Bonafede: con il Dl Rilancio riparte il sistema giustizia askanews.it, 5 luglio 2020 “Importanti novità sul dl rilancio. Alla Camera sono stati approvati ulteriori miglioramenti che ci consentiranno di rilanciare il sistema giustizia in questa nuova fase che sta vivendo il Paese”. Lo scrive il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede su Facebook. “È stato approvato - spiega - uno stanziamento di ulteriori 20 milioni per consentire il pagamento degli avvocati nella loro importante opera di gratuito patrocinio svolta a favore di tutti coloro che non possono permettersi di sostenere le spese legali. Assunzioni semplificate per gli uffici giudiziari: un’iniezione di risorse cruciale per far ripartire le macchina della giustizia dopo un periodo di fermo imposto dalla pandemia. 650 nuove assunzioni, tramite lo scorrimento delle graduatorie, per il personale della polizia penitenziaria che svolge un ruolo cruciale per la sicurezza di tutti i cittadini”. “Salviamo quelle che in questo particolare periodo si sono dimostrate le buone pratiche nell’applicazione della tecnologia sulla giustizia: un’importante innovazione condivisa con tutti gli addetti ai lavori. Così anche la giustizia riparte, questo è un vero rilancio”, conclude Bonafede. Riforma della giustizia, tra reali esigenze di miglioramento e manovre di palazzo di Giuliano Mignini* perugiatoday.it, 5 luglio 2020 La giustizia e la magistratura hanno bisogno di una riforma. si può essere tutti d’accordo su questa affermazione, ma la domanda corretta è: quale riforma e perché? Giuliano Mignini, magistrato perugino da poco in pensione, ci offre alcuni spunti di riflessione su questo tema molto dibattuto, anche alla luce del caso Palamara e per le dichiarazioni, postume, del magistrato Amedeo Franco sulla condanna di Silvio Berlusconi. Una riflessione sull’essenza dell’amministrazione della giustizia, sulle presunte storture e sul valore della legge. Quando si parla di “Riforma della giustizia”, sono abituato da decenni, forse addirittura dall’inizio della mia carriera di magistrato, vale a dire dal 1978 - 1979, a reprimere un sottile brivido che avverto lungo la schiena. Sì, è vero, sono un magistrato a riposo, come si dice e, quindi, non sono più esposto a interventi di tipo legislativo o di tipo “disciplinare” o di altro genere, visti come eventi da temere e che possano condizionare la vita della magistratura. Ma, quando si diventa magistrati, ci si sente tali anche dopo la pensione e ci si continua ad interessare del mondo che abbiamo lasciato per raggiunti limiti di età. A maggior ragione, credo che questo brivido lo avvertano tutti i magistrati, specie quelli in servizio attivo. È inutile nascondersi. Perché tutto questo? Se “Riforma” volesse dire un complesso di interventi volti a rafforzare l’azione della magistratura, a privilegiare il risultato dei processi in termini di accertamento della verità, ad agevolare e a rendere più incisiva l’azione giudiziaria, a prevenire efficacemente abusi e illegalità che sono divenuti inevitabili, dopo la famosa “mela” che i nostri progenitori vollero gustare nell’Eden contro il divieto, l’unico, loro imposto dal Creatore, se “Riforma della Giustizia” significasse questo e tanti altri possibili interventi tesi a rendere più incisiva l’amministrazione della Giustizia, non ci sarebbe alcun motivo di preoccupazione e la nostra schiena sarebbe immune da brividi. E invece no. Io l’ho confessato, ma credo che potrebbero farlo tutti i magistrati italiani. La “Riforma” della Giustizia suscita inquietudine e preoccupazione. Perché? L’unica spiegazione è che dietro la “Riforma” si celi un’operazione volta a indebolire la giustizia, a renderla serva dell’oligarchia dominante, a livello non solo italiano, che si nasconde dietro la democrazia formale. E allora ci sarà chi vorrà una seria Riforma della Giustizia che mirerà a renderla più efficiente ed efficace. E ci sarà invece chi invocherà la Riforma per destabilizzare e indebolire la Giustizia stessa un po’ come fece il monaco agostiniano Martin Lutero che, partendo dalla questione delle indulgenze e, comunque, dall’esigenza di moralizzare la vita della Chiesa, giunse a sovvertire l’intero Depositum fidei, con la negazione del libero arbitrio, con l’affermazione della radicale corruzione della natura umana, con la negazione dell’Eucarestia e del sacerdozio, tutti aspetti che non avevano assolutamente attinenza con la maggiore o minore probità del clero. Probabilmente ci sarà anche un “partito” non si sa bene se “antipolitico” o “politico” in senso “manettaro”, come dice il giornalista Sansonetti, il cosiddetto “partito delle Procure”, che tenderà a sostituirsi a una certa politica, debordando dai propri limiti istituzionali e governare l’Italia a suon di sentenze o di atti d’indagine invasivi. E questo, ovviamente, è un male che andrebbe affrontato individuando fatti, uomini e tempi, invece di rifugiarsi in quella generalizzazione e indeterminatezza che sono la regola degli attacchi ai magistrati. Ma come negare che vi sia un “partito” trasversale “magistratofobo” con una determinata caratterizzazione ideologica che, da decenni, come ho detto, opera per delegittimare una delle istituzioni della Repubblica italiana? E questo è un atto indiscutibilmente eversivo. L’operazione è nata prima ancora della “discesa in campo” del Cavaliere ma è innegabile che è con questo politico imprenditore che essa ha raggiunto l’attuale intensità e asprezza. Al fondo dell’operazione, condotta con uno spiegamento di forze impressionante, c’è la solita logica circolare della “petitio principii”. Poiché Tizio è coinvolto in numerosissime vicende giudiziarie, il soggetto dev’essere perseguitato dalla Magistratura. Il fatto da provare, eventualmente, che diventa invece il postulato, scartando immotivatamente l’ipotesi normale e fisiologica e cioè che vi sia materia per indagini e processi e noi sappiamo o dovremmo sapere che l’azione penale, nel nostro sistema costituzionale, è obbligatoria. A un cultore di logica e di fallacie dell’argomentazione, questo modo di “ragionare” farebbe rizzare i capelli in testa ma è il modo oggi ritenuto normale da personaggi famosi che non perdono occasione per sfogare il loro astio contro la Magistratura o contro una certa Magistratura. Di esempi se ne possono fare tantissimi e tutti di personaggi di rilievo. Quando poi a svillaneggiare contro i magistrati italiani c’è qualche personaggio della Casa Bianca come Edward Luttwak si raggiungono vette inimmaginabili... e recenti interventi di questo personaggio fanno riflettere e dovrebbero far sorgere un campanello d’allarme sulle reali motivazioni di questa ostentata “magistratofobia”. Quando si parla di un’istituzione che si compone di più di settemila uomini e donne, dei più diversi gli uni dagli altri, un minimo di serietà consiglierebbe di evitare generalizzazioni e accuse indeterminate. Proprio la sera del 3 luglio 20, mi è capitato di sentire l’on. Berlusconi invocare il “mantra” della separazione delle carriere perché, queste sono in sostanza le sue parole, in questo regime dell’unicità della magistratura, ferma la diversità di funzioni, pm e giudici hanno fatto lo stesso concorso e.... prendono il caffè al bar insieme, tutte le mattine (?!?!), come se non lo potessero prendere e non lo prendessero con gli avvocati. A me è capitato, ammetto l’addebito, ma non ha influito minimamente sulla mia serenità di giudizio. È incredibile sentire certe affermazioni. Mi auguro di essermi sbagliato e, se mi fossi sbagliato, mi coprirò di cenere il capo ma, purtroppo, credo di no. Era il TG 5 delle 20. Dalla riforma del codice di procedura penale non si sente altro che ripetere questo “mantra”. Gli avvocati vogliono sentirsi pari ai pm e, per sentirsi così fino in fondo, vogliono che il pm appartenga ad una carriera diversa da quella dei giudici. Che sia un “accusatore” e non un organo imparziale di giustizia com’è ora. Che sia “accusatore” ad ogni costo...E chi lo deve pagare il pm se non lo stesso Stato che paga anche i giudici mentre gli avvocati debbono fare unicamente gl’interesse dei loro clienti dai quali sono pagati? Di “mantra” non c’è solo questo ma di certo questo è il più abusato e il più inutile. E oggi, mentre le intercettazioni della vicenda Palamara, delle quali nessuno si oppone alla loro pubblicazione anche quando sono estranee al relativo processo, vengono utilizzate per delegittimare la Magistratura, l’ANM e il CSM, il partito o, forse meglio, la lobby “magistratofoba” non vede l’ora di utlizzare la marea montante dell’indignazione per gettare benzina sul fuoco dello scandalo e per invocare una “Riforma” che azzoppi definitivamente la Giustizia e, soprattutto, la renda controllabile e manipolabile perché il giudice è “bravo” quando ci dà ragione. E quale occasione migliore che riesumare ora, a “babbo” morto da un anno, l’incredibile vicenda del giudice Franco? Si tenta, cioè, di far passare per grimaldello di una sentenza definitiva della Cassazione la condotta di una manifesta rilevanza penale e disciplinare di un magistrato che: - è relatore ed estensore nel procedimento penale a carico dell’on. Berlusconi; - sarebbe segretamente contrario ad una decisione presa all’unanimità da un “plotone d’esecuzione” che non sente il bisogno di denunciare né si avvale, come ne avrebbe il diritto, di far rilevare il suo dissenso; - non si astiene; - non dice nulla in camera di consiglio e firma diligentemente, come tutti gli altri componenti del collegio, pagina per pagina della sentenza; - colpito da rimorso, invece di denunciare il fatto e autodenunciarsi, cerca ed ottiene di incontrare il condannato al quale manifesta il proprio rammarico per una sentenza che lui stesso ha firmato, accusando implicitamente i suoi colleghi di averlo costretto a fare quello che ha fatto; - lo accompagna un altro magistrato il cui nome è uscito dalla vicenda Palamara; - non immagina che le sue parole saranno registrate; - ottiene solo che venga mantenuto il riserbo su questa incredibile storia. - nega davanti al Csm di avere subito pressioni. Ma quello che è peggio è che c’è “qualcuno”, diciamo così, che aspetta che il povero e, come minimo, a dir poco. ingenuo magistrato muoia, per tirar fuori questa vicenda e sperare che la Corte di Strasburgo (?) rimetta in discussione un giudicato sulla base di queste “argomentazioni”; - questo “qualcuno” non è solo ovviamente, ma c’è un mondo e la solita potenza “mediatica” che vorrebbe che si presti fede a una vicenda del genere. Questo magistrato, se fosse vivo, sarebbe sottoposto a un severo procedimento penale e a un ancor più severo procedimento disciplinare per le violazioni commesse, prima su tutte quella di avere rivelato il (presunto) segreto della camera di consiglio e di avere avuto un anomalo incontro con la persona condannata e rimettere in discussione una decisione presa all’unanimità con tanto di firme di tutti i membri del collegio nel corso di un colloquio con l’interessato, sollecitato dallo stesso magistrato, a quanto è dato di capire visto che il dottor Franco è deceduto. Tutto questo dà la misura del “corto circuito” e della deriva ormai pressoché irreversibile a cui è giunto il dibattito sulla giustizia senza che pochi si rendano conto che in uno Stato di diritto vi è la distinzione dei poteri e che le sentenze definitive non si discutono. *Già sostituto procuratore della Repubblica e magistrato in Corte d’appello Fase 3, l’ira dei cancellieri: “Tribunali presi d’assalto, tutta colpa degli avvocati” di Simona Musco Il Dubbio, 5 luglio 2020 Il Cnf “stigmatizzata la modalità di intervento sulle norme che riguardano la tutela processuale dei diritti”. Riaprono i tribunali e i cancellieri tornano in ufficio. Ma non senza polemiche e strascichi, dopo le dure contrapposizioni delle scorse settimane con l’avvocatura, che ha lamentato l’immobilismo della macchina giudiziaria durante tutto il periodo della Fase 2, terminato il 30 giugno. Contrapposizioni che hanno visto i sindacati di categoria schierarsi in maniera ferma a tutela dei cancellieri, che ora temono ulteriori ricadute per la salute. Giovedì, Cgil, Cisl e Uil hanno ribadito il concetto, evidenziando il ritorno alla “normalità” e una sostanziale “invasione” dei tribunali, anche e soprattutto “su pressione dell’avvocatura”. Che metterebbe, dunque, a rischio la salute dei cancellieri, ignorati, secondo i sindacati della Funzione pubblica, dal ministro della Giustizia. Cgil, Cisl e Uil hanno scritto ai responsabili regionali e provinciali evidenziando come il decreto Giustizia, disponendo “la fine per legge dell’emergenza Covid negli uffici giudiziari”, abbia fatto ripartire, in maniera “massiccia”, le udienze penali e civili on site, “con decine di processi fissati nel medesimo giorno e con il conseguente accesso alle aule di un numero incommensurabile di avvocati, parti, testi, consulenti eccetera”. I sindacati, dunque, invitano le sigle locali a “richiamare” i capi degli uffici “al pieno rispetto dell’obbligo di sicurezza che la legge pone a loro carico in quanto datori di lavoro pubblici”, procedendo a verificare se la normativa sulla sicurezza, specie quella emergenziale, “sia rispettata con particolare riferimento alla fornitura dei dispositivi di protezione individuale ed al distanziamento sociale”. I decreti, sottolineano i sindacati, prevedono “il rientro in sede dei lavoratori in maniera graduale, specie per quei servizi la cui gestione può continuare ad avvenire anche da remoto”, annunciando una verifica delle scelte organizzative connesse allo smart working. Il decreto Giustizia, pur anticipando, per gli uffici giudiziari, la fine dell’emergenza, non deroga però alla stessa normativa emergenziale, “specie quella in tema di smart working e di flessibilità del lavoro pubblico”, né alla disciplina generale in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro. Così, Cgil, Cisl e Uil parlano di “ingiustificati e pretestuosi attacchi ai lavoratori della giustizia, accompagnati dall’assordante e connivente silenzio del ministro della Giustizia, che hanno costituito il volano dell’approvazione della legge 70/2020”. Le polemiche, dunque, continuano. E un caso esemplare è quello di Lecce, dove Fiorella Fischetti, Fabio Orsini e Cosimo Rizzo, segretari generali, rispettivamente, di Fp-Cgil, Cisl-Fp e Uil-Pa, hanno replicato all’avvocato Donato Salinari, secondo cui la paralisi dell’attività giudiziaria degli ultimi mesi sarebbe da addebitare proprio ai cancellieri. Per Salinari, infatti, “non vogliono tornare a lavorare”, preferendo lo “smart nulling” e arrivando a proporre la decurtazione degli stipendi e l’eliminazione di buoni pasto e straordinari. Buoni, sottolineano le sigle sindacali, che non vengono percepiti da chi svolge lavoro agile, così come gli straordinari. Mentre per quanto riguarda gli stipendi, “le retribuzioni non subiscono variazioni da decenni, il contratto è scaduto e le riqualificazioni non vengono fatte da oltre 25 anni”. Durante il periodo di lavoro agile, continuano i sindacati, il personale amministrativo ha provveduto invece a sbloccare circa 1 milione per il gratuito patrocinio tra il 15 marzo e il 15 giugno. “Pensiamo che l’avvocatura abbia sbagliato bersaglio - aggiungono - il personale giudiziario da anni lavora sotto organico, l’emergenza sanitaria ha solo reso più evidenti tutte le criticità di un sistema obsoleto. La battaglia sull’accentramento degli uffici giudiziari, sostenuta in passato proprio dalla avvocatura, ha arrecato un serissimo danno sulla funzionalità del sistema giudiziario, così come la mancata piena informatizzazione non permette di lavorare da remoto, non solo a Lecce ma su tutto il territorio nazionale, se non per le notifiche penali e i programmi amministrativi”. A bloccare gli uffici, concludono i sindacati, “non sono state le rivendicazioni sindacali, ma leggi dello Stato che hanno imposto, nella fase emergenziale, a tutto il pubblico impiego questa organizzazione del lavoro. Siamo stanchi di dover sopportare un generalizzato atteggiamento antisindacale e dichiarazioni mai circostanziate contro i pubblici dipendenti, determinate dall’arroganza di giudicare le attività altrui, senza conoscerle”. In merito al decreto Giustizia, il Consiglio nazionale forense ha diramato una nota di approfondimento nella quale viene “stigmatizzata la modalità di intervento sulle norme che riguardano la tutela processuale dei diritti”. Se, da un lato, viene accolta con favore l’anticipazione al 30 giugno del termine della Fase 2, dall’altra viene sottolineato l’effetto “dirompente sul principio di affidamento e sul diritto di difesa” là dove viene fatta ripartire “la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi”, con la conseguenza che a partire dal 1 luglio “verranno meno i suddetti effetti sospensivi e impeditivi in forza di una disposizione che, a pochissimi giorni dalla nuova scadenza non è ancora vigente, senza alcuna considerazione dell’affidamento maturato in ragione della vigenza di un termine ben più ampio”. Inoltre, il Cnf sottolinea come “gli interventi sul processo e sull’accesso alla tutela giurisdizionale contenuti nella legge di conversione lungi dall’essere definitivi, appaiono strettamente collegati all’iter di conversione di un’ulteriore decreto legge ovvero del c.d. Decreto Rilancio”. Si tratta della previsione di una sperimentazione delle “innovazioni introdotte” durante l’emergenza, “per un periodo idoneo a verificarne l’efficacia, fino al 31dicembre 2021”. Per il Cnf, però, “la sede di tali incisivi interventi sulla giustizia sia civile che penale è del tutto inopportuna: il cosiddetto decreto Rilancio è testo complesso, paragonabile a più d’una manovra finanziaria, sicché non si presta a consentire alcuna forma di dibattito parlamentare né di confronto disteso”. Le correnti dell’Ordine giudiziario azzerano la credibilità della giustizia di Stefano de Luca corriere.it, 5 luglio 2020 La gestione dell’arcipelago giustizia in Italia è divenuto un problema rilevante, che assume anche un rilievo che incide sull’equilibrio istituzionale. Da oltre un trentennio, nonostante una stragrande maggioranza di magistrati seri e preparati, un predominio assoluto nei ruoli di potere delle correnti politicizzate dell’Ordine giudiziario, a volte deviate, con alla testa alcune Procure, ha praticamente azzerato la credibilità del servizio giustizia e delle relative carriere dei giudici. Negli anni 92/94 un vero e proprio golpe politico giudiziario, con la complicità di servizi stranieri e di un sistema mediatico asservito e manovrabile, ha di fatto debilitato l’impianto democratico nazionale, terremotando l’intero sistema Paese, cancellando definitivamente, come conseguenza, antiche ed importanti forze politiche e finendo col produrre una profonda alterazione del principio costituzionale dell’equilibrio dei poteri. La recente esplosione del caso Palamara, non ha fatto altro che rendere palese e non più occultabile, quanto tutti sapevano, ma che, per complicità o viltà, fingevano di ignorare e vigeva sin dai tempi in cui fu concepita la militarizzazione delle Procure. Esse dominavano sovente i collegi giudicanti, avendo in mano il CSM e quindi le carriere dell’intero Ordine. Questo piano era stato concepito ed organizzato in modo perfetto da Luciano Violante, il quale, forse preoccupato per la pericolosità del meccanismo innescato, dopo essere stato Presidente della Camera, successivamente si è rifugiato in una posizione più defilata. Ormai il sistema tuttavia si era consolidato ed il ruolo dell’ANM, aveva trasformato il CSM in una sorta di arena, dove avvenivano anche scontri cruenti, all’insegna di una spregiudicata guerra per le carriere ed una spietata lotta politica. Verrebbe persino da solidarizzare con Palamara, di fronte alla inevitabile domanda sul perché il Trojan fu posto soltanto al suo cellulare? Cosa sarebbe emerso se fossero stati intercettati i cellulari di tutti i componenti di CSM e di ANM degli ultimi trent’anni? La Repubblica avrebbe potuto reggere di fronte alla evidenza di un sistema talmente corrotto e pericolosamente fazioso, che è arrivato al punto di condizionare la stessa vita democratica del Paese? Purtroppo la conseguenza è che la democrazia rappresentativa si è inceppata, per cause che, come origine, si possono far risalire a quello che abbiamo definito il colpo di Stato del 92/94, ma che si sono intrecciate con il fenomeno della personalizzazione della politica in nome della presunta ricerca di leader forti e riconoscibili alla guida di partiti liquidi e senza alcuna piattaforma di valori. Infatti la fine traumatica della cosiddetta Prima Repubblica ha comportato l’estinzione dei suoi antichi partiti identitari, tranne uno, il Pci, Pds, Ds, Pd, che tuttavia ha avuto grandi difficoltà a trasformarsi e rigenerarsi, anzi finendo col precipitare anch’esso in una crisi profonda, ancora oggi dinanzi ai nostri occhi. Si è quindi ridotto al ruolo di zerbino del M5S e delle sue bizzarrie antipolitiche, per non chiamarle con il loro vero nome di attentati continui alle istituzioni rappresentative. Sono sorti partiti e movimenti personalistici, sovente autoritari, sovranisti, nostalgici, che hanno fatto precipitare il Paese nello smarrimento. L’unico messaggio che viene dalle diverse parti politiche riguarda la piena disponibilità dello Stato a regalare denaro a tutti, o quasi, attraverso risorse prese a debito, portando il bilancio pubblico verso un tale dissesto da correre velocemente verso la bancarotta. La recente, difficile esperienza della pandemia, ha rafforzato tale pericolosa tendenza, facendo esplodere un perverso sistema delle elargizioni, grazie alla sospensione dei vincoli posti dai trattati comunitari. Anziché riaprire le scuole e l’Università, aiutare a riprendersi le imprese, che, soprattutto quelle piccole e medie in grandissima parte non potranno riaprire le proprie attività, invece, con l’accordo di sindacati e corporazioni, un Esecutivo di incapaci ed incoscienti, guidato da un Presidente velleitario e presuntuoso, ha distribuito decine di miliardi in sussidi, redditi di cittadinanza, assunzione di inutili promoter, cassa integrazione, prepensionamenti e regalie varie, decidendo di non decidere sulla eventuale accettazione degli oltre trentasei miliardi di prestiti messi a disposizione dal MES senza interessi, che avrebbero le uniche condizioni, che i relativi fondi andrebbero destinati a spese per ristrutturare e rafforzare il carente sistema sanitario di cui la pandemia ha dimostrato esservi grande bisogno e, della sua restituzione, come tutti i prestiti. Ovviamente un Parlamento, ostaggio dei Cinque Stelle, con una forte rappresentanza di forze sovraniste e nostalgiche, non ha l’autorevolezza e la necessaria cultura istituzionale per rivelarsi capace di preservare la democrazia liberale e realizzare la non più rinviabile riforma del pianeta giustizia e del CSM, rivelatosi soltanto un nido di vipere, dove, a causa degli scandali e della dimissioni di alcuni suoi componenti compromessi, oggi, domina incontrastata la corrente più estremista e pericolosa. Nelle stanze del CSM si aggirano mostri pericolosi, con l’ombra di Torquemada e di una nuova inquisizione, di cui dovremmo presto liberarci. Carcere giornalisti, al rilievo di incostituzionalità seguirà l’adattamento del nostro Ordinamento di Giancarlo Visone articolo21.org, 5 luglio 2020 All’esito della udienza del 09/06/2020, la Corte Costituzionale, con Ordinanza N. 132 (dep. il 26/06/2020), riuniti ai fini della decisione i giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13 della Legge sulla Stampa e dell’art. 595 co. 3 c.p., promossi dai Tribunali di Salerno (con ordinanza del 09/04/2019) e Bari (con ordinanza del 16/04/019), sul presupposto che entrambi i giudici rimettenti hanno sollevato analoghe questioni, ha rinviato la trattazione del giudizio alla pubblica udienza del 22/06/021. Ma andiamo con ordine. I giudici rimettenti, con le citate ordinanze, censurano il fatto che la previsione astratta della sanzione detentiva per il delitto di diffamazione aggravata, perché commessa col mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato (di cui all’art. 13 della Legge sulla Stampa), si pone in contrasto con l’art. 10 della Cedu, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, e quindi con l’art. 117 co. 1 Cost. Per il Tribunale di Salerno, che estende la questione anche alla diffamazione aggravata perché commessa col mezzo della stampa (di cui all’art. 595 co. 3 c.p.), la previsione della pena detentiva, per entrambe le suddette ipotesi di diffamazione aggravata, sarebbe altresì in contrasto anche con gli articoli 3, 21, 25 e 27 della Costituzione. La motivazione di entrambe le ordinanze di rimessione è articolata su ampi richiami alla giurisprudenza della Corte Edu in materia di libertà di espressione, tutelata ex art. 10 CEDU. In particolare, l’art. 10 Cedu prevede che: “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli stati di sottoporre a regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione. 2. L’esercizio di questa libertà, poiché comporta doveri di responsabilità, può essere sottoposta a formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”. Come si evince dal testo della citata norma, la libertà di espressione è sottoposta ad eccezioni che devono, tuttavia, essere interpretate in modo restrittivo. Ciò posto, sul tema della congruità del trattamento sanzionatorio previsto nel nostro Ordinamento, rispetto ai fatti di diffamazione aggravati di cui all’art. 13 della legge 47/1948 e all’articolo 595 co. 3 del codice penale, occorre muovere da questa idea di fondo che anima la giurisprudenza della Corte EDU: assicurare ampi spazi alla libertà di stampa, quale veicolo di trasmissione delle informazioni ai cittadini e strumento di controllo, nelle società democratiche, dei pubblici poteri. La stampa, dunque, come “cane da guardia” della democrazia. D’altronde, la libertà di espressione costituisce un valore garantito anche dall’ordinamento interno attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere d’informazione, cui si correla quello all’informazione (art. 21 Cost.), diritti questi che impongono - anche laddove siano valicati i limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca e/o critica - di tener conto, nel sanzionare la condotta del giornalista, della insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza. In ragione di tale funzione riconosciuta all’attività giornalistica, la stessa Corte Costituzionale la ritiene meritevole “di essere salvaguardata contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta (sentenza n. 172 del 1972) che possa indebolire la sua vitale funzione nel sistema democratico, ponendo indebiti ostacoli al legittimo svolgimento del suo ruolo di informare i consociati e di contribuire alla formazione degli orientamenti della pubblica opinione, anche attraverso la critica aspra e polemica delle condotte di chi detenga posizioni di potere”. La formula che ricorre nelle sentenze della Corte EDU è quella del chilling effect, dell’effetto cioè di “raggelamento”, dissuasivo, che la sanzione detentiva già solo nella sua previsione astratta può avere sull’esercizio dell’attività giornalistica (Corte EDU sent. 17/12/2004 Cumpana e Mazare c. Romania). D’altronde, se guardiamo alle decisioni della Corte EDU in materia, si nota come questa - pur affermando che la previsione di una sanzione detentiva per il giornalista diffamatore (e a fortiori l’irrogazione della pena della reclusione in concreto) non è sempre incompatibile con l’art. 10, risultando al contrario legittimata in “circostanze eccezionali”, lesive di altri diritti fondamentali, come nei casi di istigazione all’odio razziale o etnico, o di incitamento alla violenza - abbia costantemente esercitato uno scrutinio particolarmente stringente sulla proporzione di tale tipo di trattamento sanzionatorio, anche a fronte di episodi contrassegnati da una certa gravità, escludendo, in concreto, la sussistenza di una violazione dell’art. 10 della Convenzione soltanto ove la pena inflitta abbia avuto natura pecuniaria. Significativa in tal senso è la sentenza della Corte Edu del 24/09/2013, Belpietro c. Italia, ove la Corte non ha esitato, pur a fronte di un fatto illecito, a ritenere sussistente la violazione dell’art. 10 Cedu in conseguenza della condanna del direttore di un giornale, ex art. 57 c.p., a pena detentiva, sebbene condizionalmente sospesa. Il precedente fondamentale in materia è rappresentato, comunque, da Cumpana e Mazare c. Romania, ove la Grande Camera ribadiva la violazione dell’art. 10 della Convenzione in un’ipotesi di condanna di giornalisti per fatti di diffamazione alla pena della reclusione. In tale occasione, ancora una volta, la Grande Camera sottolineava l’argomento del giornalista “cane da guardia” della democrazia e l’effetto dissuasivo delle sanzioni detentive rispetto all’esercizio della libertà di stampa, e ciò indipendentemente dal fatto che la pena non avesse avuto concreta esecuzione, ammettendo - con una formula poi divenuta una costante - la compatibilità della sanzione della reclusione con la libertà convenzionale solo in casi eccezionali, quando altri diritti fondamentali siano stati lesi, come ad esempio nei discorsi di incitazione alla violenza e d’odio. Formula, quest’ultima, presente anche in numerose Risoluzioni e Raccomandazioni dell’Assemblea del Consiglio d’Europa. Ed è in questo quadro che si inserisce la sentenza del 07/03/2019, Sallusti c. Italia, dove, valorizzando ancora una volta l’essenzialità del ruolo della stampa nelle società democratiche, la Corte EDU ribadisce l’incompatibilità con l’art. 10 CEDU dell’inflizione della pena detentiva nei confronti di un giornalista riconosciuto responsabile di diffamazione. Anche in questo caso la Corte EDU non censura la valutazione del giudice italiano sulla sussistenza della responsabilità penale per il reato di diffamazione, ravvisando la violazione dell’art. 10 CEDU unicamente nell’inflizione della pena della detentiva.?Ciò non toglie, tuttavia, e la Corte Costituzionale lo sottolinea, che il legittimo esercizio della libertà di informazione, da parte della stampa e degli altri media, debba essere bilanciato con l’esigenza di assicurare tutela anche ad altri diritti di rango costituzionale.?Fra questi, ruolo centrale spetta al diritto alla reputazione della persona, in quanto diritto inviolabile ex art. 2 Cost., ma anche elemento fondamentale del cd. diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, oltre che diritto riconosciuto dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Muovendo da tali premesse la Corte Costituzionale valuta inadeguato il bilanciamento sotteso alla disciplina sanzionatoria di cui all’art. 595 co. 3 c.p. e all’art. 13 della Legge sulla Stampa, che si basa proprio sulla previsione, in via rispettivamente alternativa e cumulativa, di sanzioni detentive e pecuniarie nei confronti del giornalista che travalichi i limiti del corretto esercizio del diritto di cronaca/critica. Da qui, prosegue la Corte, la necessità di provvedere a ricalibrare quel bilanciamento, onde garantire adeguata tutela tanto alla libertà di stampa quanto alla reputazione individuale delle vittime degli abusi di quella libertà, che oggi sono esposte a rischi maggiori rispetto al passato, dati gli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet…”. Un tale compito, prosegue la Corte, investe in primis il potere legislativo, sul quale grava la responsabilità di individuare le complessive strategie sanzionatorie idonee a garantire un tale delicato bilanciamento tra diritti in conflitto.?Il potere legislativo, infatti, “è meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso - nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito - a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica), ma a efficaci misure di carattere disciplinare. In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumono connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi un’istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”. Ciò posto, lungi dal volersi sottrarre al suo compito istituzionale di verificare, su sollecitazione dei giudici comuni, la compatibilità con la costituzione delle disposizioni legislative in essere, la Corte sottolinea come, rispetto alle possibilità di intervento di cui dispone il legislatore, sconta “la limitatezza degli orizzonti del devolutum e del rimedio a sua disposizione, che segnano il confine dei suoi poteri decisori; con il connesso rischio che, per effetto della stessa pronuncia di illegittimità costituzionale, si creino lacune di tutela effettiva per i contro interessati in gioco, seppur essi stessi di centrale rilievo nell’ottica costituzionale…”. In ragione di tanto, rilevato che davanti al Parlamento risultano in corso di esame numerosi progetti di legge di riforma in materia di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo stampa, per spirito di leale collaborazione istituzionale e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni, la Corte Costituzionale ha ritenuto opportuno pronunciare un’ordinanza, priva della declaratoria di incostituzionalità (che richiede una sentenza) con cui la trattazione del giudizio è stata rinviata all’udienza del 22/06/021, “in modo da consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina in linea con i principi costituzionali e convenzionali sopra illustrati”. Con tale provvedimento, in conclusione, la Corte ha utilizzato la tecnica decisoria, inaugurata per la prima volta con l’ordinanza n. 207 del 2018, che la dottrina ha definito “ad incostituzionalità differita” Dalla motivazione della predetta ordinanza, infatti, appare evidente che le norme censurate siano già state valutate come contrarie a specifici parametri costituzionali.?È quindi ragionevole ipotizzare che arriverà il momento in cui a questo rilievo di incostituzionalità seguirà l’adattamento del nostro Ordinamento. L’incostituzionalità rilevata, in definitiva, esige un rimedio che giungerà differito o al tempo dell’intervento del legislatore o a quello della definitiva pronuncia del giudice costituzionale. *Avvocato del Sindacato unitario giornalisti della Campania Cosenza. Detenuto suicida nel carcere Quotidiano del Sud, 5 luglio 2020 Ieri pomeriggio, nel carcere di Cosenza, un detenuto straniero si è tolto la vita, impiccandosi mentre era nella stanza detentiva. “Nonostante gli interventi posti in essere, anche attraverso i medici del 118, non è stato possibile salvargli la vita. Ricordiamo che ogni anno la polizia penitenziaria salva la vita a oltre mille detenuti che tentano il suicidio”, affermano Giovanni Battista Durante, Segretario Generale Aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale. “Nell’istituto penitenziario di Cosenza, lo scorso 31 maggio, erano presenti 220 detenuti che sono gestiti da un organico della Polizia penitenziaria insufficiente. Infatti, si registra una carenza di organico in tutti i ruoli, di oltre 30 unità di Polizia penitenziaria, posto che a fronte di una previsione di complessive 169 unità, che peraltro non rispecchiano le reali esigenze della struttura, ne risultano assegnate solo 139 unità”. “Su questa problematica il Sappe - afferma in una nota - nei giorni scorsi, ha interessato la direzione generale del personale del Dipartimento, per evidenziare che l’organico della struttura penitenziaria cosentina è sottodimensionato. È stata chiesta l’adozione di ogni utile iniziativa finalizzata all’adeguamento dell’organico della Polizia penitenziaria della casa circondariale di Cosenza”. Milano. “Mentre tutti ci dicevano di scarcerare, noi pensavamo a curare” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 5 luglio 2020 Parla il direttore sanitario di San Vittore. Il dottor Ruggero Giuliani è una di quelle persone che ti sembra di conoscere da sempre, anzi, che avresti voluto aver conosciuto da sempre, tanto che immediatamente ti perdi nella sua storia. E ti ritrovi a dargli del tu come se non fosse solo la seconda volta che lo vedi e come se non si fosse in una situazione oppressa dalle mura di una prigione. Oggi il dottor Giuliani è il direttore sanitario del carcere di San Vittore, reduce dalla battaglia con il Covid-19 e anche da quella con la rivolta dei detenuti del 9 marzo. Ma fino a poco tempo fa, con la collega (che casualmente è anche sua moglie) Teresa Sebastiani era operatore sanitario di Medici senza frontiere in Africa, per oltre dieci anni, in luoghi di guerra e in ultimo in Mozambico. È specializzato in infettivologia. Così è cascato da un anno dentro i gironi infernali di San Vittore proprio alla vigilia dell’arrivo di un virus che lui ha annusato abbastanza in fretta, pur se a tutti sconosciuto. Il racconto di questi mesi a San Vittore è l’immagine plastica di una sorta di bolla che si è (è stata) salvata pur all’interno della complicata situazione sanitaria lombarda. Nell’istituto, al numero due della piazzetta Filangieri cantata da tante canzoni della mala milanese come “Ma mi”, oggi ci sono circa 850 detenuti. Il che significa il venti per cento in meno dei 1.000-1.100 dell’era ante-Covid. Chiedo subito di chi sia il merito: dei giudici di sorveglianza o del decreto governativo? “No, il motivo principale è stata la riduzione delle attività investigative e della presenza dei presìdi di polizia nelle zone rosse”. Quindi, poiché zona rossa (o arancione) è stata tutta la Regione Lombardia, questo vuol dire non solo che forse in Italia ci sono troppi reati di strada, cioè la cosiddetta piccola criminalità, ma anche che si arresta con troppa facilità, come se il carcere fosse l’unica soluzione dei problemi di devianza o emarginazione. “Il carcere ormai - il dottor Giuliani ne è convinto - è l’ultimo luogo che si prende cura dei residuali. Li chiudi dentro, butti la chiave e li tieni lì. Forse in questo modo affronti qualche problema di sicurezza, ma dimentichi che punire equivale a far soffrire”. A San Vittore il 70% è composto da detenuti stranieri che non hanno neanche un domicilio, quindi è difficile applicare loro le misure alternative al carcere. Così è anche per molti anziani malati e soli. Sono questi i problemi. Qui non esistono reparti di alta sicurezza e neanche 41bis. Qui c’è la “normalità” di poveri ed emarginati per cui la detenzione pare l’unica soluzione di vita. O di sopravvivenza. Quindi, come è andata con il Coronavirus? “La prima regola, in presenza di un virus così contagioso, è ridurre il sovraffollamento. Ma in un carcere come questo, con piccole celle da 3 persone in nove metri quadri o grandi da 11 in 18 metri quadri, non puoi fare nessun distanziamento. L’unica soluzione è tenere sempre le celle aperte, cosa che si fa con molta ipocrisia dopo la sentenza Torreggiani (quando la Cedu ha condannato l’Italia per gli spazi ridotti per detenuto, ndr), così si contano anche i metri dei corridoi. Non potendo intervenire su questo aspetto, noi come prima cosa abbiamo chiuso porte e portoni, cioè sospeso i colloqui e bloccato l’ingresso degli esterni non indispensabili. Fin dal mese di febbraio avevamo prestato particolare attenzione alle polmoniti e ai detenuti cinesi o che comunque fossero arrivati dalla Cina”. Ma ci sono cinesi? Sorriso: “Certo, e adesso cuciono mascherine e camici che sono stati già omologati dal Politecnico”. San Vittore dispone di un ottimo Centro clinico interno, con venti medici e cinquanta infermieri. Con qualche operatore sociosanitario, un’ottantina di persone, che nei mesi scorsi si sono occupate quasi a tempo pieno della pandemia. “Con il Direttore Giacinto Siciliano abbiamo costituito una task force fin dal 23 febbraio, quando fu scoperto a Codogno il famoso paziente uno, e abbiamo intensificato tutte le misure di prevenzione. Poi il 9 marzo la rivolta ha rischiato di far saltare tutto. C’erano già state tensioni a Pavia e Voghera, penso ci sia stato una sorta di tam-tam. Ma quando penso ai volti dei “miei ragazzi” sul tetto mi vien da sorridere all’idea che qualcuno abbia pensato a una strategia per far insorgere i carcerati. Credo invece che loro fossero delusi perché speravano in una soluzione Iran, cioè carceri svuotate completamente. Comunque abbiamo superato quel momento, anche se abbiamo avuto problemi con i nostri agenti che erano andati a dare una mano fuori, cioè nelle altre carceri e che si sono contagiati”. Non sono uscite all’esterno molte notizie su quel che succedeva “dentro”, dopo i giorni della rivolta. “I primi casi si sono verificati all’inizio di marzo, ma solo per un paio di detenuti che sono transitati all’ospedale di Niguarda, dove hanno necessitato anche di piantonamento. Così si sono contagiati circa sessanta agenti, di cui il settanta per cento erano sintomatici. Ma in tutto la situazione grave si è limitata a un agente e un detenuto morti, purtroppo”. Questo è il momento in cui Ruggero Giuliani, che neanche per un attimo ha mostrato la vanità dei tanti virologi che in questi mesi hanno affollato le nostre tv, ha un moto d’orgoglio. Sembra quasi uno che crede davvero nelle virtù salvifiche del carcere. Perché a partire dal 7 aprile il Centro clinico di San Vittore è diventato a tutti gli effetti il “Centro Covid” di tutta la Lombardia. “Mentre tutti ci dicevano di scarcerare, noi pensavamo a curare. Abbiamo fatto 1.500 tamponi. Ogni volta che trovavamo un positivo, immediatamente, entro le ventiquattrore, abbiamo fatto i tracciamenti di tutti i contatti interni. E siamo intervenuti in modo rapido ed efficace a dare l’accesso alle cure. Fino a un certo momento eravamo anche riusciti a tenere separati i tre settori paralleli: detenuti, agenti e personale sanitario. Ma il 31 marzo era avvenuto il primo contagio interno, cioè il passaggio del virus da detenuto ad agente e viceversa”. È stato in quel momento che la task force ha fatto un vero appello ai detenuti. “Abbiamo bisogno di voi, abbiamo detto, e li abbiamo coinvolti sollecitando comportamenti attivi, con un decalogo di regole di prevenzione, con l’uso di mascherine e di igienizzazione di ogni oggetto presente nelle celle”. Insomma, è andata. “Abbiamo avuto l’ultimo positivo interno il 24 aprile. Complessivamente i positivi erano stati 22 detenuti su 550 e 60 agenti su 550. Poi ci sono arrivate 70 persone positive dalle carceri di tutta la Lombardia. Li abbiamo curati tutti, ora ne sono rimasti solo tre”. Tre è un numero di qualche giorno fa, relativo al momento dell’intervista. Inutile chiedere, infine, al dottor Ruggero Giuliani se sia favorevole all’amnistia o all’indulto. Lui crede molto nella riabilitazione sociale, nella formazione, nel lavoro. “Ci sono tanti reati di povertà…”, scuote la testa, sconsolato. Se questo medico di frontiera vi ha dato l’impressione di essere un vecchio saggio giramondo, sappiate che ha solo 48 anni. Molto ben vissuti. Napoli. “Dieci anni di galera sono troppi. Soprattutto se sei entrato a 16 anni” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 5 luglio 2020 Il venerdì a Nisida è il giorno del barbiere. Quando arriviamo nel carcere minorile napoletano i ragazzi del laboratorio pizzeria hanno appena mollato impasto e farina sul bancone per andare tagliarsi i capelli. Averli sempre in ordine è la seconda cosa per loro più importante, la prima è rassettare e tenere pulita la cella nei reparti. L’odore forte del detersivo è più ingombrante dei due letti e il comodino che compongono la stanza. Una mandata, due mandate: la grossa chiave dorata che apre la porta blindata allarga la vista che dallo spioncino per la “conta” si ripete sempre uguale lungo tutto il corridoio. Da dentro, tra le sbarre in ferro della grossa finestra accanto al bagno, si vede il mare: “uno spettacolo, ma anche la più grande sofferenza”, confessa uno dei ragazzi che incontriamo. Nisida è l’isola dei gabbiani e della reclusione. Un paesaggio irripetibile sottratto alla natura per accogliere la cosiddetta “devianza giovanile” tra le mura della vecchia prigione borbonica dove si racconta che Bruto avesse ordito la congiura contro Cesare. Dopo l’emergenza sanitaria da Covid 19, il numero di detenuti si è ridotto a 28: quasi tutti “giovani adulti” tra i 18 e i 25 anni che non hanno avuto accesso a misure alternative, di loro solo quattro sono donne confinate nella sezione femminile. La struttura ne può accogliere fino a settanta, per una media di cinquanta: compresa la sezione della semilibertà, che ospita i ragazzi appena fuori dal cancello sorvegliato che delimita la zona di detenzione vera e propria. “Qua si soffre bene o si soffre male: quando soffri male esci peggiore di quando sei entrato”. Sono le parole di Salvatore, 21 anni, nato e cresciuto nel quartiere Santa Lucia di Napoli. Arrestato per la prima volta a 16 anni, ha già passato in carcere quasi quattro anni tra Airola e Nidisa, il più grande tra gli Istituti minorili che ospita ragazzi da tutto il Sud Italia. Per lui la sofferenza “è stata buona”, gli ha permesso di capire che “cos’è la vita”. Della sua condanna gli restano da scontare altri tre anni e qualche mese, “forse meno”, si augura. Dentro Nisida ha imparato a fare il pizzaiolo e sogna di aprire un locale tutto suo. “Solo chi sta in galera può capire certe cose, voi non potete neanche immaginare. In carcere non si sta bene, e chi dice che qua si sta bene, mente. La libertà non ha prezzo”, comincia a raccontare. La distanza tra “noi e voi” nella sua voce è più pesante del sole rovente che ci picchia sulle spalle. Quando è entrato in carcere Salvatore aveva solo la licenza media, una famiglia “perbene” alle spalle e troppe cattive conoscenze. “Abitare a Napoli è difficile spiega - perché il quartiere di appartenenza ti trascina a fare brutte cose. Ti trovi in situazioni in cui non ti devi trovare: ma a pagare le conseguenze siamo solo noi, sprecando gli anni migliori della nostra vita”. Da un anno esce in permesso premio e quando accade ha l’unico desiderio di fumare una sigaretta da “uomo libero” e scegliere la pietanza da mangiare. “In galera non ci voglio tornare più - assicura. Prima vivevo alla giornata, adesso voglio solo lavorare e realizzarmi. Per me adesso un futuro migliore significa costruire una famiglia, tornare a casa la sera e starmene tranquillo”. “Qui mi sono civilizzato”, dice elencando tutte quelle regole - “troppe” - che scandiscono le giornate tutte uguali nel penitenziario, tra un’attività trattamentale e una partita a calcio. Sulla copertina di un libro spiegazzato sul comodino leggiamo: “Voglia di libertà”, di Anne Saraga. Per Salvatore, da quando ha raggiunto il padiglione “premiale”, la cella è un poco meno stretta, il futuro un poco più a portata. Forse a Napoli, forse in Spagna, come lascia immaginare una cartolina di Ibiza incollata alla parete. “Io mi sento pronto per uscire, secondo me non ho più bisogno di stare qui. Adesso ho un progetto. Credo che la legge sia troppo severa: a un ragazzo che deve scontare dieci anni gli hai fatto capire la pena? L’hai solo ucciso. Per capire di aver sbagliato ci vuole tempo, ma quando ti senti pronto devi uscire”. Secondo lui a salvarsi dopo il carcere su cinquanta detenuti sono a malapena due. Altri ragazzi che come lui scontano la pena a Nisida non hanno alcuna scelta. Senza una famiglia alle spalle, ad attenderli fuori è soltanto la criminalità: “dopo un percorso in istituto devi avere una possibilità, altrimenti ti perdi un’altra volta. Lì fuori non c’è più nessuno ad aiutarli”. Napoli. Tribunale, le misure anti-Covid e il balzello per gli accessi alla cancelleria di Viviana Lanza Il Riformista, 5 luglio 2020 Una mail interna alle cancellerie diventa di dominio pubblico, facendo rapidamente il giro delle chat degli avvocati e delle pagine social. E tanto basta a infiammare la mattinata della prima giornata della nuova fase di ripresa e scatenare un’ondata di indignazione, disappunto e proteste tra la classe forense, già delusa dalla lenta ripartenza dell’attività giudiziaria dopo la fase acuta dell’emergenza Covid. La mail in questione riporta una disposizione del coordinatore del settore dibattimento del Tribunale di Napoli con le nuove regole per chi frequenterà le cancellerie. Quindi per gli avvocati. In otto punti si chiarisce la gestione dell’afflusso di persone e informazioni e ad accendere la miccia è il punto in cui si stabilisce che d’ora in poi “le richieste di conoscere le date di rinvio dovranno essere fatte per iscritto e sulle stesse deve essere apposta la marca di 3,87 euro”. “Assurdo”, “pazzesco” sono gli aggettivi che si ripetono nei commenti dei penalisti. Gli avvocati non condividono molte delle nuove regole che rendono le cancellerie luoghi sempre meno accessibili. Secondo le nuove disposizioni, ogni sezione di piano lascerà aperto un solo sportello per il deposito delle impugnazioni e tutte le altre porte saranno chiuse; ci sarà un solo sportello anche per l’eventuale deposito di atti; non sarà consentita alcuna visione dei dispositivi dei quali si può invece fare richiesta di copia con il sistema delle prenotazioni al front office; mascherine sempre obbligatorie. Inoltre, la precedenza, nelle file per l’accesso agli uffici, sarà data a chi si è servito del sistema di prenotazione, e solo su prenotazione sarà possibile prendere visione dei fascicoli. Infine, nelle cancellerie si dovrà tener nota di coloro che vi fanno accesso senza prenotazione. “Poi faranno la lista dei buoni e dei cattivi?” commentano infastiditi molti avvocati. “Sono molto dispiaciuta per queste reazioni - replica la presidente del Tribunale Elisabetta Garzo - Non stiamo dicendo che per conoscere la data del rinvio si deve pagare. Non è così, si è data una lettura superficiale o non in perfetta buona fede. È la legge che prevede il pagamento di un contributo se si richiede una documentazione scritta, tutto qui. In alternativa gli avvocati possono conoscere le date dei rinvii consultando il front office o lo sportello di libera consultazione”, precisa la presidente Garzo aggiungendo che la decisione è stata adottata solo per ragioni di tutela della salute pubblica. “Mondragone ce lo insegna - afferma - Se dovesse esserci un caso positivo in tribunale dobbiamo poter ricostruire la catena dei contatti”. Intanto la Camera penale di Napoli, guidata dall’avvocato Ermanno Carnevale, assieme ai presidenti delle altre Camere penali del distretto, hanno inviato una lettera al presidente del Tribunale: “La nota ha infastidito per il tenore complessivo e abbiamo chiesto al presidente di revocarla anche perché ci è sembrata in contrasto, in alcuni punti, con il decreto presidenziale”, ha spiegato Carnevale auspicando per tutti il ritorno a un clima più sereno. Dura anche la replica del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli, presieduto dall’avvocato Antonio Tafuri, che in una nota afferma: “Il documento con alcune inusitate nuove regole sull’accesso alle cancellerie appare ledere gravemente i diritti e le facoltà assicurate dalla legge agli utenti del settore giustizia e in particolare agli avvocati. Chiedere agli avvocati il pagamento di diritti di cancelleria appare assurdo se non addirittura provocatorio”. Sassari. “Curate quel detenuto con problemi psichici” La Nuova Sardegna, 5 luglio 2020 Appello del Garante Unida, visita a Bancali con il deputato Perantoni. Stavolta è toccato a un parlamentare della Repubblica, l’avvocato Mario Perantoni del M5S, andare a valutare di persona quanto denunciato nei giorni scorsi dal Garante dei diritti delle persone private della libertà Antonello Unida: la vicenda di un detenuto ghanese di circa 50 anni con seri problemi psichici e ormai incompatibile con la struttura penitenziaria. L’uomo - arrivato circa un anno fa a Bancali proveniente da Rebibbia, ormai giunto quasi a fine pena (sconta una condanna per maltrattamenti e violenze in famiglia) - disturba in continuazione gli altri detenuti, imbratta i muri con gli escrementi e compie atti di autolesionismo. É già stato ricoverato più volte in Psichiatria ma - dopo i trattamenti - ha fatto ritorno nella sua cella nella struttura di Bancali. La procedura per chiedere il suo trasferimento in un centro adeguato - nello specifico il Rems di Capoterra, l’unico attivo in Sardegna - è stata formalizzata anche con il parere favorevole della direzione, ma i risultati non sono arrivati. “É fondamentale che il detenuto possa essere spostato in una struttura che gli garantisca le cure adeguate alla gravità della situazione - ha detto ieri Antonello Unida a conclusione della visita in carcere insieme al parlamentare Mario Perantoni - e il problema che si pone non riguarda solo oggi ma anche i prossimi mesi, quando il detenuto tornerà in libertà in una condizione che come minimo può essere definita preoccupante”. Il deputato Mario Perantoni ha preso atto della gravità delle condizioni del detenuto e della impossibilità di essere gestito nel carcere di Bancali, e ha manifestato l’impegno per un intervento immediato nei confronti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Provveditorato regionale affinché la procedura per il trasferimento del detenuto vada a buon fine. L’occasione per l’incontro con il parlamentare è tornata utile anche per valutare alcune criticità che riguardano la struttura di Bancali: il Garante per la tutela dei diritti delle persone private della libertà ha posto l’accento in particolare sulla grave carenza delle figure degli educatori: al momento solo due quelli in servizio a fronte di una attività rivolta a circa 450 detenuti. “Non è accettabile - ha detto Unida - spero che le richieste vengano accolte”. Nuoro. Orgosolo sotto assedio, è caccia a Mesina di Kety Sanna La Nuova Sardegna, 5 luglio 2020 L’ex bandito è scomparso dopo la conferma della condanna a 30 anni. Perquisizioni a tappeto, potrebbe essersi rifugiato nel Supramonte Aiutato da qualcuno, potrebbe aver trovato rifugio tra i boschi e gli anfratti del suo Supramonte. Orgosolo si è svegliato ancora una volta sotto assedio. Graziano Mesina dal tardo pomeriggio di giovedì, quando ancora i giudici della Cassazione erano riuniti per decidere la sentenza, è misteriosamente scomparso. Ancora non è ufficialmente latitante perché per esserlo è necessario che si sia sottratto volontariamente alla cattura. Per ora la sua è una situazione di fatto quasi casuale: all’autorità giudiziaria che lo cerca è ignoto il luogo dove si trovi. Carabinieri e polizia gli stanno dando la caccia. Ieri mattina posti di blocco all’ingresso del paese, in piazza, a pochi metri dalla casa in cui l’ex primula rossa del banditismo viveva con una delle sorelle e un nipote, che da subito si sono trincerati dietro il silenzio, rifiutando il confronto con i giornalisti. La sentenza di condanna della Cassazione, che ha confermato i 30 anni di carcere inflitti dalla Corte d’appello di Cagliari per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, è arrivata poco dopo le 22.30 di due sere fa, ma “Grazianeddu” che da un anno aveva lasciato il carcere per decorrenza di termini, giovedì non si è presentato al consueto appuntamento in caserma per firmare. A quell’ora, forse, era già in fuga. Magari secondo un piano che aveva organizzato da qualche giorno senza far trapelare nulla. Eppure, per riuscirci, ha dovuto contare sull’aiuto di qualcuno. Una persona di fiducia che ha deciso di rischiare per lui. Mesina non guidava. Ha sempre avuto un autista che lo faceva per lui. L’ultima volta da uomo libero, è stato visto giovedì mattina, in piazza dei Caduti, seduto su una panchina insieme ad altri anziani del paese. Perciò, anche immaginare che possa essersi allontanato tanto, sembra, in effetti, alquanto improbabile. In questo anno, non era mai successo, che saltasse il suo appuntamento nella caserma di via Sicilia, nella parte alta di Orgosolo. I militari della stazione, proprio per questo motivo, giovedì non ci hanno fatto caso: immaginavano che l’ex bandito stesse aspettando a casa il verdetto della Suprema corte. Solo alle 22 con l’arrivo della comunicazione della Dda di Cagliari, i carabinieri del reparto operativo del comando provinciale, sono andati a bussare nell’abitazione di Corso Repubblica, per notificargli l’ordine di carcerazione. Ma lui non c’era. Mesina era già irreperibile. Da quel momento è scattato un imponente dispositivo di forze su tutto il territorio ed è partita la caccia spietata dell’uomo in fuga. “No comment - sono le uniche parole che arrivano dall’Arma. Abbiamo in campo tutte le forze ma al momento non possiamo aggiungere altro”. Tutto il personale è stato destinato all’attività di ricerca: dagli uomini della stazione di Orgosolo ai militari del Reparto operativo, fino agli uomini delle squadriglie in forza al comando. Impegnata nei rastrellamenti anche la polizia di Stato con gli agenti del commissariato del paese e il personale della squadra mobile e delle volanti di Nuoro. Per tutta la giornata di ieri lo hanno cercato di casa di casa, hanno sentito diverse persone a lui vicine e setacciato le campagne attorno al paese. Ma “Grazianeddu” sembra essere sparito nel nulla. Eppure era costantemente “attenzionato” dai carabinieri che, però, non hanno messo in conto questo ultimo colpo di scena. Anche le telecamere dislocate in punti diversi del paese, le poche risparmiate tre giorni fa dalle fucilate, potranno fornire elementi utili agli inquirenti che non potevano immaginare che dietro a quel ritardo di giovedì potesse nascondersi l’ennesima fuga dell’ex bandito. Era stato sempre ligio alle prescrizioni a cui doveva ottemperare, perché sapeva chiaramente che se avesse sgarrato, si sarebbero riaperte subito le porte del carcere. Quasi 80enne, forse due sere fa, ha voluto sfruttare l’ultima occasione che aveva, in attesa del verdetto di Cassazione. E se lo scopo era tornare a Badu e Carros, costituendosi ora potrebbe spendere a suo favore il fatto di essersi ravveduto autonomamente, al fine di ottenere delle garanzie, vista anche l’età. Le sue rocambolesche evasioni, la latitanza, la grazia e poi di nuovo l’arresto hanno fatto di “Grazianeddu”, un personaggio che però a Orgosolo nessuno, ormai, considera più. Livorno. Il Garante: “Rispetto per gli agenti che garantiscono sicurezza” livornotoday.it, 5 luglio 2020 La lettera di Giovanni De Peppo: “Le forze dell’ordine svolgono il loro lavoro con abnegazione e professionalità”. “Tutelare e rispettare il lavoro della polizia penitenziaria che garantisce la sicurezza nel carcere di Livorno e più in generale in tutti i penitenziari di Italia”. Questo il sunto di una lettera che il Garante dei detenuti del Comune, Giovanni De Peppo, ha voluto scrivere in sostegno degli agenti delle forze dell’ordine: “Per una volta, voglio occuparmi e preoccuparmi della polizia penitenziaria che manifesta e segnala una serie di problemi e difficoltà nell’esercizio della propria professione per mezzo di un presidio permanente organizzato fuori dalla casa circondariale di Livorno, organizzato da varie sigle di rappresentanza sindacale come Funzione pubblica Cgil, Federazione nazionale sicurezza Cisl, Sappe, Alsippe, Osapp e Cnpp”. “Negli istituti di pena - continua il garante dei detenuti - gli agenti esercitano molteplici funzioni, non solo di sicurezza, ma di relazione e supporto nei confronti dei detenuti. Nella mia esperienza ho potuto registrare e posso testimoniare la capacità, le professionalità dei tanti operatori che con abnegazione, operano assicurando la sicurezza negli istituti, con attenzione e sensibilità non comune nei confronti delle persone ristrette. Con il presidio, gli agenti richiamano la necessità del riconoscimento di un ruolo e di una funzione che non possono essere trascurati o sottovalutati. Vi è sicuramente la motivata richiesta di un maggiore riconoscimento dei meriti, delle responsabilità, ma anche l’opportunità di recuperare risorse sulla formazione, soprattutto in una più complessiva strategia che possa favorire il lavoro di equipe con le altre professionalità presenti negli istituti”. Livorno. Gorgona, addio al macello: salvati gli animali dell’isola-carcere di Beatrice Montini Corriere della Sera, 5 luglio 2020 A fine giugno, dopo una battaglia durata anni, i primi 75 animali “da reddito” allevati dai detenuti sono stati portati in tre rifugi in Lazio. Dopo lo smantellamento del macello qui rimarranno solo 138 animali che accompagneranno i carcerati in un percorso rieducativo. Il progetto nato grazie alla sinergia di diverse forze in campo. Il rumore del trattore in sottofondo non cessa quasi mai. I gabbiani urlano nel cielo azzurrissimo. Il sole arroventa i tetti rossi delle case chiare dei pochi residenti. Fine giugno 2020, Gorgona. Oggi qualcosa di molto importante sta - di nuovo - per cambiare nella più piccola isola dell’arcipelago toscano, a 34 km dalla costa livornese. Qui, dal 1869, ha sede una casa di reclusione. Un carcere dalle caratteristiche molto particolari in cui, spesso, si sono tentati e portati avanti progetti innovativi di riscatto e riabilitazione dei detenuti. “Gorgona ad esempio è stato il primo penitenziario ad inaugurare i colloqui all’aperto quando nel resto d’Italia c’erano ancora i divisori”, sottolinea il direttore del carcere Carlo Mazzerbo. Oggi invece dall’isola se ne vanno via per sempre, verso la libertà, 75 ospiti speciali: polli, galline e pecore che sono stati allevati qui e che sarebbero dovuti finire al macello. Prima di ricevere la “grazia”. Lo scorso gennaio infatti - grazie all’interesse del sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi - è stato firmato il protocollo d’intesa tra il comune di Livorno, la casa circondariale e la Lav, per lo smantellamento del mattatoio e la ripresa delle attività di rieducazione dei detenuti, in chiave etica: gli animali da reddito, detto in estrema sintesi, non sono più percepiti come futura “carne” ma come “compagni”. A sei mesi di distanza (dopo lo stop per l’emergenza Covid) i primi animali salvati lasciano così l’isola. Nella tarda serata del 25 giugno dal porticciolo di Gorgona (che si affaccia su un mare così cristallino e trasparente da sembrare una piscina), parte la grande chiatta con a bordo i 75 che arriveranno nella notte in tre rifugi nel Lazio: Hope, Capra libera tutti e Zampe felici, dove potranno trascorrere il resto della loro vita senza essere sfruttati in alcun modo né uccisi. “Ma è solo il primo passo - spiega il presidente della Lav Gianluca Felicetti - Nei prossimi mesi, da settembre, quando sarà possibile avere un’imbarcazione adatta, porteremo via anche gli altri animali. Dei 450 attuali, ne resteranno solo 138: perché il progetto viva e gli animali possano essere accuditi nel migliore dei modi, è necessario ridurre il numero di quelli che attualmente vivono a Gorgona, risultato dell’attività di riproduzione incentivata ai fini dello sfruttamento zootecnico”. Tra le persone che attendono la partenza della piccola “Arca della Libertà” (rappresentanti delle istituzioni coinvolte e volontari) c’è soddisfazione. Anche se quella che molti definiscono una “giornata storica” è arrivata dopo molte battaglie e difficoltà. Il mattatoio era già stato chiuso una prima volta tra il 2014 e il 2016 grazie all’impegno dell’allora veterinario dell’isola Marco Verdone (e del direttore che anche in quegli anni era Mazzerbo). Poi le condizioni erano cambiate e - nonostante le proteste di animalisti, comuni cittadini, ex detenuti e personaggi illustri (da Susanna Tamaro a Stefano Rodotà) - l’allevamento e la macellazione erano riprese. Ancora oggi non tutti concordano con il nuovo e definitivo stop al mattatoio. “Si trattava comunque di imparare un lavoro per i detenuti”, ci dice Antonio Stifani, assistente capo della polizia penitenziaria che ci spiega anche la particolarità di questo carcere. Nell’isola penitenziario vige un regime di sorveglianza attenuata. Significa che, a differenza di un carcere normale la cosiddetta “ora d’aria” non è limitata a due ore al giorno: qui si sta fuori dalle 7 di mattina alle 8 di sera. E si lavora. I campi coltivati, gli oliveti, le vigne (Frescobaldi da diversi anni ha un progetto di cooperazione con il carcere), l’edilizia, e altre attività necessarie all’isola sono svolte proprio dai detenuti. Tra queste c’era anche quella di allevare e accudire gli animali: bovini, maiali, polli, galline, pecore e capre. Che poi, come in un qualsiasi allevamento, erano destinati ad essere macellati e trasformati in cibo. Ma adesso questo non accadrà più. “Gli animali di Gorgona non sono più animali da reddito ma “operatori di trattamento” - spiega il direttore del penitenziario - Abbiamo deciso di partire da quelli che nella nostra società sono gli ultimissimi, gli animali, per rispettare i loro diritti, compreso quello di non venire condannati a morte. Così possono aiutare a compiere un percorso di riabilitazione e cura degli uomini, i detenuti in questo caso. Ma quello che vogliamo fare qui non è solo importante sul piano etico ma anche economico. Chiudendo l’allevamento infatti si recuperano fondi che possiamo impiegare per ulteriori progetti di sviluppo e di lavoro. Sono sicuro che stiamo ancora costruendo qualcosa che farà scuola”. “L’uso indiscriminato degli animali crea ingiustizia - dice da parte sua il garante dei detenuti del Comune di Livorno, Giovanni De Peppo -E il fatto che l’animale accudito, compagno di vita di un detenuto, poi venisse ucciso non era etico. Era un modello che riproponeva la sopraffazione sull’altro, rendendola legittima. E quindi era profondamente diseducativo. Invece adesso sarà possibile proporre un modello di convivenza in cui costruiamo compassione e comprensione reciproca”. Ma se gli animali salvati (insieme ai detenuti che li accudiscono) sono certamente i protagonisti principali di questa storia, quello che si tenterà di fare nei prossimi anni su quest’isola non si ferma qui. Uno degli aspetti più interessanti del progetto Gorgona è la sinergia di intenti tra i vari soggetti che sono stati e verranno coinvolti: il carcere, il ministero della Giustizia, il comune di Livorno, il Parco dell’arcipelago toscano, la Lav e anche l’università di Firenze e la Bicocca di Milano. L’obiettivo comune è trasformare l’intera isola in una sorta di laboratorio dove sperimentare un’economia sostenibile e circolare (a impatto zero) in cui saranno anche incentivate le attività di piccolo turismo ambientale (da sottolineare che già adesso è possibile visitare Gorgona con una guida per fare trekking). Grazie alla chiusura dell’allevamento si calcola infatti che l’amministrazione penitenziaria risparmierà circa 110mila euro all’anno che finivano nel sostentamento degli animali e nella logistica a questo collegata. Fondi che saranno usati per far lavorare un maggior numero di detenuti (al momento lavorano a rotazione, solo 60 carcerati su 100). Mentre altri fondi arriveranno dal Parco che ha già stanziato 90mila euro per opere di sentieristica e viabilità che saranno sempre portate avanti dai carcerati. Da parte sua la Lav si occuperà invece di finanziare non solo lo spostamento degli animali “in esubero” ma anche di sostenere quelli restanti sull’isola con un impegno economico di oltre 15omila euro in due anni (qui i dettagli del progetto “Gorgona, isola dei diritti”). “L’avvenuta chiusura del mattatoio e il trasferimento sulla terraferma di buona parte degli animali significano una riduzione drastica dell’inquinamento sull’isola - aveva sottolineato il sottosegretario alla Giustizia Ferraresi, dopo la visita a Gorgona a maggio 2019 - e consentirà ai detenuti di svolgere, con gli animali che resteranno, attività rieducative non violente, focalizzate sullo sviluppo di un rapporto empatico e sul rispetto per il territorio”. “Vogliamo valorizzare questo splendido luogo e per quanto possibile farlo godere a più persone possibili - spiega adesso il sindaco di Livorno Luca Salvetti - Saremo felice quando vedremo qui bambini, camminatori, amanti della natura”. “Lo smantellamento del macello è importante anche perché aumenta la sostenibilità dell’isola - continua il vicepresidente del Parco Stefano Feri - e permette la creazione di un piccolo polo di turismo ecocompatibile e di valorizzazione ambientale”. “La sostenibilità deve essere ambientale, economica e sociale - sottolinea Ginevra Lombardini, dell’Università di Firenze - e qui vogliamo lavorare per valorizzare tutti e tre gli aspetti. Inoltre preservare la biodiversità parte anche dal ripensare il nostro rapporto con il cibo”. “Noi studieremo l’evolversi di questa convivenza non violenta - spiega infine Stefano Perinotto, del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Bicocca di Milano - dei benefici che derivano da un rapporto di accoglienza e rispetto tra due essere viventi”. Il rumore del trattore si ferma per un attimo. E anche i gabbiani sembrano voler ascoltare l’improvviso il silenzio. L’isola luccica sotto il sole. Sulla spiaggetta del porticciolo Luisa, 94 anni, si riposa sotto un ombrellone azzurro. È l’unica abitante “civile” che rimane qui anche in inverno. È la memoria storica di questa strana isola che sembra un paradiso ma che, quando passano i mesi caldi inizia a mostrare i suoi lati più duri. “È comunque un carcere”, ci fa notare con un sorriso malinconico qualcuno. L’isolamento è pesante, questo è certo. Il collegamento con la terraferma non sempre facili. Ne soffrono non solo i detenuti ma anche per le guardie che qui lavorano. Ma il sole alto in cielo sembra voler cancellare ogni pensiero più cupo. Oggi è comunque un giorno di gioia. “L’arca della Libertà” è in mare e Gorgona è un esperimento unico che ha qualcosa da insegnare e raccontare a tutto il mondo. “Carcere. Idee, proposte e riflessioni”, di Samuele Ciambriello recensione di Maria Pia Russo linkabile.it, 5 luglio 2020 Il nuovo libro di Samuele Ciambriello dal 9 luglio in tutte le librerie. La lotta per l’umanità e la giustizia del Garante dei detenuti della Campania prosegue nella sua incessante manifestazione, questa volta sotto forma di testo scritto, a testimonianza di un’esigenza nel voler raccontare la verità nascosta dietro storie di apparenza e indifferenza. Il libro sarà disponibile dal 9 luglio 2020 sugli scaffali della Rogiosi Editore (casa editrice napoletana dal 2001) e tra i cataloghi online della Unilibro (libreria universitaria) e di Amazon. Obiettivo del testo è quello di mostrare a tutti, professionisti del settore e non, il modo in cui vivono i detenuti all’interno delle carceri, privati dei loro diritti in quanto esseri umani, cercando di sensibilizzare un’intera popolazione ad un atteggiamento altruista e coscienzioso nei confronti dei condannati. A rappresentare ciò, lo slogan enunciato dall’autore del testo, Samuele Ciambriello: “Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire, per ritrovarsi, per seguire una strada che è tracciata anche dalla Costituzione: assumersi le responsabilità, per trovare sé stessi, rispettando i diritti delle persone”. L’analisi del contenuto, viene svolta attraverso attività di monito-raggio, osservazioni e sopralluoghi in grado di spiegare, con un linguaggio semplice, la realtà riposta nel sistema penitenziario, non perdendo di vista quella che è la finalità del discorso: stabilire un rapporto solidale tra detenuti e “uomini liberi”, a sostegno di quanto viene recitato dall’art.27 della Costituzione italiana :”Le pene [17 ss. c.p.] non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una lettura, dunque, responsabile e filantropica, che caratterizzerà un mese di luglio all’insegna dei libri, considerando le altre pubblicazioni proposte dal fondatore della Rogiosi Editore, Rosario Bianco, che dichiara: “Durante il lockdown, la mia casa editrice ha proseguito il lavoro sulle pubblicazioni che a luglio sarebbero dovute arrivare in libreria. Non è stato un lavoro semplice, ma ho provato a tenere alto l’entusiasmo e la voglia di fare dei miei collaboratori, e i lettori italiani troveranno sugli scaffali sette nuovi titoli”. In seguito i testi: “Dio nel frammento. La fede in tempo di pandemia” di Don Tonino Palmese, “Il merito del mezzo” di Franco De Luca, “Casomai avessi dimenticato” di Matteo Cosenza, “Nel nome del mare” di Oreste Ciccariello, “Inferno 1860” di Marco Lapegna, “Arrivò Claude e vinse il buio” di Moira Lilli. L’Iliade di Mario Trudu. Fra eroi e battaglie, una vita che non conosce resa di Francesca de Carolis remocontro.it, 5 luglio 2020 Lo scrivere è un bel dono / ti riempie di amore e bellezza / è un romantico, rumoroso suono / è poesia, è vita che non conosce resa. / In questo posto se non l’avessi mai conosciuto / il tempo l’avrei passato con tristezza, / senza sorriso, ma lacrime a fiumi, / perché nel profondo sto vivendo come/ Tiresia, nel regno dell’oscurità, / dove non esiste né il giorno né la notte / perché attraversato il fiume dell’oltretomba, / che terrore, il posto è freddo, è come la neve. L’eterno ergastolano - Difficile, per me, trattenere il pianto, rileggendo questi versi con cui Mario Trudu (ne ho parlato tanto… l’eterno ergastolano che un sistema feroce e ingiusto ha lasciato morire dopo quarant’anni di carcerazione assoluta, senza la pietà di lasciargli rivedere la sua casa, nemmeno per il respiro di un attimo, quando già gravemente malato…) chiude il suo ultimo libro. Che è struggente e inconsapevole (forse) testamento, ma anche potente manifesto letterario. Quale più bella definizione dello scrivere, questo “romantico e rumoroso suono”, che è “vita che non conosce resa”. E la forza dell’animo che non conosce resa tutta esplode nelle pagine di questo suo ultimo libro di cui voglio parlarvi oggi: “La mia Iliade. Un’odissea di quarant’anni a inseguire la vita”, edito da Strade Bianche di Stampa Alternativa. Mario conosceva a memoria il poema di Omero, ammirava gli eroi di quel tempo lontano. Sempre capace di vivere con la mente una vita parallela a quella buia del carcere, tenendo vivo in sé un ricordo del mondo tanto forte, violento persino, da percepirne gli odori, i sapori, i colori…, compie ora un salto stupefacente. Attraversando le pareti dello spazio e del tempo entra nel mondo dei suoi eroi e ne diventa parte. La mia Iliade. Un’odissea di quarant’anni - “Parlare di questi uomini fortissimi con un coraggio da leoni, mi fa sentire la pelle come fosse un formicaio dall’emozione. Immaginatevi un po’ poterli incontrare di persona e discutere con loro come se ci conoscessimo e fossimo amici da sempre”. E la sua vita si intreccia con quella dei suoi eroi. Incontri che, come lui stesso scrive, “mi hanno accompagnato e reso meno insopportabili i decenni passati chiuso dentro queste mura”. Così, ad esempio, mentre si trovava all’Asinara… “spesso capitava che in quelle colline m’incontravo con gli eroi di quella incredibile e più che sanguinosa guerra narrata da Omero. Io mi ritenevo una persona fortunata, potevo incontrare tutte e due le parti in guerra senza problemi, e avere il privilegio di poter incontrare personaggi dell’una e dell’altra parte, senza creare gelosie e malumori, mi faceva sentire un eroe al pari loro. Alle volte le nostre discussioni erano accese, ma regnava sempre il massimo rispetto fra di noi”. E lo vediamo consigliare Priamo, consolare Clitemnestra sulla tomba di Ifigenia, sedere a un banchetto di dei… e si incanta e ci incanta narrando le imprese dei suoi eroi. Esaltandone la forza, confrontandosi con la lealtà, la pietà, la vita e la morte. Il giusto in guerra contro l’ingiustizia - Un libro meraviglioso e immenso, lo definisce Natalino Piras nell’introduzione, “un romanzo-poema dove il narratore-poeta traspone la sua guerra di giusto contro l’ingiustizia”. E sottolinea che “è soprattutto con Ettore, il forte eroe troiano, l’unico capace di tenere testa ad Achille e da Achille ucciso, il suo corpo profanato e trascinato nella polvere, che Mario Trudu si identifica. Con la forte capacità di guerra dello spietato combattente, Ettore odia la guerra ma la guerra deve sostenere in difesa della sua città. (…) Mario Trudu vive nella dimensione etica di Ettore, lo sconfitto, in realtà il “vero vincitore”, “il fuoriclasse d’Asia” come canta un altro grande poeta nostro contemporaneo, Pierluigi Cappello, prigioniero del suo corpo costretto su una sedia a rotelle”. Anche nel racconto del tempo e degli spazi della sua pena, Mario ci regala pagine immense, dove riesce a stupirci ancora, raccontando, per esempio, della gioia provata quando per la prima volta dopo tanti anni viene trasferito in una cella dalla quale riesce a vedere un albero. Incontenibile… Se mai ho dei rimpianti, l’ho già detto, e come i rimpianti più grandi forse mai me ne libererò, uno è quello di non essere riuscita a portare in tempo a Mario così, bella impaginata e stampata, la sua visionaria, straziante, incantevole Iliade… corredata fra l’altro di disegni, con i quali sempre Mario, che durante il periodo di carcerazione a Spoleto si è diplomato all’Istituto d’Arte, accompagna i suoi lavori. Cantami o diva dell’arzanese Mario, la pena perpetua - La mia Iliade. Un libro, e una scrittura, dove scorre il sangue… che è quello che fa la vera letteratura. Un libro talmente fuori dall’ordinario che Marcello Baraghini, innamorato fin dai primi testi che di Mario, ormai una decina di anni fa, gli avevo portato, non solo ha accolto, ma proclama “La mia Iliade” vincitrice della terza edizione del premio Stregone. Un premio provocatoriamente anti-Strega, trasparente, senza rituali e controcorrente, idea che solo un editore che da mezzo secolo si muove in direzione ostinata e contraria poteva avere. Così, la sera del prossimo giovedì, 2 luglio, se volete seguire una serata davvero alternativa, collegatevi con Radio radicale. Saremo lì a parlare di Mario Trudu, dei suoi eroi, della sua infinita pena… “Cantami o diva dell’arzanese Mario, la pena perpetua…” scrive Monica Murru, che ha seguito la vicenda di Mario negli ultimi cinque anni. Ma subito si corregge: “No, credo di no. Nessuno oggi invocherebbe la Musa per cantare la storia di un comune mortale condannato a vivere la tragedia di giorni senza speranza… I poeti non la canterebbero e la musa non li ascolterebbe. Non è argomento che va oggi di moda, troppo scomodo, impopolare… Faccio l’avvocato da abbastanza tempo per sapere che, nonostante l’articolo 27 della Costituzione, nel nostro paese le pene sono prevalentemente volte più ad affliggere che a rieducare, secondo una normativa/prassi/trattamento che consiste nel rinchiudere il colpevole in una scatola di cemento armato, senza prospettiva e talvolta senza proporzione”. L’Iliade di Mario - In una delle lettere che sempre mi affidava da leggere alle presentazioni dei suoi racconti, Mario, cui è sempre stato negato di parteciparvi, scrive: “Se fossi stato presente mi sarebbe piaciuto passare fra voi e magari abbracciarvi ad uno ad uno, sarebbe stato il modo più naturale e sincero per ringraziarvi”. Sono sicura che lo Stregone, farà la magia… giovedì sera Mario sarà lì, davvero, con tutti noi. Intanto un regalo. Marcello Baraghini, convinto com’è che la cultura sia di tutti (e condivido in pieno), in anticipo sulla stampa, invita a scaricare gratis, leggere e diffondere l’Iliade di Mario: http://www.stradebianchelibri.com/trudu-mario-la-mia-iliade.html Gli italiani ai margini della società dei due terzi di Antonio Polito Corriere della Sera, 5 luglio 2020 L’ultimo rapporto del Censis svela che un percettore di reddito su tre ha visto ridurre le proprie entrate a causa del Covid-19. Una nuova società dei due terzi: così si presenta oggi l’Italia, alla vigilia dell’autunno più difficile della sua storia repubblicana. L’immagine dei due terzi fu “inventata” negli anni 80 del Novecento da uno scienziato sociale e politico tedesco, Peter Glotz: intendeva descrivere la divisione tra “garantiti” e “non garantiti” che aveva messo in crisi la coesione nei Paesi europei e posto fine alla “golden age” socialdemocratica. Ma mentre allora il motivo dell’esclusione era prevalentemente salariale, oggi il terzo della società rimasto fuori soffre di forme del tutto nuove e diverse di disuguaglianza. Spulciando tra le cifre dell’ultimo rapporto Censis si scopre infatti che sono un terzo i percettori di reddito che hanno visto ridursi le proprie entrate a causa del Covid-19 (dipendenti in cassa integrazione, titolari di attività retail, ristoratori e baristi, partite Iva), mentre i restanti due terzi hanno continuato ad avere flussi in entrata pressoché identici, e anzi hanno risparmiato di più per i minori consumi. Ma, allo stesso tempo, un terzo sono anche le case sotto gli 85 metri quadrati, in cui cioè la quarantena non può davvero essere stata una vacanza. E un terzo sono state le famiglie rinchiuse in quelle case senza avere né un personal computer né un tablet per fare videoconferenze, didattica a distanza, acquisti on line: cioè senza poter vivere come gli altri. Il terzo di esclusi, di chi ha avuto un colpo più grave dalla crisi sanitaria e avrà ora più difficoltà ad adattarsi, non è omogeneo. Parafrasando un celebre incipit, si può dire che ogni famiglia infelice durante il lockdown lo è stata a modo suo. È anche probabile che i vari “terzi” non coincidano del tutto tra di loro. Il titolare di una tavola calda che viveva sui pasti degli impiegati pubblici della zona, con gli uffici chiusi da mesi e ancora per mesi, ha perso certamente reddito; ma probabilmente ha un computer a casa. Mentre un impiegato pubblico che il lavoro non l’ha perso, magari vive in una casa sotto gli 85 metri quadrati. Ciò che unifica questi segmenti di italiani rimasti ai margini è una condizione socio-culturale, più che strettamente economica, trasversale rispetto alle classi e alle stratificazioni tradizionali. Un terzo sono per esempio i professionisti “poveri”, che registrano un reddito annuo inferiore a 11.600 euro. Un terzo sono i commercialisti che hanno chiesto e ottenuto il bonus da 600 a causa del crollo delle proprie entrate. Nuove povertà possono annidarsi anche tra avvocati o architetti, in moderne sacche di lumpen-ceto medio. Il numero delle famiglie unipersonali è un terzo del totale. Ed è difficile negare che chi vive da solo abbia sofferto l’isolamento più di ogni altro, a dispetto della retorica sulla “dolce vita” dei single. Anche perché quasi la metà di quelle famiglie è composta da un anziano solo, molto spesso una vedova. La prima considerazione da fare è che nessun sistema può riprendersi e tanto meno prosperare se un terzo ne rimane fuori. Si pone dunque un grande obiettivo di coesione sociale per l’Italia di domani, e non solo come anelito di giustizia ma come condizione di crescita. La seconda è che l’esclusione è multiforme e di nuovo conio, e la linea divisoria non passa sempre sull’antico confine tra poveri e non poveri. La terza è che questo terzo escluso esprime bisogni e chiede risposte non più burocraticamente registrabili sotto il capitolo dell’”assistenza”. Il bonus vacanze e il bonus monopattino sembrano parlare più a un mondo di garantiti, di ceti urbani e di lavoratori dipendenti, così come avvenne con gli ottanta euro di Renzi e la quota cento di Salvini; ma non cambieranno le sorti di una larga fetta di italiani che avevano scommesso su se stessi, che non dipendevano che dal proprio lavoro, e che in molte aree del Paese erano spesso la spina dorsale dell’economia. Del resto, abbiamo già l’esempio del reddito di cittadinanza per concludere che neanche al Sud l’assistenza si è dimostrata efficace volano di riscatto sociale e di ripresa. Questa gente, questi “terzi” del Paese, hanno bisogno di sviluppo e lavoro, non di prebende di Stato. Di investimenti pubblici che creino un ambiente adatto per la crescita. Di digitalizzazione per non restare fuori dal mondo che verrà, o è già venuto. Di 5G e di treni veloci per non pagare il prezzo di vivere nei piccoli centri. Di un sistema educativo che sta diventando la cenerentola d’Europa e deve recuperare l’anno perso da una intera generazione di studenti. Di un sistema sanitario che offra gli stessi posti letto e la stessa assistenza domiciliare di cui godono i tedeschi o i francesi, o almeno quella degli altri italiani, visto che l’emergenza Covid si conclude con 28 posti letto in terapia intensiva ogni centomila abitanti in Valle D’Aosta contro i 7 e mezzo in Campania (ed è davvero sorprendente che, con tutto quello che è accaduto, si stia ancora a discutere se usare oppure no i soldi già disponibili per rifare ospedali, ambulatori e medicina di base). Il terzo escluso non ha perso solo reddito, ma opportunità. Non va risarcito solo con assistenza, ma con opportunità. Anche nella ricca Milano la gente ha fame di Francesca Mannocchi L’Espresso, 5 luglio 2020 Viaggio tra giovani e anziani, pensionati e precari, italiani e stranieri. Che solo sei mesi fa non avrebbero mai pensato di chiedere cibo e ora si mettono in fila per gli aiuti alimentari. Così con l’emergenza Coronavirus cresce la povertà assoluta. Ogni notte da quindici anni Gigi si sveglia alle tre, prende il camion a viale Toscana, a Milano, e raggiunge la destinazione del ritiro giornaliero. È l’inizio di giugno, il paese si muove a passi incerti verso un ritorno alla normalità, la destinazione oggi è la zona industriale di Calcinate per ritirare prodotti in scadenza di grandi catene alimentari. Bancali di cibo invenduti per effetto della pandemia che senza le associazioni che aiutano i bisognosi finirebbero nei compattatori, distrutte, sprecate. Gigi attraversa le campagne lombarde, ha familiarità con le curve e la terra che, all’alba, emana potente l’odore di stabbio. A Calcinate deve ritirare diciotto bancali, 100 tonnellate di hamburger e panini e dolci surgelati di una nota catena di fast food. Sono da poco passate le sette quando raggiunge lo stabilimento, la temperatura dei frigoriferi segna meno ventiquattro, poche parole con gli addetti alla piattaforma, Gigi organizza lo spazio del furgone, saluta velocemente e torna indietro. Ci sono i pacchi alimentari da preparare. Gigi lavora al Pane Quotidiano, un’associazione laica che da oltre un secolo aiuta i bisognosi di Milano con beni di prima necessità. Prima della pandemia, i marciapiedi delle due sedi si affollavano prima dell’alba, poi, il 21 febbraio, la direzione ha chiuso al pubblico per ragioni di sicurezza, e la fila si è trasformata in richieste telefoniche, centinaia in pochi giorni, che avevano tutte il medesimo tono: “Ho fame. Abbiamo fame. Aiutateci”. Così l’associazione si è riorganizzata. Il grande piazzale trasformato in punto di snodo per i mezzi della Protezione Civile e i volontari, che prima preparavano i pacchi alimentari, si sono messi sulle tracce dei volti che componevano la fila del bisogno milanese e che poi sono rimasti chiusi in casa, con la paura del contagio, senza lavoro né risparmi, con la dispensa che svuotata in pochi giorni. “Pronto? Chiamo dal Pane quotidiano, dove possiamo raggiungerla? Non esca, veniamo noi”. Un numero, e un passaparola che diventa la mappa di un altro contagio, quello della povertà. I mezzi dell’associazione che ogni giorno aumentavano il numero dei viaggi, dei pacchi, della lista dei bisognosi: “anche la sua vicina ha bisogno? Non abbia vergogna, ci dia il numero la chiamiamo noi”. Il 4 giugno la sede di viale Toscana ha riaperto, la fase tre dell’aiuto coincide con la riorganizzazione degli spazi. Gli utenti non entrano più a scegliere i prodotti ma aspettano a distanza il turno di ricevere un pacco di cibo già sigillato. È sabato mattina, il cancello apre alle 9, ma alle sei la fila già gira l’angolo, arriva ai cilindri del nuovo Campus Bocconi, simboli di una città che sono due. Due voci distinte, due direzioni contrarie. Facce note e facce nuove, quelle delle nuove urgenze, delle nuove povertà. Flavia è un’insegnante in un liceo, fa la volontaria da un anno e mezzo, apre la busta: pasta, pelati, sottilette, biscotti, tonno e ceci in scatola, banane “l’aiuto è reciproco, non allunghiamo una mano verso chi la tende, qui ci diamo la mano. È molto diverso, per chi da e chi prende”. Flavia avvicina le vulnerabilità con discrezione, una delicatezza che si adatta alle età e le religioni, alla conoscenza pregressa, l’imbarazzo dell’estraneità per i nuovi arrivati, inesperti a chiedere, inesperti ad accettare. Mariana è di origine rumena, in Italia da vent’anni, ha lavorato come badante, lavapiatti, poi un contratto in una ditta di pulizie nelle catene di hotel di lusso. Aspetta la cassa integrazione da marzo, ma niente. Ha tre figli, il più piccolo è in coda con lei. È la prima volta che ha difficoltà a fare la spesa, prima dell’epidemia il solo imbarazzo che ricorda è dover spiegare ai ragazzi di non potersi permettere le scarpe e le felpe di marca, o che non ci fossero abbastanza soldi per ricaricare il telefono ogni settimana. Poi una mattina si è alzata e nel frigo non c’era più nulla, nel portafogli nemmeno “non avevo risparmi e mancava il necessario”. Non vuole piangere, perché suo figlio è lì e perché è sola da tanti anni a crescere i ragazzi e le lacrime sono un lusso che è abituata a non concedersi. Afferra la busta e la stringe come si stringono le cose indispensabili, come l’aria mentre vai a picco “ci riprenderemo da questa vergogna?”. Il saluto di Mariana è una domanda. Flavia la rincuora “rubare è vergogna”, ma Mariana scuote il capo. “No - replica - perché quando non hai niente, se nessuno ti aiuta e hai bocche da sfamare, sei pronto anche a rubare”. La disperazione della fame può rovesciare le logiche del buon senso e i volontari delle organizzazioni caritatevoli oggi sono chiamati anche a questo: arginare la vulnerabilità prima che diventi devianza. Anna ha lo sguardo di una donna coriacea. Fuori dalla mascherina ha gli occhi di una tenacia irriducibile. Ha lavorato per cinquant’anni, da quando ne aveva tredici. Prima come commessa, poi tanti altri lavori in nero, fino alla pensione minima che non basta per lei sola, figuriamoci ora che divide casa e soldi con il figlio: fino a febbraio lavorava a ore in una palestra e ora non più. La povertà per lei è un gesto, anzi due. Fa qualche passo indietro, la mano destra abbassa la mascherina fino al mento, Anna apre la bocca e allarga il sorriso: “vedi? Non è più solo questione di mangiare e non mangiare. È come fare a mangiare”. Le mancano la metà dei denti, quelli che restano sono guasti, “non so da quanti anni non vado dal dentista, non me lo posso permettere”. E quando con altrettanto decoro sistema di nuovo gli elastici intorno alle orecchie si avvicina e si arrende allo stato d’animo che l’ha accompagnata in coda a viale Toscana, l’abbattimento “è una vecchiaia pesante, lo so che la vita cambia e so che la vita è fatta a scale, ma non si può sempre scendere e scendere”. Poi sistema la chiusura lampo del carrello e cammina verso la fermata dell’autobus con una busta di spesa e un rinnovato imbarazzo. Jole ha ottantasei anni, vive con gli 850 euro di pensione, 600 vanno via per l’affitto. La matematica del bisogno è presto fatta. Prima dell’epidemia pranzava nelle mense per risparmiare su un pasto, poi anche per le mense gli orari e i posti si sono ridotti e Jole è rimasta sola in casa con poco da mangiare. Ha il corpo minuto della vecchiaia che si ricurva su sé stessa, i volontari la conoscono e lei ricambia i sorrisi chiamando tutti per nome. “Alla mia età è più brutto essere da soli che essere affamati”. Così ogni mattina Jole si sveglia e si impone di fingere che vada tutto bene. Soprattutto ora che ha ricevuto l’avviso di sfratto. “Che c’è di buono oggi?”. “La robiola fresca, Jole”, e lei accetta grata, si ferma a parlare ancora un po’ mentre Flavia conta le persone arrivate fino a quel momento. Sono le nove e quaranta. Le buste consegnate sono già trecentottanta sei. Secondo l’ultimo rapporto Istat sulla povertà in Italia vivono 1,7 milioni di famiglie, 4 milioni e mezzo di persone, in condizione di povertà assoluta e 3 milioni di famiglie (nove milioni di persone) in povertà relativa. L’istituto di statistica fotografa un paese che sono tre, la percentuale di famiglie in povertà assoluta al Sud è infatti l’8,6% del totale, percentuale che scende a 5,8 al nord e 4,5 al centro. Le differenze geografiche non sono le sole: sono più povere le famiglie più numerose e sono più povere le famiglie di cittadini stranieri residenti. Il 26,9% a fronte del 5,9% delle famiglie italiane. I dati del rapporto si riferiscono al 2019, la preoccupazione del terzo settore è che i numeri del prossimo anno siano destinati a crescere come conseguenza dell’epidemia. “Nel 2019 abbiamo distribuito 75 mila tonnellate di alimenti, durante l’emergenza le richieste sono aumentate del 40% in tutta Italia con picchi del 70% al Sud”. A parlare è Giovanni Bruno, presidente del Banco Alimentare, organizzazione che dal 1989 si occupa di recuperare alimenti e distribuirli a persone in difficoltà attraverso 7500 strutture caritative. “Aiutiamo stabilmente un milione e mezzo di persone da tanto tempo, ma l’immagine del paese in stato di bisogno che ci sta restituendo questa crisi è del tutto inedita”, continua Bruno. Solo a Milano le persone aiutate sono 215 mila, in costante aumento da marzo. Ma Bruno è sicuro che il picco arriverà in autunno. I virologi temono la seconda ondata del Covid, le organizzazioni caritatevoli pensano inevitabile l’inasprirsi della povertà con la fine dei risparmi, delle casse integrazioni e con le attività commerciali che stentano a ripartire. “Si sta ampliano la forbice, ci telefonano giostrai e cuochi, lavoratori dello spettacolo e commesse, camerieri e studenti che si vergognano di chiedere aiuto ai genitori. Il tema è: ora ci affanniamo a riassorbire gli effetti della pandemia. Ma già prima c’erano quasi cinque milioni di poveri assoluti e tra loro più di un milione di bambini. Tornare a prima significa tornare a questo e non è una prospettiva allegra”. Nel magazzino del Banco Alimentare ci sono beni recuperati dalla grande distribuzione e quelli finanziati dal Fondi per gli aiuti europei agli indigenti (Fead) che ha un bilancio di 3,8 miliardi di euro per il periodo 2014-2020 e un obiettivo: la lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Per le istituzioni europee un cittadino si considera gravemente indigente se non può permettersi un affitto o le bollette, se non può riscaldare casa, mangiare proteine di qualità volta ogni due giorni, usare un’automobile, una lavatrice o una tv a colori e permettersi un telefonino. Marianna non può permettersi niente di tutto questo, arriva che è quasi sera in una parrocchia della periferia di Milano con due delle tre figlie, non avrebbe mai immaginato, prima di Marzo, di bussare alla porta della sagrestia per chiedere da mangiare. Ha lavorato in una mensa scolastica per diciannove anni, con un contratto a part time di nove mesi, e lo stipendio che doveva bastare per dodici facendo economia su tutto. Sua figlia Giulia che oggi ha 23 anni ha lasciato la scuola a 15 per aiutare la madre a crescere le sorelle. Ha lavorato come barista e cameriera quasi sempre in nero, poi vari stage che non sono diventati contratti di lavoro e a febbraio stava ultimando una prova che sperava diventasse un apprendistato. Poi la pandemia ha tradotto quella speranza nell’ennesimo “le faremo sapere”. Marianna ha smesso di pagare affitto e bollette, la cassa integrazione, arrivata con tre mesi di ritardo, è di 340 euro. Dice di sé che ha imparato a essere sorridente, che quando hai tre ragazze in casa da sfamare la vergogna sparisce, le prendi per mano e insegni loro che a volte nella vita bisogna chiedere aiuto e che stavolta è toccato a loro. Giulia annuisce, la guarda con ammirazione. Condividono otto anni di privazioni e fatiche comuni. “Non sappiamo più cosa sacrificare, ho smesso di studiare, ho lavorato mentre i miei coetanei si divertivano - dice Giulia stringendo forte la mano di sua madre - e alla speranza di una vita più bella non voglio rinunciare. Per me e le mie sorelle”. Che rischiano di diventare le bambine in povertà assoluta del prossimo rapporto Istat. Invisibili d’Italia, uniamoci di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 5 luglio 2020 I braccianti. le donne, i precari, i discriminati, i disoccupati. Tutti insieme in piazza agli Stati Popolari del 5 luglio, per far sentire la nostra voce alla politica. Perché ora dobbiamo superare l’individualismo e le discordie, difendere i bisogni comuni e costruire un movimento che torni ad accendere la speranza. “Si moltiplicano inutili luoghi di elaborazione strategica, per produrre progetti e linee-guida che servono solo come strumenti di autopromozione di chi li inventa. Gesù ha incontrato i suoi primi discepoli sulle rive del lago di Galilea, mentre erano intenti al loro lavoro. Non li ha incontrati a un convegno, o a un seminario di formazione, o al tempio”, ha detto Papa Francesco. Gli Stati Generali dell’economia, che si sono svolti fisicamente e sentimentalmente lontano dai luoghi delle contraddizioni delle masse popolari, rischiano di essere quell’esercizio di autopromozione della politica da troppo tempo svincolata dalle istanze e dai bisogni del paese reale. Tuttavia quando la storia darà testimonianza eloquente di questo drammatico periodo di ricostruzione non dovrà narrare di una massa popolare succube dell’apatia del pensiero conformista o ipnotizzata dall’incertezza, ma dovrà raccontare della sua vivace determinazione a percorrere sentieri pur inediti per raggiungere “una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore a petto delle condizioni presenti”, come scrisse l’artista del famoso dipinto “Il Quarto Stato”, Giuseppe Pellizza da Volpedo. Il principio di questa marcia delle masse popolari dovrà ineluttabilmente passare attraverso la (ri)unificazione, attorno a bisogni comuni, di mondi diversi che la crisi economica ha trascinato nell’invisibilità. Tuttavia, la longevità dell’unione degli invisibili dipenderà anche dall’integrità e dalla solidità delle loro convinzioni. Per fare ciò, occorrerà: 1) perseguire la coerenza dei valori (perché la coerenza è la valuta della fiducia) e non inseguire la convenienza dell’opportunismo; 2) perseguire l’egemonia culturale e non inseguire la contrapposizione sociale. Riusciremo a superare quest’ultima, se sapremo domare le nostre disarmoniche discordie per creare armoniose sinfonie d’unione. L’unità degli invisibili dovrà quindi essere una vocazione della nostra coscienza collettiva che ci richiederà di spezzare le catene dell’individualismo per abbracciare la libertà della solidarietà e di posare il peso dell’”Io” per alzare la leggerezza del “Noi”. Gli Stati Popolari rappresentano quindi quello spazio fisico e spirituale di questa rivoluzione di valori che è la nostra migliore difesa contro l’ingiustizia sociale. Tuttavia, dovremo avere l’umiltà appropriata a questa nostra ambiziosa visione. Gli Stati Popolari dovranno quindi essere ricordati, nella storia del nostro paese, come il più inedito ed audace tentativo di unire gli invisibili attorno ai bisogni comuni. Gli Stati Popolari dovranno essere ricordati per il tentativo di unire le lotte degli invisibili. Tuttavia, la lotta degli invisibili dovrà essere condotta sull’alto piano della saggezza perché è l’unica via protetta che permette di vincere con onore. Gli Stati Popolari dovranno essere ricordati per ciò che gli invisibili si sono alzati per rappresentare e non per ciò su cui sono scesi a compromessi. Occorrerà rifiutare di scendere a compromesso con l’ingiustizia che ci ha reso veterani della disperazione. Occorrerà rifiutare di essere ostaggi delle sofferenze che rischiano di avvizzire la nostra anima e di spegnere la fiamma del desiderio di riscatto. Gli Stati Popolari avranno il nobile compito di accendere un faro di speranza per chi verrà dopo di noi e tenere vivo il ricordo di chi ci ha preceduto. Gli Stati Popolari, non si riuniranno in un palazzo sontuoso, ma partiranno dalla storica piazza di San Giovani, simbolicamente la grotta di Adullam, che significa rifugio e giustizia del popolo. Migranti. Ocean Viking, “A bordo la situazione è tesa, difficile mantenere la calma” di Carlo Lania Il Manifesto, 5 luglio 2020 Il presidente di Sos Med Alessandro Porro: “Chiediamo il rispetto dei trattati internazionali”. Possibile via allo sbarco domani. “Un salvataggio si considera concluso solo quando i naufraghi sbarcano in un porto sicuro. Quindi non stiamo chiedendo niente di speciale, né noi né i migranti, ma solo il rispetto dei trattati internazionali. E questo rende la situazione che stiamo vivendo ancora più assurda”. Il presidente di Sos Mediterranée Alessandro Porro risponde da bordo della Ocean Viking, la nave della ong europea che da dieci giorni naviga nel Mediterraneo in attesa che qualcuno risponda finalmente alle sette richieste di un porto sicuro avanzate dall’equipaggio. La risposta che metterebbe fine all’odissea della nave potrebbe arrivare da Malta o dall’Italia, ma nessuno dei due Paesi finora si è fatto sentire ufficialmente, anche se la situazione potrebbe sbloccarsi domani con il trasferimento dei migranti a bordo della nave-quarantena Moby Zaza. “Dobbiamo aspettare che qualcuno muoia per poter sbarcare?”, chiedeva ancora ieri sera Sos Mediterranée tornando a sollecitare l’intervento dell’Unione europea. Nel frattempo la situazione a bordo peggiora di momento in momento. Dopo i sei tentativi di suicidio in 24 ore, per i 180 migranti è sempre più difficile resistere alla pressione psicologica di questi giorni. Per 44 di loro, i più vulnerabili, due giorni fa l’ong ha chiesto l’evacuazione e successivamente il comandante ha dichiarato lo stato di emergenza per il rischio di non riuscire più a controllare la situazione. Per tutta risposta ieri mattina da Pozzallo è partita una motovedetta della Capitaneria di porto con a bordo un medico e un mediatore culturale. “Il dottore ha provato a rassicurare le persone”, spiega Porro. “Ha parlato con i principali gruppi etnici e ha detto che farà di tutto per farci sbarcare. Ma non ha disposto l’evacuazione che avevamo richiesto almeno per 44 migranti”. Dove vi trovate e com’è adesso la situazione a bordo? Siamo a 17 miglia dalle coste della Sicilia, in acque internazionali, e facciamo avanti e indietro in attesa di notizie. Per quanto riguarda la situazione, invece, è tesa come una corda di violino. Le persone soffrono di un acuto stress psicologico, sono stanche. Non sappiamo per quanto tempo riusciremo a garantire la calma. Alcuni migranti sono aggressivi verso gli altri, si verificano liti. È una situazione nuova per noi. Il medico ha prescritto dei tranquillanti, ma non possiamo obbligare nessuno a prenderli. Facciamo il possibile per mantenere l’ambiente sereno, ma non è facile. Lo stato di emergenza permane, speriamo di poter sbarcare presto. Teme ci siano rischi per equipaggio? No, ma siamo tutti supervigili e stanchi. Intanto prosegue il silenzio da parte delle autorità italiane. Leggiamo l’invio di un medico come un segnale, una risposta che aveva suscitato molte speranze nei migranti. Le aspettative erano alte: viene il medico e ci porta da qualche parte, pensavano in molti. Invece il medico è venuto ma non è successo niente. A bordo avete anche 25 minori e due donne. Come stanno? I cinque bambini più piccoli si trovano in infermeria con le due donne. Gli altri più grandi, di 15-16 anni, sono invece con gli uomini. Una delle donne è incinta al quinto mese, ha una pancia molto grande ma per fortuna sta bene. Cosa pensate di fare adesso? Attendiamo direttive dalle autorità. Abbiamo fatto tutto quello che era possibile: per sette volte abbiamo chiesto un porto verso il quale andare e poi abbiamo dichiarato lo stato di emergenza. Ora continuiamo ad aspettare che qualcuno ci dica cosa fare. Una cosa però ci tengo a dirla… Prego... È assurdo arrivare a situazioni come quella che stiamo subendo. Avere un porto dove sbarcare i naufraghi è un diritto, se lo tolgono ai migranti lo tolgono a tutti. Questo degli sbarchi negati è un teatrino che va avanti da anni in attesa che si arrivi a un sistema di salvataggio europeo, che è quello che chiediamo da molto tempo e che invece ancora non si vede. Droghe. L’ipocrisia di una legge che punisce ma non tutela di Lisa Accordi heraldo.it, 5 luglio 2020 L’undicesima edizione del Libro Bianco sulle Droghe, presentata alla Camera il 25 giugno, descrive un quadro decisamente preoccupante. “Una guerra che è stata combattuta per mezzo secolo e non è stata vinta, è una guerra persa”, ha recentemente dichiarato Juan Manuel Santos, ex Presidente della Colombia e Premio Nobel per la Pace nel 2016, parlando della lotta degli Stati contro la droga e il narcotraffico. Membro della Global Commission on Drug Policy, organizzazione internazionale nata nel 2011 e fondata da ex capi di Stato o di governo e da leader esperti del mondo politico, economico e culturale, Santos è senza dubbio tra i più autorevoli soggetti internazionali a sostenere politiche sulla droga basate su prove scientifiche, diritti umani, salute pubblica e sicurezza: il proibizionismo non funziona, e nessuno ormai può più negarlo. Ne sappiamo qualcosa in Italia, dove ogni anno lo Stato “rinuncia” a circa 20 miliardi di euro di entrate, la giustizia nei tribunali è pesantemente rallentata da circa 200.000 fascicoli relativi a reati commessi in violazione del Testo Unico sulle Droghe e le carceri sono sovraffollate da detenuti tossicodipendenti che andrebbero curati e non puniti per il consumo di sostanze stupefacenti. Un vero e proprio auto-sabotaggio di Stato dunque, in un momento storico in cui molte democrazie liberali nel mondo hanno scelto, non senza una certa dose di cinismo e realpolitik, di legalizzare almeno le droghe leggere. E decisamente preoccupante risulta anche il quadro che emerge dall’undicesima edizione del Libro Bianco sulle Droghe, presentata lo scorso 25 giugno nella sala stampa della Camera dei Deputati nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione dal titolo “Support. Don’t Punish” che quest’anno coinvolge oltre 160 città in 84 Paesi nel mondo. Si tratta dell’unico rapporto indipendente in Italia sui danni collaterali del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti Jervolino-Vassalli (D.P.R. 309/1990), ed è promosso da realtà come La Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA, Legacoopsociali e con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD e ITANPUD. Il focus del Libro Bianco nel 2020 è sul rapporto tra droghe e carcere in tempo di Covid-19, questione complessa che non riguarda solo la giustizia secondo il codice penale, ma anche e soprattutto la capacità di uno Stato di garantire a tutti i suoi cittadini il rispetto di diritti fondamentali come quello alla salute. “In Italia e nel mondo non si vedono segni di contenimento della presenza degli stupefacenti” ha dichiarato l’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto. “Dopo quasi 60 anni di proibizionismo, quel che va riformato radicalmente è l’impianto generale del “controllo.” Il testo smonta, infatti, molte delle mistificazioni spesso utilizzate per generare paura contro riforme anti-proibizioniste e i dati raccolti ci raccontano che in realtà, durante il lockdown, i consumatori di droghe “hanno dimostrato capacità di autoregolazione e il mercato illegale “flessibilità e resilienza”, e soprattutto non si è fermato, mentre i servizi pubblici hanno saputo adattarsi solo a macchia di leopardo alla nuova situazione.” Niente a che vedere, dunque, con lo stereotipo del tossicodipendente che, pur di procurarsi la droga, diventa un pericolo per sé e per gli altri. Su questo concordano anche i dati ufficiali del Ministero dell’Interno secondo cui “per quanto riguarda i reati relativi agli stupefacenti, anche questi in calo durante il lockdown da Covid-19 del 28% - con produzione e traffico nello specifico diminuiti del 37% - sono emerse però nuove forme di spaccio di droga mascherate, ad esempio, da food delivery (spacciatori-driver con consegna porta a porta e, a volte, uso di app e pagamenti elettronici) o da car sharing”. Insomma, durante il lockdown sarebbe sì esplosa la fantasia di consumatori e spacciatori, ma non i reati connessi all’uso di droghe, che rispetto al totale dei reati commessi nel Paese nel periodo interessato dalla statistica (1 marzo-10 maggio 2020) rappresentano infatti solo il 2,85%. Nello stesso periodo, i reati contro il patrimonio hanno raggiunto il 44,89 % del totale. Questo dato è fondamentale, nel momento in cui in Italia la legge sulle droghe continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia e nelle carceri: il 34,80% del totale della popolazione carceraria in Italia si trova infatti in carcere per violazioni del Testo Unico sulle Droghe. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 dicembre 2019, nelle carceri italiane ci sono 60.769 detenuti contro una capienza regolamentare degli istituti di pena di 50.688 posti. Sugli oltre 60.000 detenuti, ben 14.475 (il 23,82% del totale) lo sono a causa del solo articolo 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Altri 5.709 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero il 9,39%) e solo 963 esclusivamente per l’art. 74 (1,58%). Ma la vera emergenza sociale è che - secondo alcune stime - il 37% di chi entra in carcere usa droghe, ovvero l’equivalente dei massimi storici raggiunti all’epoca della Fini-Giovanardi nel 2007: 16.934 persone, il 27,87% del totale dei detenuti in Italia, che non dovrebbero stare in carcere, ma essere curate in strutture socio-sanitarie che ne garantiscano il diritto alla salute. Lo dice chiaramente Massimo Oldrini, presidente della Lega Italiana per la Lotta all’Aids: “Le politiche sulle droghe nel nostro paese vanno radicalmente riformate, perché le evidenze dei danni prodotti dall’approccio proibizionista sono sotto gli occhi di tutti. La criminalizzazione dei consumatori con conseguenze penali e amministrative, la negazione del diritto alla salute e l’inadeguatezza dei servizi formali producono dolore e costi socio-sanitari inaccettabili. A pagare le conseguenze di questa guerra assurda e ideologica sono anche i malati di patologie curabili con la cannabis terapeutica, che a causa dell’ostracismo istituzionale, non trovano in farmacia quanto prescritto sulla base di evidenze scientifiche”. Sappiamo, infatti, che la repressione colpisce principalmente i consumatori di cannabis, quindi di droghe leggere (il 77,95%), mentre seguono a notevole distanza i consumatori di droghe ben più devastanti come la cocaina (15,63%) e l’eroina (4,62%) e infine, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Dal 1990 1.312.180 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale e di queste quasi un milione (73,28%) per derivati della cannabis. Ma proibire e comminare pene pesanti per il consumo e lo spaccio non ha sortito l’effetto sperato sui veri responsabili del dramma della droga, come ha evidenziato anche Louise Arbour, già Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU: “Nonostante il suo obiettivo, questa guerra, per come è stata concepita e attuata, è stata essenzialmente una guerra alla popolazione civile. Le grandi organizzazioni criminali non sono nemmeno state scalfite.” Ma cosa chiedono esattamente i promotori del Libro Bianco sulle Droghe per superare l’inadeguatezza delle attuali leggi sul consumo e il possesso di sostanze? Stefano Vecchio Stefano Vecchio, Presidente del Forum Droghe, associazione che si occupa di politiche sulle droghe in Italia e nel mondo dal 1995, ha le idee chiare in proposito: “La discontinuità richiede un cambio di rotta che preveda l’attivazione di un circuito virtuoso che si snodi su 6 tappe. Queste riguardano l’immediata organizzazione della Conferenza Nazionale sulle Droghe che manca da troppi anni, la riforma del Testo Unico sulle Droghe che compie in questi mesi 30 anni, l’esecutività dei Livelli Essenziale di Assistenza (LEA) per quanto riguarda la Riduzione del Danno, la ridiscussione del senso e delle funzioni del Dipartimento Antidroga, una posizione italiana nelle sedi internazionali che mantenga la linea europea di “approccio bilanciato” e che si apra alle sperimentazioni in corso in giro per il mondo ed infine la riapertura in Parlamento della discussione delle proposte per la regolamentazione legale della cannabis.” La Storia ci suggerisce a gran voce che nel nostro Paese è arrivato il momento di avviare in Parlamento una riforma coraggiosa sul tema delle droghe. Dobbiamo scegliere tra la comoda ipocrisia di una legge che punisce ma non tutela, e la difficile strada che porta ad una crescita sociale inclusiva dei soggetti più vulnerabili. Tertium non datur. Egitto. Patrick Zaky scrive alla famiglia dal carcere: “Sto bene, un giorno sarò libero” Il Riformista, 5 luglio 2020 “Cari, sto bene e in buona salute, spero che anche voi siate al sicuro e stiate bene. Famiglia, amici, amici di lavoro e dell’università di Bologna, mi mancate tanto, più di quanto io possa esprimere in poche parole”. Lo scrive in una lettera Patrick George Zaky, lo studente dell’Università di Bologna in carcere in Egitto da inizio febbraio, recapitata alla sua famiglia. Lo annuncia la rete Patrick Libero. “Spero che stiate tutti bene e che il Coronavirus non abbia colpito nessuno dei nostri cari. Un giorno sarò libero e tornerò alla normalità, e ancora meglio di prima”, aggiunge lo studente nella missiva. “Naturalmente non ha potuto dire tutto quello che voleva, dato che queste lettere passano attraverso varie mani di sicurezza prima di raggiungere il destinatario. Sì, siamo ancora preoccupati, ma siamo felici di leggere le sue parole”, scrivono gli attivisti che hanno diffuso il contenuto della lettera. Zaky, studente 27enne dell’Università di Bologna, era stato arrestato al Cairo nella notte tra il 6 e il 7 febbraio 2919, con la detenzione sempre prolungata dalle autorità egiziane. Contro di lui le accuse riguardano reati di opinione, attualmente è recluso nel nel maxi complesso carcerario di Tora, alle porte del Cairo. Russia. Torna in colonia penale testimone di Geova nonostante il rilascio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 luglio 2020 Dennis Christensen, un cittadino danese residente in Russia dove era stato arrestato nel 2017, era stato il primo testimone di Geova a essere condannato, nel febbraio 2019, a sei anni di colonia penale per “appartenenza a un’organizzazione estremista”, secondo una legge entrata in vigore nel 2002. Sarebbe stato anche il primo a essere rilasciato, dato che il 24 giugno il tribunale di Lgov aveva deciso di commutare il resto della pena in una multa di 400.000 rubli (poco meno di 5000 euro). Tuttavia, la procura del distretto di Kursk si è opposta al provvedimento di scarcerazione. Così, il 26 giugno Christensen è stato riportato nella colonia penale n. 3 di Lgov. Il motivo, del tutto pretestuoso, è che durante la detenzione avrebbe violato un paio di norme del regolamento interno, tra cui essersi trovato nella mensa a un orario sbagliato. La Russia ha sottoscritto trattati internazionali che la obbligano a rispettare la libertà di religione. Nel 2010 è stata anche condannata dalla Corte europea dei diritti umani. Dovrebbe cessare, dunque, di perseguitare i testimoni di Geova. E invece decine di fedeli sono in carcere e attendono di essere processati da quando nel 2016 la Corte suprema ha bollato come “estremista” l’organizzazione religiosa. Yemen. Il terrore nella prigione segreta saudita di Yahya Sorbello ilfarosulmondo.it, 5 luglio 2020 Mujtahid, un informatore saudita, che si ritiene sia membro o che abbia una fonte ben collegata nella famiglia reale, ha rivelato che l’esercito saudita controlla una prigione segreta nello Yemen orientale in cui i detenuti vengono torturati a morte. Mujtahid ha rivelato sulla sua pagina twitter che la prigione segreta si trova ad Hadhramaut, nello Yemen orientale, aggiungendo che “centinaia e forse migliaia di persone sono tenute in questa prigione e che alcuni di loro sono morti sotto tortura e molti altri sono diventati disabili”. “Le condizioni della prigione non sono buone nemmeno per tenere animali. Gli organi legali e i tribunali internazionali devono costringere l’esercito saudita a liberare tutti i detenuti”, ha dichiarato Mujtahid. L’Arabia Saudita e alcuni suoi alleati regionali hanno lanciato una devastante campagna militare contro lo Yemen nel marzo 2015, con l’obiettivo di riportare al potere l’ex presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi e schiacciare il movimento Ansarullah. Il Progetto di localizzazione degli eventi armati con sede negli Stati Uniti, un’organizzazione no-profit di ricerca sui conflitti, stima che la guerra abbia causato oltre 100mila vittime negli ultimi cinque anni. Le Nazioni Unite affermano che oltre 24 milioni di yemeniti hanno un disperato bisogno di aiuti umanitari, tra cui 10 milioni che soffrono di livelli estremi di fame. Nel Libano in bancarotta anche l’esercito non ha più cibo di Pietro Del Re La Repubblica, 5 luglio 2020 In pieno giorno, un uomo s’è sparato in bocca in una delle strade più trafficate della città, mentre altri due hanno scelto d’impiccarsi in casa. Una ventina di cassonetti sono stati dati alle fiamme e l’attivista Wassef Haraké, difensore dei manifestanti arrestati nel corso della rivolta popolare scoppiata il 17 ottobre 2019, è stato brutalmente aggredito. L’esercito è stato costretto a togliere la carne dal rancio dei soldati e la svalutazione della lira libanese ha ormai raggiunto picchi da primato. È questo l’ultimo bollettino settimanale della crisi finanziaria che da mesi sta strangolando il Libano a causa del fallimento delle sue banche, il che non era accaduto neanche durante la guerra civile tra il 1975 e il 1990. In pieno negoziato con il Fondo monetario internazionale, chiamato d’urgenza al capezzale di uno Stato ormai in bancarotta, il direttore generale del ministero delle Finanze, Alain Bifani, s’è dimesso per “non essere complice di un governo assente”. Secondo l’economista Cyrille Rizk, presidente del think tank Kulluna Irada (Siamo pieni di volontà) i libanesi sono come a bordo di un aereo che sta precipitando con ai comandi piloti che non muovono un dito per raddrizzare la rotta: “I piloti sono ovviamente i nostri politici che hanno rinunciato a risolvere una crisi che si sta rivelando apocalittica”. A Beirut, dai grattacieli ai grandi alberghi sul lungomare e dalle boutique di lusso al parco macchine composto essenzialmente da suv di grossa cilindrata, i segni esteriori di ricchezza mascherano una realtà che spaventa. “Il benessere collettivo di cui ha beneficiato gran parte della popolazione è stato concesso da una politica monetaria consapevole che, prima o poi, saremmo arrivati a questo disastro. Le perdite massicce nei bilanci delle banche, equivalenti a due volte la ricchezza del Paese, sono state sempre tenute nascoste e nessuno ha reagito perché il costo di una sanatoria sarebbe stato troppo elevato”, dice ancora la Rizk. Due giorni fa, un dollaro si scambiava a 9000 lire libanesi, quando negli ultimi 25 anni ne bastavano 1500. Con il risultato che in un Paese che conta 6 milioni di abitanti, 800 mila dei quali funzionari statali, e dove tutto o quasi è importato, i prezzi continuano a crescere in modo esponenziale, con una contrazione del sistema economico s’è già tradotta nella chiusura di un quinto delle imprese e in una disoccupazione al 30%. Eppure, promettendo tassi d’interesse del 13%, le banche erano tradizionalmente la cassaforte in cui l’importante diaspora libanese inviava le sue rimesse. “Oggi, invece, il mio potere di acquisto s’è dimezzato e i miei conti sono bloccati: posso ritirare soltanto 2000 dollari al mese in lire libanesi al tasso che decide la banca”, dice Edward Khalaf, assicuratore di 63 anni. Intanto, nelle farmacie c’è chi per paura d’improvvise penurie di farmaci fa scorte per il futuro e, pochi giorni fa, la notizia che avrebbe scarseggiato la farina ha spinto i libanesi a creare lunghe file davanti ai forni, proprio come accadeva durante la guerra civile. “A provocare la catastrofe finanziaria è stata la bolla speculativa della ricostruzione e, lo scorso settembre, la fuga dei capitali verso le banche occidentali, il tutto aggravato dalla cronica gangrena della corruzione politica”, spiega Mona Fawaz, professoressa di urbanistica all’American University di Beirut, molto attiva durante la rivolta dello scorso ottobre che qui non esitano a chiamare thaoura, rivoluzione, per via dell’enorme partecipazione della nutrita classe media del Paese. Per Pierre Issa, segretario generale del partito riformista Bloc national, all’origine del fallimento libanese c’è soltanto un sistema politico ormai arcaico, in cui da un secolo il contratto sociale si fonda sulle comunità confessionali del Paese. “La gestione della cosa pubblica se la spartiscono i sunniti, gli sciiti e i cristiani maroniti con modalità che ricordano quelle delle famiglie mafiose, dove ognuna ha il proprio territorio, e dove i boss sono venerati come fossero divinità perché a governare sono ancora quei signori della guerra diventati poi signori della politica”. L’altro fattore di peso in questa crisi di cui gli economisti non vedono la fine è il posizionamento geopolitico del Libano, con alle sue frontiere il “nemico” Israele e la Siria in guerra dal 2011. Ora, nel governo del premier Hassan Diab, nato lo scorso gennaio, un ruolo di primo piano ce l’ha Hezbollah, ossia il partito di Dio, che è anche uno Stato nello Stato, con le sue scuole, il suo sistema sanitario e un esercito più potente di quello nazionale perché finanziato dagli iraniani. Come se non bastasse, Washington considera Hezbollah un’organizzazione terroristica, e l’accusa di contribuire alla crisi contrabbandando dollari verso la Siria per sostenere il regime di Damasco, funestato dalle sanzioni. Prima il dittatore, poi il massacro, adesso i generali. Eppure il Sudan lotta ancora di Marta Bellingreri L’Espresso, 5 luglio 2020 Dopo il lungo dominio di Al-Bashir, è arrivata la rivoluzione soffocata nel sangue un anno fa dalla giunta militare che ha preso il potere. Ma un popolo fiero continua a chiedere libertà. “Come ogni sera di Ramadan, abbiamo preparato i piatti per l’Iftar, il pasto che interrompe il digiuno al tramonto”, racconta Tawdia, guardando allo spazio dove un anno prima si trovava la cucina auto-organizzata del sit-in della rivoluzione sudanese. “E alla fine dei festeggiamenti, sono tornata a casa. Ho goduto ogni istante di quella sera. Ma non sapevo che sarebbe stata l’ultima”. I suoi occhi sono sempre sorridenti, ma ricordando quell’ultimo giorno al sit-in, vicino alla Nile Street nella capitale del Sudan, Khartoum, per un momento le si riempiono di lacrime. Era la notte tra il 2 e il 3 giugno di un anno fa. Tawdia ha 25 anni ed è un medico di laboratorio: la sua pagina Facebook ha migliaia di follower grazie alle dirette che ha postato sul suo profilo durante la rivoluzione. La sua amica Fatima, nome fittizio usato per proteggerne l’identità, di anni ne ha 22 e quella sera, come tante altre compagne, studentesse partecipanti al sit-in, non era invece tornata a casa. Ed è diventata testimone e vittima di uno dei massacri più brutali della storia recente del Sudan a opera di quei militari che ancora oggi sono al potere. Nel dicembre 2018, centinaia, poi migliaia, di sudanesi come Tawdia e Fatima, sono scesi in piazza a protestare. È il momento di inizio di una rivoluzione che non si è più fermata. L’ex dittatore Omar al-Bashir, al potere da trent’anni, aveva imposto l’aumento del prezzo del pane e della benzina, e la reazione del popolo, stremato già allora da una crisi economica solo peggiorata dalla pandemia in corso, non si era fatta attendere. Un’ondata di manifestazioni ha riempito le strade di diverse cittadine, ben oltre la capitale Khartoum. Sudanesi di tutte le classi e generazioni ma soprattutto studenti e giovani professionisti. La Sudanese Professional Association (Spa), associazione sudanese comprendente specialmente medici, operatori sanitari e avvocati, prende in mano la leadership dell’organizzazione delle proteste. E allo scontento per l’aumento dei prezzi si è accompagnata una richiesta chiara, un unico grido: la caduta del regime. Gli slogan della piazza hanno riportato alla memoria le manifestazioni immense che dalla Tunisia all’Egitto hanno cambiato il corso della storia nel 2011. Bisognerà aspettare l’11 aprile del 2019 perché Omar al-Bashir venga deposto dalla giunta militare. Ma i giovani rivoluzionari nel frattempo avevano dato il via a un sit-in permanente a partire dal 6 aprile e la caduta e poi l’arresto del dittatore non erano bastati a farli andare via: volevano - vogliono - la fine del potere dei militari in Sudan. E così sono rimaste piantate le tende della protesta, e lo sono state per due mesi, proprio di fronte al quartier generale delle forze armate, per chiedere un governo guidato da civili. Un sit-in pacifico, fatto di voci di canto e di poesia, di un Sudan dal futuro democratico, sognato e abbozzato tra una tenda e l’altra. Fino a quella sera di fine Ramadan. La piazza pacifica si preparava già per la festa dell’Aid, che conclude il mese sacro di digiuno per i musulmani. Fatima studia alla Facoltà di Arte dell’Università di Khartoum. Il sit-in di fronte al quartier generale delle forze armate includeva alcune strade nei pressi dell’Università. Ma l’alba di quel 3 giugno ha cancellato l’innocenza dei ricordi universitari. “L’incubo è iniziato quando ho cominciato a sentire le urla dei compagni del sit-in che scappavano”, racconta Fatima, che ha voluto scrivere la sua testimonianza per intero, per iscritto. “Come per istinto, ho preso la mano della mia amica, ci siamo guardate, e abbiamo capito che qualcosa non andava. Abbiamo cominciato a scappare”. Degli uomini armati, con le divise delle Rapid Support Forces, irrompono violentemente nel sit-in pacifico, cominciano a picchiare i ragazzi, a sparare con diversi tipi di armi, a bruciare le tende. A radunare le ragazze nelle tende. Come Fatima e la sua amica, a cui ancora tiene stretta la mano. Le Rapid Support Forces (Rsf) sono note nel Paese come la milizia dei Janjaweed, tragicamente celebre per aver messo in atto, per conto di al-Bashir, il genocidio contro la popolazione non araba nella regione occidentale del Darfur. Sull’ex-dittatore pendono dal 2009 e 2010 due mandati di arresto della Corte internazionale dell’Aia per genocidio e crimini di guerra nel conflitto in Darfur. Ma a trasformare i Janjaweed nel gruppo paramilitare Rapid Support Forces è stato il generale Mohammed Hamdan, conosciuto come Hemeti. Nel giugno del 2019 così come oggi è lui a capo delle Rsf: ma allora era anche il vicepresidente del Consiglio militare di transizione al potere, quello stesso formatosi con la cacciata di al-Bashir. Se Omar al-Bashir è oggi in carcere a Khartoum, dove si vocifera che sia stato contagiato anche dal Covid, uomini di potere come Hemeti continuano ad avere posti di rilievo, anche dopo il massacro del 3 giugno, ovvero nel governo di transizione civile-militare attuale, nato dopo l’accordo in agosto delle due parti. I rivoluzionari accusano Hemeti di essere il mandante del massacro. Le indagini che potrebbero individuarlo come responsabile sono in corso e giustizia non è stata ancora fatta. Si teme quel giorno siano state uccise fino a duecento persone, per lo più giovani. Mentre tutti corrono verso il Nilo provando a mettersi in salvo, gli spari delle milizie e altri uomini armati dell’apparato poliziesco e militare cominciano a uccidere: i corpi inermi dei manifestanti si aggiungono a quelli dei feriti, che medici volontari e compagni provano a trasportare via. Ma chi cerca di mettere in salvo i feriti deve passare sul corpo dei militari che sparano senza sosta. E che bloccheranno l’accesso ad almeno due ospedali della zona. Molti dei manifestanti invece sono stati gettati nel fiume Nilo. Dopo un anno, sono decine ancora i dispersi. Fatima, spinta a forza in una tenda insieme alla sua amica, non smette di sentire le urla dei suoi compagni in fuga. Ma nel frattempo ha capito cosa l’aspetta. Un nuovo terrore l’attraversa. Delle urla diverse, di voci femminili, provengono dalla tenda accanto. Otto uomini armati la circondano e solo allora è costretta a lasciare la mano alla sua amica, che la guarda impaurita, mentre un militare le punta una pistola sul naso, costringendola a guardare la sua amica, a vedere cosa le fanno. “Ho provato a resistere, abbiamo provato a dimenarci e a scappare. Ma quando ci hanno separato e avevo un’arma puntata in faccia non avevo più fiato per urlare. Quando è toccato a me, non ho gridato, non ho pianto, non ho capito niente. Ero un corpo morto, come quelli già per strada, e non ho parlato per settimane”. Fatima e la sua amica sono tra le decine e decine di vittime di violenza sessuale durante il massacro del 3 giugno 2019, un triste punto di svolta nella storia della rivoluzione sudanese. Sono 96 le testimonianze ufficiali raccolte delle donne che hanno subito violenza, ma si pensa siano molte di più: tante infatti non hanno avuto la forza per parlarne. Neanche Fatima dopo un anno intero, è riuscita a raccontarlo alla sua famiglia. Questa è la ragione per cui l’amica Tawdia ascolta le loro storie, invitandole a parlare con giornaliste e associazioni, a farsi testimoni. “Questo pezzo atroce della nostra storia non deve essere dimenticato né bisogna permettere che si ripeta”, dice con la sua voce dolce e decisa al contempo. “Capisco il dolore e il non voler parlare, almeno non tutte; per questo sono io che ne trasmetto la testimonianza di dolore, perché le ascolti il mondo intero”. Come testimone del massacro, un altro giovane studente di 22 anni, Abbas, ha parlato con la Commissione d’inchiesta sui crimini e le violazioni compiute. “Ho corso avanti e indietro fuggendo ai colpi di arma da fuoco delle Rsf, dopo la preghiera dell’alba del 3 giugno 2019”, dice in occasione dell’anniversario in questo giugno. “Nonostante il Covid, ci siamo riuniti per ricordare i martiri della rivoluzione in un sit-in pacifico come pacifica è stata la nostra ribellione per cambiare il Paese”. E, non trovando invece pace dalle scene di orrore che ha vissuto, si è rivolto alla Commissione, sperando venga fatta luce sugli eventi. “Si tratta di una commissione indipendente sudanese”, dice l’avvocato Mohammed Mamoun, “ma a mio parere, è necessaria una commissione internazionale per indagare sulle violenze dell’esercito durante lo scorso Ramadan, per assicurare l’integrità delle procedure e la trasparenza della Commissione”. Mohammed si considera un avvocato della rivoluzione. Se i militari rispetteranno l’accordo di agosto scorso, nel febbraio del 2021 il governo dovrebbe passare ai civili della Coalizione delle Forze di Libertà e Cambiamento, di cui fa parte la Sudanese Professional Association, per un passaggio verso libere elezioni nel 2022. Il Primo ministro del Sudan in questa fase di transizione, Abdalla Hamdok, in occasione dell’anniversario del massacro si è rivolto alla nazione, impegnandosi per la giustizia e per promuovere la riconciliazione e la pace in tutto il Paese. Nonostante le incertezze legate allo strapotere dei militari, coi suoi alleati esterni (Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto), ognuno prova a fare la sua parte, come appunto l’avvocato Mamoun. “Appartengo al Comitato per la Resistenza e il Cambiamento e in particolare a un comitato chiamato Comitato Legale, che ha lo scopo di proteggere i membri del Comitato stesso - gli avvocati che rischiano qualsiasi tipo di attacco”. Una delle sfide del futuro del Sudan è quella di portare avanti una campagna e una rivoluzione culturale per eliminare i casi di corruzione e fa parte anche del lavoro di questi avvocati del Comitato Legale. “Ma senza giustizia per i martiri della rivoluzione, non andremo da nessuna parte”. Dopo quell’episodio, Fatima e la sua amica sono state ricoverate in ospedale per due settimane sotto shock. Il 30 giugno di un anno fa, quando il ricordo del sit-in era sovrastato dal trauma del massacro, i sudanesi hanno organizzato la “millions march”, una marcia nella capitale per ribadire che la rivoluzione non sarebbe stata spezzata dalla violenza dei militari. Una speranza di giustizia che continuerà ad accomunare il cammino di Fatima.