Un problema irrisolto di Nicola Boscoletto* ilgiornaledellarchitettura.com, 4 luglio 2020 In carcere quando le cose vanno male si sente la necessità di fare qualcosa ma, non appena la finestra si apre un po’, immediatamente il sistema si ribella e si chiude in sé stesso. Il carcere: quello strano albergo al contrario dove per far tornare i “clienti” occorre trattarli male. La pandemia da Covid-19 è seconda solo alla “Buro-Virus-Crazia” che genera burocrati irresponsabili, incoerenti e violenti. Mai nella storia italiana, europea e mondiale il tema delle carceri, anche se sarebbe corretto dire della pena, ha trovato una soluzione compiuta. Ciò riguarda tanto l’edilizia penitenziaria, quanto il lavoro, la presenza e l’azione del volontariato, in particolare tutta quella parte di società civile che non è Stato. Ci sono stati periodi in cui le cose andavano un po’ meglio e periodi in cui andavano peggio. Mai completamente bene. In genere le cose vanno meglio quando il clima che si vive nella società è buono, positivo, rispettoso delle leggi e della dignità delle persone, amante delle diversità e non del pensiero unico, cioè il “mio”. Per cambiare le cose, la società, occorre prima cambiare le persone, il cuore delle persone Oggi lo scenario che stiamo vivendo è sotto gli occhi di tutti. Una vergogna italiana, europea e mondiale; siamo tutti in “buona” compagnia. Si badi bene che la colpa non è del Covid, né nel 2008 della crisi economica. Prima delle conseguenze (crisi economica 2008, Covid, etc.) ci sono le cause. La cosa triste è che, senza andare troppo indietro nel tempo, anche se servirebbe, in questi ultimi 60 anni le cause non sono mai state messe al centro o sono state immediatamente messe da parte, assieme alle persone, da chi con grande coraggio ha provato ad affrontare il problema. Gli ultimi 60 anni sono contraddistinti da cicli di 20 anni. A fine anni 70 si chiude malamente un periodo che avrebbe potuto portare dei cambiamenti importanti e duraturi. Il sistema carcere si chiude in totale difesa di sé stesso. Tra inizio anni 80 e fine anni 90 la situazione in carcere si trasforma nel nulla, nel vuoto trattamentale (autolesionismo e aggressioni). Successivamente grosse spinte sia interne che esterne portano il carcere a riaprirsi. Questa apertura si spinge per una decina di anni (2000/2013). Dal 2014 la fisarmonica torna a riavviare il processo di chiusura. Ora siamo nel pieno di questo periodo negativo, che continuerà almeno fino a metà del 2020. In carcere quando le cose vanno male si sente la necessità di fare qualcosa ma, non appena la finestra si apre un po’ (la finestra e non la porta, si badi bene), immediatamente il sistema si ribella e si chiude in sé stesso, espellendo tutti quelli che non c’entrano niente con l’amministrazione penitenziaria, assieme a quei pochi competenti e seri della stessa, veri servitori dello Stato. Queste modalità con questi tempi non permettono ai nascenti cambiamenti di mettere radici, di creare qualcosa di strutturalmente importante e duraturo. Pochi costruiscono e molti distruggono. Distrugge anche l’indifferenza; e d’indifferenza ce n’è tanta, tra i quasi 60.000 dipendenti dell’amministrazione penitenziaria (di cui circa 38.000 agenti). Ad esempio, a quando risale la progettazione e costruzione di un carcere che rispetti le linee scritte nella nostra Costituzione e nella normativa che ci siamo dati? È evidente che il sistema carcere ha fallito, eppure non se ne può parlare, o al massimo se ne può solo parlare. La recidiva ufficiale è di circa il 70%, ma quella reale è del 90%. È vietato chiedersi quante persone assunte dell’amministrazione penitenziaria credono ancora alla funzione della pena. Grandi manifestazioni e grandi parate (elogi compresi) a tutto il personale per l’indescrivibile dedizione che profondono come servitori dello Stato. Perché non se ne può parlare con grande realismo e semplicità senza che qualcuno (quasi tutti) si offenda? Chiediamo tutti a gran voce più sicurezza e, più che mai oggi, risparmio economico, ottenendo in realtà maggior insicurezza sociale e uno spreco economico abnorme. Perché si fa così fatica a guardare la realtà dei fatti? Mai era successo che un papa il venerdì santo, in mondovisione televisiva, mettesse al centro di tutte le 14 stazioni della via crucis solo il mondo del carcere. Le carceri sono una piaga a livello mondiale, la vera pandemia si chiama sistema penitenziario, dove quasi tutti quelli che gestiscono, governano, comandano sono dei burocrati asintomatici positivi o indifferenti o sfiduciati. Ormai non ci si rende nemmeno conto di essere portatori di negatività, tutti “pensavamo di rimanere sani in un mondo malato…”. Intanto, il sistema va a fondo. Che cosa si può dunque fare? Due cose. La prima. Uso un esempio. Se hai un edificio vecchio completamente da sistemare, hai due strade: o opti per la ristrutturazione oppure è molto più conveniente, veloce e con risultati migliori radere tutto al suolo e ricostruire di nuovo. Questo edificio vecchio, questo rudere è il Dipartimento di amministrazione penitenziaria; lo è sotto tutti i punti di vista. Basti pensare che nel 2020 la quasi totalità degli istituti non riesce a gestire una videoconferenza, sia per l’arretratezza tecnologica (e parliamo di sicurezza) sia per l’incapacità dei dirigenti. Credo però che la difesa del rudere sia più forte del desiderio di cambiamento. In ogni caso, nell’immediato non va abbandonato nessun tentativo. Non ci resta che la seconda cosa da fare e, cioè, continuare a vivere con verità, con onestà e trasparenza (la trasparenza che in alcuni casi è totalmente assente negli istituti); ovvero, quello che ciascuno di noi, con la propria professione, è chiamato con responsabilità a costruire giorno dopo giorno. Non dobbiamo lasciarci “rubare la speranza”, e questo dipende solamente da ciascuno di noi. Il tempo è dalla nostra parte. Una nota finale a scanso di equivoci. Per favore che nessuno dell’amministrazione penitenziaria si stracci le vesti e si lanci in vittimismi (quelli dovremmo lasciarli alle persone detenute; anzi no, dovremmo educare anche loro a non cadere nel vittimismo e ad assumersi le loro responsabilità). Serve solo realismo. Chiunque avrà qualcosa da ridire è evidentemente un asintomatico “negativo” fuori dalla realtà. *Presidente della Cooperativa sociale Giotto. A Gorizia il primo “carcere europeo”, laboratorio per una Unione dei diritti di Domenico Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 4 luglio 2020 Nel suo discorso sulla questione penitenziaria alla Camera, il 18 marzo 1904, Filippo Turati iniziava così: “Noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori...”. Purtroppo da quella data sono passati oltre 116 anni e sembra essere quasi tutto fermo. Nonostante qualcosa si sia mosso a Strasburgo dove è la sede della Commissione europea dei diritti dell’uomo, il tribunale che ha condannato l’Italia per il modo inumano in cui detiene chi è ristretto nelle carceri di Stato. Sempre in Europa, il 7 maggio scorso si è celebrato il 70° anniversario della dichiarazione di Schuman preparata insieme a Jean Monnet che, come ha detto Ursula von der Leyen, ha mutato il destino di un continente. In quella proposizione si indicava la necessità di istituire un’Alta Autorità che promuovesse e gestisse la fusione delle produzioni di carbone e acciaio. L’obiettivo era la costituzione di comuni basi per lo sviluppo economico, come prima tappa della Federazione europea. All’epoca sembrava un disegno utopistico: partire da circoscritti assetti comuni per addivenire a regolamentazioni più strategiche che prevedessero, nella dimensione politica e amministrativa, una integrazione maggiore tra i Paesi europei. Sempre in Europa, ma stavolta meritoriamente in Italia, l’amministrazione del Comune di Gorizia, partendo da un disegno anch’esso in apparenza utopistico, si è dotata di una deliberazione a dir poco storica, varando un progetto per il primo Carcere europeo. Un istituto pensato in coerenza coi dettami delle regole penitenziarie europee e che, da prototipo, possa costituire l’esempio, il modello di riferimento, al quale tutti gli Stati Ue debbano conformarsi nei propri ordinamenti, per fini di giustizia e per dare senso di speranza alla carcerazione. Una visione, condivisa da tanti militanti appassionati ai diritti umani e ai principi della legalità, che inizia finalmente a prendere forma, grazie al coraggio di amministratori locali e politici lungimiranti e persone esperte che da anni lavorano in questo settore. L’idea dell’amministrazione comunale, affidata alla competenza di Enrico Sbriglia, già dirigente generale del Dap, si traduce in un piano strategico innovativo, a partire da un presupposto: si tratta di tematiche che, per la loro gravità e complessità, vanno affrontate con una visione più ampia, con una lettura non esclusivamente nazionale, che superi le diatribe classiche del diritto penitenziario. Sostenuta da una impostazione sistemica e condivisa tra tutti gli Stati Ue, la decisione del Comune di Gorizia intende promuovere “azioni finalizzate ad arginare e sconfiggere attacchi epidemici e pandemici di natura virale, ma anche tutelare i diritti di mobilità e salute di ogni cittadino europeo, all’interno del medesimo spazio geografico comunitario, ancorché possa trovarsi nella condizione giuridica affievolita di persona detenuta”. Nel programma del titolare del prestigioso incarico, si imporrà un approccio progettuale nuovo, scientificamente rigoroso, sostenuto da apporti culturali multidisciplinari, che condividano prospettive aperte alla realtà europea della carcerazione e delle sue regole. Il territorio transfrontaliero rappresenta la perfetta location del primo Carcere europeo, che sarà a cavallo tra Gorizia e Nova Gorica: l’obiettivo è l’omogeneizzazione del trattamento penitenziario in una visione federalista europea. Insieme ad altri Paesi partner, l’Italia, potrebbe proporsi meritoriamente come il primo laboratorio ideale di una grande sfida di civiltà. In tal senso il Comune di Gorizia con la realizzazione del primo Carcere Europeo, si trasformerebbe in una cerniera di altissimo valore scientifico e simbolico per unire e rafforzare l’Europa anche sul piano dei diritti umani. L’ambizione del progetto è nel coinvolgimento delle migliori intelligenze europee, partecipi di un Forum poenae, che si avvalga dei contributi delle neuroscienze, nelle connessioni ambientali ed ingegneristiche con l’architettura ed il design, con la medicina e le discipline sociali e antropologiche, insieme all’istruzione e la formazione professionale. *Vice presidente Cesp - Centro Europeo Studi Penitenziari Case-famiglia protette per evitare che i bambini siano in carcere di Paolo Siani Il Riformista, 4 luglio 2020 Ho letto con molta attenzione l’appello “Salviamo i bambini in carcere con le madri”, pubblicato sulle colonne dell’edizione napoletana del vostro giornale lo scorso 30 giugno. Condivido pienamente l’esigenza di trovare una soluzione congrua alle migliori condizioni possibili di crescita per bambini con madri detenute. Ho visitato, circa un anno fa, l’Icam di Lauro e poi la casa di Leda a Roma, e quelle esperienze, pur diverse tra loro, mi hanno molto colpito, al punto che a fine 2019 ho presentato una proposta di legge finalizzata ad alleviare le gravi criticità evidenziate nell’articolo che ho appena citato, anche favorendo il ricorso all’istituto delle case famiglia protette, come quella della Capitale. Pochi giorni fa è stato accettato, in sede di conversione in legge del decreto legge 28 del 30 aprile 2020, recante “Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19”, un mio ordine del giorno sul fatto che la grave emergenza sanitaria da Covid-19 ha reso ancora più urgente e indispensabile fornire una completa e più attuale applicazione della normativa vigente in materia di tutela del rapporto tra genitori detenuti e figli minori, in particolare valorizzando e incrementando l’esperienza delle case famiglia protette disciplinate dalla legge 62 del 21 aprile 2011. Tale esperienza, pur estremamente positiva, è attualmente ridotta a due sole case famiglia protette (quelle di Milano e Roma), mentre il resto del territorio nazionale ne è privo. Per questo motivo ho chiesto al governo di incentivare ulteriormente la stipula di convenzioni con gli enti locali volte a promuovere la realizzazione di nuove case famiglia protette, al fine di meglio tutelare i diritti dei minori alla relazione con i genitori detenuti. Auspico che la proposta di legge venga calendarizzata al più presto, per consentire ai bambini figli di madri detenute un più corretto stile di crescita e un adeguato sviluppo cognitivo ed emotivo. In sostanza, una partenza felice della vita. Il sistema giustizia si cambia tutti insieme di Daniela Piana Il Dubbio, 4 luglio 2020 Nel mondo della giustizia le misure anti Covid hanno generato l’inedita divaricazione fra funzioni e strutture fisiche con un utilizzo del digitale mai visto prima. Non sono certo mancate le riflessioni sull’impatto dell’emergenza pandemica all’interno dei settori che, più di altri, hanno un significato diffuso, profondo e sistematico per la vita dei cittadini e per il benessere di comunità ed imprese. Nel mondo della giustizia poi, l’irrompere delle misure di contrasto al Covid- 19 hanno generato l’inedita e assolutamente imprevedibile esperienza della divaricazione fra funzioni e strutture fisiche attraverso un utilizzo del digitale mai visto prima nel Paese e, va detto, assai di rado osservato anche negli Stati Ue. Così come della compressione delle libertà individuali che si intersecano con l’esercizio della giurisdizione, ordinaria, amministrativa, contabile. Parlare di una rivoluzione non è opportuno né tempestivo. Come sappiamo tutti per averlo sperimentato sia nel perimetro del nostro microcosmo professionale individuale, sia nello spettro della nostra osservazione esperta del sistema “giustizia”, affinché vi sia un cambiamento rivoluzionario occorre che le cose mutate in un determinato momento si protraggano nel tempo e si trasformino in caratteristiche strutturali permanenti. Insomma, per dire che la pandemia ha catalizzato cambiamenti epocali occorre che passi il tempo e che, soprattutto il nuovo diventi il “nuovo normale”. Con cosa ci interfacciamo oggi? Va detto che le molte misure prese per rispondere all’emergenza sanitaria si sono innestate su un sistema giustizia che già era attraversato da molte traiettorie di riforma, di cambiamento. Fra le quali lo sviluppo degli applicativi della giustizia penale, la revisione delle piante organiche, la messa a regime delle modalità di gestione delle spese di funzionamento, una sistematica modalità sussultoria in materia di riforma del diritto processuale e sostanziale che caratterizza il nostro Paese in modo endemico. Insomma, non è che il sistema giustizia sia digiuno di cambiamenti. Ma il Covid, per dirla in modo semplice, ha fatto “di più”: ci ha obbligato a discutere delle libertà che sono la base fondante e il risultato sostantivo del giusto processo. Nessun processo sarà mai giusto senza che vi sia una prevedibile, intelligibile, chiara, sostenibile e omogenea (gli aggettivi ci vogliono tutti) tutela delle libertà della persona, alla qual cosa concorrono, come fattori concomitanti, sia le procedure, sia l’ordinamento, sia - ed è questo il punto sul quale mi preme dire - le professionalità che vivono le norme, che le rendono azioni. Mentre infatti in uno scenario di manutenzione del sistema il nesso fra norme e attori si configura come una combinazione di un margine di azione, dentro a un set di vincoli, opportunità di azione, corridoi processuali che si seguono, in uno scenario dove molto - anche se per brevissimo periodo - è stato sobbalzato in uno spazio - tempo caratterizzato da sospensione, dematerializzazione, urgenza nella risposta ad una domanda di tutela plurima, che per la prima volta chiede di coniugare in via non derogabile salute delle persone, libertà processuali, omogeneità di trattamento per tipologie di riti, anche attraverso territori che sono stati diversamente toccati dalla pandemia. E, cosa ancora più significativa, lungimiranza nella prospettazione di risposte adatte alle fasce vulnerabili che la pandemia avrà reso ancora più fragili. Ebbene in questo scenario il nesso fra attori e quadro delle norme viene completamente cambiato. Le persone contano, pesano, fanno la differenza nel creare un “nuovo normale”, una nuova modalità operativa in modo immensamente più ampio di quanto non sia mai accaduto. Ecco allora che ci sono cose di cui abbiamo un vitale bisogno: proiettarsi nella giustizia come sistema di domani con le spalle cariche delle fatiche degli ultimi mesi: ma anche la mente consapevole delle moltissime potenzialità di miglioramento che il cambiamento emergenziale ci ha obbligato a testare. Significa che ognuna delle professionalità che hanno qualcosa da portare ad una visione di insieme è preziosa ed imprescindibile. Abbiamo bisogno di sentirci un Noi. Ma non un noi dentro ai singoli segmenti delle professionalità: magistrati, avvocati, personale amministrativo, dirigenza, personale ausiliario, ecc. No, abbiamo bisogno di sentirci Noi tutti. Perché solo e soltanto mettendo insieme ciò che ognuno ha sperimentato, visto, vissuto, sofferto e sognato sarà possibile non tanto disegnare il sistema giustizia migliore fra i migliori possibili, quanto essere certi che il disegno sarà davvero reso azione vivente ogni giorno, che le riforme saranno davvero vita organizzativa, che le modifiche che si intendono apportare non saranno promesse, ma saranno fatti. E i fatti, si sa, li compiono le persone. Ci sono in questo contesto cose che non ci possiamo permettere. Il conflitto radicale, la resistenza al dialogo per petitio principii: questi sono atteggiamenti che non sono solo perniciosi, sono un lusso che il Paese non può permettersi e che il sistema giustizia non merita di patire. A ben guardare, nel silenzio mediatico, moltissime donne e moltissimi uomini si sono dedicati a trovare soluzioni, a inventarsi possibilità che prima nemmeno erano immaginabili perché di giustizia si potesse parlare anche in una situazione da “stato di emergenza”. Ebbene, abbiamo un disperato bisogno che tutti, ma proprio tutti, aderiscano ad una idea di Noi, critica, plurale, dialettica, ma nella consapevolezza, senza alcuna forma di cedimento, che il sistema giustizia che dobbiamo dare al cittadino - cioè a noi tutti - è un sistema che nasce dalla costruzione condivisa. Suonano come parole buoniste? Non lo sono, sarebbe troppo facile liquidarle come un “troppo bello” per portersi realizzare. La divisione e la separatezza delle arene di dialogo, il corporativismo, qualsiasi forma esso possa assumere, non ci saranno di alcun aiuto per fare del sistema giustizia il macro cosmo in cui desideriamo tutti operare al meglio per il bene dell’Italia. Facciamolo dunque questo noi. È tempo, ora. Giustizia e insidie politiche di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 4 luglio 2020 Le minacce che pendono sull’indipendenza delle toghe non sono mai state oggetto di alcuna denuncia. Per l’ennesima volta - questa volta a causa delle recenti, controverse rivelazioni sulla sentenza che a suo tempo condannò Silvio Berlusconi per frode fiscale determinandone l’espulsione dal Parlamento - per l’ennesima volta, dicevo, è in discussione l’indipendenza dei magistrati. Naturalmente quando si parla d’indipendenza si parla essenzialmente d’indipendenza dalla politica, dai veri e propri condizionamenti diretti o dalle suggestioni che la politica, in modo particolare l’esecutivo, può esercitare per influenzare le pronunce dei magistrati. E si sa che proprio a difesa di tale indipendenza la Costituzione ha posto due argini invalicabili: da un lato l’impossibilità per la politica di determinare la carriera dei magistrati (che infatti dipende per intero dal Consiglio superiore della magistratura), e dall’altro l’obbligatorietà dell’azione penale per il pubblico ministero, che quindi, a differenza di quanto avveniva un tempo, per questo aspetto decisivo dell’amministrazione della giustizia non ha alcun rapporto di dipendenza dal ministro, cioè dalla sfera politica. Della piena efficacia di tali argini i magistrati si sono sempre detti soddisfatti giudicandoli sufficienti - insieme alle cospicue retribuzioni di cui godono: le più alte della Pubblica amministrazione - a garantire la loro indipendenza. Curiosamente invece nessuno di loro, almeno che io ricordi, così come la loro associazione, ha mai sollevato il problema che l’indipendenza della magistratura può conoscere, in realtà, anche una diversa e certamente non minore insidia rispetto a quelle menzionate. E cioè l’insidia rappresentata delle offerte di benefici, cariche, incarichi, con cui direttamente o indirettamente la politica può allettare o ricompensare i magistrati. Offerte di cui è ovvia la capacità condizionatrice: infatti, se io so che agendo in un certo modo potrò risultare gradito a chi ha molti modi per poi compensarmi, ad esempio offrendomi questo o quell’incarico, ciò rappresenta sicuramente una potenziale ma effettiva insidia alla mia indipendenza. Che per attuarsi ha bisogno in questo caso del mio accordo, è vero, ma ciò non significa nulla: l’indipendenza dei magistrati è un bene posto a garanzia della collettività, non è un privilegio del singolo magistrato. Curiosamente, comunque, una tale minaccia sospesa sull’ indipendenza della magistratura non è mai stata oggetto di alcuna denuncia da parte della stessa. Essa era invece ben presente a uno dei massimi tra i gli autori del nostro testo costituzionale, Costantino Mortati, il quale in sede costituente propose un rimedio semplicissimo. E cioè, aggiungere all’articolo 101 le seguenti parole: “i magistrati (...) non possono accettare dal governo funzioni retribuite, a meno non le esercitino gratuitamente”. Forse avrebbe dovuto aggiungere, oltre che dal governo, “da qualunque altro organo dell’ordinamento della Repubblica e dalla Corte costituzionale”. Fatto sta che la proposta di Mortati non fu accolta, sicché oggi non solo abbiamo “un’enorme quantità di incarichi di vario tipo che ormai caratterizza la magistratura” (Flick) ma soprattutto, attraverso l’istituto della collocazione fuori ruolo, un gran numero di magistrati sono distaccati in posizioni chiave presso le Commissioni parlamentari e i Ministeri, presso la Presidenza della Repubblica, presso la Corte costituzionale, alla testa di un gran numero di Autorità indipendenti di controllo e di garanzia. Distacchi - naturalmente ambitissimi - a cui non si accede certo per concorso bensì, dici amo così, per chiamata diretta. Il che conduce inevitabilmente a chiedersi: che razza d’indipendenza dalla politica può mai incarnare una prassi per cui qualunque magistrato si trova(legittimamente intendiamoci, legittimamente) a poter aspirare di essere cooptato dalla politica stessa per entrare nel suo mondo, nel mondo delle stanze dorate, delle decisioni che contano, del potere e delle sue multiformi attrattive, che però è anche il mondo per definizione delle mutevoli maggioranze politiche, un mondo certamente assai più seducente di quello della giurisdizione? Come si può non sospettare che in qualche modo molti ispirino la loro attività di magistrato a questo legittimo desiderio? Sempre restando in questo ambito mi sembra che una spessa ombra sulla indipendenza della magistratura” com’è comunemente concepita dalla stessa, la getta in particolare anche la presenza di magistrati - per l’appunto distaccati - in tutti o quasi tutti i posti apicali del ministero di Grazia e Giustizia. Infatti, dal momento che è pacifico che un ministero è parte cruciale dell’organizzazione del governo politico-amministrativo del Paese, che un ministero costituisce una struttura propria del potere esecutivo (non a caso è guidato come si sa da un ministro, cioè da un membro dell’esecutivo), che cosa ci fanno nei suoi posti di comando, mi chiedo, un così folto gruppo di rappresentanti del potere giudiziario? Che cosa ne è in tal modo nell’aureo principio della separazione dei poteri così ovviamente connesso a quello dell’indipendenza della magistratura? Peraltro è proprio tenendo presente questo insieme di situazioni - le quali si possono immaginare necessariamente dominate da un certo grado d’ambiguità, da relazioni personali non sempre trasparenti e da potenziali conflitti d’interesse - che si ha modo di capire una delle ragioni di fondo della degenerazione del Csm. Del suo inevitabile precipitare nella palude dell’intrallazzo correntizio e della collusione con la politica. Inevitabile perché è proprio il Consiglio superiore che ogni volta ha il potere di concedere o di negare al singolo magistrato l’autorizzazione necessaria per accedere a un incarico extragiudiziario, di fatto per concedergli o no il grande salto d’immagine e di potere verso l’empireo sociale. Con l’ovvia - inevitabile appunto - conseguenza di trasformarsi in un luogo di scambi, di reciproche concessioni, di do ut des, per accedere al quale diviene di fatto obbligatoria per ogni candidato a un incarico importante l’ascrizione a un gruppo, a una corrente in grado di prendere le sue parti nel sinedrio al momento della decisione. Lapidato post mortem, le toghe contro Amedeo Franco di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 4 luglio 2020 L’Anm dovrebbe aprire una riflessione sulla crisi di credibilità della giurisdizione. La veridicità del racconto del giudice dovrà essere accertata ma non sarà un fiume di indignazione e ostentato stupore a renderla inverosimile. Che un giudice di Cassazione, relatore ed estensore di una sentenza confermativa della condanna, abbia voluto insistentemente incontrare l’imputato, per dirgli quanto ingiusta fu la sentenza da lui stesso scritta (ed in verità inusitatamente vergata da tutti i componenti del Collegio in ogni sua pagina), è obiettivamente un fatto anomalo ed eccezionale. Sono dunque legittime, ed anzi doverose, cautela e prudenza nella valutazione di questa vicenda molto, molto particolare. Ma pretendere che questa anomalia debba essere valutata solo nel senso che quel giudice, che certo ora non può più chiarire, fosse sotto ricatto, o altrimenti corrotto, e non anche che abbia potuto raccontare una clamorosa verità, è tipico della più testarda autoreferenzialità che connota ormai da tempo la voce politica della magistratura italiana. Lasciamo perdere il circo Barnum politico-mediatico che scatta appena pronunci le prime lettere della parola “Berlusconi”: si tratta di un circuito politico-editoriale che ha costruito le sue fortune su ogni possibile forma di colpevolezza del Cavaliere, non potremmo aspettarci altro. Ma è davvero sorprendente come i vertici politici della magistratura italiana non siano capaci di comprendere ciò che questa vicenda - i cui esatti termini saranno valutati da chi è funzionalmente deputato a farlo - evidenzia già in modo inequivocabile. E cioè che questa storia di una vicenda giudiziaria pesantemente orientata alla eliminazione politica di un protagonista della vita pubblica, nessuno ancora sa se sia vera, ma siamo tutti, ma proprio tutti certi che sia almeno verosimile. Non c’è una sola persona di buon senso, sia tra gli addetti ai lavori che tra la gente comune che, ascoltata la voce (spregiudicatamente registrata) di quel giudice da tutti apprezzato e stimato, possa sinceramente trasecolare di fronte al quadro ed al contesto politico-giudiziario che il giudice Franco ha delineato, e dire: ma di quale assurda follia costui sta parlando? È ben ovvio che il Presidente e gli altri componenti quel Collegio rivendichino orgogliosamente la piena correttezza, indipendenza e libertà del proprio operato; ed anche che l’Anm difenda, fi no a prova contraria, la onorabilità di quei giudici. Ma intanto, anche il giudice Amedeo Franco ha diritto a veder rispettata la sua persona ed il tormento che egli dichiara averlo portato a compiere un gesto così inusitato e grave, prima di essere crocefisso e lapidato post mortem. E soprattutto, dalla voce politica della magistratura associata ti aspetteresti almeno qualche riflessione in più, nella consapevolezza del generale sentimento di verosimiglianza che suscita quel racconto, in attesa che ne sia appurata con certezza la verità. Cioè una riflessione sullo stato della credibilità della giurisdizione agli occhi della pubblica opinione, con particolare riferimento alle sue due connotazioni fondamentali: l’indipendenza dalla politica, e l’indipendenza della magistratura giudicante dalla magistratura inquirente (che è poi, se andiamo a stringere, il caso che ci occupa). Mi chiedo a chi possa essere utile ignorare con tanta iattanza la diffusa ed anzi crescente sfiducia della pubblica opinione, confermata senza eccezioni da ogni possibile sondaggio, nella tenuta di questi due requisiti fondativi della credibilità della giurisdizione. E invece, la presa di posizione inutilmente tonitruante di Anm sulla vicenda sembra né più né meno che la premessa in fatto delle querele già legittimamente annunciate dal Presidente di quel Collegio. Atteggiamento ancora più allarmante, viste le acque procellose nelle quali già da tempo naviga la magistratura italiana, e dalle quali non credo potrà trarsi in salvo né riducendo la cosiddetta “vicenda Palamara” ad un fenomeno di scarsa etica professionale di un gruppetto di magistrati deviati, né adoperandosi per quella che già si annuncia come la più gattopardesca ed inutile delle riforme ordinamentali. Naturalmente, non occorre per forza pensarla come noi penalisti. Noi, lo sapete, siamo persuasi che l’indipendenza politica e culturale della giurisdizione non possa e non debba essere rimessa né alle virtù etiche e professionali del singolo magistrato, né alla fantomatica “cultura della giurisdizione” (che è poi il minimo sindacale che devi pretendere da un magistrato). Quanto sia illusoria questa strada è oggi sotto gli occhi di tutti. Noi pensiamo che quella indipendenza debba essere scritta negli assetti ordinamentali: indipendenza della Magistratura dal potere esecutivo, indipendenza del Giudice dagli Uffici di Procura. Non siete d’accordo? Proponete delle alternative serie con le quali confrontarsi, ma abbandonate una volta per tutte abiure e faziosità, e soprattutto aprite gli occhi sulla realtà, ascoltate cosa pensa di voi la pubblica opinione, anche in parte ingiustamente ed ingenerosamente, come sempre accade tuttavia nel giudizio popolare. A noi sta a cuore la credibilità della giurisdizione almeno quanto sta a cuore a voi. Vogliamo che il nostro giudice non solo sia indipendente dalla Politica e dal peso condizionante della Pubblica Accusa, ma che soprattutto lo appaia, restandone garantito ed anzi blindato dall’assetto ordinamentale, perché nessuno possa mai dubitarne. La voce registrata del giudice Amedeo Franco racconta fatti la cui veridicità dovrà necessariamente essere accertata: ma se pensate che basti un fiume di indignazione e di ostentato stupore a renderla inverosimile, ho davvero l’impressione che stiate da tempo - come si suole dire - guardando un altro film. Mio padre, vittima della terribilità di certa antimafia di Gianfranco Lena Il Riformista, 4 luglio 2020 Prelevato da casa in manette tra le telecamere e i flash. Lessi l’ordinanza e pensai: se possono arrestarti per questo, può toccare a tutti. Di Matteo chiese 9 anni per associazione mafiosa: fu assolto con formula piena. Quando l’incredibile si interseca con la realtà è allora che nascono storie come questa che ha coinvolto mio padre, in prima persona. Raccontarla non è semplice per me ma penso sia doveroso farlo. È sempre stato un uomo libero, Francesco Lena. Libero nel fare impresa, libero da legami equivoci, libero di realizzare quello in cui ha sempre creduto anche lontano da casa sua. Oggi è ancora più libero. Tre sentenze di assoluzione con formula piena “per non aver commesso il fatto”. Adesso anche il decreto della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che gli ha restituito l’azienda nella quale crede come una sua “creatura”. In tutto 2.860 giorni di calvario giudiziario che non si dimenticano facilmente. Non si dimenticano i titoli della grande stampa a poche ore dall’arresto, non si dimenticano tutti coloro che, fi no al giorno prima amici fidatissimi, sono scappati come i topi di una nave che affonda. Era un giovedì quel 10 giugno 2010, quando venne prelevato, all’alba e costretto in manette, dalla sua villa con le telecamere ed i flash in faccia. Ricordo il telefono che squillò alle 6 del mattino e l’espressione sul volto di mia moglie quando mi passò la cornetta. Ricordo la girandola di voci, telefonate, la lettura di tutte le pagine dell’ordinanza d’arresto seduto in cucina e la mia esclamazione finale: se possono arrestarti per questo allora domani tutti possiamo essere arrestati. Una vicenda che ricorda, con le dovute proporzioni, quella di Enzo Tortora. L’ingegnere, così lo chiamano per la laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Princeton, ripensando alla gogna mediatica subita abbozza un sorriso: “Non mi lamento. A Tortora è andata peggio. E continua: Voglio raccontare la verità. Perché io sono innocente. Anzi, di più: sono una vittima”. Una vittima di certa antimafia. Le accuse mossegli sono condensate nell’inchiesta “Mafia e appalti” I Pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo ritengono che i suoi soldi siano sporchi. Il Gip firma il provvedimento di custodia cautelare. Il riassunto mette i brividi. Lena elemento organico della famiglia mafiosa del quartiere palermitano dell’Uditore. Lena in società con Salvatore Lo Piccolo. Lena prestanome di Bernardo Provenzano. Tutto ha avuto inizio quel maledetto 10 giugno del 2010, racconta Francesco Lena. Alle quattro del mattino, bussano: Polizia, siamo qui per lei, si tratta di mafia. Mia moglie Paola sorride: state scherzando? E l’agente: non c’è niente da ridere. Mi sentivo come se quell’assurda esperienza stesse accadendo a un’altra persona. Prima mi portano al Pagliarelli, in isolamento. Poi vengono a prendermi. Riprende la descrizione di quelle ore. Mi trovo alla presenza del pm Nino Di Matteo, che fi no ad allora non avevo mai sentito nominare. Questi inizia a pormi le sue domande. Spiego da dove vengono i miei soldi. Spiego che quei mafiosi che parlano di me nelle intercettazioni, io non li conosco. Del resto, questi personaggi parlano sì di me ma non parlano mai con me. E poi Salvatore Lo Piccolo che afferma il Pm sia stato mio socio. Non è il boss, ma un omonimo nato ad Agrigento nel 1912! Ci sono anche gli atti di compravendita di alcuni terreni a Palermo fatti proprio con i suoi eredi. Finito il racconto, il Pm si alza e dice: Non mi convince. Mi crolla il mondo addosso. Finiscono i giorni del Pagliarelli, ecco i domiciliari ed il processo. Alla vigilia della prima udienza, l’11 luglio 2011, il sindaco di Castelbuono, Mario Cicero (all’epoca del Pd, poi transitato in Sel), gli revoca la cittadinanza onoraria. Il processo di primo grado, svolto con il rito abbreviato, è agli sgoccioli. Il 19 settembre 2011 il Pm, che ha abbandonato il profilo della contestazione dell’aver fatto parte della famiglia mafiosa di Uditore, chiede 9 anni di reclusione per associazione mafiosa, oltre alla confisca dell’azienda. Rimasi sereno - riprende - il Gup mi guardò negli occhi. Ecco un uomo che mi tratta da uomo. La sentenza è di assoluzione. Assoluzione in Appello. Sigillo definitivo dalla Cassazione che chiosa nelle motivazioni definendo il processo di Appello “una doppia conforme” del processo di Primo grado. La voglia di ritornare alla guida del timone è tanta: Santa Anastasia deve essere il futuro per i giovani del paese. Il riferimento è al procedimento che si è concluso alla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, azzerata dopo lo scandalo che ha coinvolto i giudici che ne facevano parte e in particolare il suo ex presidente Silvana Saguto. Dopo 8 anni di amministrazione giudiziaria, l’Abbazia - che produce vini fra i migliori in Sicilia, come il pluripremiato Litra - si trova in grande sofferenza economica. Mio padre non può risolvere da solo la crisi. Non può avere accesso al credito bancario perché nel frattempo la Procura ha impugnato il dissequestro e il processo di appello è ancora in corso. E pensare che, durante l’amministrazione giudiziaria, in Abbazia si tenevano dei corsi di “alta formazione” per amministratori giudiziari: “Summer school”, li chiamavano, un nome sofisticato per nascondere delle vere e proprie messe in scena autocelebrative di una certa antimafia. Oggi l’Abbazia è diventato il luogo del riscatto imprenditoriale e civile. Qui si sono svolti due convegni del Partito radicale e di Nessuno tocchi Caino all’insegna dell’antimafia sciasciana, quella non della terribilità ma del diritto. “Historia magistra vitae”. Doveva tornare in cella, Mesina in fuga a 78 anni di Alberto Pinna Corriere della Sera, 4 luglio 2020 Graziano Mesina in fuga, ma non è un’evasione delle sue. Stavolta il (fu) re del Supramonte non ha accettato l’ennesima condanna - 30 anni in Cassazione - ed è irreperibile. I carabinieri non l’hanno trovato in casa della sorella dove erano andati per notificargli la sentenza e accompagnarlo in carcere. “Graziano non c’è”. Irreperibile, e ora ricercato da decine di pattuglie in Barbagia e perquisizioni a Orgosolo, paese diviso tra chi afferma, come il sindaco Dionigi Deledda “ci dispiace, ma la giustizia deve fare il suo corso”, e chi a mezza voce protesta: “è ormai vecchio, che lo lascino in pace”. Dopo mezzo secolo il mito del bandito gentiluomo resiste ancora, pur incrinato da una sentenza definitiva per associazione per delinquere e traffico internazionale di stupefacenti, e sopravvive anche a un uomo che non è più lui, appesantito da anni e acciacchi. A 78 anni, non è più scattante e spavaldo come quando si vantava: “Con la mitragliatrice avrei potuto abbattere l’elicottero del Presidente”; non può darsi alla latitanza come allora, fra boschi e dirupi del Supramonte. E infatti si sussurra di trattative già in corso per convincerlo a consegnarsi, con la promessa di evitare la reclusione in un istituto di massima sicurezza e lontano dalla Sardegna. “Arriva la biada? È di buona qualità?”, diceva intercettato. Cocaina, linguaggio cifrato. “Era foraggio per i miei amici pastori” si è difeso. Invano: 30 anni in primo grado, Appello e Cassazione. Capo, hanno scritto i giudici, di una banda di 25 persone, sotto la copertura di un’attività insospettabile: guida turistica sul Supramonte. Undici fratelli, una madre matriarca, più anni in carcere, 45, che da uomo libero. Quattordicenne spericolato, primo arresto per armi, poi la condanna a 24 anni (“Ho dovuto uccidere chi aveva ammazzato mio fratello”), le evasioni: qualcuno ne conta 22, ma fra tentate e riuscite sono 12. Dal treno, dall’ospedale, dalle carceri di Sassari e Lecce. E i rapimenti, una decina. Con contorni rosa e giallo. Le centinaia di lettere di donne invaghite, il permesso premio con fuga d’amore. I misteri del rapimento di Farouk Kassam: trattò lui la liberazione? Pagò con soldi dei Servizi? Coni quali una certa familiarità l’aveva dai tempi in cui disse no a Giangiacomo Feltrinelli, che gli offriva il comando “militare” per un progetto di una Sardegna indipendente e comunista. Nel 2004, dopo la grazia del Presidente Ciampi, giurò: “Cambio vita”. Da bandito a candidato al Grande Fratello, reality, libri scritti a più mani. Dal 2019 a ieri ha assaporato un anno di libertà, per decorrenza dei termini. Ma il passato a volte ritorna e come mezzo secolo fa le sue foto segnaletiche viaggiano nei rapporti di polizia: ricercato. La Carta dei diritti Ue utilizzata dalle Corti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 luglio 2020 Il testo non viene invece tenuto in considerazione dai legislatori. I giudici dei Paesi membri dell’Unione Europea utilizzano sempre di più la Carta dei diritti fondamentali, ma non i legislatori. Questo è il dato che emerge dal recente rapporto annuale che monitora i progressi nell’applicazione della Carta. Si fa l’esempio della sentenza della Corte costituzionale tedesca che ha utilizzato la Carta come parametro di costituzionalità. Il dato dolente, invece, è che i legislatori - a differenza dei giudici - non prendono in esame, con la dovuta attenzione, la Carta durante l’iter legislativo finalizzato all’adozione di nuovi testi normativi. La Carta serve per tutelare i diritti dei cittadini europei e grazie alla sua visibilità e chiarezza che conferisce ai diritti fondamentali, essa contribuisce a creare la certezza del diritto nell’Ue. Ma cosa contiene? Comprende un preambolo introduttivo e 54 articoli, suddivisi in sei capi: dignità (dignità umana, diritto alla vita, diritto all’integrità della persona, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, proibizione della schiavitù e del lavoro forzato); libertà (diritto alla libertà e alla sicurezza, rispetto della vita privata e della vita familiare, protezione dei dati di carattere personale, diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, libertà di pensiero, di coscienza e di religione, libertà di espressione e d’informazione, libertà di riunione e di associazione, libertà delle arti e delle scienze, diritto all’istruzione, libertà professionale e diritto di lavorare, libertà d’impresa, diritto di proprietà, diritto di asilo, protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione); uguaglianza (non discriminazione, diversità culturale, religiose e linguistica, parità tra uomini e donne, diritti del bambino, diritti degli anziani, inserimento dei disabili); solidarietà (diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa, diritto di negoziazione e di azioni collettive, diritto di accesso ai servizi di collocamento, tutela in caso di licenziamento ingiustificato, condizioni di lavoro giuste ed eque, divieto del lavoro minorile e protezione dei giovani sul luogo di lavoro, vita familiare e vita professionale, sicurezza sociale e assistenza sociale, protezione della salute, accesso ai servizi d’interesse economico generale, tutela dell’ambiente, protezione dei consumatori); cittadinanza (diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali, diritto ad una buona amministrazione, diritto d’accesso ai documenti, Mediatore europeo, diritto di petizione, libertà di circolazione e di soggiorno, tutela diplomatica e consolare) e infine la giustizia: il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, presunzione di innocenza e diritti della difesa, principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene, diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato. Lavoro a domicilio penitenziario, la spallata del Tribunale di Padova di Ornella Girgenti Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2020 Con la sentenza n. 242 del 18 giugno 2020 il Tribunale del Lavoro di Padova, a quanto consta in assenza di precedenti, si è occupato della qualificazione del rapporto di lavoro di un detenuto inquadrato come lavoratore a domicilio ritenendo sussistente nei fatti la «subordinazione piena, riconducibile alla fattispecie dell'art. 2094 c.c.» (così in sentenza) e la conseguente illegittimità del pagamento a cottimo. Precisamente il giudizio ha avuto riguardo ad un detenuto dipendente di una cooperativa sociale che operava all'interno del carcere di Padova (in virtù di specifiche e legittime convenzioni con l'amministrazione penitenziaria), in aree specificamente adibite e organizzate, gestendo in appalto il call center dedicato alla prenotazione di prestazioni e visite specialistiche dell'azienda sanitaria locale, mediante utilizzo di personale detenuto quale operatore telefonico pagato a cottimo (determinato sulla base del «numero dei contatti», così in sentenza). Nel nostro ordinamento la disciplina del lavoro a domicilio penitenziario si ricava dal complesso coordinamento di normative penitenziarie (per la verità meri accenni contenuti nel D.P.R. n.230/2000, cd. Legge Smuraglia, artt. 47, co. 10, e 52; art. 19, co. 6 e 7, L. n. 56/1987 "Norme sull'organizzazione del mercato del lavoro") e disposizioni civilistiche contenute nella L. n. 877/1973 "Norme per la tutela del lavoro a domicilio". Quest'ultima fornisce una regolamentazione generale che non tiene in alcun conto delle peculiarità della realtà detentiva. In particolare, la L. n. 877/73 individua, quale elemento distintivo dello schema contrattuale che disciplina, il luogo di svolgimento della prestazione che coincide con il «domicilio o locale di cui abbia la disponibilità» (cfr. art. 1). In ambito carcerario non esistono ambienti nella disponibilità del detenuto e oltretutto l'accesso ai locali e i tempi di permanenza nei medesimi sono determinati dall'amministrazione penitenziaria con il regolamento interno ex art. 36 D.P.R. 230/2000. Non solo. Nel caso deciso dal Giudice di Padova il recluso, lavoratore a domicilio, operava alle dipendenze di un soggetto terzo (la cooperativa sociale) in locali interni concessi in comodato d'uso al privato datore di lavoro ex art. 47 d.P.R. 230/2000 (cfr. sentenza: «non è contestato che i capannoni fossero dati in comodato dall'amministrazione carceraria alla cooperativa convenuta»). Altro elemento qualificante il lavoro a domicilio è la libera gestione del tempo della prestazione con conseguenti deroghe all'applicazione della disciplina dell'orario di lavoro (cfr. art. 17, co. 5, lett. d, D. Lgs. n. 66/2003 in tema di orario normale e durata massima, lavoro straordinario, riposo giornaliero, pause e lavoro notturno). Il recluso è privo di questa libertà temporale giacché «gli orari relativi all'organizzazione della vita quotidiana della popolazione detenuta o internata» sono decisi dall'amministrazione penitenziaria. Oltretutto, nel caso deciso dal Giudice di Padova, considerando che l'attività "a domicilio" si inserisce in un ciclo produttivo (quello proprio di un call center) e deve con esso coordinarsi, il datore di lavoro aveva un ruolo determinante nella determinazione dei tempi di lavoro (cfr. sentenza: «Non è contestato ... che gli orari dei turni fossero predeterminati e variabili, affissi giornalmente e poi settimanalmente»). Infine, altra peculiarità del lavoro a domicilio è il fatto che l'esercizio dei poteri di direzione, controllo e disciplinari sono meno intensi di quelli propri della fattispecie ex art. 2094 c.c. stante l'assenza di un coordinamento spaziale e temporale con l'attività di impresa. Al contrario, nel caso oggetto della sentenza in commento il controllo da parte del datore di lavoro è risultato tutt'altro che affievolito (cfr. sentenza: «non è contestato infatti che ... la cooperativa convenuta provvedeva ad organizzare il lavoro anche mediante propri supervisori; che il lavoro fosse controllato in tempo reale tramite un collegamento informatico con l'azienda sanitaria»). Tali aspetti hanno portato il Giudice a ritenere il lavoro a domicilio penitenziario svolto dal ricorrente riconducibile al genus "lavorazioni interne organizzate e gestite da imprese pubbliche, private e cooperative sociali", qualificandolo come rapporto di tipo subordinato puro. Da qui la conseguente dichiarazione di illegittimità della retribuzione a cottimo, «inferiore e aleatoria, produce un effetto ablatorio di un diritto retributivo riconosciuto dalla contrattazione collettiva nazionale» (così in sentenza). Si tratta di una decisione coerente con gli elementi di fatto acquisiti in giudizio che non tiene in alcun conto però dell'estremo grado di incertezza regolamentare che connota la tipologia contrattuale utilizzata dalla cooperativa convenuta in accordo con l'amministrazione carceraria e che sembra muovere dal presupposto errato che il ricorso a tale tipologia sia dettato unicamente da finalità illecite, date dal risparmio sulla retribuzione a tempo. Milano. La rivolta dei detenuti a San Vittore, Procura: “Fu un piano criminale” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 4 luglio 2020 A 12 detenuti è stato notificato l’avviso di chiusura delle indagini con le accuse di sequestro di persona, devastazione e saccheggio, lesioni personali e rapina. Appena sprofondata nel clima pesante del lockdown, Milano rimase con il fiato sospeso per l’intera giornata del 9 marzo mentre decine di detenuti devastavano alcuni raggi di San Vittore fermandosi solo dopo l’intervento e il lungo lavoro di mediazione tessuto da magistrati e direzione. Ora la Procura di Milano chiude l’inchiesta nei confronti di 12 detenuti, 5 italiani e 7 nordafricani, accusati di devastazione e di aver tenuto sotto sequestro tre agenti, di averli rapinati e minacciati di morte. Come in molte altre carceri italiane, la rivolta era partita da una protesta contro le restrizioni imposte dal Coronavirus ai colloqui con i parenti e alla ricezione dei loro pacchi e contro il sovraffollamento (in quel momento a San Vittore c’erano 1.100 detenuti per 700 posti disponibili) e il rischio dello scoppio di un focolaio. Poi la protesta, come nelle altre carceri, aveva preso una piega diversa che a molti sapeva di un piano preordinato da attuare sfruttando la paura della pandemia, con i detenuti che, saliti sui tetti, chiedevano l’indulto o l’amnistia e gli autonomi a dare man forte e solidarietà dall’esterno. Dentro, invece, a decine distruggevano i reparti e saccheggiavano le infermerie. Qualche detenuto tossicodipendente che era riuscito a rubare del metadone verrà ricoverato in fin di vita in ospedale per overdose, ma in altri istituti di pena ci sono stati morti per la stessa causa. Le proteste e le devastazioni terminarono solo dopo l’intervento del procuratore aggiunto Alberto Nobili e del pm di turno Gaetano Ruta che raggiunsero il tetto su un cestello di una gru dei vigili del Fuoco per parlare con i manifestanti, mentre all’interno il presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa e il direttore Giacinto Siciliano incontravano i meno irrequieti. Difficili le indagini su quello che è accaduto nei raggi. Il sostituto procuratore Paola Pirrotta ha chiuso il cerchio attorno ai 12 detenuti per le devastazioni e le aggressioni ai tre agenti di custodia i quali hanno vissuto momenti di vero terrore. Secondo il pm, che si appresta a chiedere il processo, la rivolta seguì un “unico progetto criminoso”. Tre detenuti sono accusati di aver aggredito e tentato di bloccare un agente al quarto piano dopo avergli strappato di mano le chiavi delle celle urlando “prendiamo le spranghe e uccidiamoli”. Per altri due l’accusa è di aver rinchiuso per una mezzora un agente in un ufficio del terzo piano urlando “ammazziamolo, ammazziamolo”, dopo avergli rapinato chiavi, radio ricetrasmittente e cellulare. Più grave l’aggressione al terzo agente che, anche lui rapinato di chiavi, radio e telefono, è stato minacciato da quattro reclusi con una lametta puntata alla gola. L’accusa di devastazione riguarda solo cinque detenuti, gli unici identificati con certezza tra coloro che hanno distrutto San Vittore. Napoli. Poggioreale non può più aspettare, va sbloccato il restyling di Viviana Lanza Il Riformista, 4 luglio 2020 “Il progetto che è passato in comitato necessita di un aggiornamento dal punto di vista della vulnerabilità sismica. Noi abbiamo appaltato questa indagine e si concluderà a brevissimo. Comunque non tutti i pareri sono pervenuti, manca quello della Sovrintendenza”. Così il provveditore interregionale alle Opere pubbliche, Giuseppe D’Addato, risponde a proposito delle sorti dei dodici milioni di euro stanziati circa tre anni fa dal Ministero delle Infrastrutture per procedere ai lavori di ristrutturazione di quattro padiglioni del carcere di Poggioreale e a proposito dei tempi che ancora ci vorranno per poter passare dalle parole ai fatti. Il perché di una così lunga attesa ancora non è chiaro. D’Addato ha assunto la guida del Provveditorato interregionale, che ha competenza per Campania, Molise, Puglia e Basilicata, da circa un anno e mezzo: “Non so quello che è successo prima”, precisa. Ma racconta che il Provveditorato si è attivato per accelerare i tempi della pratica, rimasta per anni sospesa nei meandri di iter e passaggi burocratici. Una lettera con una relazione è stata inviata nei giorni scorsi ai vertici dell’amministrazione penitenzia, al Ministero della Giustizia e al Ministero delle Infrastrutture. Una svolta potrebbe arrivare a breve. “Penso due mesi e mezzo, tre al massimo - ragiona D’Addato. A causa dell’emergenza Covid siamo stati fermi, ma da parte nostra lentezze non ce ne sono. E poi questo aggiornamento sulla vulnerabilità sismica deve essere fatto. In carcere dovranno mettere a disposizione varie zone per fare perforazioni e tutto quello che serve”. Bisognerà recuperare tutto il ritardo accumulato in questi anni. Dodici milioni di euro sono una cifra importante, che consentirebbe di fare più di un restyling dei padiglioni. Basti pensare che un singolo padiglione di Poggioreale ha quasi lo stesso numero di detenuti di un carcere di provincia. I padiglioni da ristrutturare con i fondi decisi tre anni fa dal Ministero delle Infrastrutture, quando il ministro era Del Rio, sono quattro, i più antichi dell’istituto. Sono il Napoli, il Milano, il Salerno e l’Avellino, padiglioni dove sono reclusi recidivi, detenuti accusati di reati comuni, quelli in alta sicurezza e detenuti tossicodipendenti. Sono celle in cui si arriva a stare anche fino a nove in una stanza. Ogni padiglione conta in media dai 250 ai 380 reclusi. Molti di più di quelli che ospita l’intero carcere di Arienzo, che conta 80 reclusi, e quasi quanto quelli dell’intero carcere di Benevento o di Ariano Irpino, che oscillano tra i 300 e i 400 detenuti. L’operazione di ristrutturazione dei quattro grandi e antichi padiglioni del carcere di Poggioreale sarà, quindi, un’opera imponente, e non solo per i grandi numeri che coinvolge. Non si tratterà, o almeno non dovrebbe trattarsi, solo di rimettere a nuovo stanze fatiscenti, con pareti piene di muffa e umidità, fili elettrici scoperti, servizi igienici senza porte. Nel carcere di Poggioreale, il più grande e affollato d’Italia, occorrerebbe fare anche altro. Creare spazi, soprattutto. Spazi verdi, spazi per attività di rieducazione, spazi per gestire meglio la salute mentale e fisica dei reclusi. “In un piano si potrebbe realizzare un teatro”, propone il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, che nelle scorse settimane aveva segnalato quei dodici milioni di euro fermi da anni riaccendendo così l’attenzione sui finanziamenti destinati al carcere. “Ristrutturare i padiglioni significa modificare i casermoni che sono adesso, non si tratta di offrire privilegi ai detenuti ma un minimo di abitabilità”, spiega Ciambriello. Intanto ieri, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, un centinaio di detenuti fra donne e uomini dei reparti di alta sicurezza ha protestato contro la sospensione dei colloqui online con i familiari e della sorveglianza dinamica concessi loro durante l’emergenza Covid. E la tensione nel carcere casertano è tornata di nuovo altissima. Napoli. Nisida, l’isola dei gabbiani e del carcere minorile di Francesca Spasiano Il Dubbio, 4 luglio 2020 “Quando esci devi avere una possibilità, altrimenti ti perdi un’altra volta”. Il venerdì a Nisida è il giorno del barbiere. Quando arriviamo nel carcere minorile napoletano i ragazzi del laboratorio pizzeria hanno appena mollato impasto e farina sul bancone per correre a tagliarsi i capelli. Averli sempre in ordine è la seconda cosa per loro più importante, la prima è rassettare e tenere pulita la cella nei reparti. L’odore forte del detersivo è più ingombrante dei due letti e il comodino che compongono la stanza. Una mandata, due mandate: la grossa chiave dorata che apre la porta blindata allarga la vista che dallo spioncino per la “conta” si ripete sempre uguale lungo tutto il corridoio. Da dentro, tra le sbarre in ferro della grossa finestra accanto al bagno, si vede il mare: “uno spettacolo, ma anche la più grande sofferenza”, confessa uno dei ragazzi che incontriamo. Nisida è l’isola dei gabbiani e della reclusione. Un paesaggio irripetibile sottratto alla natura per accogliere la cosiddetta “devianza giovanile” tra le mura della vecchia prigione borbonica dove si racconta che Bruto avesse ordito la congiura contro Cesare. Dopo l’emergenza sanitaria da Covid 19, il numero di detenuti si è ridotto a 28: quasi tutti “giovani adulti” tra i 18 e i 25 anni che non hanno avuto accesso a misure alternative, di loro solo quattro sono donne confinate nella sezione femminile. La struttura ne può accogliere fino a settanta, per una media di cinquanta: compresa la sezione della semilibertà, che ospita i ragazzi appena fuori dal cancello sorvegliato che delimita la zona di detenzione vera e propria. “Qua si soffre bene o si soffre male: quando soffri male esci peggiore di quando sei entrato”. Sono le parole di Salvatore, 21 anni, nato e cresciuto nel quartiere Santa Lucia di Napoli. Arrestato per la prima volta a 16 anni, ha già passato in carcere quasi quattro anni tra Airola e Nidisa, il più grande tra gli Istituti minorili che ospita ragazzi da tutto il Sud Italia. Per lui la sofferenza “è stata buona”, gli ha permesso di capire che “cos’è la vita”. Della sua condanna gli restano da scontare altri tre anni e qualche mese, “forse meno”, si augura. Dentro Nisida ha imparato a fare il pizzaiolo e sogna di aprire un locale tutto suo. “Solo chi sta in galera può capire certe cose, voi non potete neanche immaginare. In carcere non si sta bene, e chi dice che qua si sta bene, mente. La libertà non ha prezzo”, comincia a raccontare. La distanza tra “noi e voi” nella sua voce è più pesante del sole rovente che ci picchia sulle spalle. Quando è entrato in carcere Salvatore aveva solo la licenza media, una famiglia “perbene” alle spalle e troppe cattive conoscenze. “Abitare a Napoli è difficile spiega - perché il quartiere di appartenenza ti trascina a fare brutte cose. Ti trovi in situazioni in cui non ti devi trovare: ma a pagare le conseguenze siamo solo noi, sprecando gli anni migliori della nostra vita”. Da un anno esce in permesso premio e quando accade ha l’unico desiderio di fumare una sigaretta da “uomo libero” e scegliere la pietanza da mangiare. “In galera non ci voglio tornare più - assicura. Prima vivevo alla giornata, adesso voglio solo lavorare e realizzarmi. Per me adesso un futuro migliore significa costruire una famiglia, tornare a casa la sera e starmene tranquillo”. “Qui mi sono civilizzato”, dice elencando tutte quelle regole - “troppe” - che scandiscono le giornate tutte uguali nel penitenziario, tra un’attività trattamentale e una partita a calcio. Sulla copertina di un libro spiegazzato sul comodino leggiamo: “Voglia di libertà”, di Anne Saraga. Per Salvatore, da quando ha raggiunto il padiglione “premiale”, la cella è un poco meno stretta, il futuro un poco più a portata. Forse a Napoli, forse in Spagna, come lascia immaginare una cartolina di Ibiza incollata alla parete. “Io mi sento pronto per uscire, secondo me non ho più bisogno di stare qui. Adesso ho un progetto. Credo che la legge sia troppo severa: a un ragazzo che deve scontare dieci anni gli hai fatto capire la pena? L’hai solo ucciso. Per capire di aver sbagliato ci vuole tempo, ma quando ti senti pronto devi uscire”. Secondo lui a salvarsi dopo il carcere su cinquanta detenuti sono a malapena due. Altri ragazzi che come lui scontano la pena a Nisida non hanno alcuna scelta. Senza una famiglia alle spalle, ad attenderli fuori è soltanto la criminalità: “dopo un percorso in istituto devi avere una possibilità, altrimenti ti perdi un’altra volta. Lì fuori non c’è più nessuno ad aiutarli”. Livorno. Frescobaldi sostiene i detenuti con l’ottava vendemmia di “Gorgona” di Andrea Cianferoni affaritaliani.it, 4 luglio 2020 Il progetto sociale di Frescobaldi è iniziato nel 2012 in collaborazione con la Casa di reclusione presente sull’isola toscana della Gorgona. Il progetto Gorgona nasce ad agosto 2012 grazie alla collaborazione tra Frescobaldi e Gorgona, unica isola-penitenziario in Europa. Qui i detenuti trascorrono l’ultimo periodo di pena, lavorando a contatto con la natura per sviluppare professionalità che facilitino il reinserimento nella realtà lavorativa e sociale. Frescobaldi sostiene i detenuti attraverso il loro reinserimento sociale con il progetto Gorgona, il cui obiettivo è permettere ai detenuti di fare un’esperienza concreta e attiva nel campo della viticoltura, con la collaborazione e la supervisione degli agronomi ed enologi Frescobaldi. Gorgona Rosso vede la luce con la vendemmia 2015, da alcuni filari di Sangiovese e Vermentino Nero, coltivati in agricoltura biologica ed affinati poi in Orcio in terracotta. Oggi il vigneto ha un’estensione di quasi due ettari e mezzo, di cui uno iniziale ed un secondo impiantato nel 2015. Da questo vigneto di Vermentino e Ansonica nasce Gorgona, frutto dell’unicità del luogo, del lavoro dell’uomo e simbolo di speranza e libertà. Con la supervisione degli agronomi e degli enologi di Frescobaldi, i detenuti hanno riportato a produzione e coltivato un ettaro di vigneto sull’isola, a cui si è aggiunto negli anni 1,3 piantati da Frescobaldi. Ogni anno l’attesa è grande per scoprire e degustare a giugno il CRU nato sull’ultima isola carcere in Italia istituita nel 1869. Vermentino e Ansonica che dalla vendemmia 2012 viene prodotto insieme ai detenuti della colonia penale che in cambio chiedono il sogno di un’altra possibilità per riavvolgere il nastro della propria vita: imparare un mestiere, passare il tempo in modo proficuo, credere nel domani. Un vino “attraente e selvaggio”, che sa di riscatto, intriso di speranza e voglia di rivalsa che è un tripudio di emozioni. La stagione 2019 sull’isola di Gorgona è stata caratterizzata da un inverno con precipitazioni al di sotto delle medie stagionali. Tali precipitazioni si sono intensificate durante il periodo primaverile, in particolar modo durante il mese di maggio, che è stato fresco e mite al contempo. I mesi di giugno, luglio ed agosto sono risultati caldi con isolati piovaschi ben collocati per scongiurare rischi di stress idrico per la vite. Le uve sono maturate perfettamente e sono arrivate sane al momento della vendemmia. Vendemmia che è cominciata con la raccolta del Vermentino nella prima settimana di un settembre, che si è distinto per una bellissima escursione termica giorno-notte, ideale per una maturazione lenta ed ottimale; stesso motivo per cui le uve di Ansonica sono state vendemmiate durante l’ultima settimana del mese. “Siate orgogliosi, dentro ogni bottiglia c’è la vostra fatica e la vostra voglia di riscatto” - sottolinea il marchese Lamberto Frescobaldi - “Questo progetto mi rende ogni anno sempre più orgoglioso, qui a Gorgona nei profumi e nei sapori c’è tutto: l’amore per l’isola, la cura e la passione dell’uomo, l’influenza del mare e l’ambiente straordinario che danno vita a un vino inimitabile ed esclusivo simbolo di speranza e libertà. In una parola c’è ‘l’Essenza’ di questa terra e di un progetto che non finisce mai di regalare emozioni” Gorgona 2019, attraente e selvaggio al contempo, si distingue per un color giallo paglierino carico e luminoso, con brillanti riflessi dorati. Il suo è un bouquet complesso ed ampio ma mai invadente. Aprono le danze note di frutta a polpa bianca; seguono immediatamente quelle sensuali ed avvolgenti di erbe aromatiche tipiche dell’isola come il rosmarino e l’elicriso. La presenza del mare, oltre ad esaltare la componente aromatica, conferisce al vino una spiccata mineralità e freschezza. Incredibilmente armonioso risulta l’equilibrio tra acidità e sapidità, così come straordinario l’ingresso… morbido ed avvolgente. Il finale è persistente ma sempre di un’eleganza suadente. Anche l’etichetta è speciale ed esclusiva, chiusa per ricordare l’inaccessibilità dell’isola e una volta aperta svela tutta la sua bellezza. Vuole essere una “edizione straordinaria” in modo da raccontare ogni anno un aspetto differente dell’isola. L’etichetta di Gorgona 2019 ne descrive la biodiversità marina, trovandosi l’isola in mezzo al Santuario di Pelagos: una meravigliosa area marina nata dall’accordo tra Francia, Principato di Monaco ed Italia. Il piccolo tratto di mare che attornia l’isola racchiude una sorprendente e varia fauna marina ed è frequentato da quasi tutte le specie del Santuario dei Cetacei; dalle più piccole alle più grandi quali delfini e addirittura il maestoso capodoglio. La produzione di Gorgona è limitata e biologica: solo 9.000bottiglie di bianco a base di Vermentino e Ansonica. Un vino che nel giro di 7 anni ha conquistato i mercati internazionali, da New York al Giappone, e soprattutto i cuori di chi ha avuto la fortuna di assaggiarlo. A portare aventi il progetto sono stati, insieme a Frescobaldi, il tenore Andrea Bocelli, che ha voluto realizzare il testo e firmare l’etichetta della vendemmia 2013, Simonetta Doni dello Studio Doni & Associati, tra i pochissimi studi grafici internazionali specializzati nel design di etichette di vini, ogni anno partecipa donando la veste grafica del vino interpretando, con un team altamente specializzato dalla specifica sensibilità culturale e artistica, le caratteristiche che rendono unici il progetto e la sua isola, Giorgio Pinchiorri, patron dell’Enoteca Pinchiorri, uno dei ristoranti italiani più conosciuti al mondo, Argotractors, società del Gruppo Argo nata nel 2007 con l’obiettivo di creare un polo trattoristico di valenza mondiale, ha donato un trattore da vigneto per le attività da svolgere sull’isola. Bologna. Torna la radio per i detenuti dire.it, 4 luglio 2020 Da oggi parte la seconda edizione estiva di “Liberi dentro-eduradio”, programma radiofonico di didattica, cultura e informazione rivolto ai detenuti del carcere Dozza di Bologna, ma anche alla cittadinanza. La radio come mezzo per sentirsi liberi, anche dietro le sbarre del carcere. Da domani parte la seconda edizione estiva di “Liberi dentro-eduradio”, programma radiofonico di didattica, cultura e informazione rivolto ai detenuti del carcere Dozza di Bologna, ma anche alla cittadinanza. La trasmissione andrà in onda fino al 18 settembre, ogni week end (sabato alle 11 e domenica alle 18) su Radio Città Fujiko 103.1 FM. Si parlerà di letteratura, galateo e lingua araba, ma anche di cinema, arti, spettacolo e consigli di lettura. Tra le novità anche il “Radiodramma” a cura de I Teatri del sacro che racconteranno della rassegna biennale dedicata a scena e spiritualità. Iniziato lo scorso aprile in piena emergenza coronavirus, il progetto di una “Radio carcere” (soprannominata così dagli stessi detenuti) è nato dal desiderio di non interrompere il servizio culturale, educativo, di assistenza spirituale portato avanti in questi anni da diverse realtà bolognesi che operano in carcere. Durante il lockdown quindi, il programma ha raccolto le voci degli insegnanti carcerari (Cpia metropolitano di Bologna), delle associazioni di volontariato (Avoc e Il Poggeschi per il carcere), dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale e di diversi rappresentanti religiosi (il Cappellano, l’Imam e il Vescovo di Bologna). Ora la trasmissione, scrive la Regione Emilia-Romagna in una nota, ha attirato l’attenzione anche di altri istituti penitenziari regionali (in particolare da parte di volontari e insegnanti operativi nelle carceri di Modena, Parma, Reggio Emilia, Faenza e Ferrara). Chieti. I detenuti nella giuria popolare del Premio Flaiano ilpescara.it, 4 luglio 2020 L’iniziativa si colloca nell’ambito del progetto “Biblioteca itinerante”, nato nel 2017 da un’idea della Casa circondariale teatina e della Fondazione Tiboni. 20 detenuti hanno votato ieri mattina. L’iniziativa si colloca nell’ambito del progetto “Biblioteca itinerante”, nato nel 2017 da un’idea della casa circondariale teatina e della Fondazione Tiboni. Soddisfazione è stata espressa dal direttore Franco Pettinelli e dall’area trattamentale che segue le iniziative specifiche insieme alla Polizia penitenziaria: “Sincero apprezzamento per l’opportunità e la volontà di progettare percorsi significativi che possano concretamente costruire, attraverso il valore della cultura, esperienze di valore e di inclusione che danno opportunità a chi, durante la pena, sta costruendo la volontà di cambiare, di nutrire la speranza che tale cambiamento sia percepito anche fuori dal carcere”. I 20 detenuti selezionati hanno votato ieri mattina, nel teatro della Casa circondariale di Chieti, presieduti dal notaio Massimo D’Ambrosio, esprimendo le loro preferenze sui tre libri finalisti nella sezione “Narrativa Giovani”. Italia post Covid-19 sempre più diseguale. Ma più coesa e civica di Massimo Franchi Il Manifesto, 4 luglio 2020 Il rapporto annuale Istat disegna un paese “sotto choc” che nella pandemia si è ritrovato unito. Allarme per scuola e lavoro. La sanità ha retto nonostante i tagli decennali. La didattica a distanza è un dramma per il Sud. Più povera, ma più coesa. L’Italia post lockdown è un paese scioccato dalla pandemia con le pesanti conseguenze economiche che hanno però risvegliato il senso civico e solidale in buona parte della popolazione. È il quadro che esce dal Rapporto Annuale 2020 dell’Istat che quest’anno per evidenti motivi ha dovuto aumentare le ricerche e il risalto al primo semestre dell’anno in corso, lasciando sullo sfondo l’anno passato. Il secondo rapporto presentato dal presidente di nomina leghista Gian Carlo Blangiardo alla camera è caratterizzato dalla parte sul Covid-19. Accanto a dati risaputi - l’aumento della mortalità specie a marzo in Lombardia - spuntano analisi nuove: “L’incremento di mortalità ha penalizzato di più la popolazione meno istruita: il rapporto standardizzato di mortalità - che misura l’eccesso di morte dei meno istruiti rispetto ai più istruiti - è intorno a 1,3 per gli uomini e a 1,2 per le donne. L’elevato numero di decessi a causa del Covid-19 avrà un impatto anche sulla speranza di vita: “alla nascita scenderebbe a 82,11 anni (-0,87) e quella al 65° compleanno si ridurrebbe da 20,89 anni a 20,02”. E questo potrebbe avere un effetto cinicamente positivo sull’età di pensionamento visto che a fine 2021 tornerà in vigore quasi tutta intera la riforma Fornero con l’innalzamento legato all’aspettativa di vita. La ricerca Istat ha poi testato i comportamenti degli italiani durante i mesi di lockdown. “Una forte coesione è stata il segno distintivo”, con “alta la fiducia verso le principali istituzioni: in una scala da 0 a 10 i cittadini hanno assegnato 9 al personale medico e paramedico e 8,7 alla Protezione civile”. “La stragrande maggioranza dei cittadini, trasversalmente a tutto il Paese, ha seguito le regole definite, specie il lavarsi le mani (mediamente 11,6 volte in un giorno), disinfettarsele (5 volte), rispettare il distanziamento fisico (92,4% della popolazione). “Forte l’incremento alla lettura: si tratta del 62,6% della popolazione. Il 26,9% ha letto libri, il 40,9% quotidiani”. Molto interessanti i dati sulla situazione del comparto sanità al momento di affrontare la lotta alla pandemia. “Dal 2010 al 2018 il calo del personale è stato del 4,9% e ha riguardato anche medici (-3,5%) e infermieri (-3,0%)”. “L’Italia dispone di 39 medici ogni 10mila residenti, un numero sensibilmente inferiore a quello della Germania, che ne conta 42,5. Ancora più sfavorevole il confronto con il personale infermieristico: 58 per 10mila residenti contro 129”. “L’offerta di posti letto ospedalieri dal 1995 al 2018 si è quasi dimezzata: da 356mila - pari a 6,3 per 1.000 abitanti - a 211 mila - pari con 3,5 posti letto ogni 1.000 abitanti. Nell’Ue l’offerta di posti letto media è di 5,0, in Germania sale a 8. Lungo e dettagliato il capitolo sugli effetti delle chiusure delle scuole che ha portato ad “un aumento delle diseguaglianze tra i bambini: nel biennio 2018-2019 il 12,3% dei minori di 6-17 anni (pari a 850mila) non ha un pc né un tablet ma la quota sale al 19% nel Mezzogiorno. Lo svantaggio aumenta se combinato con lo status socio-economico: non possiede pc o tablet oltre un terzo dei ragazzi che vivono nel Mezzogiorno in famiglie con basso livello di istruzione”. Il 45,4% degli studenti di 6-17 anni (pari a 3 milioni 100mila) ha difficoltà nella didattica a distanza per la carenza di strumenti informatici in famiglia”. In più “il sovraffollamento abitativo in Italia è più alto che nel resto d’Europa (27,8% contro 15,5%), soprattutto per i ragazzi di 12-17 anni (47,5% contro 25,1%). “Si stima che lo shock organizzativo da Covid-19 possa aver interessato almeno 853mila nuclei familiari con figli sotto i 15 anni, tra questi nuclei, sono 581mila quelli con genitori occupati in settori rimasti attivi anche nella fase del lockdown”. Tinte fosche sul tema lavoro. Il tasso di irregolarità dell’occupazione è più alto tra le donne, nel Mezzogiorno, tra i lavoratori molto giovani: il tasso è al 23,8% in agricoltura, al 16,0% nelle costruzioni e al 13,9% nei servizi, con punte del 17,1% nel settore degli alberghi e dei pubblici esercizi, il 23,8% nelle attività ricreative e ben il 58,3% nel comparto del lavoro domestico. Nella difficile situazione economica generata dalle misure di contrasto alla pandemia: “circa 2,1 milioni di famiglie (per oltre 6 milioni di individui) hanno almeno un occupato irregolare; la metà, poco più di un milione, ha esclusivamente occupati non regolari”. In generale, “per la generazione più giovane è diminuita la probabilità di ascesa sociale: per il 26,6% dei nati nell’ultima generazione (1972-1986) l’ascensore è diventato scende verso il basso e supera, per la prima volta, la percentuale di chi sale, cioè il 24,9%: sono sempre di più i figli che hanno una condizione economica inferiore a quella dei genitori”. Il lavoro da remoto - non chiamiamolo smart working - potrebbe essere una risposta. Secondo l’Istat, dopo le esperienze del lockdown - lo potrebbero utilizzare ben “8,2 milioni di occupati (il 35,7%) con professioni che lo consentirebbero; si scende a 7 milioni escludendo le professioni per le quali in condizioni di normalità è comunque preferibile la presenza sul lavoro (ad esempio gli insegnanti)”. La caduta della natalità potrebbe subire un’ulteriore accelerazione nel periodo post-Covid. Per l’Istat “il clima di incertezza e paura produrrà un calo di 10 mila nati, ripartiti per un terzo nel 2020 e per due terzi nel 2021. La prospettiva peggiora con gli effetti dello shock sull’occupazione: i nati scenderebbero a circa 426 mila nel 2020, per poi ridursi a 396 mila nel 2021. Non diamola vinta ai nuovi intolleranti di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 4 luglio 2020 Gli aggressivi hanno capito come zittire i moderati: spaventandoli. E in Italia esiste lo stesso pericolo. Negli Stati Uniti, che oggi festeggiano il 244° compleanno, le persone ragionevoli sono in difficoltà. Gli intolleranti hanno capito come zittirle: spaventandole. L’intimidazione funziona. Se in un luogo di lavoro, in una università o in una redazione, una persona ha paura a esprimere un’opinione, l’obiettivo è raggiunto: quella persona tacerà, o parlerà d’altro. Perché rischiare gli insulti, l’ostracismo e la reputazione? Gli intolleranti utilizzano lo stesso metodo, ma hanno storie e colori politici diversi. Imperversano, da qualche anno, i conservatori d’assalto: la loro furia verbale - sul web, ma non solo - ha travolto il Partito Repubblicano e contribuito a portare Donald Trump alla Casa Bianca. Quei bellicosi populisti non arretrano neppure ora che il presidente sprofonda nei sondaggi e colleziona errori. Festeggiare il Giorno dell’Indipendenza radunando folle - ieri sera a Mount Rushmore, oggi a Washington DC - appare insensato, in un Paese che registra centomila nuovi casi Covid ogni giorno. Sulla sponda opposta, quella che gli americani chiamano liberal, aumentano i progressisti aggressivi. Movimenti come #metoo e Black Lives Matter sono nati per difendere cause nobili - la ribellione delle donne contro le molestie sessuali, il rifiuto alla persecuzione razziale - ma diventano ogni giorno più radicali. O meglio: i radicali intimidiscono tutti gli altri. Il fondamento della loro protesta sta in un atteggiamento mentale, la cosiddetta woke (consapevolezza). È la percezione di una profonda ingiustizia, che provoca una reazione durissima. Si può aderire o tacere: discutere è vietato. I nuovi intransigenti non vogliono ragionare, vogliono avere ragione. Perché tutto questo ci deve interessare? Perché quando si tratta di imitare gli americani - meccanismi, rappresentazioni, stili di vita ed eccessi - in Italia non siamo secondi a nessuno (la nostra storia musicale, commerciale, sportiva, televisiva, politica, accademica e digitale lo dimostra). La richiesta, a Milano, di rimuovere la statua di Indro Montanelli non è paragonabile, ovviamente, alla decisione di togliere la statua del presidente Woodrow Wilson dall’Università di Princeton. Ma, alla base, c’è lo stesso strabismo storico, che porta a guardare il mondo di ieri con gli occhi di oggi. La stessa volontà di ridurre un personaggio a un singolo comportamento sbagliato. E la stessa, feroce determinazione: chi obietta, è un nemico. Va rieducato o umiliato, ogni altra possibilità è esclusa. Mi scrive da San Francisco un amico liberal di vecchia data: “Gli estremi - prima a destra, ora anche a sinistra - sono rumorosi e prepotenti, e scoraggiano la partecipazione di chi vorrebbe ragionare. Quelli come me si trovano in una morsa”. In Italia non siamo a questo punto, per fortuna, ma i segnali non sono incoraggianti. Ragionevole, moderato: chi rifiuta l’estremismo viene deriso e maltrattato, a cominciare dal linguaggio. Eppure ragionevole è chi usa - prova a usare - la ragione. E moderato non significa pavido. Significa attento, sensibile, capace di considerare i diversi punti di vista. Ripetiamolo, a scanso di equivoci: Black Lives Matter e #metoo esprimono proteste sacrosante. Le donne hanno subito a lungo - subiscono ancora - umiliazioni, soprusi e ricatti sessuali, non solo negli Stati Uniti. Chi non ha la pelle bianca è vittima di discriminazioni odiose e, talvolta, di violenze: in America, in Europa, in Italia. La distinzione maschi/femmine non basta a spiegare l’umanità, ed è giusto che la società ne prenda atto. Ma, in tutti questi casi, chiedere giustizia è una cosa, esprimere foga rabbiosa è un’altra cosa. Decapitare le statue di Cristoforo Colombo è assurdo, togliere dalla circolazione Via col Vento è grottesco, demolire la memoria degli uomini che hanno costruito gli Stati Uniti d’America è offensivo (a quando la rimozione dei loro volti dalle banconote?). Aprirsi alle differenze e alle sfumature di genere è giusto; ma costringere un docente a chiedere a ogni studente “Qual è il tuo pronome?” per accertarsi della sua identità sessuale, pare eccessivo; così esordire con un avvertimento (trigger warning), nel timore che un testo letterario contenga passaggi capaci di innescare un disagio. Immaginate di studiare Omero, Dante o Shakespeare in quel modo. E un corteggiatore può essere molesto; ma non tutti i corteggiamenti comportano una molestia. Conosco il professor Pier Paolo Pandolfi: l’ho incontrato a Boston in due o tre occasioni. È - era - uno degli scienziati italiani più vicini al premio Nobel, per le sue ricerche genetiche sul cancro. È stato allontanato da Harvard e, di conseguenza, rifiutato dall’Istituto Veneto di medicina molecolare, che l’aveva ingaggiato. L’accusa è aver corteggiato insistentemente una ricercatrice alle sue dipendenze. Non ho intenzione di assolverlo o condannarlo: mi mancano gli elementi. Ma ho l’impressione che molti elementi manchino anche a quanti - fuori e dentro l’università - hanno decretato la sua condanna preventiva e la sua umiliazione. Essere moderati non significa essere complici, distratti o ignavi. Vuol dire essere calmi, cauti e lungimiranti. Tre aggettivi che i nuovi intolleranti vorrebbero trasformare in altrettanti insulti. Se non ci opponiamo, riusciranno nel loro intento. Non avranno bisogno di vincere sul campo, clamorosamente, con la forza degli argomenti. Vinceranno in silenzio. Chi potrebbe opporsi, infatti, girerà la testa, tacerà, oppure parlerà d’altro. Omotransfobia, Businarolo (M5S) blinda la legge: “Non si cambiano le definizioni” di Giovanna Casadio La Repubblica, 4 luglio 2020 L’appello della presidente della Commissione Giustizia: “L’espressione ‘identità di genere’ è consolidata nell’esperienza giuridica internazionale. Chiedo a tutti di avere soprattutto a cuore l’approvazione di una legge che metta la parola fine a crimini odiosi”. “Non credo che vada cambiata la definizione ‘identità di genere’ che sta facendo discutere. Ma alle femministe, alle associazioni Lgbtqi+, a Valeria Valente la presidente della commissione contro il femminicidio, chiedo che abbiano soprattutto a cuore l’approvazione di una legge contro l’omotransfobia che metta la parola fine a crimini odiosi”. Francesca Businarolo, grillina, 36 anni, è la presidente della commissione Giustizia della Camera alla prese con il primo round del testo che approderà in aula il 27 luglio. Presidente Businarolo, tutta questa guerra di parole - identità di genere versus identità transessuale - a cui ha dato voce tra le prime Francesca Izzo, una delle fondatrici del movimento femminista “Se non ora quando”, lei come la giudica? Teme sia un assist a Salvini e alla destra per impantanare di nuovo la legge contro l’omofobia? “La Lega e altri ambienti molto conservatori stanno cercando di allungare i tempi, con pretesti e argomenti di ogni tipo. Quindi io mi auguro che si discuta, che ci si confronti ma che finalmente si arrivi ad avere una legge indispensabile contro questi reati odiosi”. Nella passata legislatura la legge contro l’omofobia fu affossata... “Alla Camera era passata, ma fu insabbiata in Senato. L’obiettivo è quello di ampliare la platea dei destinatari della tutela e fornire adeguati strumenti contro i cosiddetti “hate crimes” (crimini d’odio). Siamo tutti d’accordo, dunque, sulla necessità di affrontare la questione sul piano normativo”. E sui termini “genere” e “identità di genere”? Vanno cambiati? “Devo dire che le contestazioni relative all’uso del termine ‘genere’ anziché ‘sesso’, sono interessanti, anche se non vorrei sconfinare in un campo filosofico che non è il mio. Tuttavia segnalo che le definizioni che sono nel testo, sono assolutamente consolidate nell’esperienza giuridica, non solo nazionale”. Può spiegarsi meglio? “Con l’uso del termine “sesso”, si intende quello indicato alla nascita o risultante a seguito di rettificazione anagrafica, mentre definizione di “genere” si fa riferimento a quella contenuta nell’articolo 3 della Convenzione di Istanbul e si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini. Per orientamento sessuale, invece, si intende l’attrazione emotiva o sessuale, a prescindere che sia nei confronti di persone dello stesso sesso, di sesso opposto o di entrambi i sessi”. E la definizione “identità di genere” va tolta? Equivale a mettere tutto in un calderone ed è rischioso, come sostiene Valeria Valente, la presidente della commissione contro il femminicidio? “No sono d’accordo con Valente, questa volta. “Identità di genere” secondo me deve restare. E per identità di genere si intende la percezione che una persona ha di sé, anche se non coincidente con il proprio sesso biologico, così come affermato anche dalla Corte Costituzionale fin dal 1985”. Da non toccare il testo, oppure aggiornamenti vanno fatti? “Posono esserci limature. Il testo, tra l’altro, si pone assolutamente in linea con una risoluzione del Parlamento europeo sull’omofobia in Europa, risalente al 2006 e rimasta finora fuori del nostro ordinamento. Fare uso del termine transessualità sarebbe impreciso, posto che non esiste pieno accordo sulla definizione di transessualità. I trans sono quello che affermano di essere, senza che siano altri a definirli o a metterne in dubbio l’identità sessuale”. Quindi andare avanti e andare avanti in fretta? “Stiamo lavorando ad una legge in cui è preminente la volontà di tutelare i soggetti più vulnerabili, tra cui anche le donne, la metà più esposta e vulnerabile, appunto, del genere umano, ponendo un argine alla misoginia e al sessismo che sono una vera emergenza nel nostro paese. Aggiungo che non è affatto strano né curioso, quindi che in questa proposta ci sia spazio anche per una tutela più specifica e mirata delle donne. Quale è l’invito alle femministe di Se non ora quando? “Alle amiche di Se non ora quando dico: sosteneteci perché sono in tanti a sperare di poter brindare all’affossamento di questo testo, ma sono ancor di più quelli che da anni aspettano questa legge” Ci sono divisioni anche tra i 5Stelle? “Ci sono diverse anime e sensibilità in tutti i partiti. Ma i 5Stelle mi sembrano compatti. Sarebbe bello vedere lo schermo del voto tutto verde, è la mia utopia”. Ma lei riuscirà a portare la legge contro l’omofobia all’approdo, o dovrà lasciare prima la presidenza della commissione? “Mi auguro di condurla in porto alla Camera e di vederla approvata”. Asha partorisce in emergenza Covid, senza casa con marito e altri due figli di Damiano Aliprandi Il Dubbio Il rapporto di Intersos fotografa le difficoltà di quelli che già vivevano ai margini. Fortunatamente, almeno per adesso, ci siamo lasciati alle spalle il periodo del lockdown per far fronte all’emergenza Covid 19. Un periodo dove la popolazione italiana doveva rimanere a casa, protetta. Ma ciò ha creato tanta sofferenza per chi era più vulnerabile, magari precario che a un certo punto si è visto ritrovarsi senza un lavoro che magari faceva a nero. Nessuna protezione. L’emergenza sanitaria che ha interessato l’Italia ha colpito però in modo ancora più profondo chi già viveva ai margini della società, allargando ulteriormente la forbice delle disuguaglianze. Uno spaccato di questa problematica è stato descritto scrupolosamente dal recente rapporto dall’organizzazione umanitaria Intersos. Ha preso come esempio la Capitale. A Roma, secondo il rapporto, sono circa 8.000 quelli che vivono in strada, oltre il 15% del totale nazionale, a cui bisogna aggiungere circa 11.000 persone che vivono in occupazioni abitative e gli stranieri rimasti esclusi dal sistema di accoglienza. Con l’introduzione nel 2019 dei decreti sicurezza che hanno soppresso la protezione umanitaria, si è infatti verificato un forte aumento del numero di persone a cui viene negato il riconoscimento di una forma di protezione internazionale, che è passato dal 67% nel 2018 all’ 80% nel 2019 delle domande esaminate. Ciò vuol dire che i decreti hanno creato 60 mila migranti irregolari. Tutti esclusi dall’accoglienza e quindi anche dalla protezione durante l’emergenza coronavirus. Intersos ricorda che i piani nazionali adottati in risposta all’emergenza Covid prevedevano, tra le altre cose, limitazioni alla circolazione e misure personali per la prevenzione del contagio quali il lavaggio frequente delle mani e degli indumenti indossati, l’igienizzazione degli ambienti, la distanza tra le persone di almeno 1 metro, il divieto di assembramenti. A Roma, presa come esempio, è stato evidente che le condizioni di vita delle persone senza fissa dimora o in occupazione abitativa hanno reso, e rendono tuttora, molto difficile il rispetto delle misure. Nessuno ha, infatti, previsto misure specifiche per tutelare la salute delle persone in condizioni di marginalità. Vale la pena riportare una delle tante storie raccolte da Intersos. Asha ha 23 anni e viene dal Bangladesh. Vive a Roma con suo marito e i suoi due figli di 1 e 2 anni. Alla fine di maggio Asha ha dato alla luce il suo terzo bambino in un ospedale di Roma. È lì che ha conosciuto Anna, la referente del servizio immigrazione dell’ospedale. Osservando quel papà che tutti i giorni andava a trovare la moglie insieme ai loro due bambini più grandi, Anna non ha potuto fare a meno di notare il loro aspetto trasandato, così è andata a fondo e, parlando con Asha ha scoperto che l’intera famiglia non ha più una casa. Con l’inizio del lockdown, infatti, il marito ha perso il lavoro per tagli al personale e si sono ritrovati in mezzo alla strada. Hanno allora cercato aiuto tra i loro conoscenti finché una moschea non ha accettato di dar loro ospitalità, ma solo per la notte. Anna sa bene di non poter dimettere Asha e il suo bambino appena nato in queste condizioni, così si attiva per trovare una struttura che accolga tutta la famiglia, ma si trova la strada sbarrata: le accoglienze a Roma sono sospese a causa dell’emergenza sanitaria, non ci sono posti per questa famiglia. Non si dà per vinta Anna e riesce a trovare posto in una struttura del circuito diocesano. Per proteggere i propri ospiti però la struttura richiede un tampone negativo di tutta la famiglia. Asha e il più piccolo posso effettuarlo in ospedale, ma come si fa per il papà e per gli altri due bambini? È allora che Anna contatta Intersos, chiedendo aiuto. Attiva subito il Sisp per chiedere il tampone e l’inserimento straordinario in una struttura dove attendere l’esito. Solo dopo svariati passaggi e grazie al supporto di altri attori che operano sul territorio gli operatori di Intersos riescono ad ottenere l’inserimento in una struttura riservata all’isolamento del personale della Asl, che in via eccezionale accetta senza fissa dimora particolarmente vulnerabili. Ora il papà e i due bambini sono ospiti nella struttura e Asha e il piccolo li hanno raggiunti subito dopo la dimissione. Aspetteranno lì la fine dell’isolamento e finalmente potranno essere accolti nella struttura diocesana. Questa storia ha un lieto fine principalmente grazie ad Anna e alla fitta rete che si è creata negli anni per sopperire alla mancanza di coordinamento e alle lacune nella gestione di persone fragili nella capitale. Ma l’organizzazione umanitaria sottolinea che la tutela dei più vulnerabili non può essere affidata a procedure frammentarie e incerte, serve una prassi da seguire, soprattutto in un momento di emergenza sanitaria Per questo e altro ancora, il report di Intersos chiede di “ristabilire l’apertura delle accoglienze sospese dal Comune di Roma, nonché potenziarla con percorsi di inserimento sostenibili e di lungo termine”. Il trionfo degli affari, è tempo di cambiare rotta di Alex Zanotelli Il Manifesto, 4 luglio 2020 Il silenzio egiziano su Giulio Regeni, il ruolo italiano in Libia, la vendita delle navi Fremm e la violazione da parte di Roma della sua stessa legge: il Mediterraneo ha bisogno che l’Italia innesti la marcia di una seria politica estera. Il primo luglio la procura del Cairo non ha fornito alcuna notizia sulla morte di Giulio Regeni né ha dato l’indirizzo domiciliare dei cinque agenti della Sicurezza nazionale indagati dalla Procura di Roma per la morte del nostro giovanissimo connazionale. Anzi, il nuovo procuratore egiziano ha perfino lasciato intendere che Giulio era al Cairo per spionaggio. È un’autentica beffa per Conte che sperava in buone notizie per poter procedere alla vendita delle due fregate Fremm, per un valore di un miliardo e duecento milioni di euro. Ho la netta impressione che, nonostante questo schiaffo, il governo Conte procederà con la vendita di queste fregate all’Egitto. Tutto ciò è inaccettabile perché si tratterebbe di una decisione politica cinica, degna della più bieca “real politik”. Come si fa a vendere armi pesanti a un dittatore come al-Sisi che ha incarcerato almeno sessantamila oppositori politici? Lo scorso anno l’Italia aveva già venduto armi all’Egitto per un valore di oltre ottocento milioni di euro. Sono le storie di tanti egiziani a farci capire cosa significhi vivere oggi in Egitto: Khaled Said, Alaa Abd El Fatah, Giulio Regeni, Mahmond Abu Zeid, Patrick Zaki, Sarah Hijazi, chi ucciso per strada dalla polizia, chi detenuto senza motivo e torturato fino a morirne. Consegnare queste due fregate al regime di al-Sisi vuol dire legittimare uno dei regimi più oppressivi dell’Africa. Questo è puro cinismo: il trionfo del business. Come non essere d’accordo con i genitori di Giulio Regeni (ai quali va tutto il nostro plauso per il coraggio e la resilienza che hanno dimostrato finora) quando hanno detto: “Questo governo ci ha traditi. Siamo offesi e indignati dall’uso che si fa di Giulio. Lo tirano in ballo ogni volta che c’è un accordo commerciale con l’Egitto come a lavarsi la coscienza”. Siamo davanti al tradimento della famiglia Regeni, ma anche al tradimento del vasto movimento che in Italia è nato per conoscere la verità sulla morte di Giulio. Ma trovo altrettanto assurdo che un governo che dovrebbe rispettare la legalità, diventi invece, con la vendita di queste armi, un trasgressore della legge. Infatti la legge 185 del 1990 vieta al governo italiano di vendere armi sia a paesi dove i diritti umani sono violati che a quelli in guerra. Ora l’Egitto è un esempio paradigmatico; uno dei più noti paesi al mondo per la violazione dei diritti umani e un paese in guerra in Libia, fra l’altro contro il governo di Tripoli che l’Italia invece sostiene insieme all’Onu. Infatti l’Egitto sta sostenendo militarmente il generale Haftar, che dopo il fallito tentativo di prendere Tripoli si è ritirato in Cirenaica. La vendita delle due fregate all’Egitto, accompagnate da forniture belliche future per dieci miliardi, sposta l’asse dell’Italia nel Mediterraneo verso l’Egitto, dove l’Eni ha il mega-giacimento di gas di Zhor (È l’Eni che fa la nostra politica estera!). Al-Sisi vuole subito le fregate Fremm per contenere nel Mediterraneo la Turchia, alla quale pure noi vendiamo armi. È il vergognoso teatro di questa politica italiana il cui unico scopo è il business: vendere armi a tutti. Un teatro che continua con la finzione dell’embargo delle armi alla Libia. Di fatto il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si è rifiutato di rinnovare l’operazione Sophia, dando inizio insieme ad altri paesi alla missione navale Irini (Pace) per un più serio controllo sull’embargo di armi alla Libia. Siamo proprio noi a vendere armi sia alla Turchia, che le dà poi all’uomo forte di Tripoli, El-Serraj,che all’Egitto che le dà al generale Haftar in guerra contro Tripoli. E per di più attrezziamo e armiamo la Guardia costiera libica. È inaccettabile che proprio l’altro ieri, primo luglio, le Commissioni esteri e difesa del Senato, abbiano votato all’unanimità il rifinanziamento delle missioni militari e quindi della Guardia Ccstiera libica. La denuncia di Oxfam è dura: “Dall’Italia 3 milioni in più alla Guardia costiera libica rispetto al 2019 per uno stanziamento complessivo di 58 milioni per il 2020 e di 213 milioni in tre anni, nonostante le indicibili violazioni dei diritti umani inflitti a migliaia di disperati”. Per tutto questo, l’Italia sarà portata davanti ai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità. La politica estera del governo italiano è ormai fatta dai mercanti di armi e dall’Eni. È ora di cambiare rotta! Il Mediterraneo e i paesi nordafricani hanno bisogno che l’Italia innesti la marcia di una seria politica estera. Sette anni di regime al-Sisi, l’Egitto schiavo dell’esercito di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 luglio 2020 Nelle celebrazioni governative mancano i reali risultati del golpe: povertà e repressione, Covid in crescita e carceri sovraffollate. E il 60% degli egiziani vive in miseria, mentre i militari sono oggi l’élite economica e politica del paese. I sette anni dal golpe dell’allora generale Abdel Fattah al-Sisi sono stati segnati dalle prime riaperture: l’aeroporto del Cairo giovedì ha visto partire e atterrare 113 voli, interni e internazionali, e cinque musei e otto siti archeologici, tra cui le piramidi di Giza, hanno accolto i turisti. Eppure l’epidemia di Covid-19 balza in avanti: ieri +1.485 casi, che portano il totale ufficiale a oltre 71mila, e 86 decessi in più che si sommano alle 3mila vittime finora registrate. Il sistema sanitario, lo hanno denunciato medici e infermieri pagando con licenziamenti e detenzioni, è al collasso, vittima di anni di tagli e noncuranza. Di tutto questo le celebrazioni del governo per quella che chiama “la rivoluzione del 30 giugno” non tengono conto. Il riferimento è alle proteste dell’estate 2013 che vide protagonisti gli stessi egiziani che due anni e mezzo prima avevano riempito piazza Tahrir e fatto cadere il trentennale regime di Hosni Mubarak. Qualche giorno dopo, il 3 luglio, l’allora ministro della Difesa al-Sisi assumeva il potere destituendo il primo presidente democraticamente eletto d’Egitto, Mohammed Morsi. All’epoca si festeggiò, lo fece anche la sinistra egiziana: Morsi e la sua Fratellanza Musulmana avevano tradito la rivoluzione del 2011 con leggi liberticide. I festeggiamenti durarono poco, un mese dopo il massacro di sostenitori dei Fratelli musulmani in piazza Rabaa svelava i tratti del nuovo regime. Le celebrazioni mediatiche di questi giorni non tengono conto nemmeno - com’è ovvio - dell’ultimo schiaffo in faccia a Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna incarcerato dal 7 febbraio scorso. Il 28 giugno sarebbe dovuto comparire davanti alla Corte penale per i reati minori perché un giudice decidesse dell’ormai lunghissima detenzione cautelare a cui è sottoposto: “L’udienza doveva essere tenuta davanti a un giudice per la prima volta - riporta la pagina Facebook “Patrick Libero” - La sessione è stata rinviata, ancora una volta, al 12 luglio”. Senza avvocati presenti. Intanto le tv e i giornali, filo-governativi (al-Sisi ha imbavagliato la stampa e messo al bando circa 60 siti di informazione indipendente), celebravano i mega progetti infrastrutturali, dall’allargamento di Suez a New Cairo, e le vittorie sul terrorismo, categoria i cui confini sono stati allargati a dismisura con leggi apposite che puniscono chiunque critichi il regime. In televisione e in radio scorrono senza soluzione di continuità i messaggi di esaltazione della “gloriosa rivoluzione”, mentre i talk show invitano estimatori del regime a incensarne l’operato. Dal quadro scompaiono le reali “missions accomplished” del più brutale governo che gli egiziani abbiano mai sperimentato: 19 nuove prigioni costruite dal 2013; 60mila prigionieri politici su una popolazione carceraria di 140mila unità con istituiti di pena sovraffollati, tra il 160% e il 300% in più della loro capacità (13 i detenuti morti a giugno per mancanza di cure mediche, secondo il centro Al-Nadim); tre egiziani su dieci sotto la soglia di povertà e altrettanti appena sopra; spese folli per progetti infrastrutturali e armi (ne scrivevamo su queste pagine lo scorso 13 giugno) coperte con i prestiti del Fmi, condizionati a riforme lacrime e sangue che hanno fatto scomparire la classe media; un debito pubblico triplicato, da 112 miliardi di dollari del 2014 agli attuali 321. Ci si impoverisce, con aumenti di tasse e tagli dei sussidi per i più poveri, mentre l’élite si arricchisce. Un élite che coincide con la galassia di potere che tiene al suo posto il presidente al-Sisi: l’esercito e i servizi segreti. Da esponente delle forze armate e privo di un partito proprio, al-Sisi lavora alacremente da sette anni, e con successo, alla creazione di un sistema militare in senso sia politico che economico: l’Egitto è oggi uno Stato al servizio del suo esercito. Se la fetta di economia interna controllata dalle forze armate è costantemente cresciuta - attestandosi, secondo stime, a un 40% di Pil - si moltiplicano gli appalti affidati direttamente alle ditte dell’esercito, senza che un controllo indipendente ne freni l’avanzata a tutela dei privati. E mentre vedono crescere, grazie allo shopping di armi, la loro potenza di fuoco, i militari godono di un sistema giuridico che permette un controllo sociale pressoché totale, un groviglio di leggi anti-sciopero e anti-dissenso che fa il paio con la tradizionale macchina dello spionaggio interno. E che tiene l’Egitto in prigione. Turchia. Amnesty “colpevole di terrorismo”: condannati i vertici dell’organizzazione di Marco Ansaldo La Repubblica, 4 luglio 2020 L’ex presidente a 6 anni e 3 mesi, l’ex direttrice a 2 anni e 1 mese. Undici in tutto le condanne. Noury: “Così si riducono al silenzio coloro che difendono i diritti”. Amnesty è colpevole di terrorismo. Con questa sentenza, paradossale per i più, si è concluso a Istanbul il processo a 11 attivisti locali dell’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani. I massimi vertici dell’ong in Turchia sono stati condannati: il suo ex presidente Taner Kilic a 6 anni e 3 mesi per “associazione terroristica” e l’ex direttrice Idil Eser a 2 anni e un mese per “sostegno a un’organizzazione terroristica”. Pene inflitte anche ad altri due imputati. Mentre gli altri sette, fra cui due stranieri, il tedesco Peter Steudtner e lo svedese Ali Gharavi, già liberi e rientrati nei loro Paesi, sono stati assolti. Tutti e undici erano stati arrestati con una retata nel 2017 mentre stavano facendo una riunione nell’isola di Buyukada, al largo di Istanbul. Kilic rimase 14 mesi in cella prima di essere liberato solo su cauzione. Altri otto imputati passarono 4 mesi in carcere prima di essere liberati. Kilic, in particolare, oggi presidente onorario di Amnesty in Turchia, è stato accusato di appartenere al movimento del predicatore Fethullah Gulen, l’imam turco in autoesilio in Pennsylvania dal 1999, designato da Ankara come il cervello del fallito putsch dell’estate 2016, di cui fra pochi giorni, il 15 luglio, ricorre il quarto anniversario. Il motivo principale del file di addebito nei confronti di Kilic è stato l’uso nella messaggistica di ByLock, un’applicazione di comunicazione crittografata utilizzata dai sostenitori di Gulen. Tuttavia, un rapporto della polizia aveva stabilito che Kilic non aveva questa applicazione sul suo telefono cellulare. Molto dure le reazioni in Turchia, in Italia e nel mondo dopo il verdetto. “Così la Turchia riduce al silenzio coloro che difendono i diritti - dice Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia. “La cosa assurda - sottolinea - è che il processo contro gli attivisti è avvenuto nello stesso tribunale in cui stamani è iniziato il processo per far luce sulla morte di Jamal Khashoggi”. Nel medesimo edificio di Istanbul, stesso giorno e stessa ora, si è infatti aperto il processo in contumacia ai 20 cittadini sauditi considerati di avere fatto parte della squadra-killer che eliminò il 2 ottobre 2018 l’editorialista del Washington Post nel consolato di Riad, facendolo prima a pezzi e poi sciogliendolo nell’acido. Le autorità turche, a partire dallo stesso presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, in questo caso si sono battute perché la vicenda venisse completamente svelata, nonostante le reticenze della monarchia del Regno. Aggiunge Noury: “Mentre quindi, in un’aula di Istanbul, la Turchia si mostra paladina dei diritti, in un’altra aula dello stesso tribunale quattro difensori dei diritti umani sono stati condannati al carcere. Tra questi, l’ex presidente e l’ex direttrice di Amnesty International Turchia, in un processo durato dodici udienze, in cui l’infondatezza delle accuse è stata dimostrata più volte”. Alla sbarra, la ex direttrice Idil Eser ha fatto questa analisi: “Questi procedimenti giudiziari mirano a silenziare gli accusati e rendere chiaro a tutta la società che le persone che difendono i diritti umani e dicono la verità lo fanno a proprio rischio e pericolo”. Al verdetto così è sbottato Andrew Gardner, rappresentante di Amnesty in Turchia: “Questo è scandaloso. Accuse assurde. Nessuna prova. Non ci arrenderemo finché non saranno assolti”. Il nuovo direttore di Amnesty International per l’Europa, Nils Muiznieks, aveva commentato alla vigilia: “Questa sentenza è importante non solo per gli 11 imputati e per le loro famiglie, ma anche per tutte e tutti coloro che hanno a cuore i diritti umani, in Turchia e nel mondo. Non importa dove vivi, non importa quale governo sia in carica: un giorno o l’altro puoi trovarti nella necessità che qualcuno difenda i tuoi diritti”. Sono almeno 80 mila le persone finite nelle maglie della giustizia turca dopo le 4 ore di golpe avvenute nella notte del 15 luglio. Un colpo di Stato risoltosi con la sopravvivenza fisica e politica di Erdogan. La repressione seguita è stata spietata: oltre agli arrestati, 150mila persone sono state licenziate per motivi collegati al colpo di Stato. Ma la Turchia è una fucina di processi. Nelle stesse ore degli altri due dibattimenti è cominciato a Istanbul una terza udienza: quella a sette cittadini turchi accusati di avere collaborato alla fuga dell’ex amministratore delegato di Nissan e Renault, Carlos Ghosn, quando lasciò il Giappone alla fine del 2019. Sul banco degli imputati, i quattro piloti e un dirigente di una compagnia di noleggio di jet privati, per i quali il pm ha chiesto fino a 8 anni di carcere con l’accusa di “organizzazione a delinquere finalizzata al traffico di migranti”. Due hostess rischiano invece fino a un anno di detenzione per non avere denunciato il fatto. Ghosn, finito nel mirino della procura giapponese per reati finanziari, e poi per un periodo in prigione, fu aiutato a fuggire in Libano. La giustizia cinese regna su Hong Kong, per gli indipendentisti 10 anni di galera di Mauro Mazza* Il Dubbio, 4 luglio 2020 Le proteste che scuotono l’ex colonia britannica di Hong Kong, tornata alla Cina continentale mediante la handover del 1997 sulla base dell’accordo sino- britannico del 1984 per il quale il sistema di common law viene mantenuto a Hong Kong per (almeno) cinquant’anni, e quindi fino al 2047, sembrano ormai arrivate al capolinea, o comunque con le speranze di vittoria ormai ridotte al lumicino. Tutto ha inizio nel giugno 2019, quando un gran numero di manifestanti, moltissimi dei quali giovani e studenti, si riversano per le strade hongkonghesi chiedendo il ritiro del progetto di legge sull’estradizione, allora in discussione presso il Parlamento locale di Hong Kong, che prende il nome di Legislative Council (LegCo). Dopo intense proteste la proposta è stata ritirata, anche per effetto delle vibrate proteste degli Stati Uniti d’America, nonché per l’esplosione della pandemia da Coronavirus. Sconfitto, o almeno arginato, il Covid- 19 nella Cina continentale, le autorità statali di Pechino, e ovviamente all’ombra di esse il Partito comunista cinese che ne costituisce il “compagno” inseparabile, hanno ripreso il filo del discorso interrotto, ponendo sul piatto una nuova e ancora più grave soluzione per il futuro di Hong Kong. Con il sostegno dei settori pro- establishment della ex colonia del Regno Unito, e scontrandosi con i leaders pro- democrazia (ad esempio, gli esponenti della coalizione People Power), i quali talvolta un poco incautamente si sono spinti a reclamare l’indipendenza dalla Repubblica Popolare Cinese, il Parlamento nazionale della RPC (Assemblea nazionale del popolo) ha approvato la legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong il 28 maggio 2020, demandando però alla Commissione permanente della medesima ANP il compito di adottare nel dettaglio il testo legislativo definitivo, cosa che è avvenuta il 30 giugno 2020, con il voto unanime dei 162 membri della Commissione medesima. Quali sono, dunque, i principali timori per la sopravvivenza del modello “un paese, due sistemi”, finora vigente a Hong Kong, secondo il quale Hong Kong è ormai parte della Cina, di cui però non condivide il sistema di civil law con caratteristiche socialiste, ma mantiene invece il sistema di common law? Le preoccupazioni, in effetti, sono molte e gravi. Al sistema giuridico e giudiziario di Hong Kong viene sovrapposto un differente modello ordinamentale. La legge, che si compone di 66 articoli suddivisi in sei capitoli (vale a dire: principi generali; doveri e istituzioni della RASHK di salvaguardia della sicurezza nazionale; reati e relative sanzioni; giurisdizione sui casi di sicurezza nazionale, applicazione di leggi e procedure; istituzioni del Governo popolare centrale nella RASHK per la salvaguardia della sicurezza nazionale; disposizioni supplementari), prevede quattro tipologie di atti criminali, e stabilisce le responsabilità penali. Le quattro fattispecie criminose sono: secessione, sovversione del potere statale, attività terroristica e collusione con forze straniere che mettono in pericolo la sicurezza nazionale. Le pene vanno da dieci anni di detenzione al carcere a vita. Le decisioni giudiziarie sono adottate dalle autorità di Hong Kong, ma i casi più gravi o “complessi” sono devoluti a organi giurisdizionali speciali posti alle dipendenze del Governo centrale di Pechino. Di queste corti speciali non fanno parte giudici stranieri, come invece può accadere nel sistema giudiziario di Hong Kong. Viene anche creato un Ufficio del Commissario per la sicurezza nazionale nella RASHK, nominato dal Governo centrale di Pechino. Inoltre, una agenzia locale per la sicurezza del Governo centrale sarà operativa a Hong Kong, con compiti di investigazione e potere di arresto, non subordinati alla giurisdizione dei tribunali di Hong Kong. Per i casi più gravi, scatta la segnalazione dell’agenzia locale governativa alla Procura suprema del popolo di Pechino (il vertice istituzionale dei pubblici ministeri), la quale assume le funzioni di magistratura requirente. Le corti per la decisione delle vertenze sono designate dalla Corte suprema popolare (massimo organo giurisdizionale della Cina popolare). La legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong non è retroattiva, fatta salva l’ipotesi del reato permanente. Le reazioni internazionali di segno contrario alla nuova legge vi sono state, soprattutto da Usa e Gran Bretagna, più deboli dall’UE, sostenute ma in definitiva ininfluenti da Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Con il senno di poi, sarebbe stato più prudente “trattare” sul contenuto della legge sull’estradizione, anche in vista delle elezioni per il rinnovo del LegCo in programma (salvo rinvii) per settembre 2020, piuttosto che andare al “muro contro muro” con il risultato finale di allineare problemi (e procedure giudiziarie) della sicurezza nazionale per Hong Kong alle volontà del Governo centrale della RPC. *Professore associato di Diritto pubblico comparato Ucciso Hachalu, la voce della libertà. E l’Etiopia brucia: oltre 80 morti di Michele Farina Corriere della Sera, 4 luglio 2020 Violenti scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti di etnia oromo in varie città. Attivisti e familiari litigano sul luogo di sepoltura. Poca gente ai funerali: la polizia blocca l’accesso allo stadio. Hachalu Hundessa ha vissuto 5 dei suoi 34 anni dietro le sbarre: non era maggiorenne quando fu condannato per aver manifestato contro il governo nel 2003. Il padre andava a trovarlo e gli diceva che “la prigione rende più forti”. Su di lui aveva avuto un effetto collaterale, rendendo quel ragazzino che amava cantare mentre badava alle vacche un artista: “Come trovare i versi e la melodia l’ho imparato da detenuto”, amava raccontare uno dei cantanti più amati dell’Etiopia, ucciso lunedì sera a colpi di arma da fuoco mentre era alla guida di un’auto ad Addis Abeba. I nove brani del primo album, Sanyii Mooti (la corsa del re) li aveva scritti da prigioniero. Proiettili e machete - Per l’omicidio la polizia avrebbe arrestato due persone, senza rivelarne l’identità. L’uccisione di Hachalu ha scatenato le proteste di molti cittadini di etnia oromo, proiettili e machete: almeno ottanta persone sono morte negli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, e una trentina sono state arrestate (compreso il leader dell’opposizione Bekele Gerba). Un bilancio terribile, che Hachalu avrebbe accolto con dolore. Una reazione che rischia di acutizzare i contrasti (come la mossa di “spegnere” Internet nella capitale) intorno a un delitto che in tanti considerano “politico”. Il cantante era un simbolo per la più numerosa etnia del Paese, a lungo marginalizzata sulle vie del potere. Nei periodi bui aveva rifiutato l’esilio. Ora persino i suoi funerali e la tomba sono terreno di tensione: la polizia ha impedito a molta gente l’accesso allo stadio di Ambo, la sua città natale, dove si è svolta la cerimonia funebre. Molti attivisti vorrebbero che le spoglie fossero tumulate ad Addis Abeba, la capitale federale al centro di una disputa antica: gli oromo la considerano terra dei clan Tulama, poi “cacciati” dall’imperatore Menelik II (il vincitore degli italiani ad Adua). Vicende remote e attualissime: pochi giorni fa lo stesso Hachalu ha fatto infuriare i sostenitori dell’imperatore sostenendo che avesse rubato i cavalli degli Oromo, quando fece di Addis la capitale nel lontano 1886. Lite sulla tomba - Lo status della città è un nervo scoperto anche della storia recente, tra spostamenti forzati di popolazione e rivendicazioni: dopo il 2015 tre anni di sanguinose proteste hanno portato alle dimissioni del premier e all’ascesa di Abiyn Ahmed alla poltrona di primo ministro (e nel 2019 all’assegnazione del premio Nobel per la Pace). Abiy (che nei giorni scorsi si è detto rattristato “per la scomparsa di un artista straordinario”) è stato il primo oromo a diventare capo del governo. Nel 2018 aveva chiamato Hachalu a cantare per il presidente eritreo Afeworki e della pace ritrovata (sulla carta) tra storici nemici. E anche in quell’occasione l’ex bambino che cantava alle mucche aveva dimostrato indipendenza, parlando del bisogno di giustizia ancora inascoltato e mettendo in dubbio l’opportunità di un concerto “quando ci sono famiglie che soffrono”. La moglie e la statua - “La musica mi ha dato fan e nemici” diceva Hachalu. Anche da morto, anche nella politica. La famiglia lo vorrebbe sepolto ad Ambu. Il padre ha criticato gli attivisti oromo che invece spingono per averlo ad Addis Abeba e “soffiano” sull’uccisione del figlio: “Accusare il governo non è giusto, è come negare la verità di Hundessa”. La moglie Fantu Demissie (rimasta sola con due figlie piccole) per stemperare le tensioni propone che nella capitale venga eretta una statua: “Hachalu non è morto, rimarrà per sempre nel mio cuore, come nel cuore di milioni di oromo”.