Sirte e rischia l’intervento egiziano di Roberto Prinzi Il Manifesto, 8 luglio 2020 Sale la tensione dopo il “misterioso” bombardamento di sabato. Dopo giorni di relativa “calma”, la situazione in Libia è tornata a farsi incandescente. A rompere il fragile equilibrio è stato il misterioso raid che sabato mattina ha colpito e distrutto i sistemi turchi di difesa aerea “Hawk” e di disturbo elettronico “Koral” nella base di al-Watiya (130 km a ovest di Tripoli), controllata dalle forze alleate del Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli del premier al-Sarraj. Non è ancora chiara l’origine dei velivoli che hanno sferrato l’attacco. In questi giorni si sono fatte le più svariate ipotesi: dai caccia dell’Esercito nazionale libico (Enl) del generale Haftar (nemico giurato di Tripoli) a quelli dei suoi alleati egiziani ed emiratini (quest’ultimi, sembrerebbero essere i responsabili più credibili). C’è chi, come il portale libico Libya Akhbar, ha chiamato in causa la Francia alleata di Haftar e che già in passato ha compiuto interventi militari in Libia. L’ipotesi francese si inserirebbe nel clima di forte tensione delle ultime settimane tra Parigi e Ankara, alleati sì Nato ma quanto mai rivali nel dossier libico e nel più ampio contesto mediterraneo. Uno scontro concretizzatosi con la recente decisione dell’Eliseo di ritirarsi “temporaneamente” dalla Missione Nato “Sea Guardian” a seguito di un’incidente avvenuto e metà giugno nel Mediterraneo tra la Marina turca e quella francese. Se ignoto è finora il responsabile del raid, è chiaro però il destinatario: la Turchia. L’attacco di sabato è giunto infatti a poche ore di distanza dalla visita ufficiale a Tripoli del ministro della difesa turco Akar e del capo di stato maggiore Guler. Una visita in cui ancora una volta Ankara ha ostentato con sicumera la sua voglia di dirigere la fase attuale libica, ma soprattutto quella post-conflitto. La Turchia del “Sultano” Erdogan ha già infatti dichiarato pubblicamente asset turchi proprio la base di al-Watiya e una vicino a Misurata e ha già promesso alle compagnie turche ricchi affari nella ricostruzione sia nel campo edilizio che in quello energetico. Senza poi dimenticare la partita di idrocarburi, assicurata grazie al memorandum marittimo siglato a novembre tra Tripoli e Ankara. “Daremo una risposta adeguata al raid degli aerei nemici stranieri che sostengono il criminale di guerra (Haftar, ndr)”, ha detto Tripoli dopo il raid di al-Watiya. Ankara ha invece alzato il tiro, designando la base aerea di al-Jufra e la città strategica di Sirte (a metà strada tra Bengasi e Tripoli) come “nuovo obiettivo militare”. Scelta foriera di conseguenze: proprio al-Jufra e Sirte sono state infatti considerate a giugno dal presidente egiziano al-Sisi “linee rosse” la cui violazione potrebbe condurre il Cairo a intervenire militarmente in Libia. I primi inquietanti segnali delle minacce tripoline-turche sono stati forse registrati ieri quando una forte esplosione si è avvertita nel villaggio di Sukna, nei pressi di al-Jufra. A provocarla, riferiscono alcune fonti, sarebbero stati alcuni droni turchi che avrebbero preso di mira (e distrutto) il sistema di difesa russo Pantsir e ucciso 3 mercenari del gruppo russo Wagner. Se confermato, l’attacco di ritorsione potrebbe avere immediati riflessi anche a Sirte dove potrebbero tornare gli scontri. Ankara e Tripoli hanno più volte ribadito che torneranno ai negoziati con l’Enl (non però con Haftar) soltanto dopo aver preso questi due “obiettivi”. Tuttavia, dopo settimane di “calma”, il raid di al-Watiya di sabato ha fatto saltare gli equilibri pur fragili che si registravano sul terreno, riaprendo il vaso di Pandora libico da cui può uscire solo altra morte e distruzione. Kenya. In aumento i nuovi casi e le violenze contro le donne di Fabrizio Floris Il Manifesto, 8 luglio 2020 I Paesi africani più colpiti sono il Sudafrica,196.750 casi, l’Egitto con 75.253 e la Nigeria con 28.711. In Africa il Covid-19 ha contagiato finora 476.509 persone di cui 227 mila ricoverate in strutture sanitarie, mentre le persone decedute sono 11.360. I Paesi più colpiti sono il Sudafrica con 196.750 contagiati, l’Egitto con 75.253 e la Nigeria con 28.711. In Kenya i casi sono 7.886 (di cui 2.287 ricoverati) e i morti 160. Tuttavia, secondo un’indagine pubblicata dall’istituto di ricerca medica nazionale Kemri, basata sui dati dei keniani che hanno donato il sangue negli ultimi mesi sarebbero oltre 2,7 milioni i contagiati. Si tratta della proiezione di un campione di 2.535 donatori nel cui sangue si è ricercata la cosiddetta “proteina spike” del Covid-19. In ogni caso il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, ha annunciato lo scorso 6 luglio una riapertura graduale del Paese. Sono state revocate le restrizioni di viaggio dentro e fuori le contee di Nairobi, Mombasa e Mandera. È stata annunciata la ripresa dei voli locali dal 15 luglio e di quelli internazionali dal primo agosto. Anche i luoghi di culto riapriranno, ma potranno partecipare alle funzioni al massimo 100 persone e le celebrazioni non dovranno durare più di un’ora. In Italia sarebbe un tempo accettabile, ma in Kenya le messe durano due o tre ore nelle chiese principali, mentre nelle chiese tradizionali africane la preghiera dura tutta la giornata. Resta in vigore il coprifuoco nazionale dalle 21 alle 4 per i prossimi 30 giorni. Come prevedibile il National Bureau of Statistics del Kenya ha confermato una contrazione dell’economia, i cui effetti saranno ancora più evidenti nei prossimi trimestri: si prevede una crescita dimezzata dal 5,5% al 2,5%, ma secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale il Paese potrebbe affrontare una crescita negativa per la prima volta in quasi tre decenni. I settori più colpiti sono l’agricoltura, i trasporti (la Kenya Airways prevede di perdere oltre 500 milioni di dollari), i servizi finanziari e la vendita al dettaglio. Nel paese c’è stata in questi mesi una solidarietà attiva da parte di molte organizzazioni internazionali e locali per far fronte agli effetti economici della pandemia che per le persone sono più gravi del virus stesso. Il coprifuoco e la restrizione degli spostamenti ha avuto un effetto diretto sui prezzi, contemporaneamente i guadagni sono diminuiti e in alcuni casi azzerati. In zone come Kariobangi, un quartiere popolare di Nairobi, al virus si sono aggiunte le demolizioni di decine di case e almeno 8.000 persone si sono ritrovate sulla strada in piena pandemia. Ma in generale sono aumentati gli sfratti perché, racconta Leslye Adhiambo, una studentessa del quartiere, “se la gente non lavora, non può avere i soldi per pagare l’affitto, ma ai proprietari non interessa: hanno tolto i tetti e le porte dalle case delle persone che non avevano pagato. Più di tutto la gente che vive qui pensa che il virus sia un’invenzione del governo per far mettere soldi nelle tasche dei politici”. Secondo il rendiconto delle donazioni presentato in Parlamento dal segretario alla salute Mutahi Kagwe, 42 milioni di scellini sono stati usati per noleggiare ambulanze, 4 milioni di scellini per tè e snack e 70 milioni per comunicazione. Spese su cui lo stesso presidente ha chiesto di fare chiarezza. Sono in corso, inoltre, diverse indagine sugli aiuti arrivati in diverse contee per spese inadeguate e appropriazione indebita. Tra gli effetti indiretti del coprifuoco vi sono le violenze della polizia: solo a giugno secondo l’Independent Policing Oversight Body 15 persone sarebbero state uccise dagli agenti. E poi tanti problemi interni alle famiglie tra cui le gravidanze di giovani ragazze in età scolare (almeno 4.000) perché secondo Leslye “le ragazze vanno a dormire senza niente nella pancia e vengono così facilmente adescate dal primo che le mette davanti un po’ di cibo”. Lo stesso presidente Uhuru Kenyatta ha chiesto che le crescenti violenze connesse anche alle restrizioni provocate dal corona virus, contro donne e ragazze, siano oggetto di indagine. Non ci sono dati ufficiali sul numero dei casi di violenza, ma le richieste di aiuto registrate sono state in giugno 1.108 contro le sole 86 di febbraio. Infine, per molti studenti rimasti a casa, l’impossibilità di accedere alle lezioni online perché privi di computer. Kenyatta ha esortato a “esercitare una responsabilità condivisa” nella lotta contro la pandemia. “Kenya mbele leo kesho na milele”: il Kenya andrà avanti oggi, domani, sempre.