Comunicato congiunto di Garanti dei detenuti e volontariato Ristretti Orizzonti, 7 luglio 2020 La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia si sono riunite il 02.07.2020 in un incontro in streaming, a cui ha partecipato anche l’Ufficio del Garante Nazionale. Finalità dell’incontro: aggiornarsi sulla situazione complessiva degli istituti e valutare la prospettiva di una ripresa delle attività che preveda anche il rientro nelle carceri dei volontari e dei soggetti del terzo settore. Pur non sottovalutando le difficoltà che la situazione attuale ancora presenta e tenendo altresì conto però di una situazione epidemiologica generale confortante, Conferenza dei Garanti territoriali e Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia propongono quanto segue: Ripresa attività trattamentali È necessario favorire un graduale ma costante percorso di ripresa dell’accesso degli operatori del terzo settore con i dovuti accorgimenti per la prevenzione del contagio. Pur consapevoli della necessità che al personale sia garantito il piano ferie, si auspica venga fatto ogni sforzo per non ridurre le attività trattamentali durante il periodo estivo. Attività in presenza: I volontari autorizzati si sottoporranno al triage di ingresso come tutti gli altri operatori. I colloqui individuali di sostegno si svolgeranno con adozione di distanziamento di m 1.50 tra operatore esterno e persone detenute e l’uso puntuale della mascherina protettiva e del gel igienizzante da parte di tutti. Incontri di formazione e attività rieducative/di reinserimento di gruppi limitati di detenuti si svolgeranno in spazi che consentano un significativo distanziamento dell’operatore dal gruppo (aree verdi, auditorium, sala teatro, biblioteca, campo da calcio). Attività da remoto: l’utilizzo delle tecnologie per i colloqui di sostegno individuale e per le attività di gruppo scolastiche, educative e ricreative dovrà essere potenziato, con la possibilità che ogni attività venga gestita sia in presenza degli operatori volontari, sia in remoto, quando questa può essere considerata una opportunità di ampliare e approfondire le iniziative con la partecipazione di esperti significativi dall’esterno. La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà si impegnano a: - monitorare, regione per regione, la ripresa delle attività in presenza e verificare, lì dove la Fase 2 non inizia, gli ostacoli esistenti - monitorare costantemente l’uso delle tecnologie, sia per i colloqui famigliari, sia per le attività rieducative/formative/di reinserimento - collaborare alla ricognizione delle risorse territoriali per la realizzazione dei programmi di reinserimento nella comunità esterna, anche per persone prive di risorse familiari, economiche, alloggiative; Al fine di far funzionare stabilmente la collaborazione tra Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e sue articolazioni regionali, si propone di dare cadenza stabile alle videoconferenze congiunte, che abbiano come obiettivo anche un coinvolgimento stabile nella programmazione pedagogica della vita degli Istituti penali da parte dell’Amministrazione penitenziaria. Carceri, finito l’effetto emergenza. La popolazione detenuta torna a crescere Redattore Sociale, 7 luglio 2020 Dopo il costante calo da marzo a maggio 2020, i numeri di fine giugno fanno segnare un’inversione di tendenza rispetto al periodo dell’emergenza. Oltre 53.500 i detenuti nelle carceri italiane. Capienza regolamentare ferma sui 50.500. L’effetto emergenza sanitaria per il Covid-19 sui numeri del sovraffollamento carcerario è già finito. Anche se debolmente, i dati della popolazione carceraria tornano a crescere dopo il costante calo fatto registrare da febbraio a fine maggio. L’aggiornamento fornito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 30 giugno 2020, infatti, parla di 53.579 detenuti negli istituti di pena italiani contro una capienza regolamentare di 50.501 posti distribuiti tra i 189 istituti presenti sul territorio italiano. Al 30 giugno, inoltre, gli stranieri detenuti sono 17.510, con un trend in continuo calo. Infine, sono 2.250 le donne detenute. I dati di giugno, così, mettono un punto ad un importante calo della popolazione penitenziaria registratosi proprio in piena emergenza. A fine febbraio, infatti, i detenuti nelle carceri italiane erano oltre 60 mila: un dato che da qualche tempo faceva preoccupare le associazioni, per via di una costante crescita registrata tra il 2019 e l’inizio del 2020. Il brusco calo di presenze in carcere registrato nei mesi del lockdown, invece, aveva fatto ben sperare. I dati della popolazione carceraria, infatti, negli ultimi tempi non sono stati mai così vicini a quelli della capienza regolamentare dichiarata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: basti pensare che a fine maggio si contavano poco più di 53,3 mila detenuti contro una capienza stimata dal Dap di circa 50,4 mila posti. Nonostante un rallentamento nel calo della popolazione penitenziaria registrato a maggio, il trend in diminuzione era stato confermato con l’aggiornamento del 31 maggio. Gli ultimi dati disponibili, invece, ci dicono che il trend è cambiato e il numero dei detenuti - anche se debolmente - sta tornando a crescere. Regia mafiosa dietro le rivolte in carcere? Un vero autogol, se fosse vero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 luglio 2020 Il procuratore nazione antimafia Federico Cafiero De Raho ha fatto sapere che stanno indagando sulle rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e il’11 marzo scorso. Quindi vuol dire che gli inquirenti hanno il sospetto che ci sia stata una regia mafiosa, una strategia fatta a tavolino coordinando i 49 istituti penitenziari del territorio nazionale protagonisti delle violente rivolte. A che pro questa presunta strategia da parte della criminalità organizzata? Un’arma di ricatto per ottenere i domiciliari, benefici vari e poi, secondo la versione che è stata fatta trapelare da alcuni magistrati e ipotesi giornalistiche, ottenuti con le famigerate “scarcerazioni”, o meglio la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute nei confronti di circa 500 detenuti reclusi per reati mafiosi. Misure, ricordiamo, concesse in tutta autonomia dai magistrati di sorveglianza. I detenuti comuni non si immolano per la mafia - Attendendo che l’indagine da parte della Direzione nazionale antimafia faccia il suo corso, è il caso di riportare i dati oggettivi. Il primo: non è plausibile pensare che i detenuti comuni, tra i quali gli extracomunitari, si siano immolati per la causa mafiosa arrivando, in alcuni casi, fino alla morte. Tutti coloro che hanno partecipato alle rivolte sono stati esclusi dal decreto “cura Italia”, la parte relativa alla possibilità di scontare la pena a casa se gli rimanevano meno di 18 mesi di carcere. Non solo. Oltre all’esclusione, rischiano di finire tutti sotto indagine e infatti, notizia di qualche giorno fa, la procura di Milano ha reso pubblico che 12 detenuti comuni del carcere di San Vittore sono indagati per l’episodio della rivolta. Si tratta di cinque italiani e sette stranieri dell’Algeria, del Marocco, della Tunisia e del Gambia. Presto ci saranno, molto probabilmente, altri detenuti che saranno coinvolte dalle procure per quanto riguarda le rivolte delle altre carceri. Altro dato da prendere in considerazione è che nella maggioranza delle carceri ci sono state proteste pacifiche, semplici battiture o sciopero della fame. In altre invece non è accaduta nulla, soprattutto quelle carceri - rare - dove l’attività trattamentale funziona e c’è un dialogo tra la direzione e i detenuti stessi. Il caso del carcere di Bologna - Negli stessi istituti dove sono scoppiate le rivolte, solo alcune sezioni vi hanno partecipato. Prendiamo il caso emblematico del carcere di Bologna. È composto da una sezione giudiziaria con una palazzina di tre piani, mentre il penale è una sezione indipendente dalla giudiziaria che ha degli spazi propri, dove c’è perfino la fabbrica metalmeccanica. Mentre la sezione giudiziaria è un mondo a parte - dove le misure trattamentali sono quasi del tutto inesistenti - quella penale ha diverse attività e il sistema rieducativo risulta efficace. Non è un caso che i detenuti che vivono in quest’ultima sezione, non hanno partecipato alle violente proteste. Così come non è stato un caso che, alla sezione giudiziaria stessa, gli unici che non si sono uniti con gli altri detenuti sono coloro che formano una squadra di rugby. La causa delle rivolte, come ha spiegato il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, sono nate da diversi fattori che si sono concatenati. Prima di tutto un grande errore comunicativo che ha fatto percepire il decreto, in fase di approvazione, come una norma che avrebbe chiuso tutto per molti mesi. Questo, a chi vive in una realtà già chiusa e dove l’emergenza coronavirus si amplifica di più rispetto a chi vive nel mondo libero, ha provocato una duplice ansia. Non a caso Modena, il carcere centro della rivolta e dove ci sono scappati i morti, ha visto i primi casi accertati di Covid. Alla notizia di un primo contagio, la protesta si è accesa fino a degenerare. Come avrebbe potuto, la mafia, anticipare a tavolino una protesta del genere? L’altro dato certo è che, tranne rare eccezioni, i detenuti accusati o condannati definitivamente per mafia, non hanno partecipato alle proteste. In alcuni casi sì, ma si tratta degli istituti campani dove i camorristi - che hanno una struttura e modus operandi diverso dalla mafia - hanno via via partecipato. Ma questo, per chi conosce le vicende carcerarie, non sorprende. Basterebbe, ad esempio, leggere il libro “Uscire dalla Mafia: Storia di uno “sgarrista” scritto a quattro mani da Ruggero Toni e Marco Aperti. È il racconto, vero, in prima persona di un ex camorrista che ha vissuto il carcere, una storia sofferta che alla fine si conclude con un riscatto. Racconta che quando negli anni 90 finì recluso nel supercarcere di Sulmona, a un certo punto scoppiò una rivolta guidata dai camorristi perché si lamentarono della mancata concessione dei permessi per trascorrere qualche giorno in famiglia. La mafia non partecipa alle rivolte in carcere - Ma la mafia siciliana è diversa. Mai, nella storia, ha partecipato alle rivolte, anzi le hanno da sempre ostacolate. Sono maggiormente rispettosi delle regole penitenziarie rispetto ai detenuti “comuni” e apprezzano l’ordine e la disciplina anche se ciò comporta per loro alcune privazioni che sul momento possono contestare. Il detenuto mafioso “accetta” l’istituzione carceraria in quanto è portatore di un suo sistema di regole, non la contesta drasticamente come fanno i detenuti comuni o quelli politici tipo gli anarchici. L’accettazione del carcere da parte del detenuto mafioso deriva anche dalla sua consapevolezza di dover trascorrere un lungo periodo di tempo di reclusione e, pertanto, ha generalmente interesse a una apparente tranquillità, perché sa che disordini o atti di indisciplina che turbano la vita del carcere provocano maggiori controlli e comportano l’adozione di provvedimenti quali trasferimenti e l’irrigidimento da parte degli operatori penitenziari. Ed è esattamente quello che è successo dopo le rivolte. Trasferimenti, presunti pestaggi da parte degli agenti penitenziari e norme più dure. Siamo sicuri che ci sia stata una regia mafiosa dietro queste rivolte? L’allarme del giudice anticamorra Maresca: “Se torna il virus nelle carceri sarà liberi tutti” Metropolis, 7 luglio 2020 “Errare è umano ma perseverare è diabolico”. Una frase durissima. L’ennesimo sfogo. Un altro grido di dolore. Ancora un allarme. Il magistrato antimafia Catello Maresca, noto per le sue battaglie contro il clan dei Casalesi, non digerisce la nuova circolare del Dap, pubblicata lo scorso 30 giugno, nella quale, evidenzia anche sul web il sostituto procuratore della Corte di Appello di Napoli, è previsto “al primo posto, l’importanza “di proseguire, ove possibile, il percorso già avviato, di progressiva riduzione del sovraffollamento delle strutture” e all’ultimo “di favorire l’applicazione di misure alternative alla detenzione per tutte le persone che presentano gravi patologie che possono essere significativamente complicate dal Covid-19”. Non ci resta che sperare - scrive il magistrato - che non torni il Covid-19, altrimenti ci sarà sicuramente un altro “liberi tutti”. Praticamente - spiega Maresca - passa di nuovo il messaggio che nelle carceri non si possano assicurare dignitosi percorsi sanitari e terapeutici. Cosa peraltro non vera. E anche questa volta non fanno cenno alcuno ai mafiosi detenuti, né al 41bis, quasi non esistessero”. Sia chiaro: sul punto il ministero della giustizia smentisce. Dice che non v’è alcuna conferma di quelle disposizioni citate da Maresca né risultano essere presenti nei documenti le frasi citate. Il giudice anticamorra è un fiume in piena. “Inizio a pensare davvero - sottolinea Maresca - che aveva ragione Giovanni Falcone quando sosteneva che “se le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così… ma quando c’è da rimboccarsi le maniche ed incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare”. Il magistrato ricorda anche che nei giorni scorsi, il Consiglio d’Europa, ha adottato un provvedimento con il quale vengono aggiornate le regole penitenziarie europee, risalenti al 2006: nel provvedimento, spiega, si prevede “sia limitato il più possibile il 41bis a casi specificatamente previsti”, a causa dei deleteri effetti sulla salute. “Praticamente - conclude Maresca - l’ennesima picconata al carcere duro, baluardo alla lotta alle mafie, inventato da Giovanni Falcone”. In una nota il ministero della Giustizia definisce “destituito di ogni fondamento”, quanto riportato sul contenuto della circolare del Dap del 30 giugno 2020, e in particolare l’affermazione che nel testo sarebbe prevista “al primo posto, l’importanza “di proseguire, ove possibile, il percorso già avviato di progressiva riduzione del sovraffollamento delle strutture” ed all’ultimo “di favorire l’applicazione di misure alternative alla detenzione per tutte le persone che presentano gravi patologie che possono essere significativamente complicate dal Covid-19”. La menzionata circolare del 30 giugno non contiene neanche una sola delle frasi virgolettate sopra riportate. Essa peraltro non riguarda, neanche indirettamente, il tema del sovraffollamento e delle scarcerazioni - precisa via Arenula -. Si tratta invece di una circolare che, proprio nella prospettiva del ritorno alla normalità (anche all’interno delle carceri) correlato alla cosiddetta fase 2, fornisce alcune indicazioni generali sulla ripresa delle attività trattamentali e dei colloqui all’interno degli istituti penitenziari. Proprio e solo a questi fini, la circolare fa riferimento alle indicazioni contenute in una “bozza” di protocollo predisposto da un gruppo di lavoro del ministero della salute, di cui si richiamano espressamente alcune e specifiche pagine, che riguardano l’isolamento precauzionale cui sottoporre i detenuti che rientrano in carcere in questa nuova fase sanitaria. Neanche i punti della bozza di protocollo espressamente richiamati dalla circolare contengono le espressioni virgolettate sopra riportate. È quasi superfluo specificare che ogni attività del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria è ispirata all’obiettivo irremovibile di garantire, in ogni modo possibile, il pieno rispetto del diritto alla salute dei detenuti all’interno degli istituti penitenziari e delle strutture sanitarie ad essi collegate” aggiunge il ministero, spiegando che la precisazione serve a “evitare che la diffusione di informazioni così palesemente errate e distorte finisca per ingenerare gravissimi affidamenti e, quindi, per turbare quel difficile equilibrio che connota le dinamiche penitenziarie e che tutti gli interlocutori del dibattito pubblico dovrebbero avere responsabilmente a cuore”. Gherardo Colombo: “Anche tra i magistrati prevale l’opportunismo” Il Dubbio, 7 luglio 2020 E sulle carceri Colombo non ha dubbi: “Costituisce solo vendetta: imbarbarisce, e crea rancore, e cioè disponibilità a commettere di nuovo reati”. “Se la cultura generale è quella della convenienza di parte e dell’opportunismo, è ovvio che ne siano contagiati anche dei magistrati. Anche per loro, però, come per qualsiasi altra categoria, non farei di ogni erba un fascio”. Ad affermarlo in un’intervista al quotidiano Libero è l’ex pm di Milano Gherardo Colombo che poi, sulle istituzioni in generale, spiega: “Se perdono credibilità, contribuiscono a indebolire il senso della collettività, con grave danno per tutto il Paese”. Il caso Palamara - Quanto al caos della giustizia e alla delegittimazione di molti vertici della magistratura, osserva: “Le cose camminano lente e ho la sensazione che per poter vedere con chiarezza debba passare ancora tempo”. In Italia, sottolinea ancora Colombo siamo di fronte a “un periodo di grande cambiamento ed enorme confusione. Tanti punti di riferimento contrastano tra loro ed è difficile orientarsi. Mi pare diffuso un moralismo esasperato, che mette sullo stesso piano situazioni molto serie ed episodi banali. Nelle stesse persone coincidono intransigenza verso il prossimo, o il rivale, e indulgenza verso se stessi”. È “una contraddizione alla quale ormai non ci si preoccupa più neppure di trovare una giustificazione ideologica. Mi ricorda Mani Pulite, quando tanti italiani indignati chiedevano il rigoroso rispetto delle regole da parte altrui, ma ritenendosi liberi di violarle a piacimento”, conclude. Il carcere è solo vendetta - E sulle carceri Colombo conferma la sua posizione: “Non credo più che la prigione sia educativa, mi sono accorto che generalmente non serve alla sicurezza dei cittadini, e vedo che raramente rispetta le persone che ci vivono. A chi è pericoloso va impedito di poter agire a danno degli altri, ma gli vanno comunque garantiti i diritti previsti dalla Costituzione”. “Se il carcere - aggiunge - garantisse spazio vitale, igiene, salute, istruzione, attività fisica e rapporti affettivi, come in altri Paesi, sarebbe meno difficile riguadagnare il trasgressore a rapporti armoniosi con la società. Ma, se guardiamo al carcere in Italia, vediamo che costituisce, salvo rare eccezioni, solo vendetta: imbarbarisce, e crea rancore, e cioè disponibilità a commettere di nuovo reati” Udienze da remoto in via sperimentale fino al 31 ottobre di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2020 Ci sarà spazio fino al 1° novembre per la prosecuzione di alcune delle modalità di svolgimento dell’attività giudiziaria sperimentate in questa fase di emergenza sanitaria. A questo risultato punta l’emendamento approvato al decreto rilancio, che ne riscrive l’articolo 221. L’obiettivo è di provare a consolidare un’esperienza che ha dato, anche attraverso l’utilizzo in maniera assai più accentuato di tutte le modalità “da remoto”, prove positive che sarebbero andate disperse e che in realtà si sono già in larga parte concluse con l’avvio, da luglio, della fase 3, di ritorno alle procedure abituali nello svolgimento della giurisdizione. In buona sostanza, fino al 31 ottobre, sarà introdotta una serie di misure sperimentali tra cui il deposito telematico anche degli atti introduttivi nel processo civile e il pagamento digitale del contributo unificato. Spazio anche allo svolgimento dell’udienza civile attraverso il deposito telematico di note scritte quando non è richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori. Per quanto riguarda poi lo svolgimento del giudizio in Cassazione, la logica resta la medesima, ammettendo il deposito telematico di atti e documenti da parte degli avvocati nei procedimenti civili con l’assolvimento telematico dell’obbligo di pagamento del contributo unificato e delle anticipazioni forfettarie. Nelle udienze civili, su richiesta delle parti o del difensore, la partecipazione potrà avvenire anche attraverso collegamenti audiovisivi a distanza. La parte potrà però partecipare all’udienza solo dalla medesima postazione a cui si collega il difensore. La domanda di partecipazione attraverso collegamento a distanza dovrà essere depositata almeno 15 giorni prima della data fissata per lo svolgimento dell’udienza. Il giudice dispone poi la comunicazione alle parti della richiesta, dell’ora e delle modalità del collegamento almeno 5 giorni prima dell’udienza. Sempre con il consenso delle parti, il giudice può disporre la trattazione attraverso collegamenti da remoto dell’udienza civile che non richiede la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice. Sul fronte penale, spazio alla partecipazione, dietro espresso consenso, a qualsiasi udienza degli imputati detenuti a qualsiasi titolo, se possibile attraverso l’utilizzo di collegamenti audiovisivi a distanza. Inoltre, su richiesta dell’interessato o quando la misura è indispensabile per proteggere la salute delle persone detenute, è legittimo lo svolgimento a distanza, con apparecchi e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria dei colloqui non solo con i congiunti. Infine, si allarga, ma serviranno delle misure attuative da parte del ministero della Giustizia, la possibilità di deposito telematico degli atti nella fase delle indagini preliminari. Il deposito deve essere considerato perfezionato al momento della ricevuta di accettazione da parte dei sistemi dell’amministrazione della giustizia. Magistrato o avvocato, la selezione è severa. Nei paesi del Nord la toga è una “religione” di Renato Luperini Il Dubbio, 7 luglio 2020 Come si regolano inglesi e tedeschi, calvinisti o luterani che siano. La tesi di Max Weber su etica protestante e spirito capitalista ha fatto scrivere intere biblioteche. Potenza di un classico. È un accostamento geniale quello tra sfera religiosa e attività economica, due mondi che sembrano opposti, ma del resto se “la filosofia è la domenica della vita” come diceva un altro tedesco (e per giunta protestante) come Hegel, occorre trovare un equivalente per gli altri giorni della settimana. Il diritto è sicuramente materia da giorno feriale ma risente anch’esso della concezione religiosa del popolo che lo esprime. Prendiamo un tema attualissimo, come la selezione dei magistrati e confrontiamo le differenti scelte di alcuni Paesi Europei. È singolare vedere come i criteri cambino a seconda della religione storicamente prevalente e della concezione del laico nella Chiesa. Il primo modello è quello dei Paesi anglosassoni, di cultura religiosa prevalentemente calvinista. Qui i magistrati, esattamente come i pastori d’anime, non costituiscono una categoria a parte rispetto al laicato: vengono scelti, spesso su base elettorale, tra gli avvocati di maggiore età ed esperienza. Il magistrato non è il rivale dell’avvocato: è semplicemente un suo collega più anziano. Del resto il magistrato nei casi più importanti è solo un arbitro: a decidere la colpevolezza o l’innocenza nei processi più gravi è una giuria laica. Lo stesso avviene nelle Chiese riformate di tipo calvinista o metodista: il predicatore non ha un carisma diverso dai fedeli ; è semplicemente uno di loro che ha fatto uno studio teologico. Il secondo modello è quello tedesco, dove notoriamente la religione prevalente è quella protestante luterana. L’errore di molti italiani è di fare dell’erba evangelica tutto un fascio e confondere calvinisti e luterani. Questi ultimi sono molto più vicini ai cattolici, tanto che il termine “protestanti” equivaleva a “cattolici dissidenti” almeno nei primi anni della loro esperienza. Per i luterani il pastore ha un ruolo più spiccato e distinto dal popolo, pur facendone parte. Infatti in Germania la formazione di magistrati e avvocati è la stessa: escono tutti dal severissimo “secondo esame di diritto” (non si può provare più di due volte) e hanno una solidissima formazione teorica comune che li rende sostanzialmente equiparati, anche nella disposizione dei banchi in aula. È lo stesso sistema con cui in Germania si formano gli uomini di Chiesa: studi universitari selettivi e primato sul popolo fondato non sull’autorità o un carisma soprannaturale, ma sulla superiore conoscenza. Hegel sul punto scrisse uno dei suoi ultimi discorsi, celebrando il trecentesimo anniversario della Confessione Augustana del 1530 che segnò l’inizio della Chiesa Luterana. Da noi i magistrati sono come i preti (nessuno si risenta da ambo le parti dell’accostamento). Prendono la toga (o la tonaca) da giovani e tendenzialmente per tutta la vita, sono selezionati per studi e condotta e costituiscono un ordine chiuso e ben separato dai laici che hanno il compito di ammaestrare e ammonire. Ogni controllo esterno, specie da parte della componente del laicato più vivace e polemica (come è in ambito giudiziario l’avvocatura) li irrita e sconcerta: reclamano con forza la necessità di controlli esclusivamente interni, in virtù e in ragione di un ministero e di un carisma che viene loro dall’alto. Curiosamente uno dei centri di formazione dei magistrati italiani era nei Castelli Romani a pochi chilometri dal bosco sacro di Ariccia dove Frazer ambienta il suo memorabile finale del “Ramo d’Oro”, il saggio sul rapporto tra sacerdozio e magia nelle civiltà di ogni tempo. Chi si illude con sorteggi e riforme di cambiare la magistratura italiana sappia che si muove all’interno di un bosco sacro, pieno di spiriti arcani. De Robert: “Il Tso per il Covid è lecito, ma si decida se con o senza arresto” di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 luglio 2020 Il Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, è una misura estrema, che fa giustamente paura: evoca violazione delle libertà personali e persino contenzione e violenza. Istituito nella nostra Repubblica dalla legge 180/78, al fine di salvaguardare la salute del malato psichico che non è consapevole delle proprie condizioni ed è dunque momentaneamente incapace di intendere e volere, il Tso è previsto dalla Costituzione (art. 32), che però lo subordina a eventuali disposizioni di leggi che affrontino i diversi ambiti sanitari. È regolato dagli articoli 33, 34 (nel caso della salute mentale) e 35 della riforma sanitaria, l. 833/78. Ma, come avveniva prima della legge Basaglia, si sono altri ambiti che prevedono il Tso a tutela, questa volta, della salute pubblica. Nel caso delle malattie infettive e diffusive, come la tubercolosi, il trattamento è regolato dal testo unico delle leggi sanitarie (ex. art. 253 l. 1265/1934) che istituisce “l’obbligo di notifica, di visite preventive, di vaccinazione a scopo profilattico, di cura attuata mediante l’isolamento domiciliare, ricovero in reparti ospedalieri ecc.”, come spiegano Michele Zagra e Antonina Argo in “Medicina legale orientata per problemi”, pubblicato da Edra. Nel saggio del 2018 i docenti ricordano che il Tso è previsto anche nel caso di malattie veneree in fase contagiosa “di cui all’art. 6 della legge n. 837 del 25/07/1956, per le quali si obbliga il paziente che rifiuta le cure a sottoporsi al trattamento radicale e alle altre misure idonee per evitare il contagio, incluso il ricovero ospedaliero fino alla scomparsa delle manifestazioni contagiose”. Eppure, l’intreccio di norme che regolano l’Accertamento e il Trattamento sanitario obbligatorio è talmente intrigato che perfino il ministro Speranza ha dato mandato ai tecnici del suo ufficio legislativo di studiare il quadro normativo per verificare se esiste la necessità di una nuova legge che imponga il Tso in casi di Covid conclamato e rifiuto della quarantena. Ma c’è anche chi si schiera assolutamente contro qualunque tipo di imposizione sanitaria, invocando semmai il ritorno alle sanzioni penali e confidando nella solita galera. In ogni caso, poiché si tratta di provvedimenti limitativi della libertà personale, ne abbiamo parlato con Daniela De Robert, componente del collegio del Garante nazionale diretto da Mauro Palma. Secondo lei c’è bisogno di un intervento normativo, nel caso si volesse imporre il Tso per il Covid-19? Qui bisogna fare chiarezza. Ci sono due tipi di Tso: con privazione della libertà e senza. Se si mette in gioco la libertà personale, come nel caso di un Tso psichiatrico, si entra nel campo dell’articolo 13 della Costituzione e quindi dei poteri dell’autorità giudiziaria. Ma ci sono Tso come le vaccinazioni che non prevedono privazioni di libertà personale. Quindi direi che il Tso è previsto in casi come questa pandemia in base all’articolo 33 della legge 833, ma bisogna decidere come attuarlo. Se si intende procedere con quarantena obbligatorio, con piantonamento del paziente, ecc. allora si tratta di un arresto per ragioni sanitarie e serve la convalida dell’autorità giudiziaria. Se invece al “positivo recalcitrante” si applica il Tso non coercitivo, un obbligo di dimora ma senza privazione della libertà, magari aumentando le multe o applicando contravvenzioni che finiscono sulla fedina penale, si entra nel campo dell’isolamento fiduciario basato sulla cosiddetta compliance (adesione al trattamento, ndr), che funziona meglio. Insomma, se si decide di farlo, va definito il come. Per il Garante è discriminante sapere se c’è o no privazione della libertà personale. Nel caso ci fosse, sareste contrari? In generale riteniamo che la privazione della libertà sia l’estrema misura, preferiamo sempre l’alternativa, se c’è. Nello spirito dell’art. 32 della Costituzione, il legislatore deve trovare il giusto equilibrio tra la tutela della salute collettiva e le libertà individuali. E in questo caso particolare? Si può trovare una modalità di trattamento obbligatorio ma non coercitivo. Si tratta di misure estreme e c’è il rischio di trasformare tutto in imposizione. Inoltre qui parliamo di un comportamento non molto diffuso, a quanto sembrerebbe. C’è però chi chiede di applicare piuttosto sanzioni penali, ma di non toccare la libertà di cura o non cura. Lei cosa ne pensa? Riguardo le sanzioni penali, di quale tipo di reato stiamo parlando? Nel caso di diffusione volontaria o colposa dell’epidemia il codice penale prevede già il reato. Di evasione? Non è contemplato neppure nei centri per migranti. E allora? In ogni caso non è possibile che tutte le soluzioni siano penali. Abbiamo carceri piene di persone che se fossero state intercettate prima dai servizi forse non sarebbero finite in carcere. Non possiamo trasformare ogni problema sociale in un reato. Inoltre, con i tempi della nostra giustizia cosa ne otteniamo? L’esigenza di tutelare la collettività oggi passerebbe in secondo piano, e rimarrebbe solo la punizione domani. Il carcere produce solo altri problemi, non è la bacchetta magica. Meglio il Tso oggi, semmai, se voglio garantire la salute di tutti. La retata in diretta tv di Platì di Francesca Spasiano Il Dubbio, 7 luglio 2020 Più di cento arresti e soltanto otto condanne. il racconto di Ilario Ammendolia: “Arrivarono con gli elicotteri e portarono via mezzo paese”. “Quando arresti una persona perbene, questa non lo dimenticherà mai perché subisce la violenza di Stato”. Secondo Ilario Ammendolia, intellettuale della Locride ed ex sindaco di Caulonia, in Calabria lo Stato sbaglia due volte: lasciando prima il territorio in condizioni di ingiustizia e sottosviluppo, e poi gettando la società civile in pasto ai pregiudizi dell’intero Paese e dell’opinione internazionale. Con lui ripercorriamo la vicenda che quasi vent’anni fa sconvolse Platì, piccolo centro dell’Aspromonte che nell’immaginario pubblico è diventato uno dei luoghi simbolo della ‘ ndrangheta. È il 12 novembre 2003: nel cuore della notte un migliaio di uomini in divisa cinge d’assedio il paesino della Locride arrestando oltre cento cittadini. In manette due ex sindaci, funzionari comunali, il vescovo e “lo “scemo del villaggio”, a cui i compaesani per calmarlo raccontarono la pietosa bugia che lo avrebbero portato in pellegrinaggio da Padre Pio”. La maxi operazione “Marine”, coordinata dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri, mirava a sventare un sistema criminale che dalle ndrine locali sarebbe passato per le istituzioni comunali. Lunga la lista di reati ipotizzati: associazione per delinquere di stampo mafioso, voto di scambio, abuso in atti d’ufficio, falso, estorsione. Secondo l’accusa, le cosche - identificate con i clan dei Barbaro, egemoni sul territorio agivano indisturbate da Platì acquisendo il monopolio degli appalti pubblici e guidando parallelamente traffici illeciti. Nell’ambito dell’operazione venne scoperta e distrutta anche una rete di bunker e cunicoli che avrebbe permesso ai latitanti di nascondersi e di occultare le vittime di sequestro. Ma l’intero castello accusatorio dell’inchiesta crollò presto. Già in sede di convalida, il Tribunale del riesame aveva rimesso in libertà la maggior parte degli indagati. A fine processo, su 44 imputati giudicati con rito abbreviato, le condanne sono solo otto, di cui almeno cinque per reati minori. Per altri 19, per i quali si procedeva con rito ordinario, arriva la prescrizione. Nel 2015 infatti, una sentenza della Corte D’Appello di Reggio Calabria derubrica il reato a loro contestato: l’associazione per delinquere semplice, benché riconosciuta in alcuni casi, non avrebbe agevolato le ‘ndrine. Intanto per il comune di Platì comincia il calvario amministrativo e politico. Sciolto per condizionamento mafioso a più riprese, viene retto negli anni da commissioni straordinarie e riorganizzato con un esteso programma di lavori pubblici. Con un fallimento elettorale dietro l’altro, nessuna rappresentanza politica riesce a stabilirsi al comando: dal 2012 il comune, nuovamente commissariato, non ha né un sindaco né un consiglio comunale. “Bisogna rivedere tutta l’impostazione strategica nella lotta alla mafia. Le maxi retate fanno grande rumore ma la ‘ndrangheta ne esce rafforzata”, spiega Ammendolia, autore del saggio critico “La ‘ ndrangheta come alibi. Dal 1945 ad oggi” e direttore del settimanale Jonico “Riviera”. Una strategia che per l’ex sindaco non è certamente quella di “chi ha consapevolmente trasformato la sacrosanta lotta alla ndrangheta in un palcoscenico su cui discutibili comparse recitano la parte degli eroi aprendosi la strada a colpi scena destinate a trasformarsi in “notizie fragorose” sui media nazionali”. Dell’operazione Marine - e di altri maxi blitz che negli anni hanno reso celebre il procuratore Gratteri - Ammendolia aveva studiato le carte fin da subito scovandone contraddizioni ed errori grossolani. Secondo la sua tesi, il fallimento di inchieste così ambiziose non farebbe che rafforzare le mafie restituendo un’immagine indebolita dello Stato. “È la crisi della democrazia - aggiunge per cui tra i cittadini prevale il sentimento del “si salvi chi può”. Con operazioni da guerra lampo come “Marine”, si tenta, ed in parte ai riesce a saldare in un unico fronte gli ndranghetisti e le persone innocenti vittime di assurde repressioni di massa”. Dell’efficacia di quell’operazione così estesa ricorda di aver subito dubitato, nonostante il clamore mediatico che produsse. La notizia degli arresti era su tutte le prime pagine. Ne parlarono anche i giornali stranieri, tra cui il New York Times e la BBC. “Così si produce uno sguardo ingessato sulla Calabria”, conclude Ammendolia, che si sofferma in una riflessione sulla giustizia- spettacolo. “Anche se i periodi di detenzione sono stati brevi - sottolinea - e le sentenze si sono incaricate si ridimensionare la portata dell’operazione, nell’immaginario comune resta la cultura del sospetto”. Ingiusta detenzione, sì all’indennizzo dell’intero periodo cautelare di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2020 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 7 luglio 2020 n. 20010. Il giudice non può limitare la riparazione per l’ingiusta detenzione alla sola differenza tra la detenzione sofferta e la pena comminata, se il reato accertato con la condanna - a differenza di quello per cui vi è stata l’imputazione - non consenta l’adozione di misure cautelari personali. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 20010 depositata ieri - ha, infatti affermato il principio secondo il quale è ab origine ingiusta la detenzione per un fatto che determina la commissione di un reato per il quale è esclusa la detenzione cautelare in quanto prevede un massimo edittale di pena inferiore ai cinque anni. E, a nulla rileva, l’eventuale concessione della sospensione condizionale della pena. Cioè il riconoscimento del beneficio non cancella l’illegittimità della misura restrittiva adottata nei confronti di chi ha commesso un reato che ne esclude l’applicazione. Così come è pienamente legittima, e non dà diritto a indennizzo, la detenzione cautelare subita nel caso in cui venga poi concessa la sospensione condizionale della pena comminata se il presupposto per la misura non è contenuto nel titolo di reato per cui c’è stata condanna. La vicenda riguardava una condanna per turbativa d’asta in base al comma 1 dell’articolo 353 del Codice penale. Con esclusione - però - dell’aggravante del comma 2 dello stesso articolo. Infatti, solo in tal caso il massimo di pena previsto avrebbe reso giustificabile la misura cautelare. Ma una volta esclusa l’aggravante e accertata la commissione del reato solo in base alla previsione del primo comma dell’articolo 353 del Codice penale la misura limitativa della libertà personale veniva a perdere in radice il presupposto della propria legittimità con conseguente riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione subita. Friuli Venezia Giulia. Un detenuto su 4 è in carcere per reati legati allo spaccio di droga di Christian Seu Messaggero Veneto, 7 luglio 2020 Lo rivelano le statistiche del libro bianco sugli stupefacenti Rimangono i problemi di sovraffollamento negli istituti. Un quarto dei detenuti nelle carceri del Friuli Venezia Giulia si trova dietro le sbarre per reati legati al traffico e allo spaccio di stupefacenti. Lo rivelano le statistiche dell’undicesimo Libro Bianco sulle droghe, pubblicato nei giorni scorsi dalla Società della Ragione assieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoop sociali. Il dossier e stato presentato ieri a Udine dall’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone. “Il carcere non può essere ridono a quel che è oggi, una discarica sociale frutto della politica fallimentare sulle droghe”, evoca Corleone. citando i trent’anni dell’applicazione del Testo unico sulle sostanze stupefacenti Iervolino-Vassalli. Quella legge - prosegue l’ex senatore - è il volano delle politiche repressive e carcerarie: senza detenuti per l’articolo 73 o senza tossicodipendenti non si avrebbe sovraffollamento nelle carceri”. A livello nazionale, 13.677 dei 46.201 ingessi in carcere nel corso del 2019 sono stati causati da imputazioni o condanne basate proprio sul citato articolo 73. “La legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto - indicano gli estensori del Libro Bianco - sono decisivi nella determinazione dei saldi della repressione penale: la decarcerizzazione possa attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alle sostanze stupefacenti. Così come le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coattivo si fondano sulla loro criminalizzazione”. Nelle prigioni del Fvg sono detenute 593 persone (23 le donne), di cui 208 stranieri, rispetto a una capienza complessiva fissata a 464 posti. Il sovraffollamento riguarda in particolare Trieste (163 detenuti su una capienza di 136). Pordenone (37-58). Tolmezzo (149-215) e Udine (90-130). I dati sui detenuti per tipologia e stato di tossicodipendenza citati dallo studio rimandano invece al 31 dicembre dello scorso anno. Dei 656 soggetti in carcere 176 erano accusati o condannati per reati connessi alla droga, mentre 169 risultavano essere tossicodipendenti. “Si tratta di un modello di giustizia etica, che porta incarceri! le persone entrate in contatto con la droga, ma non per esempio chi commette reati ambientali, truffe informatiche”, indica Corleone. La pubblicazione si è occupata anche del fenomeno del consumo e dello spaccio di stupefacenti nel periodo del lockdown: “In questa fase i consumatori hanno dimostrato capacità di autoregolazione, con adeguamento alla situazione e minimizzazione dei rischi”, indica l’ex sottosegretario. E a proposito di Covid, le associazioni che curano i percorsi di reinserimento auspicano un graduale ritorno alla normalità: “Non c’è più motivo di ostacolare il rientro in carcere dei volontari - spiega Roberta Casco, presidente di Icaro. È urgente reintrodurre una vita sociale nelle carceri, interrompendo l’attuale allontanamento al fine costituzionale della pena, ovvero la rieducazione e il reinserimento” Calabria. Il Garante “Nelle carceri criticità per assistenza sanitaria e sovraffollamento” zoom24.it, 7 luglio 2020 A denunciarlo il Garante dei diritti dei detenuti che però precisa: “Ci sono 2631 detenuti a fronte di una capienza di 2734, quindi sotto la soglia di sovraffollamento. Dato positivo ma non sufficiente”. “Purtroppo, non sono una novità i dati pubblicati di recente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria relativi alla situazione delle dodici carceri calabresi e riprese dai quotidiani locali, almeno non per il Garante”. A dichiararlo è proprio il Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Calabria, Agostino Siviglia. “Per vero, fin dall’inizio del mio inserimento - continua Agostino Siviglia - nell’agosto 2019, ho avuto modo di visitare tutte le carceri calabresi e di constatarne le annose criticità, in specie, relative all’assistenza sanitaria ed al sovraffollamento carcerario, con negativi riverberi sul fronte trattamentale, ma anche alla atavica carenza di personale di Polizia Penitenziaria, Giuridico-Pedagogico, Sanitario ed Infermieristico”. Diritto alla salute dei detenuti. “Di recente sono intervenuto in maniera decisa - prosegue Siviglia - proprio sul fronte del diritto alla salute delle persone detenute, in particolare, presso il carcere di Reggio Calabria-Arghillà, e per la prima volta dall’inaugurazione, di quell’istituto penitenziario, a far data dal 1 giugno 2020, viene garantita la copertura infermieristica H24. Così come dopo ben undici anni ha ripreso a funzionare - grazie alle sollecitazioni dello stesso garante regionale - l’Osservatorio regionale permanente per la sanità penitenziaria, che proprio lo scorso 10 giugno si è riunito per la prima volta, aggiornandosi al prossimo 8 luglio, per la predisposizione della fondamentale rete regionale sanitaria che interessi tutti e dodici gli istituti penitenziari della Calabria, al fine di predisporre modelli operativi e strutturali di assistenza sanitaria in carcere”. Grave carenze delle carceri calabresi. “Certo, non sfuggono le complesse problematiche che riguardano il corpo di polizia penitenziaria, né le recenti aggressioni subite dagli stessi agenti, così come dal personale medico ed infermieristico, rispetto alle quali - come Garante - ho espresso la mia più ferma condanna ed esecrazione”. Ma i problemi non si fermano qua: “Specie in alcuni istituti penitenziari calabresi, gravi carenze strutturali e trattamentali che si riverberano negativamente sulle condizioni delle persone detenute che, di certo, non smettono di essere cittadini perché detenuti e ai quali, evidentemente, va garantito il rispetto della dignità umana”. 2.631 detenuti su 2.734: sotto la soglia di sovraffollamento. “Quanto ai numeri riportati dal Dap e dalla stampa locale, va evidenziato - continua il Garante - che si tratta di persone e non di numeri e che, per la verità, le persone detenute in Calabria alla data del 30 giugno 2020, erano 2631, a fronte di una capienza regolamentare di 2.734, quindi sotto la soglia di sovraffollamento. Certo, questo dato non può comunque essere sufficiente, seppur positivo, per disattendere le legittime richieste che provengono dal cosiddetto “pianeta carcere”, sia per quanto riguarda la carenza di personale su richiamata sia per quanto riguarda le morti, i suicidi, le violenze che nel carcere ancora trovano tragico - e quotidiano - compimento. Servono risposte e impegno collettivo. “La vita di tutta questa umanità reclusa, merita risposte di senso ed un impegno collettivo. Per parte mia - conclude Agostino Siviglia - continuerò ad intervenire, quotidianamente, sulle questioni di mia competenza, in attesa di riferire nelle sedi istituzionali sull’attività svolta e su quella prospettica, certo che le complesse problematiche che riguardano il carcere e, più in generale, tutte le persone che si trovano a vario titolo nei luoghi di privazione della libertà personale, saranno poste al centro dell’interesse politico e civile della Regione Calabria”. Torino. Concluso il mandato della Garante dei detenuti di Federica Cravero La Repubblica, 7 luglio 2020 Monica Cristina Gallo: “Serve più impegno per un carcere meno opaco”. Sono stati cinque anni di lavoro e traguardi raggiunti ma ora è tutto fermo. L’immobilismo dopo la pestilenza non fa bene ai reclusi. “Sono stati cinque anni di lavoro, di traguardi raggiunti, di impegno nel mondo della giustizia, nella tutela dei diritti, nell’attenzione nel prossimo, spesso dimenticato perché recluso in spazi degradati e periferici. E ogni anno è cresciuto in me il desiderio di fare di più, di osservare con sguardo più attento luoghi e persone, di coinvolgere la cittadinanza che, stimolata, ha saputo contribuire e rispondere con progetti e risorse”. Saluta così la fine del primo mandato da Garante dei detenuti della Città di Torino Monica Cristina Gallo, che ha scritto di nuovo il suo nome nella rosa di sei candidati tra i quali la sindaca Chiara Appendino dovrà scegliere entro il 17 luglio per affidare il prossimo mandato. “Alcuni dicono di noi che siamo stati in grado di rendere il carcere meno opaco, ma io credo che adesso l’impegno vada ancora più intensificato. Lo dico a chiunque debba diventare il prossimo garante, anche se non fossi io: c’è da fare tanto perché il carcere si è fermato, si è fermata la scuola, l’università, il lavoro esterno. L’immobilismo dopo la pestilenza non fa bene alla comunità reclusa”, è il messaggio d’intenti di Monica Cristina Gallo per i prossimi cinque anni. Qual è il risultato di cui va più fiera di questo mandato? “Aver portato a lavorare nel nostro ufficio volontari, tirocinanti e ragazzi del servizio civile. Insegnare a questi giovani come guardare in modo positivo al carcere è utilissimo per la nostra società, molto più che parlare nei convegni a chi sa già tutto. E poi sono contenta di non aver rotto con nessuno, neanche nei momenti in cui il confronto è stato più duro”. Ma c’è stata una volta in cui ha detto “no”? “Una volta in particolare, quando non ho firmato un protocollo che prevedeva lavori socialmente utili pagati sei euro al giorno, cioè 150 euro al mese a cui si tolgono 30 euro per il pullman, mentre con gli altri progetti fatti fino a quel momento con il Comune si davano compensi di 550-600 euro al mese. Non è con la manovalanza a basso costo che si fanno progetti di reinserimento”. Come si è appassionata al tema della reclusione? “Attraverso la creatività, intesa come ricerca di sé. Io mi occupavo di bioarchitettura per bambini, facevo consulenze a ospedali e scuole e tenevo tanti laboratori. Avevo quindi molto materiale, stoffe, colori, lane e mi venne l’idea di fare qualcosa per le donne in carcere”. Come fu l’inizio? “Era il 2008, il direttore del carcere di Torino era Pietro Buffa. Gli spiegai che volevo portare solo il materiale alle donne e non fare nulla: volevo vedere cosa facevano loro, partendo da quello che sapevano fare loro. Non mi è mai interessata la veste della crocerossina. Mi chiese se me la sentivo di iniziare con le “incolumi”, donne condannate per gravi reati che non erano mai state avvicinate da alcun progetto. Gli dissi che non entravo per giudicare”. Come andò? “Qualcuna si mise a dipingere, altre a cucire... Organizzammo delle mostre mercato e gli oggetti andarono a ruba. Allora con una socia nacque un’associazione, La casa di Pinocchio, e il brand Fumne. Allargammo le attività alle detenute “comuni”, ma soprattutto aprimmo i laboratori a donne che arrivavano dall’esterno per imparare. Una bella rivincita e anche un momento di giustizia riparativa: capitava che mentre si tenevano in mano ago e filo un’allieva dicesse a una zingara in carcere “Sai, mi hanno rubato un portafoglio...” e l’altra rispondesse “E io ti insegno a cucire”. Questo era il lavoro, non arrivare con la stoffa e chiedere alle detenute di fare cento borse sottocosto. Poi organizzammo anche sedute dall’estetista, in cui le detenute facevano trattamenti alle madamine torinesi con le creme alla frutta o la ceretta con il miele, come fanno in carcere. Un bel ribaltamento”. Un modello che si è portata dietro nella sua attività di Garante? “In qualche modo sì. Mi costò fatica lasciare l’associazione dopo la nomina a garante, nel 2015, ma vedo il ruolo del garante principalmente come quello di un mediatore. E di uno che ascolta e guarda tanto. Mi cercano i detenuti, i familiari preoccupati, gli ex detenuti che fanno fatica a reinserirsi... Soprattutto adesso con l’emergenza Covid-19”. E sull’idea di una casa protetta esterna al carcere per le madri detenute, cosa ne pensa? “Farei un passo indietro. Le madri non dovrebbero stare in carcere neanche nella forma di una casa protetta. Penso invece che sia molto più utile concedere i domiciliari in una buona comunità di accoglienza e recupero. Si è già visto con gli adolescenti che è un percorso vincente”. Napoli. Il Garante: “A Poggioreale mancano spazi per lo sport, i colloqui, la scuola” Il Riformista, 7 luglio 2020 Il carcere di Poggioreale a Napoli è quello più sovraffollato d’Europa. Il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello rinnova l’allarme. E questa volta fa notare che a una sovrabbondanza di persone private della libertà non equivale un’apprezzabile equivalenza di spazi vitali. Utili alle più varie attività di rieducazione del detenuto. “In questo luogo senza tempo che è il carcere, e in particolare Poggioreale, anche la riflessione sullo spazio fisico, in termini anche di edilizia, di spazi sensibili e significativi, di carenza di spazio vitale, di vuoti comunicativi e relazionali con la famiglia, di mancanza di igiene e dignità è utile e significativo. Spazi per praticare attività sportive, ricreative, scolastiche, formative e spazi verdi per colloqui più dignitosi e umani”, dice Ciambriello. “Finalmente anche il provveditore alle opere pubbliche della Campania, Giuseppe D’Addato ha dovuto ammettere che i 12 milioni di euro per la ristrutturazione ci sono. Ho denunciato tutto questo da quando sono garante campano dei detenuti, nel silenzio generale della politica locale, nazionale, di maggioranza ed opposizione”, ha dichiarato Ciambriello dopo l’uscita pubblica del Provveditore che annuncia a breve l’inizio di un progetto per ristrutturare il carcere napoletano. Il Garante ha annunciato una fornitura di 300 ventilatori per i detenuti dell’istituto. “In un carcere militarizzato - ha spiegato - per certi versi paralizzato, l’esecuzione della pena carceraria ha l’effetto non trascurabile di incidere, seppure indirettamente, anche su quella rete di relazioni familiari e sociali che si snodano attorno al soggetto detenuto, sui suoi bisogni di tutela del diritto alla salute, alla qualità della vita detentiva, dentro celle di sei, otto, dieci persone, senza aria e senza igiene. Per questo grazie all’intervento dell’assessore regionale alle politiche sociali Lucia Fortini, ho potuto donare al carcere di Poggioreale 300 ventilatori. Un piccolo gesto dal valore non quantificabile. In ogni cella del carcere di Poggioreale arriva un po’ d’aria”. Nella sua nota stampa il Garante ha anche commentato le ultime critiche al suo ruolo sollevate negli ultimi tempi: “Gli spazi carcerari e le condizioni detentive, la tutela dei diritti delle persone recluse, le attività educative e le iniziative volte al reinserimento sociale, le misure per l’esecuzione penale esterna e le strutture alternative al carcere, rappresentano il terreno di osservazione e di interventi dei garanti ad ogni livello. Inoltre il Garante svolge un ruolo importante di raccordo tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, stimolando i territori a farsi carico della popolazione detenuta e a riconoscere alla stessa pieno diritto di cittadinanza, mantenendo contatti con il volontariato, il terzo settore e con gli enti locali”. Trani (Bat). Carcere femminile: serve subito una nuova sede di Nico Aurora Gazzetta del Mezzogiorno, 7 luglio 2020 Le priorità della Garante dei diritti dei detenuti. “Il primo obiettivo sarà conoscere meglio la realtà tranese. Ho avuto modo di visitare gli istituti detentivi e ho già fissato appuntamenti per incontrare le associazioni presenti sul territorio”. Così Elisabetta De Robertis, garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Trani, eletta lo scorso 27 maggio dal consiglio comunale, grazie ai maggiori suffragi rispetto all’altro candidato, Alessandro Pascazio. La presentazione della professionista è avvenuta, nei giorni scorsi, nel chiostro dell’ex convento domenicano che ancora oggi ospita il carcere femminile. C’erano il garante regionale, Pietro Rossi, l’assessore al patrimonio, Cherubina Palmieri, ed il direttore degli Istituti penali di Trani, Giuseppe Altomare. È intervenuta anche la senatrice Bruna Angela Piarulli, direttore degli istituti penali in aspettativa proprio a seguito della sua elezione parlamentare. “Le urgenze riguardano sia il trasferimento dell’istituto femminile - ha spiegato De Robertis - sia la sezione blu del carcere maschile. A tale riguardo mi sembra che il nuovo plesso sia pronto ed è necessario aprirlo al più pesto per chiudere una sezione non congeniale ad una detenzione giusta. Sarà importante - ha continuato - promuovere la genitorialità con spazi nuovi e l’attenzione massima ai diritti dei minori, per non aggiungere traumi su traumi”. Il Regolamento comunale del garante per i diritti delle persone private della libertà personale, approvato dal consiglio comunale il 26 aprile 2017, dispone per il garante i seguenti compiti: promozione e impulso, anche attraverso funzioni di osservazione e vigilanza indiretta, per l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone comunque private della libertà personale, per quanto nelle competenze e attribuzioni del Comune stesso, tenendo altresì conto della loro condizione di restrizione; promozione di iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e dell’umanizzazione della pena detentiva; promozione di iniziative congiunte con altri soggetti pubblici competenti nel settore; promuovere protocolli d’intesa con gli organi competenti. La carica dura cinque anni, con possibilità di rinnovo per un ulteriore mandato. È a titolo gratuito e senza riconoscimento di indennità, compensi o rimborsi spesa. “Non c’è sovrapposizione con il garante comunale - ha spiegato a sua volta il garante regionale Rossi. Non c’è un’impostazione gerarchica, ma un’azione sinergica. Le politiche di welfare sono declinate a livello territoriale, mentre la programmazione compete a livello regionale. Quindi, ciascuno farà il proprio ed il garante territoriale aumenta sicuramente l’indice di collegamento con i detenuti”. E Palmieri ha ricordato che “siamo la seconda città in Puglia, dopo Lecce, ad avere un garante dei diritti dei detenuti. Questo è un passo importante perché rappresenta la storia della città caratterizzata dalla presenza di due istituti molto spesso ignorati. Oggi siamo contenti di avere portato a termine un percorso iniziato nel 2017: inizia un nuovo viaggio durante il quale sarà fondamentale la collaborazione con le pubbliche amministrazioni”. Napoli. Detenuti per reati sessuali, il testo di Calvino come cura di Gabriele Bojano Corriere del Mezzogiorno, 7 luglio 2020 Carcere di Secondigliano, l’esperimento: laboratorio su “Il visconte dimezzato” con 20 reclusi. C’è l’operaio, l’infermiere, il contadino ma anche il professionista e l’ex ufficiale dell’Esercito. Tutti di età compresa tra i 24 e i 60 anni, macchiati e marchiati dal più infamante dei reati, quello sessuale. Venti cosiddetti sex offenders, detenuti presso la casa circondariale di Secondigliano, sono stati protagonisti da ottobre 2018 a giugno 2019 di un laboratorio di lettura e scrittura creativa, “Lupus in Fabula”, tenuto da un gruppo di volontarie e da uno psichiatra, Adolfo Ferraro, già direttore per molti anni dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Un’esperienza, unica nel suo genere, che è stata raccolta in un libro Seizeronove (come l’articolo del codice penale che punisce chi “costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”) che sarà presentato il 30 luglio presso la Fondazione Premio Napoli a Palazzo Reale. “Siamo partiti - spiega Ferraro - dalla lettura collettiva de Il visconte dimezzato di Italo Calvino, scelto per l’immediata individuazione della metafora tra il bene e il male. Nella seconda fase si è lavorato sul testo e sui personaggi, sviluppando una storia autonoma, e nella terza, dalla storia costruita dagli stessi partecipanti al gruppo è stato tratto un testo letterario”. Il tutto, nel racconto autobiografico di gruppo, avviene su un galeone, simile a quelli che in carcere vengono realizzati con stuzzicadenti e cartone, in cui la ciurma, ispirandosi a Calvino, è impegnata a trasportare la propria parte di sopra, quella razionale, a ricongiungersi alla parte di sotto, fatta di istinto e sessualità, fino ad accorgersi che la parte di sotto si è clandestinamente imbarcata e quindi bisogna farci i conti. “All’inizio - riprende lo psichiatra - ho incontrato qualche diffidenza da parte dei reclusi, non era facile affrontare un fardello interiore e profondo soprattutto quando non sempre si è consci del proprio malessere e si tende a scaricare ogni responsabilità sul mondo esterno, sulla società, o addirittura sulla stessa vittima. Poi però, poco alla volta, si è giunti all’acquisizione di una consapevolezza e di un senso di colpa che non nega e non giustifica, non è complice e non è accusatore, ma aiuta a comprendere”. La letteratura come cura, dunque, non psicoterapia in senso stretto ma viaggio di scoperta che, come diceva Proust, non è vedere nuove terre ma avere nuovi occhi. “Gli occhi dei ristretti - conclude Ferraro - hanno cambiato colore ed espressione durante il procedere del viaggio, in un gioco inizialmente visto con sospetto o sottovalutato, che però è diventato un gioco serio”. Cosa rimane di questo lavoro lo si vedrà nel tempo. Di sicuro c’è che Ferraro continua: il metodo calviniano sarà ripetuto nel carcere di Poggioreale, dove i reclusi per reati sessuali sono 150, di Rebibbia e Vallo della Lucania. Cagliari. Detenuto non vede i familiari da due anni: per protesta si ustiona con l’olio bollente di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 7 luglio 2020 Non vede i familiari residenti in Emilia Romagna da due anni, si è gettato addosso olio bollente al termine di uno sciopero della fame attuato per manifestare il proprio dissenso contro il mancato trasferimento in un istituto di pena vicino ai suoi cari. Protagonista della vicenda un detenuto extracomunitario di 35 anni rinchiuso nel carcere di Uta. L’uomo, che non corre pericolo di vita, è stato trasferito nel reparto “Grandi Ustionati” di Sassari ed è stato assegnato alla casa circondariale di Bancali dove giungerà non appena sarà in grado di la-sciare l’ospedale struttura sanitaria. “Il lungo periodo di lockdown dovuto al Covid-19 - sottolinea Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme che ha denunciato la vicenda - ha messo a dura prova la resistenza di molti detenuti che, spesso senza adeguati mezzi, non hanno potuto effettuare i colloqui attraverso skype. Nel caso specifico il giovane extracomunitario ha chiesto ripetutamente di poter andare nella regione dove risiedono i suoi familiari. Un’istanza che non è stata soddisfatta anche perché i trasferimenti extra regione sono gestiti esclusivamente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. “È evidente che si tratta di una persona particolarmente fragile - aggiunge Calligaris - le cui condizioni di salute in generale e psichi-che fanno ritenere che non abbia la capacità di contenere a lungo il disagio. Del resto non sta chiedendo la libertà ma solo di essere assegnato in un Istituto prossimo ai familiari che non vede da due anni. L’auspicio è che il Dap sappia cogliere l’appello disperato di questa persona e provveda al più presto al suo trasferimento. Un atto di umanità che nulla toglie alla certezza della pena”. Napoli. Record nazionale delle riparazioni per l’ingiusta detenzione: 129 casi in un anno di Viviana Lanza Il Riformista, 7 luglio 2020 In aumento pure gli indennizzi per le vittime. Eppure contro pm e giudici sono stati aperti soltanto 24 procedimenti disciplinari (in tutta Italia...). Quando si parla di criticità della giustizia si tende più diffusamente a parlare di rinvii e carenze di risorse focalizzandosi sulla durata dei processi. Per anni l’errore giudiziario è stato considerato un aspetto fisiologico del sistema, quasi un rischio da correre in nome della lotta all’illegalità. Ma con il tempo i numeri sono cresciuti al punto che l’aspetto da fisiologico è diventato patologico. Gli errori giudiziari sono un vero male del nostro sistema giudiziario per rimediare al quale da tempo si discute di un intervento riformista, della necessità di una riforma organica che consenta di intervenire sul sistema nel suo insieme e non solo lavorare sulle urgenze. Nell’1 per cento dei casi l’errore giudiziario riguarda persone ingiustamente condannate, in tutti gli altri si tratta di persone che finiscono in carcere e sotto accusa da innocenti. Napoli detiene il triste primato ed è la città con il più alto numero di errori giudiziari accertati. Stando all’ultimo rapporto del Ministero della Giustizia sull’applicazione delle misure cautelari e sulle riparazioni per ingiusta detenzione, nel 2019 sono stati indennizzati 1.000 casi di errori giudiziari con una spesa di circa 27 milioni di euro. A Napoli si sono contati 129 casi in un anno, con indennizzi per oltre 3,2 milioni di euro. In media, più di 24mila euro ad errore. Soldi che non bastano a risarcire veri e propri drammi umani, causati da indagini sbagliate, da piste investigative non sufficientemente approfondite, da arresti che non andavano disposti, da accuse che non hanno trovato conferme. Nel 2018 i casi a Napoli erano stati 113 e il confronto con il 2019 segna un trend purtroppo in aumento. Dopo Napoli, nella classifica nazionale, c’è Reggio Calabria con 120 casi e indennizzi per oltre 9 milioni di euro. Sulla scorta di questi dati, nelle scorse settimane è stata avviata in Senato la discussione per l’istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari, con la relazione del senatore Dal Mas. Il caso di Enzo Tortora è il più celebre, ma ogni anno nei Tribunali italiani la giustizia commette errori che generano drammi, che a loro volta mietono vittime. E quando il riconoscimento a un indennizzo viene riconosciuto (perché è tutt’altro che frequente che ciò accada), l’indennizzo arriva dopo molti anni dai fatti e per una somma che spesso non è considerata congrua rispetto ai danni e alle sofferenze di una vita costretta a deviare dal suo naturale corso. E nemmeno si è certi di individuare il responsabile dell’errore giudiziario, perché secondo la giurisprudenza di legittimità il diritto alla riparazione è configurabile anche nel caso di querela poi rimessa, di prescrizione o derubricazione del reato contestato e il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione non può essere ritenuto di per sé indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo ingiusto. Una legge del 2006 ha individuato gli illeciti disciplinari in cui i magistrati possono incorrere sia nell’esercizio delle funzioni che fuori da esse. Ma basta leggere i numeri dell’ultimo report dell’Ispettorato del Ministero della Giustizia per avere un’idea delle proporzioni. A fronte di migliaia di errori giudiziari, nel 2019 sono state promosse in Italia 24 azioni disciplinari nei confronti di magistrati, due delle quali si sono concluse con un non doversi procedere e 22 sono ancora in corso. Dal 2017 sono state 53 in tutto le azioni disciplinari e solo 4 hanno portato alla censura, in 7 casi c’è stata assoluzione e 31 sono ancora in corso. Agrigento. Detenuto positivo al Coronavirus, è stato ricoverato in ospedale direttasicilia.it, 7 luglio 2020 L’uomo è stato trasferito all’ospedale “Sant’Elia” di Caltanissetta. Apprensione e momenti di paura al carcere di Agrigento dove è stato riscontrato un caso di Coronavirus tra i detenuti. Un uomo che era stato arrestato nell’ambito di una operazione antimafia è risultato positivo nel carcere di Agrigento dove si trovava in custodia cautelare. L’uomo adesso è stato trasferito, e ricoverato, all’ospedale “Sant’Elia” di Caltanissetta. A risultare positivo al Coronavirus è un detenuto di originario della provincia di Enna che era stato fermato la scorsa settimana, nell’ambito dell’operazione antimafia della Dda di Caltanissetta denominata “Ultra”. L’uomo aveva la febbre e, come da protocollo, è stato sottoposto al tampone in carcere. Si trovava in isolamento in attesa dei risultati come tutti i detenuti che arrivano al carcere “Petrusa”. Per la casa circondariale di Agrigento si tratta del terzo caso di coronavirus accertato, il primo di un detenuto. Nei mesi scorsi erano risultati positivi due poliziotti penitenziari, entrambi originari di Raffadali (Agrigento) ed entrambi guariti dopo un periodo di quarantena domiciliare. Palermo. Seimila mascherine per i detenuti delle carceri della Sicilia nuovosud.it, 7 luglio 2020 Saranno consegnate alle 11 di mercoledì 8 luglio nei locali dell’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti, in viale Regione Siciliana n. 2246, le 6mila mascherine che i volontari e gli utenti dell’associazione “Un Nuovo Giorno” hanno realizzato grazie al contributo dello stesso Garante. Le mascherine, in tessuto modello lavabile più volte, saranno distribuite a tutti i detenuti delle carceri siciliane. Un progetto che prende corpo ai sensi dell’Art. 16 comma 2 del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 “Cura Italia”. Alla cerimonia di consegna, oltre al presidente dell’associazione, Antonella Macaluso, saranno presenti il Garante dei diritti dei detenuti, prof. Giovanni Fiandaca, e il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Sicilia, Cinzia Calandrino, che provvederà alla distribuzione a tutti gli istituti penitenziari dell’isola. Ci sarà anche il maestro Nino Parrucca, con il quale l’associazione ha Ats e un partenariato per la realizzazione delle mascherine. Per la buona riuscita del progetto Parrucca ha messo a disposizione un locale di 600 metri quadri per il laboratorio attraverso la “Sicilianissima srls” di cui il maestro è l’amministratore. L’incontro sarà anche l’occasione per accennare ad alcuni problemi della sanità penitenziaria nelle carceri siciliane. Voghera (Pv). Il vescovo ha celebrato la Messa nel carcere diocesitortona.it, 7 luglio 2020 Per la commemorazione di san Basilide, patrono della Polizia Penitenziaria. Lunedì 29 giugno la Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale vogherese ha reso omaggio al patrono san Basilide che la Chiesa commemora il 30 giugno. Alle ore 19 nel cortile di ingresso della struttura è stato allestito l’altare per la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo Mons. Vittorio Viola. Con lui anche il cappellano, don Luigi Tibaldo, e il sacerdote don Pietro Sacchi, entrambi orionini. Il pastore diocesano ha rivolto un affettuoso saluto di benvenuto alle numerose autorità presenti. Insieme alla direttrice del carcere, Stefania Mussio, erano presenti Michela Morello Commissario coordinatore comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, il Prefetto di Pavia Rosalba Scialla, il comandante dei Carabinieri di Voghera Giuseppe Pinto, Rossana Bozzi in rappresentanza del Questore, il sindaco di Voghera Carlo Barbieri, il presidente del Consiglio Comunale Nicola Affronti, il comandante della Guardia di Finanza, la presidente della Croce Rossa di Voghera Chiara Fantin, l’Ispettrice delle Infermiere Volontarie di Voghera Emma Messere, l’Anppe (Associazione nazionale polizia penitenziaria), l’ANC (Associazione Nazionale Carabinieri) e gli Alpini di Voghera, insieme agli agenti e agli educatori. Mons. Viola nell’omelia ha tratteggiato la figura del martire Basilide vissuto nel III secolo d. C. al tempo delle persecuzioni dei cristiani. Il soldato romano addetto ad accompagnare i condannati a morte fu convertito alla fede cristiana non solo dalle parole di Origene ma anche dall’esempio di una giovane fanciulla costretta a subire un terribile martirio in nome della sua adesione a Cristo. “Il soldato si trova di fronte a una donna che non ha paura di morire perché ha in lei la forza che viene da Gesù - ha detto Padre Vittorio - quella stessa forza che spingerà poi Basilide a rinnegare gli dei e a morire martire”. Il martirio, infatti - ha proseguito - può sembrare il massimo del fallimento umano ma in realtà nasconde una sapienza che viene rivelata nella morte di Gesù in croce, l’offerta estrema di amore di Dio per ogni uomo”. Proprio il suo amore che trasforma tutto, impedisce la condanna eterna. Basilide è il patrono della polizia penitenziaria per il suo gesto di pietà verso i condannati a morte. In lui è avvenuto l’incontro tra giustizia e compassione che “nell’amore di Dio sono la stessa cosa”. Il vescovo ha esortato gli agenti “che svolgono un servizio prezioso, ad avere sempre uno sguardo capace di andare oltre e di lasciare spazio alla speranza, pieno di quell’umanità che consente al carcere di essere luogo di rinascita”. Prima della benedizione finale un poliziotto ha letto la preghiera rivolta al santo. Al termine della funzione si è svolta la cerimonia di commiato del Comandante di Reparto, il Commissario Michela Morello che dopo un anno e mezzo lascia Voghera per una nuova destinazione. Nel salutare i colleghi e la direzione del carcere ha espresso parole di gratitudine e di affetto e ha augurato a tutto il personale di continuare a svolgere con impegno e serietà la loro missione. Anche la direttrice della casa circondariale ha ringraziato la poliziotta che si è rivelata una valida e preziosa collaboratrice, il vescovo per la sua presenza e tutte le autorità intervenute. Un brindisi finale nella luce del tramonto ha concluso la festa del santo patrono. Milano. Progetto “Equivale”, equitazione (in carcere) per bambini e under 18 Corriere della Sera, 7 luglio 2020 Riapre il Centro equestre nel carcere di Opera. Realizzato grazie a un contributo della Fondazione Cariplo, ospita 15 cavalli con stalle, box e maneggio, per attuare un progetto rivolto ai figli degli agenti penitenziari ma anche a bambini e adolescenti svantaggiati del progetto “Equivale”. Ripartono questa settimana le attività di una Fattoria Didattica - Centro Ricreativo Estivo secondo i principi della educazione all’aperto, con cui sì sottolinea, come spiegano i promotori del progetto, “non solo l’aspetto ricreativo, ma innanzitutto il legame fra l’esperienza dell’ambiente e della natura e lo sviluppo di importanti dimensioni dell’esperienza individuale”. Le attività sono rivolte a bambini e ragazzi secondo le diverse fasce di età, dai 3 ai 5 anni, dai 6 agli 11 e under 18, seguite da educatrici professionali e volontari. Per ì bambini dai sei anni in su, ogni giorno sono anche previste lezioni di equitazione e attività di avvicinamento al cavallo, coordinate da istruttori di equitazione. Il programma del centro equestre è stato interrotto a causa della pandemia, ma riprende ora grazie ad Acsi Lombardia, ente di promozione sportiva, all’associazione Giacche Verdi che ha in gestione il maneggio e con il contributo del Forum della Solidarietà. Si concluderà a fine agosto. Migranti. Dl sicurezza rinviati, al Nazareno alta tensione di Marco Conti Il Messaggero, 7 luglio 2020 A stento, tra decine di riunioni di maggioranza e un Consiglio dei ministri notturno, parte la Fase 3, ma il tanto auspicato “cambio di passo” auspicato dal Pd nei giorni scorsi, non si vede. Soprattutto non si scorge la prospettiva politica di un governo nato per bloccare l’ascesa del sovranismo leghista, ma che - in assenza di prospettiva - si muove ancora con la logica del costo-benefici e del contratto che animò la stagione giallo-verde. L’intesa sul decreto semplificazioni è anche frutto di quella tante volte evocata emergenza che costringe tutti a restare al proprio posto, prigionieri di una situazione politica che non consente alternative. Tantomeno di poter fare come in Francia, dove il presidente francese Macron ha cambiato il capo del governo e buona parte dei ministri nel giro di una settimana, piazzando anche al dicastero della giustizia un avvocato. Si naviga a vista, senza una strategia, con un presidente del Consiglio che media allo sfinimento con le tante anime della maggioranza - soprattutto del M5S - e un Pd in forte fibrillazione interna. L’amalgama tra un movimento antisistema come il M5S e un partito di sistema come il Pd, non avviene e il risultato è un mix di contraddizioni che emergono di continuo non solo nell’esecutivo ma anche in Parlamento dove i decreti hanno tempi di conversione lunghissimi e la composizione tra i gruppi e ancor più complicata di una trattativa tra capidelegazione. In assenza di sbocchi alternativi, i penultimatum del Pd cadono nel vuoto con sempre maggiore velocità mentre settembre si avvicina e i sondaggi registrano che la discesa della Lega si è arrestata ad un ragguardevole 25% che i dem potrebbero mettere insieme solo se si realizzasse il sogno di Andrea Orlando. Il “Conte non si tocca” di Dario Franceschini su Repubblica, è quindi il prodotto non di una scelta, ma di mancanza di alternative che però costringe i dem a soprassedere sui decreti sicurezza, che restano il fiore all’occhiello del Conte1, così a come a segnare il passo in Europa sul Mes, malgrado le trattative sui principali strumenti messi a disposizione da Bruxelles le abbiano condotte tre esponenti di spicco del partito: Paolo Gentiloni, David Sassoli, Roberto Gualtieri. E così, mentre si continua a rinviare su Autostrade, governo e maggioranza lavorano solo sui dossier legati all’emergenza post-Covid o su quelle questioni che naturalmente vanno a scadenza come le missioni militari il cui rifinanziamento, che andrà in aula a metà mese, rischia di riportare le lancette dell’orologio ai tempi del governo Prodi e di Turigliatto vista la contrarietà di una parte dei grillini e del Pd a finanziare la Libia e la sua politica di contenimento degli sbarchi. Il “non c’è tempo da perdere”, riportato nel Piano nazionale di Riforme, a settembre rischia di trasformarsi in un boomerang se ai 266 articoli del decreto Rilancio non seguiranno i decreti attuativi. La lite tra ministri su come erogare gli incentivi per bici e monopattini, dà un po’ la misura dello stallo. Lo stesso che non permette al Pd di incassare almeno un voto sulla riforma della legge elettorale, malgrado i dem abbiano votato in quarta lettura il taglio dei parlamentari e siano più o meno costretti a sostenere la riforma in occasione del referendum di settembre, quando il M5S potrà sventolare la bandiera della presunta vittoria sulla casta e i dem rischiano di fare i conti con l’ennesima sconfitta alle elezioni regionali. Un Pd in piena stagione congressuale rischia di rappresentare per Conte un’insidia maggiore di un M5S acefalo. Gli Stati popolari di Soumahoro vincono la prima sfida di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 luglio 2020 Nonostante il sole, la mobilitazione riempie San Giovanni. Entusiasmo, aspettative e domande aperte attraverso le voci dei protagonisti. Gli Stati popolari hanno vinto la sfida contro il sole tropicale che surriscalda queste giornate romane e sono riusciti a riempire piazza San Giovanni di voci ed esperienze che nascono nelle tante battaglie in corso nel paese. La mobilitazione organizzata domenica scorsa dal sindacalista Aboubakar Soumahoro, che ha concluso con un discorso più da leader politico che da delegato dell’Unione sindacale di base (Usb), ha visto la convergenza di lavoratori, attiviste femministe ed ecologiste, chi si batte per i diritti civili e contro le attuali politiche migratorie. “Da qui nasce un laboratorio che vuole coniugare visione e prassi - ha affermato Soumahoro - attraverso un “Manifesto per giustizia, libertà e felicità”“. Sei le proposte, nella maggior parte dei casi tutte da definire: piano nazionale per l’emergenza lavoro; programma di edilizia popolare strutturale; riforma integrale della filiera del cibo; trasformazione radicale delle politiche migratorie; strategia per la transizione ecologica; misure proattive contro le discriminazioni e per l’uguaglianza. L’iniziativa ha ricevuto grande attenzione dal settimanale L’Espresso, che ha dedicato la copertina al sindacalista italo-ivoriano e al “suo” quarto stato, molta meno dai quotidiani nazionali e dalla maggior parte delle forze politiche, forse spiazzate da un’operazione di cui non è ancora chiaro il segno. Il giorno dopo tra i protagonisti che hanno portato in piazza battaglie reali e contenuti radicali si mischiano entusiasmo, aspettative e punti interrogativi sul futuro prossimo del percorso. “A caldo la piazza mi ha lasciato una sensazione positiva - afferma Tommaso Falchi, di Riders Union Bologna - C’è bisogno di ambiti di convergenza tra le tante cose che stanno accadendo. Gli Stati popolari hanno unito vertenze lavorative, movimenti, realtà sociali e dell’associazionismo. Devono rimanere uno spazio aperto e non proprietario. Il rischio è che qualcuno cerchi scorciatoie politiche o pensi di far nascere progetti a tavolino. Ci vuole un protagonismo ampio, magari già con un’assemblea a settembre”. Molti lavoratori intervenuti dal palco sono organizzati con Usb. “Sul tappeto ci sono questioni precise e spesso molto crude, a partire dalla lotta dei braccianti da cui è nata l’iniziativa - dice Guido Lutrario, dell’esecutivo nazionale di Usb - È stata una buona occasione per dare visibilità alla condizione di tanti lavoratori. Adesso bisogna tornare sul campo. Le affermazioni generiche non bastano. Gli eventi sono importanti ma senza organizzazione dei lavoratori non si riesce a incidere in lotte che sono lunghe e dure”. Tema trasversale è stato quello dell’emergenza climatica. L’intervento dei ragazzi di Fridays For Future (Fff) ha riscosso applausi e consenso. “Nei prossimi giorni torneremo a incontrare Soumahoro perché vogliamo portare il filo conduttore tra le diverse vertenze oltre la piazza - sostiene Marianna Panzarino, di Fff Roma - Serve un programma per non disperdere le forze”. Ampio spazio hanno avuto le battaglie sui diritti civili, con la richiesta di una riforma della cittadinanza che introduca lo ius soli e il consenso sulla legge contro l’omolesbotransfobia, e quelle per la trasformazione delle politiche migratorie, dal mare a terra fino al sistema d’accoglienza. Una grande finestra è stata anche riservata ai lavoratori della cultura e dello spettacolo che in queste settimane si sono mobilitati a fronte della drammatica situazione che vive tutto il comparto. “Pensavamo di essere visibili sui palchi e invece durante questa crisi ci siamo riscoperti invisibili per la politica - racconta il rapper Kento - È importante che noi musicisti siamo uniti agli altri lavoratori”. “Non so cosa possano diventare gli Stati popolari ma domenica tanti invisibili hanno avuto l’occasione di far sentire la propria voce”, dice Fabrizio Palmieri, dei Professionisti spettacolo cultura-Emergenza continua. Cosa diventeranno gli Stati popolari è la domanda a cui la mobilitazione di domenica non ha fornito risposte precise. Libia. “Nelle ultime settimane sempre più detenuti nei Centri. In condizioni preoccupanti” di Francesca Mannocchi L’Espresso, 7 luglio 2020 Poco cibo, situazioni igieniche scadenti, accesso negato alle agenzie internazionali. E trafficanti che continuano ad arricchirsi. Parla Caroline Gluck, responsabile delle relazioni esterne Missione Unhcr in Libia. Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, sta ancora lavorando nei centri di detenzione libici? Come è cambiata e sta cambiando la situazione con il conflitto a Tripoli? L’accesso di Unhcr ai centri di detenzione del governo, gestiti nella parte occidentale del paese dal Dcim (dipartimento anti immigrazione clandestina del Ministero dell’Interno, ndr) è variabile, a causa delle restrizioni di sicurezza e di accesso imposte dalle autorità locali. L’accesso non è sistematico ed è subordinato a una autorizzazione. Dall’inizio dell’epidemia Covid, Unhcr ha garantito il rilascio di alcuni richiedenti asilo altamente vulnerabili e sostenuto l’assistenza di base a persone che sono state liberate o fuggite dalla detenzione. La Libia non smette di essere un luogo complesso per rifugiati e migranti: è un punto di partenza per chi vuole raggiungere l’Europa ma è ancora un paese di destinazione per i lavoratori migranti. Nonostante questo non ha una legislazione che criminalizzi il traffico di esseri umani e molti trafficanti continuano a essere protetti da note milizie. Il gruppo di esperti sulla Libia, nella sua relazione piu’ recente al Consiglio di Sicurezza (S/ 2019/914) osserva che il traffico di uomini sia rimasto redditizio anche se i traffici sono crollati rispetto al pre-2018. Le modifiche alle normative dei paesi limitrofi e gli scontri lungo le rotte del traffico hanno modificato le rotte consuete rendendo le migrazioni piu’ lunghe, costose e pericolose. Il gruppo di esperti sottolinea che la maggior parte di chi ha raggiunto la Libia sia diventata vittima delle reti del traffico all’interno del paese. Significa lavoro a basso costo anche da parte dei gruppi armati che gestiscono i centri di detenzione e le strutture di detenzione informali in tutta la Libia. Quali sono i vostri dati aggiornati sul numero di persone nei centri di detenzione? Al 26 giugno, il numero stimato di detenuti nelle 11 centri di detenzione ufficiali gestiti dal Dcim nelle aree occidentali e centrali della Libia è 2.462 persone (di cui 1.341 sono persone registrate dall’Unhcr). Nelle ultime settimane il numero di persone nei centri è aumentato nelle aree occidentali e centrali, in gran parte a causa delle numerose operazioni di intercettazione seguite da sbarchi sulla costa occidentale della Libia. Le condizioni in numerosi centri di detenzione ufficiali continuano a destare preoccupazione, soprattutto a causa delle cattive condizioni di vita, del sovraffollamento e dell’igiene. La fornitura di cibo è spesso irregolare. L’Unhcr ha a lungo sostenuto la fine della detenzione arbitraria per rifugiati e migranti in Libia. Continuiamo a chiedere il rilascio ordinato delle persone dalla detenzione in contesti urbani. Continuiamo inoltre a chiedere alternative alla detenzione per rifugiati e migranti che vengono intercettati o salvati in mare. Unhcr fa parte della Commissione tecnica italo libica sulle modifiche al Memorandum d’intesa del 2017? L’Unhcr non fa parte di alcun accordo bilaterale tra i due governi. Stati Uniti. Natalia e gli altri, la strage dei bimbi: Chicago capitale dell’America violenta di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 7 luglio 2020 Da inizio anno 353 omicidi. Ma da San Francisco a Birmingham le vittime minori sono sempre di più. Natalia Wallace morta il 4 luglio per proiettili da un’auto. La strage dei bambini angoscia Chicago e l’America. La “città ventosa” esce da un fine settimana di celebrazioni per il 4 luglio e di furibonde sparatorie tra gang rivali. Bilancio impressionante: 66 feriti e 17 morti, tra cui due bambini. Una si chiamava Natalia Wallace. Verso le sette di sera Natalia sta giocando sul marciapiede davanti alla casa della nonna, nel quartiere di West Side, uno dei più a rischio di Chicago. Gli adulti preparano la grigliata per il 4 luglio. La calma è spezzata da una lunga sequenza di colpi secchi. Non è un rumore di petardi, ma di un fucile automatico. C’è un uomo che spara da una macchina in corsa. Natalia viene colpita alla testa. Niente da fare. Aveva 7 anni. Tre ore più tardi, nel South Side, un gruppo di giovani armati salta giù da una macchina. Sono a caccia di un rivale, è un regolamento di conti. Si accaniscono sulla vittima, ma un proiettile trapassa l’ascella di un ragazzino di 14 anni, uccidendolo. Non c’entrava nulla, si chiamava Vernado Jones. Così, in questo modo crudele e assurdo, dal 20 giugno a oggi sono morti nove bambini a Chicago. Simone Gaston, 20 mesi, stroncato da una sparatoria mentre dormiva sul sedile posteriore dell’auto di suo padre. Amaria Jones, 13 anni, era addirittura a casa. Stava mostrando un passo di danza a sua madre, quando è caduta trafitta da un colpo vagante. La traccia di sangue infantile attraversa l’America. L’elenco comprende, tra gli altri, Jace Young, sei anni, di San Francisco; Secoriea Turner, 8 anni, Atlanta; Davon McNeal, 11 anni, Washington DC; Ri’ajuhne, 11 anni, Columbia, Missouri; Royta Giles jr, 8 anni, Birmingham, Alabama. Ma il caso più evidente resta Chicago. È evidente che qualcosa non ha funzionato nel piano anti-crimine messo a punto dalla polizia e dalla sindaca della città, la democratica Lori Lightfoot. Dall’inizio dell’anno ci sono stati 353 omicidi, 99 in più rispetto allo scorso anno. Eppure si conoscono molte cose del crimine organizzato, come risulta, per esempio, dai documenti pubblicati con regolarità dalla Dea, Drug enforcement administration, l’agenzia federale anti droga. Stando all’ultimo “censimento” a Chicago operano 59 gang, per un totale di circa 100 mila affiliati. Un’enormità. Alcuni gruppi sono più antichi, come i “Black Disciples” fondati nel 1958 da David Barksdale a Eglewood, nel quartiere dove è rimasto ucciso Vernado Jones. Altri sono cresciuti con il traffico di droga e il collegamento con il cartello messicano di Sinaloa, come i “Latin Kings”. Tutte si distinguono per i simboli, i colori, divise. E controllano larghe parti della metropoli, sostanzialmente impunite. Anche il 4 luglio, quando il Dipartimento di polizia aveva dislocato 1.200 agenti in più nelle strade. “È una tempesta perfetta”, aveva detto la sindaca Litghfoot in una conferenza stampa il 1 luglio, sostenendo che il coronavirus “ha compresso e quindi acuito le cause di fondo della violenza, come la povertà, la mancanza di speranza e la disperazione”. Ma oltre ad analisi, la città ora aspetta risposte. Hong Kong non firma la resa. La protesta ora è un foglio bianco di Cecilia Attanasio Ghezzi La Stampa, 7 luglio 2020 Giovani in piazza fra slogan presi dall’inno cinese e nuove forme di dissenso. Facebook: “Non daremo i dati alla polizia”. La Cina reagisce alle critiche con la mano dura: dissidente arrestato nella capitale. Il professore Xu Zhangrun era preparato. Da tempo aveva messo una borsa con uno spazzolino e un paio di ricambi sulla porta di casa, nel caso lo avessero portato via senza preavviso. E infatti così è stato. Classe 1962, per vent’anni ha insegnato legge alla Tsinghua, l’università dove si è formata la leadership di Pechino e dove ha studiato lo stesso Xi Jinping. Poi, nel 2018, ha osato chiedere pubblicamente di ritirare la legge che permette a “colui che presiede ogni cosa” di governare a vita: “L’intera popolazione, inclusa l’élite dei funzionari pubblici, si sente ancora una volta persa per la direzione incerta del Paese e per la propria sicurezza personale”. L’università gli ha vietato di continuare la sua attività, ma lui non ha smesso di pubblicare. La sua ultima lettera aperta chiede verità e assunzione di responsabilità sull’epidemia di Covid 19 e conclude: “È probabile che questa sia l’ultima cosa che scrivo”. Ieri mattina l’hanno arrestato. L’accusa, a quanto riferisce la moglie, è istigazione alla prostituzione. Un modo per screditare la sua immagine senza far riferimento alle critiche mosse al governo e insieme recapitare un messaggio agli intellettuali più liberali, compresi quelli negli anni si sono rifugiati ad Hong Kong convinti che il sistema legale lasciato in eredità dai britannici avrebbe protetto le loro opinioni. E è sul Porto Profumato che Pechino sta combattendo la sua battaglia più visibile. A una settimana dall’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale, al primo ragazzo incriminato per “attività secessioniste e terrorismo” è stato negato il rilascio su cauzione. Il 23enne Tong Ying-kit rischia l’ergastolo per aver sbandato con la moto su un gruppo di poliziotti mentre sventolava una bandiera che inneggiava alla libertà. Il governo ha poi ordinato alle scuole di ritirare i libri in contrasto con la nuova legge e ha ampliato i poteri delle forze dell’ordine: si potrà perquisire senza un mandato e chiedere la cancellazione di contenuti pubblicati online o su carta. Mentre Facebook e Telegram si sono rifiutati di “processare richieste di dati relative a utenti di Hong Kong fino a quando non si sarà raggiunto un consenso internazionale sui cambiamenti politici in corso nella città”, l’ambasciatore cinese ha messo in guardia la Gran Bretagna sulle “conseguenze” della “grave interferenza negli affari interni cinesi” del premier. Boris Johnson ha infatti definito la nuova legge una “chiara e grave rottura” dell’accordo sino-britannico del 1997 e ha promesso a quasi la metà degli hongkonghesi un percorso privilegiato per ottenere la cittadinanza. Ma mentre le diplomazie di tutto il mondo si confrontano con il gigante asiatico, l’ex colonia continua a sfidarlo. I manifestanti tornano in piazza con cartelli bianchi e in alcuni negozi sono comparsi poster di propaganda dell’epoca maoista. Non c’è stato bisogno di cambiare nemmeno una parola: “La rivoluzione non è un crimine, la ribellione è ragionevole”. Chi protesta si appropria persino della prima strofa dell’inno nazionale della Repubblica popolare: “Sollevatevi, se non volete essere schiavi”. Inoltre, come recita un graffito apparso di recente sui muri della città, “Una persona che commette un crimine è un problema di sicurezza, ma due milioni di criminali sono un problema politico”. Ed ecco che l’ultimo lavoro di Xu Zhangrun acquista un nuovo spessore. Si intitola, significativamente: “Quando la rabbia vince sulla paura”. Cina. Nuovo giro di vite contro i dissidenti: sparito il professore che critica il regime di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 7 luglio 2020 “Al momento in cui scrivo, il suono della distruzione sta ancora esplodendo, l’epidemia continua a diffondersi e il sud del paese è allagato. Il paese soffre di difficoltà interne ed esterne e ha raggiunto un vicolo cieco. I media ufficiali sono ciechi, cantano ancora elogi e canzoni”. È l’ultimo scritto, nel giugno scorso, di Xu Zhangrun, il professore di teoria costituzionale e filosofia che in Cina rappresenta uno dei maggiori critici a livello pubblico del regime di Xi Jinping. Ora anche questa voce è stata tacitata. Ieri, secondo quanto raccontato al Guardian da due colleghi, rimasti anonimi, Xu è stato prelevato dalla sua abitazione da almeno 20 persone e portato in un luogo sconosciuto dopo aver sequestrato materiali e computer. I suoi amici hanno tentato di contattare la polizia ma senza avere nessuna risposta. In realtà il professore si trovava già agli arresti domiciliari dall’inizio di quest’anno per aver attaccato fortemente Xi e la sua gestione della pandemia di coronavirus. La sua storia di oppositore risale al 2018 quando su internet circolò il suo saggio “La nostra paura ora e le nostre speranze”, un atto d’accusa al Partito comunista e la richiesta di democrazia costituzionale. A febbraio di quest’anno, in piena epidemia è uscito un altro scritto: “Viral Alarm. When Fury Overcomes” seguito da una raccolta di saggi solo un mese fa. In ogni riga viene imputato a Xi Jinping di ignorare i bisogni della gente piegata da un disastro dopo l’altro, dal virus, alla disoccupazione fino ai disastri naturali. In una delle sue opere Xu scrisse, riferendosi al presidente cinese, che somigliava a Qin Shi Huang della dinastia Qin, l’iniziatore della Cina imperiale (221 a. C.), quest’ultimo era noto per bruciare libri e seppellire vivi gli studiosi. “È pazzo, rovina i mezzi di sussistenza e calpesta gli intellettuali e crea un demone mondiale” la frase più incisiva, troppo per il regime che non ha tollerato oltre. Ma il parallelo storico sta trovando fondamento con quello che sta succedendo ad Hong Kong. In virtù delle leggi sulla sicurezza, voluta da Pechino ed entrata appena in vigore, nelle biblioteche pubbliche dell’isola non saranno più disponibili i libri di oppositori democratici. È infatti in atto un processo di revisione per giudicare se le pubblicazioni sono conformi ai dettami della nuova legislazione. Non è chiaro quanti libri siano al vaglio della censura, si tratterà in ogni caso di un’opera lunga come dimostra il fatto che sembrano ancora disponibili due titoli del dissidente politico cinese, vincitore del premio Nobel per la pace, Liu Xiaobo. Le autorità hanno giustificato l’opera di revisione, di stampo orwelliano, come iniziativa per accertarsi che gli scritti non promuovessero la secessione, la sedizione o il terrorismo. Ma a giudicare sarà solo Pechino. Egitto. Arrestata la star di Tik Tok Hadeer al-Hady: “Incita all’immoralità” di Silvia Luperini La Repubblica, 7 luglio 2020 La ragazza è l’ultima di una serie di influencer finite in prigione con l’accusa di postare materiale dissoluto o di incitare alla prostituzione. Il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi ha incrementato il controllo sui social. La stretta dei servizi di sicurezza egiziani tocca anche Tik Tok: la star egiziana del social Hadeer al-Hady è stata arrestata con l’accusa di aver diffuso “materiale dissoluto”. A portarla in carcere sono stati dei filmati postati in cui canta in lip-sync, ovvero mimando con le labbra in sincrono delle famose canzoni egiziane, facendo cuoricini con le dita e mossette adolescenziali. Ne hanno dato notizia gli stessi servizi di sicurezza del Cairo, citati dal quotidiano Al-Masry Al-Youm. La giovane è solo l’ultima di una serie di influencer popolari sulla piattaforma online fermati nelle ultime settimane. Nel mirino delle autorità era finita anche la studentessa universitaria Mowada al-Adham, arrestata nel maggio scorso, con l’accusa di “attaccare i valori familiari della società egiziana” per aver postato video satirici su Tik Tok e Instagram. Stessa sorte per una giovane che aveva usato il social per denunciare una violenza. La ragazza, di 17 anni, era finita in carcere insieme alle persone che l’avevano abusata, con l’accusa di “promuovere la dissolutezza”. Sempre sull’onda di questa politica anti-social, anche Haneen Hossam, influencer da 1,3 milioni di followers, è finita in carcere ad aprile con l’accusa di aver promosso “la prostituzione” e sfruttato la nuova pandemia e la situazione economica della società per attirare e ingannare ragazze utilizzando le nuove applicazioni on line per “Incontrare sconosciuti” e “guadagnare qualche soldo”. Hossam aveva pubblicato un video in cui illustrava come si poteva guadagnare postando “filmati di intrattenimento” su Tik Tok: un’opportunità di “lavorare da casa e guadagnare fino 2,430 sterline promuovendo in video una piattaforma musicale”. Recentemente un tribunale aveva ordinato la scarcerazione di Hossam su cauzione, ma dopo pochi giorni è stata di nuovo arrestata perché, secondo la procura, “sono state presentate nuove prove contro di lei”. Intanto la polizia sta facendo una campagna per sensibilizzare le famiglie su quanto possa essere pericoloso per le proprie figlie andare sui social. Ma più che pedofili e malintenzionati le ragazze rischiano di finire nelle maglie della giustizia.