Dopo il virus e il lockdown, com’è la situazione nelle carceri italiane? di Laura Antonella Carli rollingstone.it, 6 luglio 2020 Negli ultimi mesi il mondo carcerario è balzato all’attenzione mediatica, prima per le rivolte e poi per le scarcerazioni. Abbiamo parlato con un portavoce di Associazione Antigone per capire come il sistema si è adattato alla pandemia. Durante questi mesi di lockdown il mondo carcerario è balzato all’attenzione mediatica, prima per le rivolte - le più gravi dal dopoguerra - e poi per le misure di scarcerazione, che si prestano sempre a solleticare l’indignazione pubblica. Ma cosa è successo davvero dietro le mura carcerarie? In quanti sono effettivamente usciti? E soprattutto, i mesi appena trascorsi cosa ci dicono su come cambierà - o potrebbe cambiare - l’universo penitenziario? Poche settimane fa l’Associazione Antigone ha presentato il suo rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia. Il report è stato aggiornato con gli eventi recenti legati al Covid-19 ma il grosso dei dati era già stato raccolto e metteva in luce due problematiche che influenzeranno gli eventi successivi: il ben noto sovraffollamento e, per converso, la scarsità di alcune figure professionali. Le carceri italiane sono tra le più affollate d’Europa, con un tasso che si aggira intorno al 130% con picchi del 195% a Taranto e Como. Anche l’età dei detenuti è più alta che altrove, il che comporta maggiore vulnerabilità al Coronavirus, soprattutto se si aggiungono altri fattori che influenzano la salubrità, come l’installazione del WC in un ambiente separato dalla cella, la possibilità di mantenersi attivi (garantita giornalmente in 57 istituti ma non in 35) o l’accesso alla luce del giorno, compromessa in 29 istituti su 98. Quanto alla carenza di personale, dipende dal tipo di figura: il numero di agenti di polizia penitenziaria per detenuto è infatti il più alto d’Europa, come spiega a Rolling Stone Alessio Scandurra di Antigone: “A mancare è il personale sanitario, gli educatori, gli psicologici e addirittura i direttori, spesso condivisi tra diversi istituti, costretti quindi a recarsi nella realtà singola solo per firmare carte e avvallare decisioni altrui”. Proprio la macchina burocratica scricchiolante può essere stato uno dei fattori che ha portato alle rivolte, che secondo Scandurra, più che essere orchestrate dalla mafia sono state originate da difficoltà comunicative. “Le restrizioni erano necessarie, perché il carcere è un luogo in cui è difficile arginare le malattie infettive e l’unica possibilità è tenere il virus fuori, come dimostra il fatto che in molti istituti si sono registrati zero casi e pochi, come Verona e Torino, ne hanno avuti invece moltissimi”. Il fatto è che le misure sono state introdotte senza adeguate spiegazioni e questo ha generato panico. “Si è sospettato che la situazione fosse più grave di quanto veniva detto e che il virus fosse già entrato negli istituti. Alla sensazione di pericolo si è aggiunta la paura dell’isolamento: il carcere non è una realtà autosufficiente, tutto arriva dall’esterno e l’idea di restare tagliati fuori dal mondo è angosciante. Vuol dire diventare totalmente invisibili”. A tutto ciò si somma la rabbia per la sospensione dei colloqui, con gli agenti che invece entrano ed escono senza controlli e il paradosso di sentirsi ripetere di mantenere le distanze quando è materialmente impossibile. “Pian piano”, riprende Scandurra, “il sistema si è in qualche modo attrezzato: sono arrivate le mascherine, i detersivi, gli smartphone e gli ipad”. Intanto però ci sono state le rivolte, che tra l’8 e il 9 marzo si sono propagate in quasi tutte le carceri italiane. Ci sono stati i morti - ben 13 - le sezioni distrutte e gli assalti alle infermerie - che la dicono lunga sulle condizioni di chi vive in carcere e che invece di svignarsela pensa al metadone. E ci sono stati gli episodi di rappresaglia. In seguito alle segnalazioni ricevute, Antigone ha presentato quattro esposti per quattro carceri diverse. Non si parla di violenze per sedare la rivolta ma di pestaggi brutali e organizzati nei confronti di detenuti ormai in cella, a luci spente: “manganellate, calci, pugni e teste rasate”, come si legge nel rapporto dell’associazione. Naturalmente le immagini più spettacolari si sono prese tutto lo spazio e le proteste pacifiche - la maggior parte - hanno avuto ben scarsa visibilità. Hanno fatto invece scalpore le “scarcerazioni” introdotte per ridimensionare l’affollamento. Da fine febbraio a fine aprile si è registrato un calo complessivo di 7.326 presenze nella popolazione carceraria. 3.282 sono passati alla detenzione domiciliare grazie al decreto Cura Italia - persone condannate per reati non gravi con meno di 18 mesi da scontare o detenuti anziani con condizioni di salute difficili -, altri semplicemente non sono entrati. Col lockdown si è avuto un forte calo dei reati, di conseguenza, ai detenuti scarcerati per aver scontato la propria pena, non sono corrisposti altrettanti nuovi ingressi. Si è anche parlato di centinaia di mafiosi scarcerati: in realtà i detenuti al 41-bis che hanno avuto i domiciliari sono stati 4, anziani e malati. “È bene ricordare”, dice Scandurra, “che le persone in esecuzione di pena soggette a misure alternative - come la detenzione domiciliare, la semilibertà o l’affidamento in prova - sono già diverse migliaia ed eseguono la pena senza problemi, con tassi di recidiva più bassi di quelli che si hanno in carcere”. Rilasci a parte, nel carcere ai tempi del Covid-19 c’è stato anche un nuovo ingresso: la tecnologia. Ai detenuti è stato finalmente consentito l’uso di smartphone (non personali) e di Skype per sentire e vedere a distanza i propri cari. “Il carcere”, spiega Scandurra, “è stato costretto a superare la sua diffidenza cronica nei confronti delle nuove tecnologie e questo è importantissimo. Dal punto di vista tecnologico, negli ultimi 20 anni la vita della società libera è cambiata radicalmente mentre in carcere è rimasto tutto uguale. I detenuti hanno ancora a disposizione una sola telefonata di 10 minuti la settimana. Quando questa norma è stata introdotta, negli anni 70, non era pensata come un provvedimento punitivo: un qualsiasi lavoratore fuori sede telefonava a casa più o meno con gli stessi tempi e la stessa cadenza, perché era un’operazione costosa. Oggi invece il gap è abissale e non c’è motivo di mantenerlo tale. Nella realtà attuale è impensabile coltivare un rapporto con la famiglia a queste condizioni, e va a finire che quando esci una famiglia non ce l’hai più. E la famiglia è la risorsa principale dopo la scarcerazione, perché se quando vieni rilasciato non hai un lavoro, non hai una casa ma hai una famiglia, puoi andare avanti finché non ti rimetti in sesto, se non ce l’hai…”. Gli ultimi aggiornamenti: al momento 44 agenti di polizia penitenziaria sono iscritti nel registro degli indagati per aver aggredito i detenuti di Santa Maria Capua Vetere come rappresaglia a una rivolta ormai conclusa. Salvini ha manifestato in loro sostegno, con scarso successo. Nella maggior parte degli istituti le attività destinate ai detenuti come le lezioni, la formazione professionale o i colloqui psicologici non sono ancora riprese, nemmeno a distanza. Il calo delle presenze in carcere si è fermato: il decreto Cura Italia ha contributo a snellire un po’ l’affollamento, ma i numeri rimangono alti. E una novità che fa ben sperare: la tecnologia è finalmente entrata nelle carceri, il mondo non è crollato, il sistema non è imploso e non c’è fretta di rimandarla fuori. Costa (Fi): “Migliaia di persone arrestate ingiustamente. Ma Bonafede non dice nulla” Il Dubbio, 6 luglio 2020 “Nel 2019 i casi di ingiusta detenzione sono stati 1000, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 44.894.510,30 euro. Rispetto all’anno precedente, sono in deciso aumento il numero di casi (+105) e soprattutto la spesa (+33%)”. “Persone arrestate ingiustamente, famiglie distrutte, attività lavorative andate in frantumi, ondate di fango sulle persone arrestate, e, soprattutto nessuno che paghi per gli errori commessi. Anzi, spesso chi ha sbagliato è promosso a prestigiosi incarichi”. Lo dichiara in una nota sull’ingiusta detenzione il deputato di Forza Italia e responsabile del dipartimento giustizia del movimento azzurro, Enrico Costa. Aumentano i casi di ingiusta detenzioni - “Nel 2019 - prosegue - i casi di ingiusta detenzione sono stati 1000, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 44.894.510,30 euro. Rispetto all’anno precedente, sono in deciso aumento il numero di casi (+105) e soprattutto la spesa (+33%). Sul sito “errorigiudiziari.com” - sottolinea ancora Costa - emerge che nel 2019 il record di casi indennizzati spetta a Napoli con 129 seguita da Reggio Calabria con 120 e da Roma con 105, poi Catanzaro con 83 casi, Bari con 78 e Catania con 75. Il record della somma per indennizzi per il 2019 spetta invece a Reggio Calabria con 9.836.000 euro, seguita da Roma con 4.897.000 e Catanzaro con 4.458.000?. “Dal 1992 al 31 dicembre 2019, si sono registrati 28.702 casi: in media, 1025 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa che supera i 757 milioni di euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27 milioni di euro l’anno. A pagare è solo lo Stato, mai il magistrato che ha sbagliato. Sull’ingiusta detenzione Bonafede non dice nulla - Il Ministro Bonafede sempre così solerte a mandare gli ispettori, quando qualcuno viene, a suo dire, scarcerato ingiustamente, è immobile. Così facendo sostiene implicitamente la tesi davighiana sugli indennizzati per ingiusta detenzione, secondo la quale “in buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca”. Vite distrutte per chi finisce ingiustamente in galera, situazioni che talvolta rasentano il sequestro di persona, per totale assenza di requisiti cautelari”, osserva. Ma questo, conclude, “è un andazzo che finirà quando verrà approvata la nostra proposta di legge che consentirà di infliggere sanzioni disciplinari a carico di chi abbia “concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione. Abbiamo chiesto l’urgente calendarizzazione in Commissione giustizia. Vedremo se la maggioranza la affosserà ancora una volta”. Di Pietro: “Il caso Palamara ricorda Tangentopoli” di Pietro Senaldi Libero, 6 luglio 2020 L’ex pm: “Allora i politici si spartivano i soldi, oggi le toghe si dividono il potere. Non è colpa solo dell’ex capo dell’Anm”. “Benvenuti nell’Italia dei disvalori, un Paese in confusione totale, in guerra con i padri costituenti, dove ogni anno che passa aumentano le violazioni alla Carta e cala il tasso di democrazia”. Requisitoria di Antonio Di Pietro, il pm più famoso della storia della Repubblica. Da magistrato, ha puntato il dito contro la politica; mollata da tempo la toga, allarga il j’accuse a molti suoi ex colleghi. “Ma non alla categoria”, ci tiene a precisare, “perché sono gli individui che hanno umiliato la magistratura, come sono i singoli parlamentari che hanno fatto sì che ora tutto il Palazzo venga visto come il luogo del malaffare. La responsabilità, d’altronde, è sempre personale”. Questo però non impedisce all’eroe di Mani Pulite di processare come al solito, non l’individuo, ma il sistema. “Non condivido l’idea per cui Palamara è il male assoluto. Non era da solo a manovrare. Più dell’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, di cui ormai sappiamo anche troppo, mi preoccupano i tanti Palamara non emersi, tutti coloro che non sono stati intercettati ma comunque hanno trasformato la magistratura da servizio in occasione di potere personale, realizzando una mutazione genetica di un’istituzione nata per difendere lo Stato e i cittadini”. Ma Di Pietro, è tutta colpa vostra se la giustizia è diventata strumento di potere politico, siete stati voi a iniziare… “Nella mia vita sono stato accusato di aver fatto un uso politico della giustizia, ma la verità è che altri hanno fatto un uso politico della mia attività giudiziaria, sia contestandomi, sia per sfruttare il vento e farsi portare al traguardo”. Berlusconi l’ha contestata e la sinistra l’ha sfruttata? “Guardi, Mani Pulite era un’inchiesta che partiva dai reati e poi è arrivata alla politica, quando abbiamo trovato i soldi nascosti nei divani. Le inchieste politiche oggi partono dalla persona per vedere se si riesce ad arrivare a qualche reato. Mani Pulite era un’operazione chirurgica, noi eravamo dei medici; poi sono subentrati i paramedici, e i risultati si sono visti”. I paramedici sono quelli che usano la giustizia a scopi politici? “Sono i magistrati che aprono le inchieste pensando alla propria realizzazione privata anziché alla loro funzione istituzionale. E se poi l’inchiesta si chiude con un nulla di fatto, nel frattempo loro ne hanno tratto beneficio”. Può farmi degli esempi? “Pensi al reato di abuso di ufficio, in cui il politico di turno deve dimostrare di non essere colpevole. È la resa del diritto: si anticipa la condanna non essendo in grado di provare il reato. Sono inchieste che garantiscono notorietà ma non giustizia”. Il caso Palamara è la Tangentopoli dei giudici? “A volerla tirare molto sì, perché allora tutti i politici si mettevano d’accordo per spartirsi le mazzette mentre oggi le toghe si accordano per dividersi il potere. E in entrambi i casi c’è stata una degenerazione, un tempo dei partiti, adesso della magistratura. Però è anche vero che, ora come allora, anche nelle categorie screditate ci sono molte brave persone. Lei non deve guardare all’Anm, che per quel che mi riguarda neppure dovrebbe esistere, visto che i sindacati servono per difendere i lavoratori dal potere ma i magistrati, che hanno il potere più grande, da che cosa si dovrebbero mai difendere? Deve guardare i giudici della porta accanto, quelli che frequento tutti i giorni in tribunale da avvocato, gente preparatissima e laboriosa”. E allora perché comandano le mele marce? “Perché l’Italia è divisa da sempre in chi lo mette e chi lo prende. La scelta di accentrare i poteri della magistratura nella figura del capo e nelle super Procure inibisce molti giudici e li priva di libertà nel loro lavoro”. In magistratura c’è una dittatura dei peggiori? “Diciamo che chi canta fuori dal coro poi ne paga le conseguenze. Io ero un cane sciolto, quando fui attaccato processualmente, nessun collega mi difese. E lo stesso capitò, più o meno negli stessi anni, a Falcone. Guardi, un magistrato può essere fermato solo facendolo saltare in aria, come capitò a Giovanni, o da un altro magistrato, come capitò a me”. Anche Palamara è stato fermato da altri magistrati: regolamento di conti? “E qui torniamo al discorso dei magistrati non intercettati. Se Palamara oggi ha perso, significa che qualcun altro ha vinto. La storia d’Italia è dominata dall’invidia e dall’accidia”. Palamara si difende dicendo che così fan tutti… “Come disse Craxi in Parlamento, un discorso di alta responsabilità, ma che di fatto era una confessione”. Come se ne viene fuori? “Il Csm ha creato il cancro che lo sta uccidendo, scegliendo il sistema elettivo e aprendo delle vere e proprie campagne elettorali, dove ciascun aspirante a posizioni di vertice ha i suoi sponsor, le sue promesse, i suoi debiti da onorare. Le nomine dei capi della magistratura non devono essere fatte dalle correnti ma dal presidente della Repubblica, dalla Corte Costituzionale e, per la restante parte, tirate a sorte”. Perché lei fu fermato? “Perché stavo indagando sui collegamenti tra la mafia e l’imprenditoria del Nord; e questo dava fastidio a molti”. Cosa pensa dell’audio del magistrato che condannò Berlusconi e poi andò da lui per scusarsi? “Berlusconi da sempre fa la vittima e gioca sugli attacchi alla propria persona. È un gioco che non mi piace. Ma se chiudo gli occhi, la cosa che mi fa più male è il magistrato che rinnega se stesso: una sentenza o non la firmi o, se la sottoscrivi, poi te ne assumi le responsabilità”. I magistrati non parlano un po’ troppo? “Si è diffusa la dipietrite”. Me la spieghi meglio… “Tutti vogliono diventare delle star, avere i loro cinque minuti di gloria, come me ai tempi di Mani Pulite, solo che io non me la sono cercata”. Però l’ha cavalcata bene… “Ho fatto tutte le parti in commedia del processo penale, compreso quella dell’imputato. E le garantisco che non mi sono divertito. Oggi sto bene nei panni dell’avvocato”. Avvocato, perché la giustizia non funziona se la maggior parte dei giudici è così brava? “Per carenza di strutture e di personale”. Faccio appello: quando le cose non funzionano il difetto va cercato nel manico… “Allora le dico che non mi piace come si fanno le inchieste oggi: si procede per associazione a delinquere per poter fare intercettazioni a strascico alla ricerca del reato. Io ho fatto tutta Tangentopoli senza mai ricorrere a certi mezzucci”. Ministro Salute: “Covid, multe e carcere per chi non rispetta la quarantena” ansa.it, 6 luglio 2020 Il ministro della Salute Roberto Speranza ha dato mandato all’ufficio legislativo del suo dicastero per verificare il quadro normativo sui trattamenti sanitari obbligatori (Tso). L’obiettivo è quello di studiare una eventuale norma più stringente che riguarda la tutela contro il Covid dopo il caso del focolaio veneto. La verifica tecnica servirà anche di supporto alle eventuali scelte in questo senso delle autorità locali. Speranza infatti intima massima prudenza e ricorda che il contagio non è affatto battuto: “Il messaggio che arriva dalla lettura dei dati è che il virus circola ancora: finché sarà così, non potremo considerare il pericolo alle spalle. Lavoriamo ogni giorno perché non si torni mai più al livello di sofferenza di marzo. Per questo, su ogni atto, seguo il principio della massima prudenza” ha dichiarato il ministro della Salute, che ha anche ricordato che esistono già sanzioni e anche il carcere per chiunque non rispetti la quarantena: “Oggi se una persona è positiva e non resta in isolamento ha una sanzione penale da 3 a 18 mesi di carcere. E c’è una multa fino a 5mila euro” e se da una parte è ritenuto “inaccettabile” quanto accaduto in Veneto, dall’altra Speranza si mostra positivo, visto che la stragrande maggioranza della popolazione ha contribuito ad abbassare la curva del contagio. “Rispettare le tre regole residue” - E’ sempre il ministro ad percepire che l’attenzione verso il virus a partire dalla fine del lockdown sia decisamente calata, come se il tutto facesse oramai parte del passato, anche se i nuovi focolai dicono il contrario: Speranza ribadisce che attraverso la persuasione sarà possibile convincere di nuovo la popolazione a collaborare per evitare che i numeri risalgano di nuovo, e invita a rispettare le tre “norme” superstiti dal periodo del lockdown, ovvero distanziamento sociale, igiene delle mani e l’utilizzo delle mascherine. Interrompe i lavori il tavolo ministeriale sulla mediazione di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2020 Si è chiusa il 30 giugno l’esperienza del tavolo tecnico sulle procedure stragiudiziali in ambito civile e commerciale istituito lo scorso dicembre presso il ministero della Giustizia. Uno stop che ha rispettato la scadenza fissata in origine per i lavori. Tuttavia, i componenti del tavolo contavano su una proroga: “Fino al prossimo ottobre, per poter portare a compimento le attività avviate e per cui è stata compiuta l’attività istruttoria. Fermandoci ora, invece, resta interrotta la fase che avrebbe condotto alla realizzazione dei progetti”, spiega Paola Lucarelli, docente di diritto commerciale all’Università di Firenze e che del tavolo tecnico è stata la coordinatrice. Obiettivo del tavolo era realizzare una ricognizione delle procedure stragiudiziali esistenti per potenziarne l’utilizzo e facilitare così l’accesso alla giustizia. E la fine dei lavori arriva proprio nel giorno in cui è stato ripreso il filo della riforma del processo civile, con l’incontro al ministero della Giustizia dei rappresentanti dell’avvocatura. Nei fatti, il confronto tra gli esperti al tavolo tecnico è iniziato lo scorso gennaio ma ha subito un rallentamento a inizio marzo, quando, a causa dell’emergenza sanitaria, gli incontri sono stati sospesi per un periodo prima di riprendere da remoto. In questi mesi “abbiamo adottato alcune iniziative legate alla crisi causata dalla pandemia”, spiega Lucarelli. In particolare, è stato elaborato il Manifesto della giustizia complementare alla giurisdizione, che contiene l’invito - diretto agli operatori, agli utenti della giustizia e ai decisori - a lavorare per gestire il contenzioso con le procedure stragiudiziali. Al Manifesto hanno aderito magistrati, accademici e studiosi, mediatori e avvocati, ordini professionali e associazioni. Per concretizzare i principi enunciati nel Manifesto, il tavolo tecnico ha proposto al ministro alcuni interventi normativi: incentivi economici per le parti; una spinta alla mediazione ordinata dai giudici; e la previsione che la mediazione diventi condizione di procedibilità in giudizio per le liti derivate dalle misure di contenimento del virus (quest’ultima diventata legge con la conversione del Dl 28/2020). Inoltre, il tavolo ha lavorato su progetti di innovazione della giustizia complementare più ampi, che rischiano di restare a metà. Tra questi, c’è l’estensione dei modelli per diffondere la risoluzione stragiudiziale delle controversie, già adottati dai tribunali di Firenze, Perugia, Verona, Trento e Pistoia, che puntano sull’invio in mediazione delle parti in lite da parte dei giudici. Al tavolo sono stati individuati gli uffici giudiziari più in difficoltà nella gestione delle cause civili, ma l’effettiva diffusione dei modelli non è stata avviata. È stato inoltre progettato (ma non realizzato) l’osservatorio ministeriale sulla circolazione delle pratiche di mediazione. Ancora incompiute anche le procedure informatiche necessarie per rilevare i provvedimenti giudiziali di invio in mediazione e di conciliazione giudiziale. E rischiano di restare sulla carta anche le altre proposte normative studiate al tavolo: i correttivi alle norme in materia di mediazione, di Camera arbitrale e di attuazione della direttiva consumo, e la redazione del Testo unico in materia di procedure stragiudiziali. Più dati contro le mafie. Un’intesa ad hoc tra la Dna e l’Eurispes di Marzia Paolucci Italia Oggi, 6 luglio 2020 L’attività di ricerca dell’Eurispes torna al servizio della Direzione nazionale antimafia grazie al rinnovo e all’ampliamento del protocollo d’intesa triennale del 2017. Il nuovo protocollo d’intesa e di collaborazione istituzionale tra la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo guidata dal procuratore Federico Cafiero De Raho e l’istituto Eurispes, è stato siglato a Roma, il 12 giugno 2020. L’accordo rinnova il piano triennale attivo dal 2017, per l’analisi e l’approfondimento di dati e informazioni con cui l’Eurispes aiuterà le attività della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ricavando insieme indicazioni con cui indirizzare la propria attività di ricerca e analisi internazionale su fenomeni emergenti e di grande rilevanza nell’evoluzione della criminalità organizzata e del terrorismo. Convenzione ampliata nel segno della segretezza impegnando le due realtà a coordinare l’attività dell’osservatorio permanente sulla sicurezza che raccoglie informazioni e analisi da mettere a disposizione del sistema d’intelligence del paese. L’organo è diretto dal generale Pasquale Preziosa, già capo di stato maggiore dell’aeronautica militare e dai vicepresidenti Roberto De Vita, avvocato penalista esperto di cyber-security in rappresentanza dell’Eurispes e per la Dna, Giovanni Russo, procuratore aggiunto. Dentro, una ventina di esperti tra studiosi, docenti, magistrati, forze dell’ordine ed esperti operanti nei settori della sicurezza della lotta alle mafie e al terrorismo. Una collaborazione raccontata a Italia Oggi Sette da Gian Maria Fara, presidente Eurispes. Al centro la lettura, l’analisi dei dati, delle informazioni e l’elaborazione di scenari prevedendone i possibili accadimenti. L’idea è quella di mettere a disposizione di forze dell’ordine e magistratura la nostra capacità di leggere e analizzare dati cercando di intercettare i fenomeni prima che accadano come abbiamo sempre fatto. Negli anni li abbiamo raccontati con vent’anni d’anticipo, a cominciare dalle ecomafie e agromafie di cui abbiamo stilato i primi rapporti tra i legami della criminalità organizzata e la filiera ambientale e agricola italiana. E nella stessa ottica prosegue questo protocollo che conferma il riconoscimento dell’importanza del lavoro svolto sui temi della sicurezza e della lotta alle mafie in spirito di servizio dall’Eurispes dal 1982 a oggi, e inizia il potenziamento delle attività di ricerca e di studio innovativo che saranno anche di ausilio alla Dna nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali”. Per il procuratore della Direzione nazionale antimafia, Cafiero De Raho, intervenuto alla firma dell’intesa, si tratta di “un ulteriore e importante tassello ad un lungo percorso di vicinanza e collaborazione con l’istituto sempre in prima linea nell’osservazione puntuale delle dinamiche criminali interne e internazionali del nostro Paese. Con il lavoro dell’Osservatorio avremo l’opportunità di approfondire le tendenze in atto e anticipare scenari e avviare azioni mirate di contrasto al crimine organizzato”. Graziano Mesina e la fuga dal carcere a vita di Gioacchino Criaco Il Riformista, 6 luglio 2020 Gratzianeddu s’avanza sul corso Garibaldi, l’ombra lunga, spropositata, sulla strada, a dispetto di un’altezza scarsa compensata dal magnetismo di uno sguardo che annulla ogni altra parte del corpo. Occhiate complici, che si scambiano con i ribelli tratteggiati sui murales. Orgosolo sa di Messico, di rivoluzioni inutili che si susseguono non per risolvere ingiuste sconfitte sociali, ma al solo fine di perpetuare il conflitto: fra lo Stato e uno spirito pagano, irredento e irredimibile. Graziano Mesina è la prova evidente che il carcere sia una afflizione che non serve, se il fine non sia la pacificazione fra l’individuo e la collettività che lo costringe a limare le proprie libertà, anche i propri vizi. Gratzianeddu ha trascorso in galera la maggior parte dei suoi 78 anni, si incontra e divorzia dal carcere da quando aveva 14 anni e fu sorpreso con un fucile da caccia rubato. Fughe e carcerazioni, che si sono alternate col respiro corto, che ancora una volta si affrontano. Ma ora lo scontro è quello definitivo: la Cassazione ha reso irrevocabile una condanna a trent’anni per traffico di droga. La Grazia che gli era stata concessa nel ‘92, in concomitanza con la liberazione di Faoruk Kassam, decade. Sarà prigione per sempre, fino alla morte, se vince lo Stato. Così, il giorno in cui la sua pena diventava definitiva in Cassazione, Mesina non ha attraversato il corso Garibaldi, per andare a firmare il registro nella caserma dei carabinieri, come faceva da un anno, da quando era uscito dal carcere per la scadenza dei termini di custodia cautelare. I carabinieri sono corsi inutilmente a casa di Peppedda, per trovare il fratello Graziano. Sul corso Garibaldi sono rimasti, a corona, gli sguardi dei vecchi, coevi di Gratzianeddu, che per anni lo hanno visto solo nelle sue ore di libertà. Hanno occhi murati, puoi guardarci dentro quanto vuoi, non lo si trova un indizio di verità, né se della fuga siano contenti o meno, o se l’abbiano odiato o amato Graziano. Sono occhi, però, che questa storia l’avrebbero potuta raccontare prima che accadesse, prima dell’ultima fuga, prima del primo arresto. Storie così da queste parti galleggiano nell’aria che arriva dalle grotte del Gennargentu. Storie così hanno il sapore dei lecceti, delle sugheraie del Supramonte, sanno del rancido del formaggio di pecora che il pastore si trascina dietro, per sfamarsi, nelle transumanze infinite che da queste parti avvincono uomini e bestie. Chissà cosa sceglierà Gratzianeddu: la libertà montana del latitante, fatta di cambi continui di ovile, di solitudine che toglie il fiato, grotte umide e sudore che si attacca al velluto delle eriche? O quella libertà a termine delle comodità di paese, cittadine? Se sceglierà la civiltà primordiale e intonsa della Barbagia, o un obiettivo da cine giornale, per recitare un’ultima volta la parte del bandito romantico? Grazie alle circostanze attenuanti messa alla prova anche per l’omicidio stradale di Luca de Sio Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2020 Tra i tanti punti interrogativi suscitati dalla legge 41/2016, che ha introdotto il reato di omicidio stradale, vi è quello del rapporto tra alcune delle fattispecie previste e l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova disciplinato dall’articolo 168-bis del Codice penale. Sul punto, volendo confrontarsi direttamente con la grave ipotesi omicidiaria prevista dall’articolo 589-bis del Codice penale, si dovrebbe a prima vista escludere la possibilità di accedere alla sospensione per messa alla prova in considerazione della pena edittale massima di 7 anni, ben superiore, quindi, al limite di 4 anni indicato dall’articolo 168-bis del Codice penale. Il Gup di Trento - Ma il Gup di Trento in un caso (invero piuttosto particolare) di omicidio stradale ha optato per computare ai fini della concedibilità della messa alla prova la circostanza attenuante a effetto speciale prevista dal comma 7 dell’articolo 589-bis (concorso di colpa della vittima), con possibile riduzione della pena sino alla metà. La Cassazione - Sul punto è intervenuta la Cassazione a Sezioni unite che, con la sentenza 36272/2016, ha precisato come, al fine di stabilire la pena edittale di riferimento per la messa alla prova, non debba tenersi conto delle circostanze aggravanti (nemmeno quelle a effetto speciale); nulla però ha disposto su quelle attenuanti. Il Gup di Trento, dunque, in assenza di specifiche disposizioni o divieti in tal senso e in armonia con l’intento deflattivo e special-preventivo dell’istituto, ha applicato la suddetta attenuante addivenendo a una pena di 3 anni e 6 mesi (inferiore, dunque, ai 4 anni previsti dall’articolo 168-bis) e ammettendo l’imputato alla messa alla prova. Un intervento che, ancorché “forzato”, costituisce un precedente con cui si dovranno in qualche modo confrontare i successivi pronunciamenti giurisprudenziali. Furto consumato quando il soggetto è stato in possesso anche per poco tempo della refurtiva di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2020 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 11 giugno 2020 n. 17954. Furto consumato quando il soggetto è stato in possesso anche per poco della refurtiva. Risponde del delitto di furto consumato e non tentato colui che, pur non essendosi allontanato dal luogo di commissione del reato, abbia conseguito, anche se per breve tempo, la piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva. Così la sezione V penale della Cassazione con la sentenza 17954/2020. La Corte ha comunque tenuto a chiarire che peculiare e ben diversa è la disciplina applicabile al furto all’interno di un supermercato, rispetto al quale secondo la giurisprudenza, anche delle sezioni Unite, va esclusa la consumazione del reato nell’ipotesi in cui il reo si trattenga, all’interno del negozio, sotto la diretta osservazione della persona offesa o dei dipendenti addetti alla sorveglianza mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, atteso che tale intervento difensivo in continenti esclude il conseguimento, da parte del reo, dell’autonoma ed effettiva disponibilità della cosa, con cui la persona offesa mantiene una relazione, potendo recuperarla in ogni momento (cfr. sezioni Unite, 17 luglio 2014, Proc. gen. App. Brescia in proc. Cukon e altro, laddove si è affermato che il monitoraggio nell’attualità dell’azione furtiva avviata, esercitato sia mediante la diretta osservazione della persona offesa - o dei dipendenti addetti alla sorveglianza o delle forze dell’ordine presenti in loco, sia mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, e il conseguente intervento difensivo in continenti, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del delitto di furto, che resta allo stadio del tentativo, in quanto l’agente non ha conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo; nella specie, la Corte, rigettando il ricorso del procuratore generale, ha ritenuto corretta la decisione che aveva qualificato a titolo di tentativo la condotta degli imputati, i quali avevano prelevato la merce dai banchi di esposizione di un supermercato, rimuovendo le placche antitaccheggio e occultandola dentro una borsa e sotto gli indumenti all’atto del superamento delle casse, ma ciò sotto il controllo dell’addetto alla sicurezza, intervenuto all’esterno dell’esercizio commerciale). Potere del giudice del riesame di annullare l’ordinanza genetica. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2020 Misure cautelari - Personali - Riesame - Incompetenza territoriale - Pubblico ministero - Interesse ad impugnare per carenza condizioni di applicabilità - Sussistenza. Sussiste l’interesse del pubblico ministero a impugnare il provvedimento con il quale il tribunale del riesame, rilevata l’incompetenza del giudice per le indagini preliminari, annulli, per carenza delle condizioni di applicabilità, l’ordinanza con cui quello stesso giudice ha disposto la misura cautelare della custodia in carcere, se l’impugnazione è funzionale a garantire il tempestivo intervento del giudice competente. • Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 24 giugno 2020 n. 19214. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - In genere - Incompetenza territoriale dichiarata in fase di indagini preliminari - Pubblico ministero - Interesse a impugnare - Sussistenza - Condizioni. In tema di misure cautelari, sussiste l’interesse del pubblico ministero a impugnare l’ordinanza del tribunale del riesame che, dichiarata l’incompetenza per territorio, annulli la misura per insussistenza dell’urgenza e degli ulteriori presupposti che legittimano l’attivazione del meccanismo di inefficacia differita di cui all’art. 27 cod. proc. pen. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 14 novembre 2019 n. 46404. Competenza - Dichiarazione di incompetenza - Misure cautelari disposte - Incompetenza per territorio del giudice della cautela rilevata nel giudizio di legittimità - Annullamento del provvedimento del tribunale del riesame - Condizioni. In caso di incompetenza per territorio del giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, rilevata in sede di legittimità, l’ordinanza impugnata deve essere annullata se, a un preliminare esame della stessa e del provvedimento genetico di applicazione della misura, non si rilevi la necessaria specificazione dei gravi indizi di colpevolezza e l’indicazione delle esigenze cautelari connesse con l’urgenza di adottare la misura; nel caso, invece, di riscontro positivo di tali requisiti, il provvedimento impugnato non va annullato, ma deve essere dichiarata l’incompetenza del giudice che procede e disposta la trasmissione degli atti al giudice ritenuto competente. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 19 luglio 2017 n. 35630. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - Riesame - In genere - G.i.p. incompetente - Poteri del tribunale del riesame - Valutazione dell’urgenza - Necessità. Il tribunale del riesame, qualora rilevi l’incompetenza territoriale del giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, anche se non dichiarata da quest’ultimo, deve verificare la sussistenza del requisito dell’urgenza che legittima il giudice incompetente ad adottare misure cautelari. (In motivazione la S.C. ha inoltre escluso che, nel giudizio di riesame avverso l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 27 c.p.p. dal g.i.p. indicato come competente, il tribunale del riesame possa sindacare la ricorrenza dei presupposti di urgenza ritenuti con ordinanza, non autonomamente impugnata, emessa dal giudice dichiaratosi incompetente). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 3 febbraio 2017 n. 5312. Misure cautelari personali - Incompetenza per territorio del giudice che ha emesso il provvedimento - Insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e le indicazioni delle esigenze cautelari - Annullamento dell’ordinanza del tribunale del riesame - Conferma della decisione resa dal giudice incompetente in ipotesi di riscontro positivo di tali requisiti - Esiti della declaratoria di incompetenza - Trasmissione degli atti al giudice competente. In caso di incompetenza per territorio del giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, l’ordinanza del Tribunale del riesame deve essere annullata ove non si rilevi la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e l’indicazione delle esigenze cautelari connesse con l’urgenza di adottare la misura dovendosi invece, in ipotesi di riscontro positivo di tali requisiti, confermare la decisione resa dal Giudice incompetente e, in esito alla declaratoria di incompetenza disporsi la trasmissione degli atti al giudice ritenuto competente. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 9 luglio 2015 n. 29315. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - Riesame - In genere - Incompetenza territoriale del giudice che ha emesso il provvedimento dichiarata in penale sede di impugnazione - Valutazione dell’urgenza - Esclusione - Ragioni - Conseguenze. In tema di misure cautelari personali, il giudice dell’impugnazione, quando rileva l’incompetenza del giudice che ha adottato il provvedimento coercitivo deve limitarsi a trasmettere gli atti al giudice ritenuto competente, perché lo stesso provveda nei termini fissati dall’art. 27 cod. proc. pen. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la disposizione dell’art. 291 del codice di rito- che impone al giudice che riconosca la propria incompetenza di valutare l’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze cautelari, prima di disporre la misura - si applica solo quando la declaratoria di incompetenza venga adottata al momento dell’emissione dell’ordinanza cautelare). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 1 dicembre 2014 n. 50078. Lettera aperta dai detenuti del carcere delle Vallette pressenza.com, 6 luglio 2020 Siamo le detenute ed i detenuti del Carcere di Torino e con questa nostra lettera chiediamo che venga nuovamente presa in esame la proposta per la liberazione anticipata di 75 giorni (cinque mesi annuali). Il problema delle carceri, dovuto al numero in eccesso di detenuti, ristretti in strutture fatiscenti, non si risolve con le misure alternative. Infatti, le misure alternative vengono applicate o meno in base alla discrezionalità dei magistrati di sorveglianza; purtroppo Torino ha il primato di rigetti ed inoltre l’accesso a queste misure non è praticabile per tanti ristretti (mancanza di un domicilio, di un sostegno esterno, carenza di percorsi di reinserimento o riabilitativi per tossicodipendenti). Anche con il diffondersi del Covid-19, la situazione del sovraffollamento delle carceri non è migliorata e ci riteniamo fortunati di non aver fatto la fine dei residenti delle Rsa. Siamo il paese con le pene più alte d’Europa e pur facendo parte dell’UE il nostro sistema giuridico e penitenziario non è adeguato rispetto a quello degli altri stati membri ed alle normative comunitarie, testimonianza non sono solo le storie di noi detenuti, ma soprattutto le sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani e le sanzioni di cui l’Italia è stata oggetto. L’accoglimento della liberazione anticipata speciale, estesa per l’intera popolazione detenuta, compresi coloro che hanno l’articolo 4 bis darebbe una sorta di civiltà ed utilità all’espiazione. Nelle carceri si riflettono le stesse problematiche e gli stessi disagi sociale “dell’esterno” prima fra tutte la carenza di occupazione e di prospettive per il futuro. Tutto ciò provoca un divario tra la popolazione detenuta stessa, si crea un distinguo tra detenuti di serie A, che lavorano, studiano o sono inseriti in corsi e detenuti di serie B. Coloro che riescono a lavorare o frequentare un corso hanno la possibilità di farsi conoscere e seguire dagli educatori ed hanno così più possibilità di entrare in un percorso lavorativo e di reinserimento sociale evitando una più probabile recidiva in cui potrebbero incappare coloro che durante la detenzione sono abbandonati a loro stessi. Riducendo il sovraffollamento si ridà alla pena la sua finalità “rieducativa”, con un minor numero di detenuti si verrebbero a creare concrete possibilità (per un cambiamento), sia per noi che per gli operanti dell’area trattamentale che avrebbero l’opportunità di seguire al meglio il percorso dei detenuti e di finalizzarlo alla rieducazione ed alla diminuzione della recidività. Quest’ultimo aspetto riguarda sia chi compie sia chi subisce i reati ed in uno stato civile non dovrebbe essere sminuito. Chiediamo inoltre che questa legge sia retroattiva alla data in cui venne sospesa: 31 dicembre 2015. I detenuti del Pad. F, Icam, B, A, C, E Napoli. Come curare i mali della giustizia: le proposte di esperti e addetti ai lavori di Viviana Lanza Il Riformista, 6 luglio 2020 Processi e indagini preliminari che durano troppi anni, intercettazioni che costano annualmente più di 12milioni di euro e che in diversi casi, come per le cosiddette intercettazioni a strascico, finiscono per essere ritenute inutilizzabili e non valide, la ripresa del lavoro in Tribunale ancora troppo lenta dopo i mesi di lockdown e dopo gli strappi tra avvocati e cancellieri sono alcune delle spine nel fianco di una giustizia che affanna. Il dietrofront, avvenuto l’altra sera, con la sospensione, decisa dal dirigente amministrativo, della decisione che la coordinatrice del settore penale del Tribunale di Napoli voleva adottare prevedendo il pagamento di una marca da 3,87 euro per conoscere per iscritto le date dei rinvii dei processi, è solo l’ultimo segnale del clima difficile che si respira. Quel punto è stato sospeso dopo la forte ondata di proteste da parte degli avvocati, sempre più delusi dai tempi stanchi della ripresa dell’attività del Palazzo di giustizia. E poi c’è il carcere, con i finanziamenti per la struttura di Poggioreale fermi al palo da tre anni, con i disagi del sovraffollamento, il rischio che l’eco delle proteste che nei giorni scorsi hanno interessato il carcere di Santa Maria Capua Vetere possa in qualche modo diffondersi anche a Napoli, con il numero di suicidi in cella che continua ad essere un pericolo attuale, ancor di più a seguito del drammatico gesto computo da un detenuto a Napoli solo pochi giorni fa, e con le difficili condizioni di vita all’interno delle celle che rendono l’espiazione della condanna (ma anche l’attesa del processo, se si parla di detenuti in attesa di giudizio) qualcosa di più simile a una tortura che a un percorso di reinserimento nella società. Eccole alcune criticità della giustizia. Eccoli i nodi del sistema che occorrerebbe sciogliere. Per recuperare efficienza ed efficacia servirebbe una riforma seria, organica, per certi versi coraggiosa. Il Riformista ha raccolto pareri e proposte di esponenti napoletani del mondo della giustizia e con il magistrato Carlo Alemi, giudice in pensione, e con gli avvocati Bruno Von Arx, penalista e docente di diritto penale, Annamaria Ziccardi, presidente del Carcere possibile onlus, e Gennaro Demetrio Paipais, presidente dell’Unione giovani penalisti, ha approfondito una riflessione sulle più attuali criticità del sistema e individuato proposte per un futuro diverso del mondo della giustizia e di quello del carcere. “Snellire le procedure per velocizzare i processi penali e le cause civili” Carlo Alemi (già presidente del Tribunale di Napoli) I tempi lunghi dei processi rendono spesso la giustizia poco tempestiva e quindi poco efficace. La media dei dibattimenti supera quello che la legge definisce “tempo ragionevole” e la mancanza di una riforma organica di tutto il sistema giustizia non consente di risolvere in maniera definitiva il problema. Per Carlo Alemi, magistrato dalla lunga esperienza, giudice in processi delicati e complessi che hanno riguardato gli anni più bui della nostra storia, dalle Brigate Rosse alla camorra di Cutolo, “il Coronavirus ha inciso in modo molto negativo sul mondo della giustizia ma ha dato una spinta ulteriore per l’informatizzazione e le procedure informatiche”. A proposito di tempi e lungaggini dei processi, Alemi aggiunge: “Di questi argomenti e delle possibili soluzioni si parla da tempo, ma la prima proposta dovrebbe essere quella di semplificare le procedure perché così si riesce ad avere una causa o un processo, a seconda se parliamo di settore civile o penale, più rapida. Finora sono state fatte riforme che in teoria dovevano servire a snellire le procedure ma che nella pratica tutto hanno ottenuto tranne che quello. Inoltre, magistrati e avvocati dovrebbero cambiare mentalità perché non sempre sono propensi ad accelerare le procedure della giustizia”. “Udienze di pomeriggio e comunicazioni via pec per superare la fase di stallo” Gennaro Demetrio Paipais (Unione dei Giovani Penalisti) La fase 2 procede a rilento. E lo stallo vissuto dalla giustizia civile e penale è alla base dello scontro tra avvocati, magistrati e cancellieri. Qual è il punto di vista di Gennaro Demetrio Paipais, leader dei Giovani Penalisti? “Crediamo che anche il settore giustizia possa riprendere progressivamente con le udienze in presenza calendarizzate, anche di pomeriggio se necessario, e con il mero rinvio da comunicare ai difensori a mezzo pec per le sole prime udienze o per le udienza da rinviare. Anche gli adempimenti potrebbero essere svolti in presenza, facendo leva sul senso di responsabilità che contraddistingue la nostra categoria professionale. Infatti, la procedura telematica e il pagamento dei diritti di copia con modello F23 hanno determinato alcune criticità in ordine alle richieste urgenti degli atti. Si potrebbe, viceversa, depositare la richiesta di copia e i diritti di copia, per poi ricevere la copia dell’atto a mezzo pec. Queste e tante altre proposte potrebbero essere sviluppate da una commissione del Consiglio dell’Ordine e della Camera penale costituita con la finalità di formulare un documento di proposte da sottoporre al presidente del Tribunale. Ed è proprio per questo che chiediamo al Consiglio dell’Ordine e alla Camera penale l’istituzione di un gruppo di avvocati penalisti che possa evidenziare criticità e avanzare proposte”. “Bene i limiti fissati dalla Cassazione alle intercettazioni a strascico” Bruno von Arx (docente di Diritto penale all’università Federico II) Dal bilancio della Procura di Napoli emerge un largo uso delle intercettazioni. Basti pensare che, nel 2019, la Procura ha speso circa 12 milioni di euro per eseguirle. Eppure a gennaio, con la sentenza Cavallo, la Cassazione ha ribadito i limiti all’uso di questo mezzo di indagine. Ecco il punto di vista dell’avvocato Bruno von Arx: “Lo strumento di indagine delle intercettazioni telefoniche e ambientali è particolarmente subdolo e insidioso perché riflette sempre una realtà virtuale che è difficile interpretare nel suo peso reale. Sono senz’altro positivi gli interventi del legislatore e l’applicazione da parte dei giudici di strumenti e di leggi che impediscano il travaso e l’uso delle intercettazioni da un procedimento all’altro. E la lungaggine delle indagini è una conseguenza patologica dell’uso improprio che si fa delle intercettazioni. Per evitare che ciò accada, ci sono allo stato degli ostacoli che la giurisprudenza e le Sezioni Unite hanno posto in essere. Tuttavia, dipende soprattutto dalla prudenza e dalla capacità del giudice di comprendere l’importanza dello strumento investigativo. Uno strumento importante anche perché è nell’uso indiscriminato delle intercettazioni che si annida la genesi dell’errore giudiziario. E l’errore è possibile proprio perché, come dicevo, si insegue una realtà virtuale, che non può essere compresa fino in fondo attraverso il mezzo dell’intercettazione”. “Subito percorsi professionali per i detenuti appena usciti dal carcere” Anna Maria Ziccardi (Il Carcere Possibile onlus) Le carceri campane scoppiano. E, al loro interno, scarseggiano strutture e figure capaci di gestire il disagio psichico e il desiderio di reinserirsi nella società nutrito dai detenuti. Il Riformista ne parla con Anna Maria Ziccardi: “Rieducazione non è tra i termini che preferisco. Il carcere va pensato soprattutto per la sua funzione di reinserimento e su questo bisogna investire in termini di risorse e personale, ma anche di coraggio. Bisogna dare ai detenuti la possibilità di fare qualcosa che non sia destinato a rimanere nel carcere, ma diventi un’opportunità da coltivare anche all’esterno. Ai detenuti bisogna offrire un’alternativa reale, così che quel che hanno imparato in carcere possano realizzarlo anche fuori evitando che, una volta scarcerati, possano ritornare al pessimo percorso che li aveva portati in cella. Abbiamo un provveditore eccezionale, un bravo direttore del carcere a Poggioreale, da Roma sono arrivati i rinforzi per il trattamento dei detenuti: se sappiamo sfruttarle, le occasioni ci sono e questo è il lavoro più utile che c’è da fare. È però anche importante che l’opinione pubblica conosca e comprenda il valore della funzione di reinserimento del carcere. Perché ora i problemi del carcere nessuno li vuole sapere, la gente li vuole lontani ed è interessata solo a tenere dentro i detenuti come se questo bastasse a risolvere i problemi. Purtroppo quella del carcere è politica che non fa voti; invece, se la curassimo di più, l’integrazione sarebbe possibile e sarebbero possibili tante cose. Milano. “Fumo e buio, sembrava un territorio di guerra” di Andrea Gianni Il Giorno, 6 luglio 2020 Nelle lettere dei detenuti il racconto della rivolta paure e vita quotidiana. “Sembrava un territorio di guerra, corridoi senza più le luci, fumo nero intenso tanto da fare fatica a respirare, quell’incosciente che ha appiccato il fuoco poteva fare una strage”. Sergio Tuccio, da anni detenuto a Opera per associazione a delinquere di stampo mafioso e omicidio, racconta la rivolta scoppiata a marzo, nei giorni segnati da sommosse nei penitenziari di tutta Italia. Lettere, come messaggi in bottiglia, recapitate al Gruppo della Trasgressione creato 22 anni fa dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità, attivo a Opera, Bollate e San Vittore. Come tutte le attività di volontariato, gli incontri si sono fermati e dovrebbero riprendere nei prossimi giorni. I detenuti hanno comunicato con l’esterno attraverso lettere, che raccontano frammenti di vita nelle carceri durante la pandemia. “In queste settimane di totale caos - scrive Tuccio - abbiamo avuto diverse emozioni, come quella di essere autorizzati a videochiamare i nostri cari. Rivedere casa mia è stato magnifico, quei minuti mi sono bastati per tornare indietro di dieci anni, tempo che manco da casa. Rivedere la cucina dove giocavo con i miei piccoli, la cameretta dei bambini. Tutto sembra rimasto come prima, è come se per me qui dentro il tempo si fosse fermato”. “Mi sento impotente, fragile e psicologicamente instabile”, scrive Giuseppe Amato, un altro detenuto, condannato per estorsione. “Piango quando sento tutti i giorni il numero dei morti - prosegue - mi accorgo che non sto bene, mi manca la quotidianità del carcere, mi manca tutto ciò che in questi anni mi sono costruito in questo piccolo mondo che fra due anni non mi apparterrà più”. Rosario Roberto Romeo, invece, è uscito dal carcere di Bollate il 20 aprile, in piena emergenza: “La mancanza dei colloqui settimanali è stata la più grande sofferenza. Ho due figli piccoli e non abbracciarli per quasi due mesi è stato molto triste”. Milano. L’altro lockdown: “In cella fra isolamento e violenza” di Andrea Gianni Il Giorno, 6 luglio 2020 “Ho trascorso 29 anni in carcere ma non ho mai sofferto tanto come in questi quattro mesi: è stato un tuffo in un passato che vorrei lasciarmi alle spalle, ho avuto paura di perdere la serenità e l’equilibrio costruito con tanta fatica”. Antonio Tango, 57 anni, è uscito dal penitenziario di Bollate per 5 giorni di permesso premio dopo il lockdown che per i detenuti si è tradotto in “un inedito isolamento”, senza visite, lavoro all’esterno e incontri con i volontari che scandiscono giornate senza fine. Ha riabbracciato il figlio 13enne e nei prossimi giorni dovrebbe tornare a lavorare al Cimitero Monumentale di Milano grazie a un progetto del Comune interrotto a causa dell’emergenza. Tango 13 anni fa ha imboccato un percorso per lasciarsi alle spalle un passato criminale che gli è costato una serie di condanne, l’ultima a 18 anni per rapine. Come ha vissuto il periodo di lockdown? “Da 6 anni ho la possibilità di uscire in regime di articolo 21 e negli ultimi 4 anni ho lavorato al Monumentale. Sono abituato a trascorrere le giornate fuori e, da un giorno all’altro, tutto questo è finito. Ho sofferto tantissimo perché mi è sembrato di tornare indietro alle condizioni di 30 anni fa, però con la mentalità che ho adesso. È stato un richiamo alla mia bestialità, sentivo sgretolarsi la serenità interiore. Poi c’era l’incertezza, la paura di essere abbandonati”. Nelle carceri sono scoppiate anche rivolte e violenze... “Questa situazione ha aumentato l’aggressività dei detenuti, ha fatto scoppiare la rabbia. Per fortuna a Bollate la situazione è stata abbastanza tranquilla, grazie anche al comportamento della direttrice, che ha mantenuto un dialogo e ci ha tenuti informati giorno per giorno”. Ci sono stati contagi? “Si è parlato di contagi, non so se si tratta solo di voci. Ma l’aspetto peggiore non è stato tanto la paura del contagio quanto il senso di impotenza”. Come è iniziato il suo percorso di cambiamento? “Quando sono entrato in carcere per l’ultima volta ho lasciato mio figlio di un anno e mezzo. Il senso di colpa mi stava logorando. Sono entrato nel Gruppo della trasgressione fondato dallo psicologo Angelo Aparo, all’inizio solo con l’idea di ottenere benefici e tornare libero il prima possibile. Piano piano, però, ho iniziato un percorso che mi ha portato a guardare gli scheletri nell’armadio, a perdere l’identità di criminale che avevo costruito per anni. Mi sono sentito né carne né pesce. Prima, quando andavo in giro, notavo solo banche e gioiellerie. Adesso guardo le statue, perché lavorando al Monumentale mi sono appassionato”. Ha incontrato suo figlio? “Ci siamo visti appena sono uscito in permesso. Per quattro mesi ci siamo sentiti solo al telefono. È un bravo ragazzo, studia e frequenta l’oratorio. Questa è la mia gioia più grande”. Livorno. Rugby, le “Pecore nere” di nuovo in campo gazzettadilivorno.it, 6 luglio 2020 La squadra composta dai detenuti del carcere delle Sughere ha ripreso gli allenamenti, grazie al via libera del direttore Mazzerbo. Decisivo il nulla osta firmato dal Direttore dell’istituto penitenziario de ‘Le Sughere’ Carlo Alberto Mazzerbo: le ‘Pecore Nere’, squadra di rugby composta da detenuti, dopo il lockdown ed il periodo più critico dell’emergenza legata al Covid-19, hanno ripreso ad allenarsi. I tre tecnici della squadra, Manrico Soriani, Michele Niccolai e Mario Lenzi - ovviamente con tutte le precauzioni del caso e indossando costantemente la “mascherina” d’ordinanza - hanno ricominciato a guidare, da metà giugno, una volta alla settimana, le sedute per tale squadra del tutto speciale, composta da detenuti del carcere labronico. Tutte le domeniche mattina, sul sintetico posto all’interno del carcere labronico, le “Pecore Nere” effettuano allenamenti. Viene rispettato il protocollo FIR, che, per ora, impedisce il classico contatto e le classiche mischie. Ad onor del vero, rispetto al periodo invernale, rispetto a quando, prima della sospensione dettata dalla pandemia, questa squadra stava disputando il suo primo campionato federale (aveva inanellato nel torneo amatoriale Old toscano, girone 2, un’eccellente striscia di tre vittorie ed un pareggio su quattro partite), la condizione fisico-atletica è meno brillante. Non manca il tempo per tornare ad esprimersi nella forma migliore: prima del mese di ottobre, ben difficilmente si giocheranno gare ufficiali con punti in palio. La storia di un pallone ovale da far rotolare all’interno dell’istituto penitenziario cittadino è iniziata, grazie ai Lions Livorno, circa 6 anni fa - sabato 27 settembre 2014 per la precisione - quando 22 giocatori amaranto, accompagnati dal presidente della società Mauro Fraddanni, dallo stesso Manrico Soriani (ex allenatore dell’under 16) e dai rappresentanti del comitato toscano della FIR, Marco Bertocchi e Claudia Cavalieri, dettero vita, sul terreno di gioco del carcere, ad un allenamento piuttosto sostenuto, con tanto di partitella in famiglia. Fu grande l’entusiasmo mostrato dai circa cento detenuti presenti sugli spalti. Da quel giorno, grazie ai Lions, grazie all’Associazione Amatori Rugby e grazie alla sensibilità ed alla concreta collaborazione della direzione e del personale de “Le Sughere”, sono scattati ‘veri’ allenamenti per i detenuti. Ben presto è stata allestita una squadra di rugby composta, appunto, da atleti reclusi nella casa circondariale livornese. La formazione, con grande autoironia, è stata battezzata, dagli stessi detenuti, “Pecore Nere”. L’intenzione di far disputare anche alcune gare amichevoli si è trasformata dopo alcuni mesi in realtà. Varie compagini di serie C si sono presentate all’interno dell’istituto carcerario, per giocare contro tale formazione, partite ricche di significato. Cinque anni dopo il primo allenamento effettuato dai 22 atleti Lions di cui sopra, e più precisamente il 24 settembre 2019, nel corso della conferenza stampa svoltasi nella sala riunioni dell’istituto penitenziario di Livorno, ecco l’annuncio di una grande novità: grazie all’interessamento del Comitato Toscano della FIR, le “Pecore Nere” possono partecipare all’imminente campionato federale “Old”. All’incontro con i giornalisti, oltre ai tecnici Soriani e a Niccolai, parteciparono tra gli altri il direttore dell’istituto de “Le Sughere” Carlo Alberto Mazzerbo, il delegato provinciale del Coni Gianni Giannone, il presidente del comitato toscano della Fir, Riccardo Bonaccorsi, il consigliere dello stesso comitato Luca Sardelli, l’assessore al sociale del comune di Livorno Andrea Raspanti, il garante dei detenuti Giovanni De Peppo, in rappresentanza dell’Associazione Amatori Rugby Toscana Arienno Marconi e, per i Lions, il consigliere Fabio Bizzi e l’addetto stampa Fabio Giorgi. I giocatori delle “Pecore Nere” sono tesserati Associazione Amatori Rugby Toscana. Nel campionato Old potrebbero militare solo atleti che hanno già compiuto 35 anni: prevista, per alcuni elementi della squadra dei detenuti, una deroga. Le partite, viste le dimensioni del campo, piuttosto ridotte, sono disputate con soli 13 elementi, senza flankers. Il 16 novembre 2019 iniziò l’avventura nel torneo Old. Un’avventura entusiasmante, bloccata, bruscamente, dall’emergenza della pandemia. Un’avventura, per fortuna, non conclusa in modo definitivo: l’ovale ha ripreso, da metà giugno a viaggiare su quel terreno di gioco sintetico posto all’interno dell’istituto penitenziario. Addio Mauro Mellini, il padre intransigente, laico e radicale del garantismo italiano di Carmelo Palma linkiesta.it, 6 luglio 2020 Attivista, avvocato e politico, è stato in Parlamento dal 1976 al 1992 per poi continuare le sue battaglie, attraversando il quarto di secolo post-Tangentopoli con una critica sempre più documentata dell’eversione democratica rappresentata dalla tutela giudiziaria della Repubblica. Dei molti dirigenti che fecero del Partito Radicale una nave corsara dell’eresia politica progressista, nell’Italia bloccata dal monopolio democristiano del governo e comunista dell’opposizione, Mauro Mellini non è stato il solo a rompere con Marco Pannella, ma fu quello a farlo nel modo più definitivo. Dopo la svolta cosiddetta “transnazionale” della fine degli anni Ottanta, da lui considerata una forma di diserzione o un mero divertissement ideologico, Mellini, terminato il mandato al CSM, in cui malgrado i dissidi l’aveva voluto proprio Pannella, continuò per così dire “in solitaria” la propria militanza sui temi della giustizia e del potere giudiziario. Dal 1994 a oggi, lasciando gli incarichi istituzionali, ha continuato a fare il laico e il garantista intransigente, attraversando il quarto di secolo post-Tangentopoli con una critica sempre più documentata e radicale dell’eversione democratica rappresentata dalla tutela giudiziaria della Repubblica. Nella stagione berlusconiana, ha difeso il Cavaliere “fatto oggetto di una vergognosa persecuzione”, palesando però un dichiarato scetticismo sulla sua caratura ideale e sulla sua capacità di rinnovare o reinventare un pensiero e un partito liberale. Mellini debutta da dirigente politico nel Partito radicale dopo la sua “rifondazione” da parte del gruppo della sinistra radicale nel 1963. È fin dall’inizio una figura politicamente ibrida: giurista e intellettuale sofisticato, come molti degli esponenti radicali che accompagnarono Pannella, ma anche inventore e organizzatore di campagne di successo, la principale delle quali fu certamente quella del divorzio, che diede un oggetto e un obiettivo preciso all’anticlericalismo profetico di Pannella, fino ad allora incentrato sulla battaglia anticoncordataria. Mellini aveva un senso pratico della politica e un particolare gusto per la vita e per la buona tavola. Era scrupoloso e sarcastico, affidabile e irascibile. Dava, molto più di altri radicali, l’impressione di intendere gli ideali politici nel senso di una particolare concretezza. Dopo il trionfo del No al referendum del 1974, Mellini lavorò alla battaglia sull’aborto, che inflisse una seconda sconfitta storica al temporalismo politico democristiano. Emma Bonino, che fu introdotta da Adele Faccio nel mondo radicale attraverso l’esperienza del Cisa - Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto - ricorda spesso che il suo primo incontro con Pannella fu preceduto da un lungo viaggio in auto da Milano a Roma, con una tappa a Firenze per caricare proprio Mellini, che stava arringando paonazzo, con le carotidi che sembravano esplodere, una folla di femministe coi gonnelloni a proposito delle disobbedienze civili sull’aborto. E nel viaggio verso Roma Mellini pretese di fermarsi a pranzare, facendo aspettare Pannella. Non fu per caso dunque che questo avvocato, che aveva svelato gli scandali delle cause di annullamento della Sacra Rota e l’ipocrisia della giustizia canonica, diventò nel 1976 uno dei quattro primi deputati radicali (con Adele Faccio, Emma Bonino e Marco Pannella), rimanendo alla Camera fino al 1992, regista imprescindibile delle strategie istituzionali del PR. Molti anni dopo, nel 2018, raccoglierà questa esperienza in un libro, “C’era una volta Montecitorio”. Come ricorda una memoria storica radicale, Lorenzo Strik Lievers, anche nella strategia referendaria di Pannella - cioè nell’uso di uno strumento di democrazia diretta come forma di contropotere alla stagnazione partitocratica - c’è molta farina del sacco di Mellini. “La Democrazia cristiana ha voluto la legge di attuazione dell’istituto referendario per battere il divorzio? E noi, allora, faremo i referendum laici!”. All’insegna della laicità e della battaglia anticlericale va in fondo intesa anche la sua lotta per la giustizia, come difesa della democrazia dal condizionamento ideologico di un potere, che non veste più gli abiti talari dei preti dell’Italia democristiana, ma le toghe dei magistrati autoproclamatisi salvatori della Patria e guardiani della probità della Repubblica. “Giustizia, libertà e felicità”. Il manifesto degli Stati Popolari di Stefano Corradino articolo21.org, 6 luglio 2020 “La nostra non è la piazza della contrapposizione e della protesta ma della condivisione e della proposta”. Aboubakar Soumahoro, sindacalista Usb chiude la manifestazione di Piazza San Giovanni a Roma con un appello alla politica e alle istituzioni affinché ascoltino le tante istanze provenienti dagli “invisibili”. Giovani, donne, immigrati, precari, lavoratori del cinema, della musica, giornalisti freelance. Li ha citati più volte gli operatori dell’informazione che fanno un lavoro fondamentale con contratti precari. Aboubakar lancia a conclusione del suo intervento il manifesto degli Stati Popolari le cui parole portanti sono “Giustizia, libertà e felicità”. Oggi in piazza c’è “chi ha fame di diritti e sete di dignità nel nome degli articoli 1 e 3 della Costituzione” ha sottolineato Aboubakar da palco, il primo che fonda la Repubblica sul lavoro, l’altro che fissa il principio di uguaglianza fra i cittadini, purtroppo disatteso perché il Covid ha acuito le disuguaglianze sociali. Sul palco i braccianti hanno portato i guanti e gli stivali, i loro strumenti di lavoro, e la verdura, il frutto del loro lavoro. “Un fallimento la sanatoria per i braccianti agricoli” incalza Aboubakar: “ciò che manca nelle campagne non sono le braccia ma i diritti dei braccianti”. Tanti in piazza. L’appello ripetuto più volte dal palco è di stare distanti e indossare le mascherine. Ci sono gli striscioni degli operai della Whirpool, ci sono i lavoratori di Alitalia e dell’Ilva, quelli della scuola. Ci sono i rider, Mediterranea, Black lives matter, Movimento Lgbt, Friday For Future… Carola Rackete ha mandato un video, i genitori di Giulio Regeni lo hanno spedito il giorno prima. Istanze diverse ma lo spirito è uno solo: gli invisibili vogliono diventare visibili. In realtà già lo sono. I rider che portano la pizza a casa mentre siamo comodamente sul divano li vediamo ma troppo spesso non ci domandiamo quanto sia precario il loro lavoro, quanto siano negati i loro diritti fondamentali. Migranti. Ocean Viking, tamponi per 180 migranti e trasferimento sulla “nave quarantena” di Michela Allegri Il Messaggero, 6 luglio 2020 La richiesta di un porto sicuro, l’attesa. La polemica politica che infuria, la dichiarazione dello stato di emergenza a bordo. Ma ora, a distanza di quattro giorni dalla richiesta di un porto sicuro, per i 180 migranti ospitati sulla Ocean Viking, la nave della Ong Sos Méditerranée, lo stallo sembra essersi risolto: dovrebbero sbarcare oggi a Porto Empedocle. A comunicarlo è stata la Ong con un tweet: “La nave ha finalmente ricevuto istruzione di dirigersi a Porto Empedocle. I 180 sopravvissuti saranno sbarcati”. eri tutti i naufraghi sono stati sottoposti al tampone per il coronavirus. Per risolvere la situazione degli arrivi, resa più difficile dal rischio contagio da coronavirus, il Viminale ha chiesto e ottenuto che i tamponi siano sempre effettuati a bordo delle navi umanitarie, prima dello sbarco. A occuparsene è stato il personale medico dell’Asp di Ragusa, insieme a due sanitari dell’Usmaf. Le polemiche non sono mancate: “La Regione si è sostituita allo Stato. Non mi pare una cosa normale. Qualcuno a Roma dovrebbe iniziare a chiedersi perché in Sicilia l’Usmaf non ha personale per adempiere ai suoi compiti istituzionali. E fare qualcosa. Subito”, ha detto l’assessore siciliano alla Salute, Ruggero Razza. “Non ho ricevuto alcuna comunicazione ufficiale - ha detto invece il sindaco Ida Carmina, del M5s - non capisco perché Porto Empedocle sia l’unico porto sicuro d’Italia, tutto questo crea un gravissimo danno d’immagine alla nostra comunità, con forti ripercussioni economiche”. Arrivata a Porto Empedocle, la Ocean Viking dovrà restare in rada: dopo il risultato dei test, ci sarà il trasbordo dei 180 sulla nave-quarantena Moby Zaza, noleggiata dalla Protezione civile per tenere in isolamento i naufraghi soccorsi e portati in Italia, evitando che entrino in contatto con gli operatori dei centri di accoglienza e con la popolazione prima di 14 giorni. Sulla Moby Zaza sono attualmente ospitati altri 208 immigrati, sbarcati dalla Sea Watch. Tra loro, 28 sono positivi al virus e sono stati isolati su un ponte della nave, considerato zona rossa. La quarantena dei 208 si è conclusa ieri sera e, se i tamponi di controllo risulteranno negativi, i migranti verranno sbarcati e si creerà il posto per i 180 della Ocean Viking.Venerdì la nave della Sos Méditerranée aveva dichiarato lo stato di emergenza dopo che sei profughi avevano tentato il suicidio. Il caso ha scatenato una serratissima polemica politica. Ieri il Governo è stato letteralmente bombardato sui social, principalmente da esponenti di partiti di sinistra, che chiedevano all’esecutivo di fare sbarcare i migranti. In tanti hanno taggato nei post l’account del Pd e quello del segretario Nicola Zingaretti: “Finalmente, in futuro si deve essere più tempestivi. Ma bene. I problemi si risolvono non si cavalcano, soprattutto quando si tratta di vite umane”. Dopo l’ok al trasbordo, la reazione del leader della Lega Matteo Salvini non si è fatta attendere: “Minacciano il suicidio... e il governo apre subito le porte. Saranno ospitati sulla confortevole nave Moby Zaza a spese degli italiani e poi sbarcati. Tornano i bei tempi!”, scrive su Facebook. Migranti. Borhan nelle braccia di Alì dopo torture e paura, la pietà nel Mediterraneo di Fabio Tonacci La Repubblica, 6 luglio 2020 La Pietà del Mediterraneo è il corpo scheletrico di un giovane uomo etiope, sorretto da un marinaio siriano. Il diciassettenne Borhan Loukasi è arrivato fin sulla soglia dell’Europa, ma ora non riesce a varcarla con le proprie gambe. Lo devono portare in braccio perché è privo di forze e ha il piede sinistro gonfio, con un osso sporgente fuori posizione. “Gli hanno spezzato la gamba in Libia, quando l’hanno torturato”, dicono gli uomini che hanno fatto la traversata con lui. La Pietà del Mediterraneo è anche quel marinaio siriano, con la tuta blu da motorista, la mascherina anti-Covid e le braccia robuste. Si chiama Alì Bib e proviene da un luogo, la Siria, dove hanno imparato cosa vuol dire fuggire dall’orrore e vagare verso una terra che si suppone migliore. Alì non deve avere molti anni in più del fardello umano che regge. I due non si conoscono, ma sulle scalette metalliche del mercantile Talia sono diventati fratelli. Alì ha preso di peso Borhan al ponte sei, ha sceso i gradini fino al ponte cinque, poi il quattro, infine lo ha consegnato ai guardiacoste maltesi. Benvenuto in Europa, Borhan. Guardatela questa foto, scattata durante la discesa della compassione. Gli occhi spalancati nel volto scavato di Borhan. Non è solo paura, è la perdita della speranza, o la sua assenza, la diffidenza persino verso chi ti porge una mano. La foto che pubblichiamo è, dunque, un simbolo. Interroga la coscienza sporca dell’Europa, che sa perfettamente cosa avviene tutti i giorni nel mezzo del Mediterraneo, ma non trova un modo per fermare l’ecatombe. Rammenta le migliaia di invisibili cui la sorte non concede neanche la dignità di un nome e di una storia: finiscono in fondo al mare, oppure intercettati dalla guardia costiera libica e riportati nei centri di detenzione. Affogati in entrambi i casi. Il Talia, mercantile battente bandiera libanese, venerdì scorso ha salvato Borhan e altri 51 migranti etiopi e sudanesi prelevandoli da un barchino di legno in avaria. Si trovavano nella zona di competenza maltese. Per proteggerli dal maltempo li hanno sistemati nell’unico spazio libero e riparato: la stiva lercia e nauseabonda dove tengono il bestiame da trasportare. Le pecore, gli agnelli, i tori. Gli esseri umani, quando sono migranti e nessuno li vuole. Il capitano, Mohammed Shaaban, è mortificato. “Non sapevo dove metterli, l’imbarcazione è piccola”, spiega a Repubblica. “Almeno là sotto possiamo tenerli distanziati. Però nessun uomo dovrebbe essere costretto a stare laggiù...”. Il governo di Malta si rifiuta di autorizzare lo sbarco. Dopo tre giorni passati a galleggiare davanti alla Valletta, finalmente ieri sono stati concessi due medevac, le evacuazioni per urgenti motivi sanitari. Prima è sceso un diciottenne etiope, poi Borhan. Gli altri restano a bordo, non si sa per quanto ancora. “Porti chiusi fino a quando non avremo rassicurazioni dagli stati membri dell’Ue sulla ricollocazione dei 52 migranti”, fanno sapere le autorità di Malta. La stessa filosofia di Matteo Salvini, quando era ministro dell’Interno. Il mercantile era salpato dalla Libia e stava facendo rotta verso Cartagena. É stato Alarm Phone, l’Ong che raccoglie le chiamate di aiuto, a segnalare venerdì alle 5 della mattina la presenza del barchino. Era in acqua da quarantotto ore. La partenza era avvenuta due giorni prima dalle coste libiche. Dalla Valletta, dopo il salvataggio, avevano promesso che avrebbero risolto la situazione in fretta, invece lo stallo va avanti da tre giorni. Rimane il giovane Borhan, sorretto dal marinaio Alì. La Pietà in mezzo al mare. Il corpo del reato umanitario, che l’Europa finge di non vedere. Stati Uniti. Il Covid a San Quentin, dove i detenuti diventano reporter di Michela A.G. Iaccarino Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2020 La più numerosa popolazione carceraria del mondo si trova in quella che si fa chiamare la terra dei liberi. La più antica e buia prigione della soleggiata California, costruita da detenuti nel 1852, è San Quentin, che si estende per quasi due chilometri quadrati nella baia di Marin. In un’ala della struttura c’è il braccio della morte per tutti i condannati dello Stato. Col tempo le impiccagioni, le camere a gas, sono state sostituite dalle iniezioni letali. Ma sono i vivi che chiamano questa prigione “la giungla” o “l’arena” o semplicemente “Q”. Johnny Cash la chiamò invece livin’ hell, “inferno in terra”. Decise di registrare un intero disco tra quelle celle e corridoi dove risuonarono i suoi versi: “San Quentin mi hai piegato il cuore, la mente e forse anche l’anima, i tuoi muri di pietra mi gelano il sangue”. È il posto dove perfino le ossa delle bistecche - che ora non vengono più servite alla mensa -, possono diventare, se accuratamente limate, delle armi da usare durante rivolte e sommosse. A San Quentin ci sono assassini brutali, stupratori, ladri. E adesso anche giornalisti, grazie a un progetto di recupero finanziato da Stato, donazioni e volontari. Molti attivisti negli anni di Black Lives Matter hanno protestato contro l’amministrazione carceraria californiana per fermare l’espansione degli istituti penitenziari. Gli attivisti, ragazzi neri e bianchi, avevano tutti una maglietta arancione addosso, lo stesso colore delle tute dei detenuti. Sanno che i prigionieri vivono in una divisione dentro l’altra, una separazione molto più profonda ed evidente di quella vissuta nel mondo fuori: oltre ai muri dei blocchi, c’è la segregazione auto-imposta dei prigionieri. Neri con neri, bianchi con bianchi, latini tra latini. Ma c’è un posto dove tutti si incontrano in nome di un compito e di una passione comune: la redazione. Mani sui tasti, occhi sugli schermi. La scritta San Quentin News svetta blu in cima al giornale sul logo grigiastro dell’edificio fatto di torri e torrette: è la prigione stilizzata dagli incarcerated, gli abitanti della prigione, dove anche i giornalisti del Wall Street Journal hanno tenuto corsi di scrittura e giornalismo. Alla redazione del San Quentin, prima di decidere di parlarti vogliono sapere una cosa da te: “Possiamo chiederti come mai ti sei interessata a noi?”. In copia alla mail ci sono i numerosi supervisori dell’istituzione che approvano le conversazioni con il mondo esterno. Nel giornale esistono sezioni dedicate allo sport, agli esteri e una riservata esclusivamente alla pena di morte. Non solo le vite dei neri contano: anche trans lives matter. Il giornalista prigioniero Joe Garcia scrive che per la prima volta nella storia del carcere, i prigionieri hanno ricordato le 22 persone transgender uccise in America l’anno scorso. Troy Williams, fondatore del Prison Report, tra di loro è il pioniere. Ha cominciato nel 2010 quando è finito dentro per rapimento e rapina, ma una volta fuori è rimasto tra macchine fotografiche e computer, diventando produttore. È il giornalismo come riabilitazione mentre perdi il conto degli anni da scontare. Fare i giornalisti, dicono i detenuti, vuol dire avere la possibilità “di raccontarci, quindi di pensarci, in un altro modo. Un modo diverso da come ci vedono gli altri, da come ci vediamo noi”. Parlano di vite che ne hanno incrociate altre ancora più storte, che si spezzano in certi punti precisi, che sono tutte diverse fino a un attimo prima del precipizio e del crimine, ma poi diventano tutte simili nelle cadute. E nelle sentenze di decenni da scontare. Esistenze che diventano uguali nelle celle, incagliate nel flusso della vita della prigione, come oggetti che rimangono incastrati involontariamente in una rete. “Sono il tenente Sam, ufficiale di pubblica informazione, e approvo questa storia”: questa è la frase che si sente prima che cominci la trasmissione radio di Uncaffed, letteralmente “senza manette”, della Solano State Prison californiana. I loro corpi in tuta arancione si fermano alla soglia del carcere, le loro parole possono uscire fuori. We got the mic now: “Abbiamo noi il microfono adesso”, dicono i detenuti. È lo scettro del potere, l’amplificatore a cui consegnano le loro storie che risuonano molto lontano dalle sbarre. Il filo del microfono è quello da seguire per uscire dal labirinto in cui sono finiti. “Respiro la stessa aria del dormitorio di 250 persone, se uno prende il Corona tutti lo prendiamo, quando dietro di noi chiudono la porta. Tu invece hai il lusso della cella”, dice un detenuto ad un altro parlando del Covid-19. Il virus ha già ucciso 20 prigionieri a San Quentin, 539 sono rimasti contagiati. “Chi ci farà il test, se non li fanno nemmeno a quelli fuori?”. Condividono passati: qualcuno ha commesso un omicidio, qualcuno ha perdonato suo padre per le violenze subite da bambino e ha, a sua volta, perpetrato su altri. Si danno consigli sulla meditazione se hai attacchi di panico claustrofobici per gli spazi ridotti, spiegano come sopravvivere ai soprusi degli altri detenuti. A volte piangono, a volte ridono in onda. Spesso i “cattivi” hanno sorrisi bianchi e pelle scura. Sono quelli a cui la vita ha presentato sin dal suo inizio poche alternative e nessuna altra scelta, se non quella della povertà senza via di fuga. Molti americani hanno ascoltato i consigli sulla quarantena da chi vive perennemente chiuso dentro: durante il Covid-19 per i detenuti c’è stato un lockdown dentro l’altro, una matriosca di porte serrate, e, con le visite dei familiari sospese, del mondo fuori non avevano più notizie. Kenya. Addio ai faldoni in tribunale: la giustizia diventa digitale di Alessandra Fabbretti agenziadire.com, 6 luglio 2020 Riforma per velocizzare processi tra effetti di pandemia Covid-19. Il Kenya dice basta alla macchina della giustizia tradizionale, basata su archivi polverosi, fogli di carta che possono essere persi o distrutti e lunghe file alle cancellerie: il Paese, questo l’impegno, abbraccia la digitalizzazione. D’ora in avanti ogni pubblico ministero, avvocato o querelante potrà presentare la propria documentazione relativa a cause e procedimenti in formato elettronico, senza dover passare per il tribunale o gli uffici amministrativi. Il nuovo sistema permetterà anche di trasmettere gli atti ai diretti interessati direttamente nei loro uffici o nel loro domicilio, oppure di archiviarli in rete. A presentare il progetto il ministro David Maraga, secondo il quale ora “la giustizia sarà più efficiente ed affidabile”. La riforma dovrebbe consentire di accelerare i processi, ma per metterla a punto e approvarla ci è voluto un po’ di tempo. Da mesi gli esperti erano infatti al lavoro. A dare la spinta finale è stata la pandemia di Covid-19: la chiusura degli uffici e la sospensione dei procedimenti, misure che si sono rese necessarie per contenere il nuovo coronavirus, hanno confermato quanto fosse urgente trovare un’alternativa al meccanismo tradizionale.