La nuova Circolare del Dap: favorire le “scarcerazioni” per chi ha gravi patologie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 luglio 2020 Ripristinata, di fatto, la Circolare delle polemiche che portò alle dimissioni di Basentini. A sorpresa, nella circolare del Dap del 30 giugno, viene allegato il protocollo del ministero della Salute, che indica di “favorire l’applicazione di misure alternative alla detenzione per tutte le persone che presentano gravi patologie che possono essere significativamente complicate dal Covid-19”. Sostanzialmente si ripropone l’essenza della tanto vituperata circolare del 21 marzo, quella delle “scarcerazioni” (o meglio del differimento pena). Nel carcere si ritorna gradualmente al periodo pre-covid, mantenendo la possibilità di effettuare le videochiamate per i detenuti comuni. Ciò ha causato le proteste da parte dei detenuti dell’alta sicurezza (As) di alcune carceri perché si sono sentiti esclusi. Alcuni provveditorati hanno segnalato il problema dell’esclusione al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il quale ha prontamente risposto che in realtà tale possibilità va concessa, prevedendo però maggiori controlli per i reclusi in Alta sicurezza. Ma non solo. A sorpresa, nella circolare del Dap del 30 giugno, viene allegato il protocollo redatto dal gruppo ad hoc del ministero della Salute e nato grazie alle indicazioni dell’Istituto superiore della sanità. Tra i vari punti, viene espressamente indicato di “favorire l’applicazione di misure alternative alla detenzione per tutte le persone che presentano gravi patologie che possono essere significativamente complicate dal Covid-19”. Sostanzialmente viene riproposta l’essenza della tanto vituperata nota circolare del 21 marzo, quella volta a favorire le “scarcerazioni” (o meglio il differimento pena per gravi motivi di salute) per proteggere quelle persone più vulnerabili in caso di contagio. Circolare che ha dato adito a numerose congetture, tanto che la commissione nazionale antimafia tuttora dedicando una indagine conoscitiva come se quella circolare, un semplice atto amministrativo dettato dal buon senso, fosse la causa dei provvedimenti di detenzione domiciliare emessi legittimamente e senza alcun condizionamento dai magistrati di sorveglianza e gip. Ma ritorniamo ai colloqui. Con la conclusione del mese di giugno, vengono a perdere efficacia alcune disposizioni che hanno moderato l’odierna vita degli istituti penitenziali. La vicenda è in qualche misura comune a tutta la popolazione, interessata già dal decreto - legge 16 maggio 2020, n. 33 e dal Dpcm 11 giugno 2020. La rinnovata regolamentazione vuole contemperare la prevenzione del contagio da Covid-19 e la riconduzione delle attività degli istituti penitenziali al corso delineato dall’ordinamento penitenziario, rinnovato, peraltro, nell’autunno 2018. Ma la prevenzione è ancora necessaria, anche perché l’emergenza sanitaria è stata proclamata con effetto fino al 31 luglio 2020. Per quanto riguarda i colloqui, il Dap sottolinea che non cessa però la facoltà del detenuto di chiedere di svolgere colloqui con i propri familiari attraverso la piattaforma Skype for business. In sostanza si ritorna alle indicazioni della vecchia circolare del 29 gennaio, dove, appunto, i detenuti comuni potevano effettuare i video- colloqui, possibilità allargata per l’emergenza Covid anche ai reclusi in alta sicurezza. Con la differenza che ora possono anche svolgere i colloqui visivi più prolungati, ovvero di due o più ore. Non si fa cenno però al ripristino dei colloqui con i minori di 14 anni e, come riportato da Il Dubbio, i detenuti hanno espresso un forte disagio nel non vedere dal vivo i propri figli da parecchi mesi. Nella circolare si fa cenno anche alla ripresa delle azioni trattamentali, fondamentali per il detenuto, ma senza dare una indicazione univoca visto che ogni carcere ha spazi detentivi e realtà territoriali diverse. Interessante il capitolo riguardante la prevenzione sanitaria in carcere. Sempre nella circolare, in allegato, c’è il protocollo operativo nazionale per la prevenzione ed il controllo dell’infezione da Sars- Cov2 nelle carceri. Diverse sono le linee guida. La prima è quella di proseguire, ove possibile, il percorso già avviato, di progressiva riduzione del sovraffollamento nelle strutture carcerarie. Di favorire l’applicazione delle misure di prevenzione all’interno degli Istituti Penitenziari; di utilizzare la possibilità, per gli specifici casi, di attivare le misure di isolamento sanitario; di utilizzare tutte le misure di prevenzione sanitaria (pre-triage, utilizzo appropriato di Dpi) per i nuovi ingressi, gli operatori, i visitatori, ecc.; di prevedere in casi emergenziali e in via del tutto eccezionale spazi alternativi idonei alla gestione dei casi che necessitano di isolamento. E non per ultimo, quella di favorire l’applicazione di misure alternative alla detenzione per tutte le persone che presentano gravi patologie che possono essere significativamente complicate dal Covid-19. Alla fine, nonostante le indignazioni e informazioni fuorvianti, prevale il diritto alla salute come prevede la nostra costituzione. Quel bilanciamento tra sicurezza e prevenzione della salute che è uno dei pilastri che rende civile il nostro Paese. Consiglio d’Europa: “L’isolamento al 41bis sia limitato il più possibile” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 3 luglio 2020 Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha adottato ieri una raccomandazione che aggiorna le regole penitenziarie europee risalenti al 2006. Il testo è stato elaborato dal Consiglio di cooperazione penologico del Consiglio d’Europa che vanta un rappresentante italiano dal 2018, il magistrato del Tribunale di Brescia Anna Ferrari. La raccomandazione, che recepisce la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, si occupa di ogni aspetto della vita del detenuto fin dal primo momento della restrizione della libertà: dalla custodia cautelare alla detenzione definitiva. Fra i principali temi affrontati, il trattamento delle donne detenute, quello dei dati personali dei detenuti, la risocializzazione, il reinserimento nella società, il detenuto lavoratore, le misure speciali di alta sicurezza, il personale della polizia penitenziaria e del personale di protection. I lavori si sono concentrati anche sull’isolamento del detenuto. Un punto su cui si misurerà il legislatore italiano sarà quindi “la tenuta” del regime penitenziario dell’articolo 41bis. L’isolamento penitenziario, regola numero 60, viene definito nella raccomandazione nella circostanza di “essere ristretti per più di 22 ore al giorno senza significativi contatti umani”. Lo stato di salute del detenuto per il Consiglio d’Europa, comunque, deve essere sempre tenuto in considerazione prima di disporre la misura ed in ogni caso deve essere garantito al detenuto in isolamento il monitoraggio sanitario e un “minimo di contatti con persone diverse da polizia penitenziaria”. Il Consiglio d’Europa richiede poi che l’isolamento sia limitato il più possibile a casi specificamente previsti in quanto gli effetti sulla salute del detenuto, salute fisica e mentale, sono deleteri. Se lo stato di salute del detenuto peggiora, l’isolamento deve essere interrotto. L’isolamento penitenziario non deve mai essere imposto ai minorenni, alle donne in gravidanza, alle madri che allattano, ai detenuti genitori di figli in tenera età. La discussione che ha portato al testo sull’isolamento aveva visto Paesi come la Francia sollevare obiezioni in quanto nelle carceri francesi ci sono detenuti in isolamento dopo gli attentati del Bataclan. Osservazioni anche dall’Italia in relazione alla compatibilità con il citato articolo 41bis per i reati di mafia e terrorismo. La legislazione, dunque, deve stabilire un limite temporale massimo nel quale il detenuto sia collocato in isolamento, con l’auspicio che lo stesso sia quotidianamente visitato da un medico e riceva la visita del direttore del penitenziario o quanto meno del personale di polizia penitenziaria. Per l’Italia la compatibilità della raccomandazione e delle nuove regole penitenziarie recepiscono in parte le regole “Mandela”. La raccomandazione nelle fonti del diritto si colloca come alta esortazione per tutti i paesi, 47, aderenti al Consiglio d’Europa: si rivolge al legislatore e alla politica per orientarne la normativa. Lavoro e formazione in carcere: c’è da fare ancora molta strada di Giusy Santella linkabile.it, 3 luglio 2020 Se il fine della pena è la rieducazione, allora il percorso di reinserimento del detenuto deve necessariamente fondarsi su tre pilastri: lavoro, formazione e istruzione, che devono essere considerati unitariamente e modellati come reali strumenti di riscatto per chi sta scontando la propria pena. Innanzitutto, essendo i detenuti individui dotati ciascuno di una propria personalità e attitudine, è necessario un momento iniziale di certificazione delle competenze pregresse, così da fa emergere i reali fabbisogni formativi e di istruzione presenti in ciascun istituto. Possono infatti essere presenti esperienze professionali, sia a bassa qualificazione, sia ad elevato contenuto professionale che andrebbero valorizzate per rendere reale il percorso di reinserimento nella società. Abbiamo già avuto modo di sottolineare le difficoltà- acuite dalla pandemia- collegate all’istruzione in carcere, dovute tra le tante cose anche alla diversa gestione dei singoli istituti penitenziari e alla mancanza di norme imperative che disciplinano la materia. Per quanto riguarda il lavoro, esso può essere intramurario se si svolge alle dipendenze della stessa amministrazione penitenziaria oppure extra-murario se invece è lavoro esterno alle dipendenze di aziende o cooperative sociali. Il XVI Rapporto sulle condizioni di detenzione presentato da Antigone il mese scorso parla di 18070 detenuti coinvolti in attività lavorativa, anche solo per poche ore, al 31 dicembre 2019: essi rappresentano il 29,74% della popolazione detenuta totale, confermando un dato che non supera il 30% oramai da dieci anni. L’86,82% di questi sono impiegati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, in particolare in incarichi legati alla pulizia e alla consegna dei pasti, mentre pochissimi sono impegnati in lavorazioni interne come la falegnameria e manutenzione, ancor meno in servizi esterni ex articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Quest’ultima disposizione disciplina la possibilità che i detenuti vengano assegnati a svolgere il loro lavoro all’esterno che, diversamente modulato a seconda del regime detentivo in cui ci si trova, offre sicuramente una chance di rieducazione maggiore. Delle 2381 persone recluse che nel 2019 hanno lavorato per soggetti diversi dall’amministrazione penitenziaria, solo il 28,6% lo faceva ex art. 21, mentre i restanti si trovavano in regime di semilibertà- che consente di passare fuori dall’istituto tutto il tempo necessario per il lavoro o la formazione- oppure lavoravano per aziende e cooperative ma all’interno dello stesso carcere. I dati forniti testimoniano la scarsa qualifica del lavoro penitenziario che è spesso considerato come mero strumento di contenimento, per ammortizzare le tensioni interne, piuttosto che come vera occasione di riscatto. Se spostiamo l’asse del nostro discorso nell’ambito campano, servendoci della relazione annuale presentata dal Garante dei detenuti Samuele Ciambriello, le problematiche sussistenti a livello nazionale sono confermate: 2.500 persone recluse impiegate in attività lavorative nel 2019, di cui 2.349 alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e pochissime nel lavoro extra-murario ex articolo 21 o.p. Il lavoro è poco e quasi mai si riesce a racimolare qualcosa da mandare alle proprie famiglie che sostengono i detenuti negli istituti. A ciò che si aggiunga che chi svolge attività domestiche, non può ricevere la Naspi, essendo così privato di un diritto normalmente riconosciuto a chi lavora. Il budget a disposizione per ciascun detenuto dipendente varia da istituto a istituto e tiene conto del budget annuale e del numero di persone impiegate. Tuttavia, si tratta dappertutto di cifre molto basse, che danno conto, come segnalato dall’Associazione Antigone, dell’incapacità del sistema a provvedere al lavoro come diritto e come strumento di reintegrazione sociale. Molta preoccupazione è poi manifestata da più parti anche per i lavori non retribuiti, di cui appare difficile assicurare la volontarietà. Molto dipende quindi dalle specifiche condizioni di reclusione, che possono anche impedire o agevolare l’accesso a percorsi formativi, ulteriore strumento di rieducazione per il detenuto. A livello nazionale, nel secondo semestre del 2019, sono stati avviati 203 corsi di formazione professionale nelle carceri italiane, pur con un quadro disomogeneo e alcune regioni come Liguria, Sardegna e Veneto, in cui non ne è stato avviato nessuno. Per quanto riguarda la Campania, nello scorso anno si sono svolti 23 corsi di formazione, di cui 16 promossi dalla Regione e 7 da organizzazioni non profit e del terzo settore, con 236 iscritti e un incremento di 134 soggetti coinvolti rispetto al 2018. Come segnalato dal Garante Ciambriello, per quanto riguarda gli adulti si tratta di numeri ancora insufficienti poiché rappresentano solo il 2% della popolazione detenuta. Diversa è la situazione per quanto riguarda i minori reclusi poiché il 73% di essi è stato coinvolto in attività formative di vario genere. A queste vanno aggiunte le attività formative portate avanti dal Uepe. Il lavoro e la formazione sono dunque essenziali nel percorso di risocializzazione e reintegrazione nella società, tuttavia sono ancora molte le difficoltà da superare: da un lato, essi devono essere concepiti come reali strumenti di reinserimento e rimodulati dunque attraverso un coordinamento con tutte le realtà esterne possibili, tra cui il mondo del terzo settore, gli enti locali e le imprese; dall’altro, è necessario un cambiamento di mentalità all’esterno, che spogli i detenuti del pregiudizio e dello stigma che essi portano con sé anche dopo la fine della loro pena. Fino a quando la società esterna non sarà pronta a vedere colui che sconta o che ha scontato la propria pena come un essere umano che merita il rispetto dei propri diritti, allora sarà impossibile un cambio di rotta e di fronte a noi avremo semplicemente ex detenuti che non hanno la possibilità di rientrare in società. “In carcere finisce sotto sequestro anche la sessualità” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 luglio 2020 Alessandro De Rossi, architetto e urbanista “il problema del sequestro della vita intima riguarda il diritto della persona”. “Ti mando a Gaeta!”: tuona ancora potente la minaccia di reclusione nell’ex carcere militare che pendeva sulle teste dei soldati disobbedienti. Nell’immaginario collettivo, la prigionia tra le mura del vecchio Castello Angioino-Aragonese rappresenta infatti la pena più severa. Neanche la distesa di mare che attende alle sue pendici addolcisce il profilo ruvido delle sue torri: ancora una volta il nostro patrimonio architettonico restituisce al presente il ricordo di un luogo di dolore. In Italia quasi l’80% degli edifici carcerari è costituito da complessi storici risalenti a prima dell’Ottocento. Il castello di Gaeta, in particolare, nasce come fortilizio noto per l’inumanità delle sue celle: buchi strettissimi dotati di una fessura e un bugliolo, il secchio adibito alle funzioni fisiologiche. La struttura è composta da due edifici comunicanti, realizzati in due epoche diverse, l’uno detto “angioino” e l’altro “aragonese”, attualmente sede della Scuola nautica della Guardia di Finanza e di una sede periferica dell’Università di Cassino. Ad osservarli oggi si fatica a immaginare quello spazio di detenzione quanto mai disumano e degradante. Eppure la concezione del carcere, nell’architettura contemporanea, risponde ancora alla composizione alienante di celle e corridoi. “Uno schema superato che concepisce la pena solo in termini di sofferenza”, ci spiega Alessandro De Rossi, architetto e urbanista, già docente di Pianificazione territoriale, alla facoltà di Ingegneria dell’Università del Salento. Curatore e autore del libro “Non solo carcere”, nel 2005 De Rossi è stato incaricato dal governo libico della pianificazione del nuovo Programma penitenziario conforme alle disposizioni dei Diritti umani, sotto il patrocinio delle Nazioni Unite, coordinando un team di professionisti per il Piano nazionale delle carceri dello Stato. In quell’occasione, promosse in particolare la dimensione affettiva della detenzione, con la pianificazione delle cosiddette “stanze dell’amore”: camere dove il detenuto possa soggiornare con la sua famiglia o con la sua compagna senza la sorveglianza del personale di custodia previsto dall’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario. Si tratta di “una vasta problematica di carattere umanitario e sociale superiore a quella architettonica”, precisa De Rossi. “Il problema dell’esproprio della sessualità - continua il professore - riguarda il diritto della persona, così come il sequestro del tempo e dello spazio. L’amore comprende l’eros, fa parte della natura umana. La privazione di queste funzioni vitali e affettive rappresenta una violenza”. In tutto il mondo, a partire dalla vicina Spagna, si è avviata la progettazione di locali appositi in cui i detenuti possano vivere momenti d’intimità con le famiglie. In America ad esempio, fin dagli anni 90, in un campo di lavoro nel Mississippi, ogni domenica i prigionieri hanno la possibilità di ricevere in visita una sex worker. Mentre in Italia la sessualità in carcere rappresenta ancora un tabù. La proposta di un progetto di legge che normasse la materia è stata presentata nel 2016 dagli Stati generali sull’esecuzione penale, una commissione di esperti del mondo del carcere voluta dall’allora ministro della Giustizia Orlando. Per l’affettività in carcere si propose l’istituto della “visita”, diversa dal “colloquio”, perché svolta senza il controllo visivo e auditivo del personale di sorveglianza. La visita, nelle intenzioni, dovrebbe svolgersi in mini appartamenti collocati all’interno dell’istituto, separati dalla zona detentiva, e dovrebbe durare un lasso di tempo determinato. “Le soluzioni architettoniche non mancano”, spiega ancora De Rossi: “manca una visione politica, un ragionamento di più ampio respiro sul tema carcerario”. Come vice presidente del Centro europeo studi penitenziari, De Rossi promuove gli studi orientati al superamento del carcere, attraverso la creazione di un gruppo interdisciplinare di professionisti tra cui architetti, neuroscienziati, filosofi, sociologi e antropologi. “Abbiamo l’idea che gli studi penitenziari debbano essere affrontati in maniera sistemica, con una visione condivisa tra culture ed esperienze diverse. La pianificazione del carcere non può essere demandata solo a politici e magistrati”, spiega il professore. “Un buon carcere e una buona detenzione, rispettosa dei diritti umani e utile dal punto di vista economico - conclude de Rossi - dovrebbe puntare al lavoro e allo studio per ridurre il tasso di recidiva. Il tempo che è stato sequestrato al condannato deve essere utilizzato come occasione di recupero”. La maggioranza sempre variabile agitata da Renzi sulla giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 3 luglio 2020 C’è una mattinata di luglio, calda e leggera, a segnare il mood sulla giustizia. Da una parte Matteo Renzi, dall’altra Antonio Tajani. Si incontrano, ieri mattina, dalle parti di Palazzo Chigi al cospetto di un nutrito drappello di taccuini L’ex premier è con Roberto Giachetti in giro per librerie, e a Tajani viene in mente una battuta che ribalta il calembour inflitto da Renzi a Berlusconi dopo l’espulsione da Palazzo Madama nel 2013: “Ora Matteo, devi dire game open”. Sette anni fa la formula liquidatoria usata da Renzi fu “game over per il Cavaliere”. Tajani gli ricorda che adesso invece “la partita si è riaperta: sia quella politica sia la vicenda Berlusconi e quella della giustizia”, secondo l’interpretazione autentica offerta ai giornalisti dallo stesso numero 2 di Forza Italia. Il riferimento è anche all’ultimo importante segnale di novità venuto nei rapporti tra Renzi e gli azzurri: la richiesta di “chiarezza” avanzata da Matteo proprio riguardo a quella famigerata condanna riportata in Cassazione, dal Cavaliere, nell’estate del 2013. Non è una cosa da poco. Non è un episodio marginale. Renzi è persona attenta ai simboli. Sa che darla ragione a Berlusconi su quel caso giudiziario significa schierarsi con lui in modo abbastanza strutturale in materia di sentenze politiche, magistratura Ideologizzata, uso strumentale della giustizia, asserito collateralismo fra centrosinistra e toghe progressiste. Con la posizione assunta su Silvio “ingiustamente condannato”, Matteo fa riaffiorare insomma tutto il vecchio armamentario del bipolarismo italiano anni Novanta e Duemila. Nostalgia? Non solo. È roba attuale può diventarlo in modo sempre più chiaro. Intanto perché non si tratta del solo elemento di sintonia, in materia di politica giudiziaria, fra forzisti e renziani. Un altro riguarda, com’è noto la prescrizione. Un altro ancora è la sempre attuale e sottovalutata materia della separazione delle carriere. Tanto sottovalutata da essere, assai più di quanto si creda, il grimaldello in grado di infrangere gli equilibri persino sulla riforma più attuale di tutte, quella del Csm. Renzi infatti non esclude di considerare la via della legge costituzionale, comunque indispensabile se si vogliono separare le carriere dei magistrati, per rimettere in sesto la magistratura squassata dal caso Palamara. Il guardasigilli Alfonso Bonafede non è affatto convinto della soluzione: è anzi contrario all’ipotesi sia per ragioni ideologiche di base sia perché vuole in ogni caso un intervento rapido, che dia subito risposte allo sconcerto suscitato nell’opinione pubblica dall’indagine di Perugia. Non a caso, in un’intervista al direttore del Dubbio, Renzi ha pronunciato un giudizio lapidario sulla proposta avanzata dal guardasigilli per riformare l’ordinamento giudiziario: “Così non va”. E qui siamo di fronte a un’ulteriore doppia sottovalutazione. Le nuove norme sui magistrati e sul loro autogoverno rischiano infatti di allargare nella maggioranza, ben oltre il prevedibile, quella faglia giudiziaria aperta nei mesi scorsi dalla prescrizione, e suturata solo dalla tragedia del coronavirus. Episodi come quello della sentenza su Berlusconi sono solo spie del riaffiorare di quella maggioranza variabile sulla giustizia che aleggia come uno spettro sull’intero quadro politico, seppure in modo periodico e volatile. Ce ne sono altri, e il loro intensificarsi quasi quotidiano è di per sé un indizio. Ieri fonti di Italia viva hanno subito tenuto a far trapelare la notizia che il partito di Renzi ha chiesto agli (attuali) alleati lo stralcio delle due norme più sensibili, dal punto di vista dei rapporti fra giustizia e politica, del decreto Semplificazioni: i limiti all’applicabilità del reato di abuso d’ufficio e la rimodulazione dei presupposti per contestare, agli amministratori pubblici, il danno erariale. Siamo alle solite: sono argomenti sui quali si intravedono timidi tentativi del Movimento 5 Stelle di rinunciare al proprio approccio “general preventivo”. Timidi, almeno dal punto di vista di Renzi e di Forza Italia. Nel caso dell’abuso d’ufficio, solo un paio di giorni fa il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa non solo ha insinuato che le norme annunciate nel decreto sarebbero un precipitoso ravvedimento dovuto ai rischi incombenti, proprio per l’abuso d’ufficio, su sindaci pentastellati come Appendino. Il deputato divenuto vera spina nel fianco dei giallorossi sulla politica giudiziaria ha anche enfatizzato il carattere solo parziale dell’intervento su quel reato. Bene, Renzi cosa fa? Ci si tuffa alla grande. Prova ad aprire un’altra contraddizione, nella maggioranza, proprio sul fronte di competenza del guardasigilli. Come se quell’ipotesi di rimettere gli equilibri in discussione sul tema tradizionalmente più arroventato fosse una minaccia da agitare con cadenza sempre più fitta. E tutto naturalmente acquisisce un significato ancora più rilevante, per la stabilità del governo, dopo che ieri Berlusconi si è visto costretto a smentire l’impressione di voler aprire a un nuovo esecutivo, suscitata dalla propria intervista a Repubblica. Da un momento all’altro la partita può tradursi in crisi vera. E il fatto che, come dice Tajani, i giochi siano riaperti, è un dato impossibile da contestare. Mesina irreperibile: la Cassazione aveva stabilito il ritorno in carcere Corriere della Sera, 3 luglio 2020 La “primula rossa” del banditismo sardo sarebbe in fuga dopo il provvedimento dell’alta Corte che ha respinto il ricorso dei suoi legali, rendendo definitiva la condanna a 30 anni. Graziano Mesina, detto “Grazianeddu”, sarebbe in fuga dopo che la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dai suoi legali, rendendo così definitiva la condanna a 30 anni di reclusione per associazione a delinquere comminatagli nel dicembre del 2016. Dopo la sentenza dell’alta Corte, per l’ex “primula rossa” del banditismo si sarebbero dovute riaprire le porte del carcere. Ma secondo i quotidiani sardi sarebbe già irreperibile. La scarcerazione - Mesina attualmente vive ad Orgosolo, in Barbagia. Poco più di un anno fa era stato scarcerato dal carcere di Badu e Carros per un vizio di forma a pochi giorni dalla decorrenza dei termini. Era stato incarcerato dopo la condanna in appello per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti. Secondo la Dda di Cagliari sarebbe stato a capo di due gruppi criminali attivi in punti geografici della Sardegna per coprire l’approvvigionamento di vari tipi di droga, con base in queste due zone dell’isola. Con il rigetto del ricorso decade in via definitiva la grazia concessa a suo tempo dal presidente della Repubblica. La grazia di Ciampi - Quella di Mesina è stata una vita particolarmente movimentata. Ha 79 anni e di questi quasi 50 sono stati trascorsi in cella. Nel 2004 aveva avuto l’occasione di cambiare vita, dopo la grazia concessa dall’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Era tornato a Orgosolo, il suo paese, e aveva iniziato a lavorare come guida turistica nel Supramonte. Era stato anche un possibile candidato al Grande Fratello e all’Isola dei Famosi. Ma era poi stato intercettato dai carabinieri che avevano ricostruito dai suoi discorsi con altri compari, apparentemente su questioni agricole e di allevamento, i codici di un traffico di stupefacenti. E dopo la condanna la grazia era stata revocata. Giurisdizione italiana anche su fatti commessi da stranieri completamente all’estero di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2020 La Cassazione conferma la giurisdizione italiana e, di conseguenza, la legittimità della misura cautelare personale a carico del comandante del cargo libanese “Bana” attraccata a inizio 2020 al porto di Genova. La Cassazione ha affermato con la sentenza n. 19762/2020 la giurisdizione italiana in base al comma 2 dell’articolo 10 del codice penale e l’ha negata in base alla Convenzione Onu di Palermo adottata nel 2000 e resa esecutiva in Italia con legge del 2006 sul contrasto alla criminalità organizzata transnazionale. Infatti, secondo la Corte, la norma convenzionale che afferma la giurisdizione dello Stato contraente, anche per fatti completamente realizzati all’estero, non è norma autoesecutiva, ma essa affida ai Paesi contraenti la facoltà di regolamentare tali casi eccezionali di radicamento della giurisdizione in assenza di legami tra reato territorio nazionale. Norme internazionali non autoesecutive - Per la Cassazione tali tipi di norme internazionali per la loro efficacia necessitano di norme nazionali di dettaglio, che non si possono intravedere nella generale legge di esecuzione di un trattato. Il fatto - L’accusa derivava dalla testimonianza del terzo ufficiale della motonave il quale abbandonando la nave ormeggiata nel porto genovese ha contestualmente chiesto asilo nel nostro Paese e dichiarato alle autorità italiane l’avvenuta violazione delle norme internazionali sul commercio di armi e, specificatamente, di quelle sull’embargo di armi verso la Libia. Secondo il racconto dell’ufficiale dissociatosi dal resto dell’equipaggio la nave libanese affittata dalla Turchia di Erdogan si era lì recata per caricare armi e tecnologie militari da consegnare alla fazione di Al Serraj in Libia. Così intervenendo di fatto a favore di uno dei due contendenti il potere nello Stato africano. E, soprattutto, violando le norme internazionali Ue e Onu che hanno fissato l’embargo di armi verso la Libia. Il dato storico riportato dal richiedente asilo e che aveva radicato la giurisdizione in Italia (non per un fatto commesso da soggetti stranieri interamente all’estero, ma per essere stato consumato il reato “anche” in Italia) era stato quello dell’affermata ricezione sul suo cellulare di un sms pubblicitario di wind nella tratta Turchia-Libia durante una delle tante disattivazioni del sistema Ais per il rilevamento della posizione della nave. Fatto storico non corroborato ancora di altre conferme, ma come già detto, per la Cassazione la legittimazione del giudice italiano già nella fase della cautela deriva dal fatto che il ministero competente ha chiesto di procedere per un fatto che - se non fosse confermato il sillogismo tra sms e attraversamento delle acque italiane - resterebbe comunque commesso da stranieri interamente all’estero, perseguibile in Italia appunto grazie alla richiesta ministeriale prevista all’articolo 10 del Codice penale. La perenzione comporta la caducazione della misura cautelare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 2 luglio 2020 n. 13629. L’estinzione del giudizio per perenzione comporta la caducazione automatica di tutti gli effetti riconducibili alla misura cautelare eventualmente accordata. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 13629 depositata ieri, respingendo il ricorso proposto da una psicologa nei confronti della Asl di Lecce. La professionista rivendicava il proprio diritto a mantenere lo status giuridico di medico psichiatra, e dunque i relativi emolumenti, come disposto dall’ordinanza cautelare del Tar Puglia del 1993 (e ciò quantomeno per tutta la durata in cui l’ordinanza aveva operato e cioè da 1° aprile del ‘91 al 19 ottobre 2004, data di perenzione del giudizio intrapreso al Tar). La Corte di appello di Lecce, nel 2014, aveva già rigettato la domanda ritenendo che il decreto di perenzione del Tar avesse travolto l’ordinanza del tribunale amministrativo. Contro questa decisione ha fatto ricorso la psicologa ma la Sezione lavoro ha confermato il giudizio di secondo grado. La Suprema corte ricorda che, secondo la giurisprudenza di legittimità, “il provvedimento cautelare emesso dal giudice amministrativo per assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso non assume (al pari di quello emesso dal giudice ordinario - salvo i casi espressamente previsti) carattere decisorio e non incide in via definitiva sulle posizioni soggettive dedotte in giudizio, essendo destinato a perdere efficacia per effetto della sentenza definitiva di merito”. E nel medesimo senso si è espresso anche il Consiglio di Stato. Il provvedimento cautelare, dunque, è sempre emanato “con riserva” di accertamento della fondatezza nel merito. Da ciò discende, prosegue la decisione, che anche i provvedimenti cautelari che hanno un contenuto positivo devono limitarsi a introdurre una disciplina che anticipi in via meramente interinale la produzione degli effetti del provvedimento negato o non adottato dall’amministrazione, essendo la misura cautelare destinata comunque ad estinguersi laddove non sia seguita da una decisione di merito, non potendo aspirare ad acquisire stabilità neppure ove la volontà delle parti sia concorde in tal senso. Gli effetti di carattere sostanziale conseguono, dunque, solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito favorevole, che è la sola idonea ad assicurare al provvedimento adottato in via cautelare effetti permanenti. Pertanto, conclude la Cassazione, se il provvedimento cautelare è, per sua natura, un provvedimento interinale che subisce le sorti del giudizio nel cui ambito è emanato, è evidente che la sua efficacia viene meno: 1) a seguito di una pronuncia di rigetto del ricorso; 2) nel caso di successiva ordinanza di revoca del provvedimento cautelare “res melius perpensa”; 3) per la sopravvenienza di situazioni incompatibili con il mantenimento degli effetti del provvedimento cautelare; 4) in conseguenza di qualunque vicenda processuale che abbia effetti estintivi sul processo cautelare. Oppure, come verificatosi nella specie, sull’intero giudizio, “vista la stretta strumentalità, non solo funzionale, ma anche strutturale che nell’ambito del processo amministrativo emerge tra la tutela cautelare e la decisione di merito, garantendo la prima provvisoriamente gli effetti della seconda pur senza escludere, ovviamente, la possibilità di un giudizio dall’esito diametralmente opposto a quello che la misura cautelare assicura in via interinale”. Campania. “Troppi suicidi in cella”, necessaria strategia per fermare la strage di detenuti di Francesca Sabella Il Riformista, 3 luglio 2020 Nelle carceri della Campania ci sono 17 psicologi e 23 psichiatri provenienti dall’Asl. A loro si aggiungono 43 esperti psicologi che fanno parte dell’organico dell’amministrazione penitenziaria. Pochissimi rispetto ai detenuti che avrebbero bisogno di un sostegno psicologico e di percorsi di lunga durata. Al quadro drammatico della carenza di personale medico specializzato, si aggiunge la quasi totale assenza di “articolazioni psichiatriche”, cioè di aree destinate ai detenuti affetti da problemi mentali. In Campania l’articolazione psichiatrica è presente solo in cinque istituti penitenziari: Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Benevento, Salerno, Sant’Angelo dei Lombardi, oltre che nel carcere femminile di Pozzuoli. La situazione delle carceri campane è al collasso e da febbraio sino a oggi ci sono stati quattro suicidi. L’ultimo pochi giorni fa a Poggioreale quando Antonio, detenuto 39enne, ha deciso di togliersi la vita. In tutto il Paese, invece, il numero di suicidi in cella è salito a 23. È vero che il carcere è per sua stessa natura un luogo dove albergano i fantasmi della depressione, della tristezza e dell’arrendevolezza, ma è anche vero che alcuni detenuti entrano nei penitenziari quando già vivono disagi psichiatrici e lì vengono lasciati soli a combattere i loro mostri. “Nel solo carcere di Poggioreale, ci sono 100 detenuti che vengono trattati come detenuti “normali” ma che provengono da istituti per la cura di patologie mentali - fa sapere Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti - Lo Stato dovrebbe collocare quelle persone in residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), cioè in strutture sanitarie per detenuti affetti da problemi mentali”. I numeri, invece, raccontano una storia diversa: “Ci sono 11 detenuti nel carcere di Benevento, otto in quello di Carinola, sette ad Avellino, 10 a Secondigliano e 23 Santa Maria Capua Vetere che prima erano seguiti dal servizio di salute mentale e che oggi sono detenuti illegittimamente in un carcere comune”, aggiunge Ciambriello. Questa fotografia della realtà carceraria è una delle tante componenti che spinge un uomo privato della libertà a privarsi anche della vita. E questo è stato anche il caso di Antonio, padre di tre bambini, che ha deciso di suicidarsi. Antonio avrebbe dovuto scontare ancora due anni a Poggioreale. Era la terza volta che tentava il suicidio e per questo era sottoposto a una sorveglianza speciale perché considerato un soggetto a rischio. Condivideva la cella con altre sei persone, ma ciò non è bastato a evitare la tragedia. Non si sa come sia riuscito a sfuggire allo sguardo dei suoi compagni e degli agenti penitenziari che, nelle altre circostanze, erano riusciti a salvarlo. Non si sa perché a due anni dalla fine della pena abbia deciso di farla finita, ma possiamo provare a immaginarlo. “Non c’è mai una sola ragione dietro un suicidio - racconta Ciambriello - Antonio aveva già dei problemi e non è stato assistito in maniera adeguata”. Di nuovo al punto di partenza: mancano psichiatri e psicologi. “L’anno scorso l’Asl di Avellino ha indetto un concorso per assumere nell’organico delle carceri due psichiatri, con contratto a tempo indeterminato - racconta il garante - Quante persone si sono presentate? Zero”. Spesso sono gli agenti penitenziari a parlare con i detenuti, cercando di capire e segnalare quelli a rischio ma anche questo comparto del carcere andrebbe potenziato. “In tutta la Campania ci sono 5mila agenti per 6.404 detenuti - continua Ciambriello - ma il problema è che si tratta di un lavoro così usurante ed emotivamente pesante che, ogni giorno, circa 800 poliziotti non prestano servizio”. I detenuti con disagi psichiatrici si ritrovano dietro le sbarre e in compagnia della loro solitudine. Perciò Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli, ha chiesto di “essere informato di ogni caso a rischio”. Farà visita ai detenuti anche ogni giorno “se questo dovesse servire a evitare gesti disperati”. Intanto lo Stato vuole assumere 95 psichiatri da collocare in tutte le carceri italiane ma “ne servirebbero 950 per gestire i soggetti fragili - conclude Ciambriello - Non si può morire di carcere in carcere. Bisogna creare percorsi per evitare altre situazioni drammatiche e che possano reinserirli nella società”. È questo o no lo scopo della detenzione? Santa Maria Capua Vetere (Ce). Video-chiamate sospese, scoppia la rivolta delle detenute casertanews.it, 3 luglio 2020 Ancora violenza al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Stavolta ad accendere la miccia della rabbia di detenute e detenuti la sospensione delle videochiamate in tutte le sezioni ad Alta Sicurezza. Lo rende noto il sindacato Sappe. I disordini sono cominciati nel reparto Senna dove sono ospitate le donne. Circa 50 detenute, alcune delle quali recluse per reati associativi, hanno dato vita alla protesta. A dar manforte alle rivoltose, poi, sono stati i reclusi del reparto Tamigi. “La protesta messa in atto è particolarmente violenta, con rifiuto di rientro dai passeggi, incendi e distruzione di suppelletti - fa sapere il segretario nazionale del Sappe Emilio Fattorello - Il personale della Polizia Penitenziaria attende ordini e regole di ingaggio chiare da parte delle Autorità preposte alla gestione di tale evento critico”. Per Donato Capece, segretario generale del Sappe, anche il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha gravi responsabilità: “Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è sempre più distante dalla ‘suà forza di Polizia, la Polizia Penitenziaria. Non ha speso una parola per i colleghi di Santa Maria Capua Vetere, non ha speso una parola per stigmatizzare le continue violenze in danno dei poliziotti, non ha indicato una soluzione concreta per fermare questa spirale di violenza: anzi, sembra che le proposte per rivedere i circuiti e le norme dell’ordinamento penitenziario, a partire dalla vigilanza dinamica delle carceri che è alla base di tutta questa violenza inaccettabile, siano state abbandonate in qualche cassetto polveroso del Ministero. Ma un Guardasigilli non può occuparsi solo di anti-corruzione o pensare di confrontarsi solamente con il Garante dei detenuti sulle tematiche del carcere: Bonafede sta con Caino o con Abele?”, si domanda. Intanto sui disordini di Santa Maria Capua Vetere, quelli durante il lockdown che hanno portato a 57 agenti della penitenziaria finiti sul registro degli indagati, è tornato anche il leader della Lega Matteo Salvini. “Ditemi come si fa a sedare una rivolta con margherite e tulipani - ha detto durante un’iniziativa del sindacato Ussp davanti a Montecitorio - La cosa folle è che solo in Italia non ci siano detenuti che ne hanno pagato le conseguenze ma dei poliziotti che si ritrovano indagati. Questa è una vergogna”. Modena. Quei reclusi scelti per dare aiuto psichiatrico ai loro compagni di Errico Novi Il Dubbio, 3 luglio 2020 Nel carcere della tragedia c’è un modello integrato. Starace, direttore della salute mentale nell’Ausl emiliana: “monitoriamo con continuità centinaia di detenuti, alcuni selezionati per sostenere i compagni”. Modena vuol dire anche impegno. Dei volontari e dei medici. Il carcere teatro della rivolta di marzo finita in tragedia, è anche un modello di integrazione fra supporto territoriale psichiatrico e sistema trattamentale. “Il segno lasciato anche tra noi medici per quanto avvenuto fra l’8 e il 9 marzo non è lieve, innanzitutto per i colleghi che sono stati tenuti sotto sequestro”, spiega Fabrizio Starace, direttore del dipartimento Salute mentale nell’Ausl emiliana. Nella Casa circondariale Sant’Anna di Modena sono morti, per quei fatti, 9 detenuti. Ma è persino più impegnativo dare un senso alla tragedia se si considera il livello dell’attività svolta, anche nel penitenziario, dalla struttura guidata da Starace. Che è figura chiave, nel panorama della psichiatria italiana attenta al rilievo sociale dei trattamenti. Non a caso presiede la Società italiana di epidemiologia psichiatrica ed è stato chiamato a far parte della task force di Colao. “A Modena abbiamo agito con grande scrupolo nel predisporre innanzitutto uno screening permanente per individuare tra i nuovi giunti, attraverso la verifica di uno psicologo, i detenuti esposti a elevato rischio di atti autolesionistici. Con la disponibilità nella direzione”, racconta Starace, “è stata attivata una sezione definita “I care”, in cui circa 30 reclusi con quel profilo si trovano in celle vicinissime all’infermeria. In tal modo è possibile visitarli senza il bisogno della richiesta formale. Nell’ultimo anno sulle oltre 1.300 persone che anche solo per un giorno sono state detenute, ne abbiamo sottoposte 350 a visita psichiatrica”. Nella sezione “I care” passano non solo i reclusi che mostrano fin dall’inizio vulnerabilità, “ma anche chi diventa più esposto in seguito, per esempio, a notizie che riguardano i familiari o la propria vicenda giudiziaria”. Ricorda ancora lo psichiatra che dirige il dipartimento modenese: “L’attività sulla salute mentale in carcere, nel nostro caso, è svolta da due psichiatri stabilmente distaccati preso il penitenziario. Nel 2019 hanno effettuato oltre 1330 visite. Vuol dire che ciascuno dei detenuti sottoposti almeno una volta a controllo da parte dei due colleghi è stato visto in media 4 volte in un anno, ma che ovviamente per i casi meritevoli di maggiore attenzione è intervenuta una vigilanza continua”. Ma forse a rendere il caso particolarmente virtuoso, e ancora più ardua la comprensione della tragedia, è soprattutto il progetto dei “Peer supporters”, “che coinvolge 13 reclusi selezionati tra diversi aspiranti e ritenuti in grado di assumere una funzione di sostegno per i compagni di detenzione”. Detenuti che, prima ancora di uscire, diventano “assistenti” nell’attività psichiatrica dietro le sbarre: “Hanno l’esplicito compito di assumere un ruolo di supporto per gli altri detenuti e allertare i medici qualora scorgano situazioni di allarme, dal punto di vista del disagio mentale”. Un ribaltamento di ruoli che si traduce, per i 13 detenuti, in segnalazioni positive al giudice di sorveglianza, e che a breve conoscerà una rimodulazione “esterna” per chi è in semilibertà. Un contesto di impegno, da parte dell’Ausl di Modena, di fronte al quale il direttore della Salute mentale attribuisce la tragedia di marzo “a una concomitanza di fattori tra i quali uno di particolare fatalità: le overdosi da metadone sono state mortali perché chi aveva sofferto di dipendenza prima di entrare in carcere, aveva nel frattempo ridotto la propria tolleranza alle sostanze”. Ma anche di fronte all’orrore di quelle 9 morti, i servizi sanitari di qualità come quelli assicurati nello stesso carcere di Modena non possono essere dimenticati. Perugia. La rinascita possibile con il Progetto “Argo” di Luigi Cristiani foodmakers.it, 3 luglio 2020 Ripartono le attività formative all’interno del Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia. Il gel al posto delle strette di mano con i docenti, le mascherine al volto, i guanti, il distanziamento, regole nuove al tempo del Covid ma sempre la stessa motivazione ed entusiasmo. Si torna in aula anche all’interno del Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia dopo ben 116 giorni. Riparte il progetto “Argo: percorsi formativi per il reinserimento dei detenuti”, finanziato dalla Regione Umbria tramite finanziamento del Fondo Sociale Europeo, e gestito dall’ATI composta da Frontiera Lavoro, Cesar e Cnos Fap, con 15 detenuti della sezione maschile inseriti nel corso per “Addetto alla cucina”, il primo a ripartire dopo la sosta lo scorso marzo per l’emergenza pandemica, previste 120 ore di didattica. A seguire gli altri percorsi formativi per “Impiantista elettricista”, “Addetto ai servizi di pulizia” e “Addetto alle colture vegetali ed arboree”, in tutto 57 i partecipanti. “Per noi, dichiara Marco uno degli allievi, la formazione professionale ed il lavoro sono strumenti di riscatto. Quello che solitamente è un periodo di abbrutimento e degrado, per noi diventa l’occasione per cominciare una nuova vita”. E tornerà quest’anno, probabilmente all’inizio del mese di settembre, anche la cena di gala “Golose Evasioni”, questa volta all’aperto per rispettare le prescrizioni volte a contenere la diffusione del coronavirus, un’occasione imperdibile per saggiare le competenze acquisite dagli allievi che allestiranno un evento davvero unico supportati nella preparazione delle diverse portate dai loro docenti chef, i “Moschettieri del Gusto” Catia Ciofo, Antonella Pagoni, Paolo Staiano e Ada Stifani. “È una vera gioia riprendere le nostre lezioni in carcere, afferma la chef Catia Ciofo. È forse solo una goccia nell’oceano ma comunque una boccata di ossigeno per i nostri allievi reclusi che nell’impegno quotidiano a lezione investono per ricostruirsi un futuro. Un’occasione per noi docenti che possiamo trasformare un luogo di chiusura ed esclusione quale è il carcere, in luogo di confronto, là dove le persone imparano ad ascoltare gli altri, a vederli, ad avere attenzione alle loro vite come forse non hanno mai avuto prima, per dare a tutti più occasioni di crescita e non solo di addestramento al lavoro. E immaginare per loro e con loro nuovi orizzonti”. Le diverse attività progettuali saranno condotte dal personale di Frontiera Lavoro secondo la metodologia che da venti anni contraddistingue il suo operato e che nel corso degli anni ha consentito l’inserimento al lavoro di ben 107 detenuti. La redazione di un progetto professionale è alla base di una metodologia che ha come presupposto fondamentale l’adesione attiva del beneficiario al percorso di educazione e orientamento al lavoro. “Come dimostra l’esperienza che abbiamo maturato anche in altri contesti, sostiene Luca Verdolini, coordinatore del progetto, la rieducazione dei detenuti è efficiente sia per loro che per la società e la formazione professionale è la forma più adeguata per perseguirla. L’esperienza formativa, infatti, aumenta il grado di stima dei detenuti consentendo una riscoperta della loro dignità, permette il recupero dei legami familiari favorendo una rinnovata socialità e, infine, incide sulla recidiva, migliorando i comportamenti individuali e le abitudini sociali”. Proprio per questo il progetto “Argo” rappresenta un’occasione unica per i detenuti di sperimentare un contesto reale con cui misurarsi. Regole, responsabilizzazione, dignità. Si scoprono così, in carcere. “Resto meravigliato, dice Gaetano, davanti ai piatti che riesco a realizzare. La bellezza aiuta a vivere, ridà speranza. È vero per tutti, perché non dovrebbe esserlo anche per noi?”. Terni. Il carcere regge all’emergenza pandemia Il Messaggero, 3 luglio 2020 Il comandante Fabio Gallo: “Grazie alla polizia penitenziaria”. “Sono stati giorni di alta tensione, anche per le notizie che arrivavano dagli altri istituti penitenziari alle prese con rivolte e disordini. Il nostro personale ha risposto come sempre nel migliore dei modi. È riuscito a contemperare le preminenti esigenze istituzionali di garantire l’ordine e la sicurezza dell’istituto con la preoccupazione che il contagio del virus potesse entrare nel penitenziario, con conseguenze inimmaginabili. A ciò si aggiungeva la preoccupazione per la lontananza dalle loro famiglie. Non posso non rivolgere un ringraziamento agli uomini e alle donne della polizia penitenziaria di questo reparto per il lavoro svolto durante l’emergenza sanitaria, in particolare nel periodo delicatissimo della fase 1”. Fabio Gallo, comandante della polizia penitenziaria del carcere di Sabbione, coglie l’occasione della celebrazione della festa del patrono del corpo San Basilide per fare il punto sull’emergenza pandemia. Un periodo vissuto col terrore che il virus potesse entrare dietro le sbarre. Sono stati mesi di controlli accurati sul personale in ingresso, sottoposto ogni volta alla misurazione della temperatura corporea e chiamato a compilare un’autocertificazione del proprio stato di salute. La certezza è che l’emergenza Covid ha portato benefici sul fronte del sovraffollamento del penitenziario. Se nel pre-covid a Sabbione c’erano 543 detenuti, oggi sono scesi a 503. Cinquantacinque i detenuti che hanno lasciato le celle da aprile ad oggi per effetto del decreto “Cura Italia”, che non ha riguardato i 41bis. A Terni insomma, a differenza di quello che è accaduto in altri istituti, non ci sono state scarcerazioni “eccellenti”. Ancora in sofferenza però i numeri del personale di polizia penitenziaria: la forza operativa oggi conta su 202 uomini e donne a fronte di un organico previsto di 246 unità. A causa dei problemi di salute del vescovo, Piemontese, la messa è stata celebrata da padre Sergio e padre Massimo, cappellano del carcere. Presenti il prefetto vicario, Andrea Gambassi, il sindaco, Leonardo Latini e il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi. La cerimonia si è conclusa con l’inaugurazione di un’accogliente sala relax destinata al benessere del personale dell’istituto, da utilizzare nel tempo libero e negli intervalli lavorativi. Napoli. A Scampia nasce “Fuori le mura”: dal carcere alla bottega sudreporter.com, 3 luglio 2020 La valorizzazione del lavoro dei detenuti, la commercializzazione di prodotti del commercio equo e solidale, l’impegno costante nella promozione delle realtà produttive del territorio con l’obiettivo di apportare benefici all’intero tessuto sociale. È con queste premesse che nasce la bottega “Fuori le mura”, uno spazio stabile di esposizione e vendita dei prodotti realizzati grazie alle diverse attività che si svolgono negli istituti di pena campani. Un progetto portato avanti dalla cooperativa Elle Bi e sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese. Dalla Verdura Bio di stagione coltivata dai detenuti di “CampoAperto” nella casa circondariale di Secondigliano al vino prodotto dalla Fattoria Sociale “Al Fresco di Cantina” nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino), ma anche borse, accessori e bigiotteria: ci sono l’impegno, la dedizione, il sudore e la voglia di riscatto di tanti detenuti all’interno della bottega “Fuori le mura”, che sorgerà all’interno dei locali della Cooperativa sociale “L’uomo e il Legno” di Scampia, nata nel 1995, da sempre impegnata nella lotta per affermare il diritto alla dignità di tutti e di ciascuno attraverso il lavoro, anche grazie al fondamentale contributo di partner commerciali come l’Azienda Agricola Rusciano. L’inaugurazione della bottega “Fuori le mura” è in programma per il giorno 8 luglio 2020 alle ore 11.30, in Viale della Resistenza, 15 a Scampia. Roma. Al via laboratorio ex detenuti per recupero frutta e verdura romadailynews.it, 3 luglio 2020 “Fare rete porta sempre a un risultato. Oggi al Centro Agroalimentare di Roma abbiamo presentato un importante progetto di recupero di frutta e verdura, in cui saranno impegnate persone ex detenute. Ciò è possibile grazie a borse di lavoro di Roma Capitale, con cui vogliamo contribuire al riscatto di persone che hanno avuto un passato di detenzione in carcere”. Così in un comunicato Veronica Mammì, Assessora alla Persona, alla Scuola e Comunità solidale di Roma Capitale intervenendo questa mattina alla presentazione del laboratorio “Papa Francesco” per la trasformazione della frutta e della verdura recuperate all’interno del Centro Agroalimentare di Roma (Car) e che verrà gestito dall’Isola Solidale e da ex-detenuti grazie a 4 borse di lavoro messe a disposizione da Roma Capitale. Saranno donne e uomini con un passato detentivo ad essere impegnati in tale progetto. I prodotti del laboratorio verranno in parte ridistribuiti ai circuiti solidali della Capitale. L’idea del laboratorio nasce dal progetto “Frutta che Frutta non Spreca” promosso da Italmercati e finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali con l’obiettivo di ridurre gli sprechi attraverso il riutilizzo delle eccedenze ortofrutticole grazie alla successiva creazione di un laboratorio di trasformazione e confezionamento. “Il laboratorio- ha aggiunto Mammì- è intitolato a ‘Papa Francesco’ ed è realizzato con il Centro Agroalimentare di Roma e Isola Solidale: grazie alla lavorazione di frutta e verdura recuperate, saranno prodotti in questo laboratorio marmellate e succhi di frutta che saranno poi distribuiti anche nel circuito di solidarietà di Roma Capitale, per aiutare singoli e famiglie in difficoltà. Un circuito di potenzialità positive e di sostegno reciproco, che permette la crescita di tutti gli attori coinvolti. Tengo per questo a ringraziare tutte le persone e gli enti coinvolti, con cui abbiamo unito le forze per raggiungere un obiettivo comune: lotta allo spreco, inclusione, solidarietà”. “La presentazione di oggi- ha concluso Mammì- è stata anche l’occasione per consegnare i premi ‘Isola Solidale per il sociale 2020?, dedicati a enti, associazioni e aziende che in questi mesi di lockdown hanno collaborato, anche con il Comune, alla distribuzione di generi alimentari e ad altre iniziative di solidarietà che hanno fatto la differenza per tante famiglie. La città di Roma si è dimostrata solidale e collaborativa. Ciascuno ha fatto la sua parte, insieme, unendo le forze e l’impegno. Uniti anche se distanti, abbiamo risposto con azioni concrete alle difficoltà causate dell’emergenza sanitaria. Andiamo avanti, in rete, nell’azione costante per i più fragili”. Erano presenti, tra gli altri, Gabriella Stramaccioni, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Valter Giammaria e Fabio Massimo Pallottini, rispettivamente presidente e direttore generale del Car, Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale, Lucia Ercoli, direttore dell’associazione Medicina Solidale, Massimo Colonnelli, dirigente della Bauli, Vittorio Romanazzi, responsabile Centro Sud di Mcdonal’s Italia, Alessandro Amicone, presidente dell’associazione Roccaraso Futura, Sonia Mucci, responsabile amministrativo della Fondazione Campagna Amica, Angela Iantosca, giornalista e scrittrice e Luigi Giannelli, Ispettore Superiore Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale Rebibbia. Per tale occasione sono stati assegnati i premi “Isola Solidale per il sociale 2020” a enti, associazioni e società che si sono distinte in attività di solidarietà nella Capitale e non solo durante il blocco dovuto al Covid-19. Il premio è stato assegnato al Centro Agroalimentare di Roma, alle Acli di Roma e Provincia, all’Associazione Medicina Solidale, alla Bauli Prodotti Dolciari, a Mcdonald’s Italia, alla Fondazione Campagna Amica della Coldiretti, all’Associazione Roccaraso Futura, a Angela Iantosca, giornalista e scrittrice e a Luigi Giannelli, Ispettore Superiore Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale Rebibbia. “Vorrei ringraziare prima di tutto il Car - spiega Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale - per avere dato sostegno e sostanza a questa rete sociale così importante non solo con l’apertura del laboratorio Papa Francesco, ma anche sostenendoci ogni giorno nella nostra quotidiana battaglia alle fragilità nella nostra città insieme alle Acli di Roma e Medicina Solidale e tanti altri. Insieme al Car vorrei citare la Bauli, Mcdonald’s Italia e Roccaraso Futura che ci sono state accanto in questi mesi difficili. La presenza dell’assessore Mammì e della Garante dei detenuti di Roma Capitale - conclude Pinna - ci dimostra che la strada intrapresa dalla nostra associazione per il reinserimento dei detenuti è quella giusta e solo attraverso progetti che portino ad un’attività lavorativa possiamo dare una chance a quanti stanno vivendo hanno vissuto il mondo del carcere”. Potenza. I detenuti impegnati in lavori di pubblica utilità ufficiostampabasilicata.it, 3 luglio 2020 Venerdì 3 luglio 2020 alle ore 11.00 a Potenza presso la sede dell’Acta spa in via della Siderurgica n. 12, durante una conferenza stampa sarà sottoscritto un Protocollo d’Intesa tra Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria- Casa Circondariale “Antonio Santoro” Potenza, il Tribunale di Sorveglianza Potenza e l’Acta s.p.a Azienda per la Cura e la Tutela Ambientale - Potenza, finalizzato all’avvio di “attività di coprogettazione per la realizzazione di progetti sperimentali ed innovativi per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, attività lavorative intra ed extra-murarie di protezione ambientale e di recupero del decoro di spazi pubblici ed aree verdi da parte dei soggetti in stato di detenzione e di modelli locali di gestione integrata del ciclo di raccolta dei rifiuti nella Casa Circondariale di Potenza”. Il Protocollo d’Intesa sarà sottoscritto dal Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Dott. Bernardo Petralia, dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza Dott.ssa Paola Stella, dal Direttore della Casa Circondariale di Potenza Dott.ssa Maria Rosaria Petraccone e dall’Amministratore unico dell’Acta Dottor Roberto Spera. Saranno presenti il Dott. Giuseppe Palo Funzionario di Staff del Provveditore, il Comandante di Reparto Dirigente Dott. Giovanni Lamarca e la Dott.ssa Sonia Crovatto Capo Area ufficio educatori. L’accordo si inserisce nel solco tracciato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, promuovendo il lavoro di pubblica utilità che rappresenta una modalità di attuazione del programma di trattamento dei detenuti ammessi al lavoro all’esterno, i quali “possono essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito, tenendo conto anche delle loro specifiche professionalità e attitudini lavorative, nell’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, le unioni di comuni, le aziende sanitarie locali o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato”. Il lavoro di pubblica utilità è disciplinato dall’art.20-ter dell’Ordinamento Penitenziario così come modificato dal d.lgs. 2 ottobre 2018 n.124. sulla base di apposite convenzioni stipulate ai sensi dell’articolo 47, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230. I detenuti coinvolti parteciperanno ad un corso di formazione qualificante relativo al mercato del lavoro e potranno ottenere eventualmente un sostegno dalla Cassa delle Ammende. Saranno inoltre coperti da una polizza assicurativa garantita da un apposito Fondo Inail dedicato al lavoro di pubblica utilità e, al termine del periodo di detenzione, potranno richiedere al giudice di sorveglianza la remissione parziale o totale del debito maturato nei confronti dello Stato per il mantenimento in carcere. L’intesa intende inoltre, dare ulteriore impulso a quanto si sta portando avanti nella Casa Circondariale di Potenza, in collaborazione con il privato sociale in tema di agricoltura sociale con il progetto Officine Officinali produzione di oli essenziali e acque profumate e di riuso degli scarti, anche attraverso la realizzazione di una stazione di compostaggio in anaerobiosi dove l’Acta s.p.a intende qualificare le azioni con un ruolo attivo, attraverso un progetto di Lombricultura per la produzione di Humus, nel più ampio programma denominato “Prison Farm Rete lucana per l’Economia Carceraria”. Trani (Bat). Presentato il Garante dei detenuti, Elisabetta De Robertis radiobombo.com, 3 luglio 2020 “Sarà importante l’azione sinergica con il territorio”. È stato presentato ieri pomeriggio, nella Casa di reclusione femminile, il Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Trani. Si tratta di Elisabetta De Robertis, eletta dal Consiglio comunale: “Il primo obiettivo - ha detto - sarà quello di conoscere meglio la realtà tranese: ho avuto modo di visitare gli istituti detentivi e ho già fissato appuntamenti per conoscere le associazioni presenti sul territorio. Le urgenze riguardano sia il trasferimento dell’istituto femminile, sia la sezione blu del carcere maschile: a tal riguardo pare che il nuovo plesso sia pronto ed è necessario aprirlo al più pesto per chiudere una sezione non congeniale ad una detenzione giusta. Sarà importante - continua - promuovere la genitorialità con spazi nuovi e con l’attenzione massima ai diritti dei minori per non fare aggiungere altri traumi. Bisognerà trovare soluzioni alternative e nuove affinché la genitorialità possa esprimersi in maniera corretta”. “Non c’è sovrapposizione con il garante comunale - spiega Pietro Rossi, garante regionale -. Gli obiettivi si raggiungono tutti insieme nella piena collaborazione. Non c’è un’impostazione gerarchica: si tratta di un’azione sinergica. Le politiche di welfare sono declinate a livello territoriale, mentre la programmazione compete a livello regionale. Quindi, ciascuno farà il proprio: il garante territoriale aumenta sicuramente l’indice di collegamento con i detenuti”. Presente all’incontro anche Cherubina Palmieri, assessore del comune di Trani: “Siamo la seconda città in Puglia dopo Lecce ad avere un garante dei diritti dei detenuti. Questo è un passo importante perché rappresenta la storia della città caratterizzata dalla presenza di due istituti molto spesso ignorati. Oggi siamo contenti di aver portato a termine un percorso iniziato nel 2017: inizia un nuovo viaggio dove sarà fondamentale la collaborazione con le pubbliche amministrazioni”. Con “Doc 3” viaggio nelle carceri femminili rai.it, 3 luglio 2020 Nuovo appuntamento con “Doc 3”, i grandi documentari d’autore, in onda su Rai 3 oggi venerdì 3 luglio alle 23.55, con “Caine” di Amalia De Simone e Assia Fiorillo. Si entra nei penitenziari femminili di Fuorni-Salerno e Pozzuoli e nel vivo della vita carceraria quotidiana. Giornalista la prima, cantante la seconda, insieme entrano nelle storie delle detenute attraverso un esperimento formativo: l’invenzione di una canzone scritta da tante mani che diventa il racconto autentico di una città controversa e appassionata, Napoli. Ma è soprattutto il racconto della vita di donne, in questa città difficile, i cui destini sembrano segnati dall’ineluttabilità del crimine. Il carcere sorprende perché le donne protagoniste del documentario colgono l’opportunità del riscatto e acquisiscono la consapevolezza di un possibile diverso futuro. In questo viaggio all’interno del carcere la musica rappresenta un momento catartico e la bellissima canzone “Io sono te”, che conclude l’esperimento, è un modo per abbattere un muro che ci separa da queste vite dietro le sbarre. Il mio “canto libero”, detenute protagoniste in musica di Carmen Autuori La Città di Salerno, 3 luglio 2020 Un brano inedito e un documentario girato tra i penitenziari di Salerno e Pozzuoli questa sera su Rai3. Il progetto delle croniste De Simone e Petricciuolo con la partecipazione della cantante Assia Fiorillo. Due penitenziari, Fuorni e Pozzuoli, un gruppo di detenute - tra cui figure di primo piano dei clan campani, elementi di spicco del traffico di stupefacenti donne costrette, ma anche per scelta, ad esercitare il mestiere più antico del mondo o rapinatrici seriali annoiate da una vita normale - sono donne “Caine”. Intorno alle loro storie e ad un brano musicale scritto a più mani, le loro, si sviluppa il documentario “Caine”, che andrà in onda domani su Rai3 in seconda serata, per “Doc 3 - Il cinema del reale”. L’autrice è Amalia De Simone, giornalista d’inchiesta nominata Cavaliere della Repubblica al merito dal presidente Mattarella per aver contribuito alla lotta alle mafie, con la collaborazione della giornalista Simona Petricciuolo e la partecipazione di Assia Fiorillo, cantautrice che, in punta di piedi e grazie al potere della musica, è riuscita ad entrare nel cuore delle detenute scalfendone l’iniziale diffidenza. Il documentario è il frutto di un progetto portato avanti da Amalia ed Assia che per lungo tempo hanno frequentato i penitenziari femminili di Fuorni e Pozzuoli raccogliendo le storie di vita delle detenute, sia fuori dal carcere che dentro. Vite che sono colorate di grigio, come le strade dei quartieri di periferia di Napoli, ma anche di Salerno - da cui la maggior parte di esse provengono - e come i muri delle celle dove trascorrono il loro tempo. Nel documentario c’è Giovanna, vicina ai casalesi che ha tolto il cognome a sua figlia che era quello di un boss ora all’ergastolo; Giusi leader di una piazza di spaccio; ma c’è anche Jessica, giovanissima ed appartenente alla camorra. Giusi e Jessica si sono conosciute in carcere e si vogliono sposare e Mutu, il cui corpo porta i segni della brutalità dell’essere umano, in carcere per aver tentato di uccidere il compagno. Protagonisti sono anche i momenti di vita dietro le sbarre: i pranzi, le attività, gli incontri con i bambini e la costante paura di perderli, la noia e la sospensione del tempo. E poi c’è la canzone “Io sono te”, scritta da Assia Fiorillo con il contributo delle detenute. “In carcere si canta tantissimo, è una delle poche attività che non conosce limiti imposti dalla legge. Raccolte intorno alla melodia, queste donne hanno sciolto molti dei loro nodi in maniera semplice, modulando il corpo ed i pensieri a ritmo di musica - spiega Assia - grazie a “Io sono te”, il singolo che uscirà domani e che anticipa l’album previsto per ottobre, sia noi che le detenute siamo giunte alla consapevolezza che l’errore può capitare a tutti, molto dipende dalla culla in cui si nasce. E così la canzone diventa strumento di abbattimento di muri, nel caso specifico di sbarre. Ognuno di noi può essere l’altro”. “È stato un lavoro con un chiaro punto di vista giornalistico dato che faccio cronaca e inchiesta da sempre - racconta Amalia De Simone, autrice del documentario - mi ero trovata sempre dall’altra parte, spesso sono stata presente alle maxi retate. Il tempo trascorso tra le mura del carcere per realizzare il progetto “Caine” è servito soprattutto a me perché ha mischiato le mie convinzioni, mi sono posta dall’altra parte riuscendo, così, a comprendere meglio determinati contesti perché non è indifferente il luogo in cui si nasce”. “Uno scambio profondo quello che ho vissuto, a tratti anche molto doloroso - aggiunge - Grazie alla Rai che ci permette di mandare in onda il documentario e al prezioso contributo musicale di Assia, queste ragazze troveranno voce”. “Caine non è l’unico progetto inclusivo e di riscatto posto in essere nella Casa Circondariale di Fuorni - prosegue Amalia - è di pochi giorni fa la notizia di un protocollo con il Museo Madre che vedrà le detenute impegnate nella realizzazione di mascherine con tessuti forniti dal museo stesso, grazie all’impegno del direttore Rita Romano, da sempre convinta che il tempo della detenzione debba essere di riscatto e di consapevolezza”. Così ho trasformato i loro pensieri in una canzone di Assia Fiorillo Corriere del Mezzogiorno, 3 luglio 2020 “Cifre. Siamo dei numeri sui fogli”. Me lo disse con le lacrime agli occhi una detenuta poche ore dopo che le era stato rifiutato un permesso per vedere i suoi figli. È vero. A volte abbiamo meno considerazione per l’esistenza di chi ha sbagliato. Anche se non siamo abituati a giudicare o puntare il dito. Eppure “indossa le mie scarpe e vedi come si porta questo peso e prova a stare sempre in piedi”, mi disse Anna, una ragazza arrestata nella retata per droga al Pallonetto di Santa Lucia in cui spacciavano famiglie intere. A lei è stato tolto un bambino. E non è impossibile capire che è un peso che rischia di farti sprofondare. Queste parole sono diventate una canzone perché loro potessero farsi sentire e anche perché io e anche Amalia, frequentandole per tanti mesi, ci siamo accorte che nelle loro storie, nei loro umori, nel modo di gioire o di ferirsi, c’erano qualcosa di noi. Assomigliarsi non significa necessariamente condividere dei percorsi. Significa sapere che certe cose ti possono capitare perché sei nato e cresciuto in un posto piuttosto che in un altro o perché ti hanno fatto del male o perché hai conosciuto solo il buio. In questo viaggio nei penitenziari di Fuorni e di Pozzuoli ho capito concretamente che l’indifferenza ci rende complici. Soprattutto nei confronti di chi si assume la responsabilità di quello che ha fatto, non si perdona e ti fa capire con la vita quello su cui noi possiamo solo astrattamente ragionare. Giusy per esempio, in Caine racconta bene quanto i vantaggi di una vita criminale siano sempre effimeri, non servono a raggiungere alcun tipo di felicità. La fine della storia è sempre la stessa, la cella o la morte. E ci fai i conti sempre e per sempre. La prima volta che sono entrata in carcere, a Salerno, non sapevo bene cosa avrei fatto insieme alle donne che stavo per incontrare. La mia predisposizione, da musicista, all’improvvisazione mi ha portato una sana incoscienza utile per raccogliere ed accogliere le loro storie. Loro lo sanno bene quanto sia importante la musica. Lo è per loro, nelle lunghe giornate vuote: quando le ore sembrano non passare mai, la musica le consola e talvolta le riporta alla vita di fuori. “Io Sono Te” è nata dal titolo, che è anche il ritornello, perché la prima, potente idea che ti investe quando entri in carcere si basa su una domanda: “E se fossi nata io dov’è nata lei? Se questa esperienza di vita fosse la mia?”. Le strofe sono venute fuori attraverso i nostri incontri e dibattiti, in cui ho chiesto alle detenute di provare a scrivere e a raccontare le loro emozioni. E così, quelle parole scritte sui foglietti sono state raccolte e messe in metrica. È stato come spogliarci e contare tutti i nostri lividi. E per me cantare con tante voci nuove. Perché “l’interesse nazionale” non va in missione di Alberto Negri Il Manifesto, 3 luglio 2020 L’interesse nazionale, quello vero, non va in missione. Il dibattito sulle missioni militari all’estero di oggi alle commissioni esteri e difesa dovrebbe servire a una riflessione seria sulla visione strategica del nostro Paese. In concreto si parla di aumentare i costi militari che nel 2019 hanno già sfiorato il miliardo e mezzo di euro che in epoca di Covid-19 sarebbe forse meglio investire nella sanità o nella scuola. Tanto più che adesso armiamo pure l’Egitto, come scriveva ieri sul manifesto Chiara Cruciati, e sosteniamo uno dei più brutali regimi dell’area senza avere in cambio neppure un briciolo di giustizia per Giulio Regeni. Un vergognoso fallimento cui sarebbe meglio non aggiungerne altri. Se dovessimo guardare al recente passato l’Italia, dopo la Libia 2011, avrebbe dovuto ritirarsi per protesta da qualunque missione all’estero. Fatta eccezione per l’Unifil, l’operazione Onu per sorvegliare il cessate il fuoco tra Libano e Israele, che nel 2006 fu uno dei non tanti successi della nostra diplomazia (ministro degli Esteri D’Alema). Nel 2011 l’iniziativa francese, britannica e americana di colpire Gheddafi ha rappresentato la più grande sconfitta dell’Italia dalla seconda guerra mondiale. Non solo era stato attaccato il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, da noi ricevuto a Roma in pompa magna soltanto sei mesi prima, ma il crollo del regime libico ha significato l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi dalle coste dell’Africa del Nord influendo sulla destabilizzazione del quadro politico italiano. La situazione è stata ancora più aggravata dai partner europei e della Nato che per anni ci hanno lasciato al nostro destino. Ma l’Italia non poteva neppure protestare perché un mese dopo gli attacchi si è unita alla Nato nei raid contro Gheddafi perdendo ogni credibilità con i partner della Sponda Sud, come del resto hanno messo in luce drammaticamente i tormentati rapporti con l’Egitto dopo il caso Regeni. Senza il nostro contributo e le basi aeree italiane le operazioni contro il dittatore libico avrebbero subito un significativo rallentamento. Lo dice anche un esperto come l’ex capo di stato maggiore di allora, il generale Camporini. L’Italia ha quindi compiuto gravi errori di valutazione nella speranza che i Paesi vincitori del momento avrebbero tenuto in considerazione i suoi interessi nazionali. Un altro calcolo sbagliato. Quale compensazione abbiamo avuto dalla partecipazione alla missione Nato contro Gheddafi? Nessuna, anzi tutti - amici presunti e avversari - hanno colto la palla al balzo per minare la nostra posizione nel Mediterraneo, dove abbiamo interessi primari nel campo energetico. A questo aggiungiamo la questione dei migranti. La realtà è che adesso Erdogan, già guardiano dei flussi migratori sulla rotta balcanica pagato dall’Unione europea, ora è in grado di esercitare un’influenza e un ricatto anche sulla rotta libica. La cosa è ancora più grave perché la Turchia in Libia ha usato anche milizie jihadiste, alcune affiliate ad Al Qaida, responsabili dei massacri contro i curdi siriani, usati dall’Occidente per combattere il Califfato e poi abbandonati dagli americani e da noi. Dalla rotta libica potrebbero arrivare non solo flussi migratori ma anche altro di ben più minaccioso. Il risultato è che la Turchia oggi occupa la Tripolitania e che la Russia decide, insieme a Egitto ed Emirati, la sorte della Cirenaica. Mentre la Francia, il Paese che iniziò la guerra, si trova dalla parte di Mosca in aperto contrasto con la Turchia, secondo esercito più potente dell’Alleanza Atlantica. Quindi ogni mossa che noi adottiamo sotto il cappello della Nato o di un’altra coalizione europea ci sbilancia e dobbiamo fare esercizi di equilibrismo. Da una parte con la missione navale Irini dovremmo fermare le navi turche che violano l’embargo ma certamente irritiamo Ankara di cui siamo ospiti a Tripoli. Dall’altra tentiamo di riequilibrare l’asse strategico appoggiando con forniture colossali di armi il regime del generale egiziano Al Sisi nemico di Sarraj e della Turchia. Insomma tentiamo di salvare capra e cavoli. Conduciamo manovre navali con Usa e Francia nel Canale di Sicilia per contenere Erdogan ma dobbiamo anche negoziare con la Turchia che sta aprendo due basi militari in Tripolitania. La nostra è la diplomazia del pendolo e le missioni all’estero servono a procurarci crediti con questo con quell’altro alleato augurandoci che difendano anche i nostri interessi. Una speranza senza troppo fondamento visti i precedenti della Libia. Alcune di queste missioni non hanno alcun senso, come quella che dura da 19 anni in Afghanistan. Teniamo 800 soldati e una base che non ci servirà a niente soprattutto se gli americani e Kabul faranno l’accordo con i talebani. Pensate che divertente stare in un posto dove con i corpi speciali sei andato per anni a caccia dei tuoi ex nemici. Solleva molti dubbi anche la nuova avventura che l’Italia sta per intraprendere nella “Coalizione per il Sahel” (operazione francese Barkhane e G-5 Sahel), con la Task Force Takuba. Si tratta di una missione contro il terrorismo nel Sahel, con la cooperazione di 14 Paesi europei ma al di fuori dell’Unione europea: un’altra dimostrazione della tendenza francese per una Europa della difesa à-la-carte, cioè che serve agli interessi di Parigi. Detto questo le missioni all’estero servono anche per fare un po’ di pubblicità alla nostra industria bellica. Corriamo dei rischi con i militari per far un po’ di soldini. Quindi se non è proprio necessario è meglio starsene a casa, così eviteremo di scrivere in futuro articoli grondanti retorica sulle sorti geopolitiche del nostro bellissimo Paese. Migranti. La regolarizzazione non è nei campi: l’88% è per colf e badanti di Michelangelo Borrillo Corriere della Sera, 3 luglio 2020 La mancanza di braccianti nei campi (dai 200 ai 250 mila secondo le stime delle principali organizzazioni agricole) è stato uno dei tormentoni durante il lockdown. E a metà maggio è arrivata la soluzione del governo, la regolarizzazione dei migranti, una sanatoria partita lo scorso 1° giugno. Il rapporto di giugno del Viminale sull’emersione dei rapporti di lavoro evidenzia, però, che più che i braccianti, la regolarizzazione ha riguardato colf e badanti, le altre categorie interessate dal provvedimento. I numeri parlano chiaro: colf e badanti rappresentano l’88% delle domande già perfezionate (61.411 su 69.721) e il 76% di quelle in lavorazione (8.116 su 10.645). In totale, quindi, i braccianti per i quali a giugno è stato avviato l’iter di regolarizzazione sono stati poco più di 10 mila su un totale di 80.366 domande di regolarizzazione. La procedura, iniziata il 1° giugno, si concluderà il 15 agosto. Tra le regioni, la Lombardia è in testa per le richieste presentate per il lavoro domestico e di assistenza alla persona, mentre la Campania primeggia per quello agricolo. Ogni giorno, in media, sono state presentate dai datori di lavoro al portale del ministero dell’Interno oltre 2.650 domande di regolarizzazione, con un andamento in costante crescita: il giorno di apertura, il 1° giugno, erano 870; il 30 giugno sono state 3.263. Quanto ai Paesi di provenienza del lavoratore, ai primi posti risultano Marocco, Ucraina e Bangladesh per il lavoro domestico e di assistenza alla persona; Albania, Marocco e India per l’agricoltura e l’allevamento. Su 61.411 datori di lavoro che hanno perfezionato la domanda di regolarizzazione per il settore domestico, 45.730 sono italiani (il 75% del totale). Per il settore agricolo, su 8.310 datori di lavoro 7.451 sono italiani (90%). “La domanda di lavoro nei campi - è il commento della Coldiretti - non può essere soddisfatta dalla sola regolarizzazione prevista per decreto; e a dimostrarlo è la bassissima percentuale di adesione nel settore agricolo, ben l’88% riguarda infatti il lavoro domestico”. Adesso, inoltre, che sono stati riaperti i confini dell’Unione europea, dopo la fase acuta dell’emergenza Covid-19, tornano in Italia i primi lavoratori stagionali extracomunitari provenienti dai quattordici Paesi ammessi nella lista Ue (apertura agli extracomunitari che arriva a poco più di due settimane dal via libera ai circa 150 mila stagionali comunitari regolari nei campi). Assicureranno la raccolta delle tante produzioni nazionali di eccellenza, messe a rischio dalla mancanza di manodopera a causa del lungo periodo di lockdown che ha portato alla chiusura delle frontiere. Oggi a Perugia atterra il primo volo charter da Casablanca con 110 lavoratori stranieri specializzati che, finito il periodo, torneranno nel loro Paese. “Sono in arrivo - sottolinea ancora Coldiretti - operai agricoli stagionali qualificati, da anni impiegati sul territorio nazionale, tanto da essere diventati indispensabili per l’attività di molte aziende dove lavoreranno soprattutto alla raccolta di frutta e ortaggi in piena produzione nei mesi di luglio ed agosto e questo in Umbria, Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Valle d’Aosta”. Migranti. “In Grecia detenzioni arbitrarie e respingimenti” di Adriana Pollice Il Manifesto, 3 luglio 2020 La denuncia nel report di Oxfam e del Greek council for refugees. La nuova legge sul diritto d’asilo, che limita i diritti dei migranti, potrebbe essere applicata anche dall’Ue nella seconda metà del 2020. Detenzioni arbitrarie e “respingimenti” da parte delle autorità; abusi e molestie sulle donne; 15mila migranti esposti al contagio da Covid-19 solo nel campo di Moria a Lesbo, in uno spazio che ne dovrebbe contenere 2.800: sono i dati diffusi da Oxfam e dal Greek council for refugees in un rapporto che fotografa gli effetti del nuovo sistema di asilo in Grecia, approvato quest’anno. Si tratta di una conseguenza delle politiche europee: “L’attuazione degli accordi tra Ue e Turchia del 2016 ha trasformato i campi sulle isole greche in una delle peggiori catastrofi in materia di diritti umani - spiega il report. L’intrappolamento dei richiedenti asilo ha gettato le basi per la repressione dei loro diritti, con una maggiore pressione da parte della Commissione europea sulle autorità e il legislatore greci per ottenere risultati”. La norma adottata da Atene potrebbe, a sua volta, diventare il modello da applicare nell’Ue. Durante la pandemia, 38mila migranti sono rimasti bloccati sulle isole in campi con una capienza ufficiale di quasi 6.200 persone; a metà giugno nel paese erano detenuti circa 229 minori migranti non accompagnati: “Il nuovo sistema di asilo sembra concepito per “deportare” e “calpestare” i diritti dei migranti, con pochissime chance di accedere a eque procedure per ottenere la protezione internazionale”. Eppure nel 2020 sono stati poco più di 10mila gli arrivi, a fronte degli oltre 74mila del 2019. Negli hotspot delle isole i migranti (inclusi bambini, donne incinte, disabili) sono in stato di detenzione senza accesso a cure e tutele. “La legge ha posto le basi affinché la detenzione amministrativa diventi la norma di default. Le persone non vengono informate in una lingua che comprendono né sanno perché o per quanto tempo saranno rinchiuse, senza poter fare ricorso”. A Moria vivono 15mila persone senza bagni né acqua. “Questa riforma è uno schiaffo all’impegno dell’Europa di proteggere chi fugge da guerre e persecuzioni - ha spiegato Riccardo Sansone, responsabile dell’ufficio umanitario di Oxfam Italia -. L’Ue è complice perché ha usato la Grecia come terra di sperimentazione di nuove politiche migratorie”. Sul fronte legale, la riforma impedisce di fatto a molti richiedenti asilo di ricorrere in appello, in caso di respingimento della domanda, perché è necessario l’avvocato e a Lesbo ce n’è uno solo. Non vengono fornite indicazioni precise, come giorno e orario delle interviste: ogni appuntamento mancato è motivo sufficiente per bocciare le domande. “Spesso il diniego è solo una conseguenza della procedura accelerata, che moltiplica gli errori” spiega Spyros-Vlad Oikonomou del Grc. La conseguenza è la detenzione immediata di coloro che hanno visto bocciata la domanda e il successivo respingimento in Turchia o nel paese di origine. Una regola che vale per chi è arrivato a inizio 2020, mentre per chi è entrato nel 2019 ci sono mesi di attesa, che possono diventare anni, intrappolati in condizioni disumane. “Il Patto europeo in materia di asilo e migrazione, atteso per la seconda metà del 2020, dovrebbe ampliare il modello greco usando la detenzione come mezzo principale per affrontare gli arrivi e respingere rapidamente i flussi alle frontiere - spiegano Oxfam e Grc. Chiediamo, invece, al governo greco e alla Commissione Ue di rivedere le norme affinché non siano lesive dei diritti umani, né in contrasto con il diritto comunitario”. Regeni, dal Cairo nessun aiuto ai pm: “Vogliono arrivare all’archiviazione” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 3 luglio 2020 Indagati altri cinque 007 egiziani. I genitori di Giulio: dall’Egitto domande offensive. Il prossimo 28 novembre scade il termine delle indagini per la procura di Roma ma il procuratore del Cairo sembra aver chiuso le porte agli investigatori italiani. “Vogliono l’archiviazione” è il timore che serpeggia, ora, alla Procura di Roma. La data a cui guardare, se si vuole seguire questo ragionamento, è il prossimo 28 novembre. Quel giorno, infatti, scadrà l’ultima proroga alle indagini richiesta dal pubblico ministero Sergio Colaiocco per accertare la verità sul rapimento e l’uccisione di Giulio Regeni. Senza risposte, se cioè la rogatoria inviata al Cairo dalla Procura romana resterà lettera morta come sembra, l’indagine sarà di fatto conclusa. Destinata ad un’archiviazione appunto. Un’eventualità che, al momento, dopo il fallimento del dodicesimo vertice italo egiziano appare verosimile. L’incontro - Non solo il nuovo procuratore del Cairo, Hamada Al Sawi, sembra aver chiuso le porte agli investigatori italiani ma, anziché fornire risposte concrete alle domande poste dai pm italiani, ha avanzato una nuova richiesta di identificare gli obiettivi seguiti dal ricercatore friulano durante il suo soggiorno egiziano. Cosa ci faceva Regeni al Cairo? Quali erano i veri scopi della sua missione? Domande che suonano, come ha detto la famiglia del ragazzo, “offensive e provocatorie”. Ma che, a quattro anni dal suo omicidio, dopo i molti vertici fra le autorità, sembrano anche vagamente lunari. È chiaro che i magistrati italiani avrebbero preferito confrontarsi sul terreno investigativo. Emerge, ad esempio, che oltre ai dati necessari a procedere all’elezione di domicilio dei cinque ufficiali e agenti dell’intelligence egiziana indagati per sequestro di persona, i pm romani, nella rogatoria trasmessa un anno e mezzo fa al Cairo, avevano avanzato richieste di informazioni su altri cinque agenti di collegamento, responsabili presumibilmente anche del successivo depistaggio delle indagini. La ricostruzione discutibile - Vale la pena ricordare, infatti, che le autorità del Cairo avevano offerto a Roma una ricostruzione poco credibile dei fatti, attribuendo a un gruppo di criminali comuni, peraltro uccisi in seguito a uno scontro a fuoco (quindi impossibilitati a difendersi), la responsabilità dell’uccisione di Giulio Regeni. Una versione dell’accaduto che si scontra con alcune evidenze e che, ragionevolmente, non tiene conto dei segni sul corpo del ricercatore. Conte: massima attenzione - Commenti e dichiarazioni, il giorno dopo la deludente videoconferenza fra magistrati italiani ed egiziani, si susseguono. Prudente il commento del premier Giuseppe Conte che sembra voler prendere tempo: “Non sono aggiornato sull’incontro tra le due Procure - ha detto -. Ovviamente da un semplice incontro non deriva automaticamente un riposizionamento dell’Italia. Seguiamo il caso con la massima attenzione”. Mentre Mohamed Lotfly, il legale dei Regeni al Cairo osserva: “L’Egitto vi prende in giro, non ha motivo di cooperare, ha già ottenuto tutto. Ora la commissione Regeni deve chiedere agli ufficiali italiani di dire tutto quello che sanno - aggiunge. Sono abbastanza sicuro che i servizi segreti italiani sappiano molto di più di quello che viene detto”. Molte le dichiarazioni a favore della proposta di Claudio e Paola Regeni che hanno sostenuto l’esigenza di richiamare il nostro ambasciatore dall’Egitto. Favorevoli sia Laura Boldrini, come pure l’Anpi, mentre Erasmo Palazzotto, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta si aspetta “dal governo un segnale forte”. Infine, sulla questione, interviene il presidente della camera Roberto Fico: “La questione di Giulio Regeni è di Stato, non solo della famiglia”. Dietro il muro su Regeni doppia ipocrisia di Stato di Eraldo Affinati Il Riformista, 3 luglio 2020 Per Roma e il Cairo sono prioritari gli interessi economici. Ho pensato spesso in questi anni a Giulio Regeni, il cui sorriso contagioso che abbiamo visto tante volte in fotografia paradossalmente decifravo negli occhi vispi dei ragazzi egiziani, minorenni non accompagnati, ospiti dei centri di pronta accoglienza della Caritas, ai quali insegnavamo la nostra lingua. Indimenticabili frugoletti carichi d’energia vitale che spesso non erano mai andati a scuola, difficili da tenere fermi seduti al banco a scrivere e sillabare, tuttavia forse proprio per questo capaci di stupirti con risposte imprevedibili che denotavano intelligenza e fantasia. Nel momento in cui dovevamo controllarli, a volte ci sentivamo quasi sopraffatti, ma quando a un certo punto di colpo non sono arrivati più, chissà forse proprio a causa della crisi legata al caso Regeni, ne abbiamo sentito la mancanza. Venivano quasi tutti dal governatorato di Gharbiyya, una regione rurale a nord del Cairo, non molto distante dal luogo in cui il 3 febbraio 2016 venne ritrovato il corpo orribilmente martoriato del giovane italiano, lungo la strada che da Alessandria conduce verso la capitale. Nato a Trieste, aveva ventott’anni e stava portando avanti una ricerca sui sindacati per conto dell’università di Cambridge. Era stato rapito il 25 gennaio, nel quinto anniversario dei tumulti di piazza Tahrir. Facile pensare al coinvolgimento dei servizi segreti: in questi casi purtroppo la verità viene raramente a galla, anche perché, prima di enunciarla, se non sancirla, bisogna tenere presente i contesti, valutare le conseguenze, verificare le fonti. Non c’è bisogno di conoscere il “Leviatano” di Thomas Hobbes per rendersene conto. E nemmeno “Il principe” di Nicolò Machiavelli per capirlo. Anche se, a dire il vero, chi ha letto questi classici nutre forse meno illusioni sulla natura dello Stato di diritto rispetto a quelli che avanzano alla cieca nel Paese dei Balocchi facendo supposizioni. Per restare al crudele omicidio del nostro dottorando e giornalista, emblematico esponente di una generazione giramondo e cosmopolita sulla quale fece perno il bacino elettorale dei Cinque Stelle, non si può certo negare il lavoro svolto con pazienza, perizia, presumibile accortezza, dalle magistrature coinvolte. Eppure sono trascorsi quattro anni e mezzo di indagini e l’ultima notizia, diffusa ieri l’altro, segna un secco arretramento anche rispetto alle più caute aspettative: l’incontro on line fra le procure dei due Paesi direttamente interessati non ha prodotto alcunché. Anzi, come è stato giustamente sottolineato, la richiesta egiziana di avviare ulteriori azioni investigative finalizzate a meglio delineare l’attività del giovane assassinato, rischia di riportarci ancora più indietro, nell’oscurità della tipica ragion di Stato, alimentando la sfiducia di quanti sin dall’inizio denunciarono l’ipocrisia delle stesse democrazie occidentali, pronte a sbandierare il vessillo della giustizia per ottenere il consenso popolare, senza rinunciare alla convenienza economica degli affari da stipulare. Da qui l’evidente imbarazzo della Farnesina, sul punto di richiamare l’ambasciatore almeno per consultazioni temporanee, mentre il presidente del Consiglio sembra prendere tempo, consapevole della delicatissima situazione in cui si trova il nostro Paese, nell’estate del Coronavirus il più vulnerabile dei moli al centro del Mar Mediterraneo. Da una parte abbiamo i genitori di Giulio Regeni, con tutta l’opinione pubblica schierata al loro fianco; dall’altra la maxi commessa per la vendita di armamenti al Cairo del governo italiano. Sana indignazione e mirata accortezza geopolitica. Le giravolte del presidente al-Sisi e le manifestazioni a sostegno di Giulio. Diritti umani ed equilibri internazionali. Difficile trovare un varco utile per superare lo stallo. Ripeto: io, nel mio piccolo, ho provato a farlo, se non altro liricamente, alla ricerca di un trofeo di giovinezza perduta, insegnando i verbi a Mohamed, quindici anni, pressoché analfabeta, il quale non sapeva nulla di Giulio Regeni, voleva solo tornare a casa, ma a quanto pare suo padre glielo impediva, restando in attesa dei soldi che il figlio gli avrebbe potuto inviare quando sarebbe stato assunto in pizzeria. Il Tribunale dell’Aia: “Marò processati in Italia”. All’India un risarcimento di Francesco Grignetti La Stampa, 3 luglio 2020 I giudici riconoscono “l’immunità” ai fucilieri Latorre e Girone. “Erano funzionari in esercizio” quando uccisero i due pescatori. Dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone dovrà occuparsi la giustizia italiana, non quella indiana. Dopo quattro anni di attesa, arriva la decisione del Tribunale arbitrale dell’Aia a cui i due governi si erano rivolti. Prevale la tesi italiana: i due marò, che sono accusati di avere sparato e ucciso due pescatori indiani, scambiati per pirati nel febbraio 2012, erano “funzionari governativi in esercizio” e perciò godono di una immunità funzionale. Ciò significa che in questo caso, trattandosi difatti accaduti in acque internazionali, non sono sottoposti alla giurisdizione dell’India. L’arresto e poi il processo sono illegittimi. Per loro ci sarà un processo in Italia, da vedersi se davanti alla magistratura ordinaria o quella militare. Allo stesso tempo, l’arbitrato afferma che comunque l’atto dei due fucilieri di Marina ha violato la libertà di navigazione indiana, e ha causato danni materiali e morali all’equipaggio del peschereccio e perciò l’Italia è invitata a pagare le spese, previo accordo bilaterale tra i due governi. Una sentenza apparentemente salomonica, che permette all’India di gridare comunque vittoria, e che è accolta da enorme soddisfazione in Italia. “Oggi si mette un punto definitivo a una lunga agonia”, dice il ministro Luigi Di Maio. “Il mio pensiero va a Massimiliano e Salvatore per i difficili momenti che hanno vissuto. Nessuno dei nostri militari impiegati all’estero può essere lasciato da solo”, gli fa eco il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. “È stata riconosciuta giurisdizione all’Italia. Mi sembra una buona notizia”, conclude il premier Giuseppe Conte. Trionfanti, poi, i toni del centrodestra, che dei marò avevano fatto una bandiera. Non finisce qui, ovviamente. Per i due si profila un lungo percorso giudiziario. Ma ieri prevaleva la soddisfazione di chiudere con l’India, dove i due sono stati agli arresti a lungo. E dove rischiavano una pesante condanna, e perfino la pena di morte. “Per me è una questione morale: il verdetto del Tribunale arbitrale internazionale mi ha alleggerito il cuore. Vivevo costantemente con un pugno nello stomaco. Adesso so di essere un uomo libero. Mia figlia mi chiedeva sempre di andare a Disneyland e non potevo mai accontentarla. Adesso potrò farlo. Quando è iniziato tutto questo avevo 33 anni, ora ne ho 42...”, si sfoga Salvatore Girone. Da quattro anni è tornato in Italia, ma non da uomo del tutto libero. Parla anche la figlia di Massimiliano Latorre, Giulia: “Finalmente questa storia si conclude. Non festeggeremo perché è ancora presto, ma facciamo un sospiro di sollievo. Un giorno qualcuno chiederà scusa a questi uomini che hanno portato avanti una storia da ben 8 anni con dignità e onore, non pronunciando mai una parola fuori posto”. Per entrambi il discorso è molto semplice: quel giorno, a bordo della petroliera “Enrica Lexie” dove erano in servizio antipirateria, hanno obbedito a degli ordini. E non c’è mai stato intento doloso. La decisione dell’arbitrato (giova ricordare che era composto da 4 giudici di nomina italiana, 4 di nomina indiana, e un presidente scelto di comune accordo) lascia un po’ di amaro tra gli uomini della Marina militare. “Se il tribunale arbitrale si doveva pronunciare sulla giurisdizione e non nel merito - s’interroga Antonello Ciavarelli, rappresentante dei sottufficiali nel Cocer Marina - perché stabilisce che l’Italia dovrà compensare l’India per i danni causati al peschereccio se ancora non è dimostrata alcuna colpevolezza? Se il governo farà ciò, farà sentire condannati prima di una improbabile sentenza negativa del processo non solo i due fucilieri ma tutti noi colleghi”. Il governo però non intende ostacolare il totale rappacificamento con l’India. E perciò Di Maio annuncia: “L’Italia naturalmente rispetterà quanto stabilito dal Tribunale arbitrale, con spirito di collaborazione”. Caso marò, la gioia di Girone e Latorre: “Ora siamo liberi” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 3 luglio 2020 I due fucilieri accolgono con sollievo la notizia della decisione del Tribunale dell’Aja e ora sperano di potersi vedere: “Ci avevano proibito ogni contatto”. Un sospiro, un “finalmente” e nessuna esplosione di felicità. Quando hanno ricevuto la notizia della decisione del Tribunale dell’Aja i marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, hanno avuto la stessa reazione: “Un’emozione incontenibile, difficile da spiegare, da metabolizzare”, dice Latorre. E Girone, a distanza, gli fa eco: “Ero quasi incredulo”. Una soddisfazione velata di amarezza. Per il troppo tempo trascorso in attesa della giustizia. “Eravamo da otto anni e mezzo nel limbo, ora torniamo liberi”, spiega Girone. “Per me era una questione morale. Il verdetto del Tribunale arbitrale internazionale mi ha alleggerito il cuore. Vivevo costantemente con un pugno nello stomaco. Adesso so di essere un uomo libero. Mia figlia mi chiedeva sempre di andare a Disneyland, e non potevo mai accontentarla. Adesso potrò farlo. Quando è iniziato tutto questo avevo 33 anni, ora ne ho 42...”, evidenzia. E aggiunge: “Adesso posso riottenere la mia libertà personale, purtroppo fino ad oggi vincolata dalle procedure lunghissime determinate dalla giurisdizione indiana. Eravamo in Italia da quattro anni, ma obbligati a rispettare le condizioni dettate dalla Corte suprema indiana”. Poi chiarisce un dettaglio: “Adesso la Corte suprema indiana dovrà attenersi alle disposizioni dell’Aja, al pari della giustizia italiana: ci dovrebbero, lo dico con il condizionale, restituire la libertà piena”. La libertà per fare cosa? Tra i primi desideri di Max Latorre c’è quello di tornare ad abbracciare Girone. “Spero di poterlo rivedere presto”, dice. “Avevano scritto che non si parlavano più, in realtà era una delle tante prescrizioni che gli era stata imposta, come l’obbligo di firma”, spiega Paola che dallo scorso anno è sua moglie. “Magari ci ridanno anche il passaporto così riacquistiamo la libertà di poter viaggiare”, dice Latorre che da dopo l’ictus e l’intervento cardiaco ha smesso l’attività operativa e lavora a Roma, al comando generale. Lui, assicura all’AdnKronos, non se l’aspettava. “Non mi ero fatto alcuna idea. Ero lì ad attendere, certo ci speravo ma sono rimasto sempre con i piedi per terra senza fare ipotesi sulla sentenza”, dice inviando il suo “grazie a tutti gli italiani. Mi auguro che da oggi ricominci un’altra vita”.Ma tutti e due sanno che non è finita. “Ora bisogna capire meglio le cose, è un bel risultato ma ora bisogna capire quali altri passi bisogna affrontare”, dice Latorre. E la moglie Paola conferma: “Ora finalmente la verità potrà venire a galla potranno dimostrare la loro innocenza”. La speranza è ancora questa. Ma, spiega Latorre: “C’è tanta stanchezza. Penso di aver decisamente subito un’ingiustizia”. Anche Girone non nasconde le sofferenze passate. “L’immunità riconosciuta - sottolinea - dimostra che avevamo l’immunità dal primo giorno di questa vicenda. L’India ha fatto quello che non doveva fare, tenendoci in prigione. Ho subito una grande ingiustizia da parte degli indiani. L’inchiesta italiana? Qui inizierà una procedura giudiziaria e ci atterremo a questa”. Poi la gratitudine. “Il mio pensiero emozionato di ringraziamento va a tutte le persone che ci sono state veramente vicine, tanti italiani che ci scrivono e chiamano: il loro supporto è stato importantissimo nelle giornate più dure. Un ringraziamento particolare è per il team di avvocati internazionalisti: da quando sono entrati nella nostra vicenda hanno avuto bisogno di tempo per risanare le disavventure dei governi precedenti nelle fasi iniziali, ma con questo apporto essenziale abbiamo raggiunto il risultato sperato”. Salvatore domani rientrerà a Bari: “Ho condiviso la gioia della sentenza solo telefonicamente con mia moglie Vania e i miei figli. Ora non vedo l’ora di tornare a casa per riabbracciarli”. Degne del padre le parole di Giulia Latorre, la figlia di Max: “Non festeggeremo perché è ancora presto, ma facciamo un sospiro di sollievo. Un giorno qualcuno chiederà scusa a questi uomini che hanno portato avanti una storia da ben 8 anni con dignità e onore, non pronunciando mai una parola fuori posto”. Stati Uniti. Lazzaretto San Quentin: il Covid sferza le prigioni di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 3 luglio 2020 Nel carcere californiano oltre mille contagi, allarme in tutto il Paese. “Conosco questi uomini. Ho trascorso del tempo con loro, sono intelligenti, gentili e compassionevoli. Sono fratelli, padri e figli. Lasciarli ammalare e morire in questo modo è un fallimento morale”. A parlare è il difensore pubblico della contea di Alameda (Acpd), in California, Brendon Woods. Il suo appello è arrivato in seguito alle notizie preoccupanti che arrivano dalla prigione di San Quentin, i casi di coronavirus tra i detenuti infatti hanno raggiunto la cifra di 600 a partire dal 26 giugno. Le carceri dello stato contano attualmente 2.613 casi, di cui circa 1.350 riscontarti negli ultimi 14 giorni. Almeno 22 reclusi sono morti dall’inizio dell’epidemia. Tutto ciò mentre in California il contagio ha colpito 223mila persone e causato 5980 decessi. L’infezione, dopo un primo periodo di contenimento, ha ripreso a galoppare per le frettolose riaperture delle attività economiche e anche per le massicce proteste di strada dopo la morte di George Floyd. Complessivamente al 1 luglio negli Usa ci sono 2.670.000 casi e 127.681 morti secondo il conteggio della Johns Hopkins University. In realtà il picco di contagi verificatosi a San Quentin ha ragioni precise. Il 30 maggio sono arrivati dal carcere di Chino, a sud est di Los Angeles, 121 internati, un trasferimento dovuto all’esplosione dell’epidemia che aveva già provocato 16 morti nella prigione. Fino a quel momento la situazione a San Quentin, zona di San Francisco, era relativamente tranquilla, poi l’emergenza. Ora è cominciata la caccia ai colpevoli, sembra infatti che i detenuti trasferiti non siano stati sottoposti a nessun test. Sotto accusa il Dipartimento per la correzione e riabilitazione (CDRC) sotto la cui responsabilità ricade il vecchio penitenziario. Per la senatrice democratica Nancy Skinner di Berkley “il processo di trasferimento di persone incarcerate da Chino, che aveva uno dei più alti tassi di infezione da Covid-19, solleva seri interrogativi sulla gestione della pandemia”. Eppure la California è uno degli stati che spende di più per la salute in carcere. Il bilancio pubblico del 1 luglio ha registrato una spesa di 13 miliardi di dollari per le 34 prigioni del territorio californiano che “ospitano” 114mila persone. Cifre enormi se paragonate a quelle del Texas che impiega poco più di 3 miliardi per servizi medici. La diffusione del contagio è favorita dal sovraffollamento che colpisce diversi penitenziari. Una realtà che emerge da un rapporto dello stesso Cdcr datato appena il 24 giugno: il carcere vedeva la presenza di 3.507 detenuti, ovvero il 113,8% rispetto la capacità totale di 3.082 posti. Diverse associazioni che si occupano dei diritti degli internati hanno presentato una petizione che fino ad ora è stata firmata da 10mila persone. Il documento è stato consegnato al governatore Gavin Newsom a cui viene chiesto il rilascio immediato dei prigionieri con almeno un anno di pena da scontare, dei detenuti più anziani (a partire dai 60 anni) e con fragilità mediche. Inoltre viene chiesto di istituire procedure di libertà condizionale, con una preferenza per chiunque abbia meno di tre anni di carcere residuo. Etiopia. Proteste e decine di vittime per l’uccisione del cantante-simbolo degli Oromo di Lorenzo Simoncelli La Stampa, 3 luglio 2020 Hachalu Hundessa, cantante, attivista ed icona della lotta per l’indipendenza dell’etnia etiope Oromo è stato ucciso a 34 anni da un gruppo di uomini non ancora identificati. Un episodio che ha scatenato le proteste di migliaia di manifestanti. Negli scontri con le forze di sicurezza sono morte 81 persone, decine i feriti e numerosi edifici sono stati incendiati. Le autorità hanno reagito con il pugno di ferro bloccando, ancora una volta, Internet ed arrestando 35 persone tra cui l’influente mogul, Jawar Mohammed, tra i principali oppositori del Primo Ministro etiope, Abiy Ahmed. Hundessa, con i suoi inni alla libertà, galvanizzava la popolazione Oromo, la maggiore etnia del Paese, ma storicamente la più marginalizzata. “Abbiamo perso la nostra voce - dice un 29enne studente universitario durante il funerale che si è tenuto ad Ambo, la città natale del cantante a 60 chilometri dalla capitale etiope Addis Abeba - ma continueremo a lottare finché sarà fatta giustizia per la sua morte”. Un episodio controverso che riaccende le tensioni e minaccia la stabilità del terzo Paese più popolato d’Africa con oltre 100 milioni di abitanti e che sarebbe dovuto andare al voto, poi posticipato a causa della pandemia di Coronavirus. Il Primo Ministro, Abiy Ahmed (anche lui di etnia Oromo), insignito, lo scorso anno, con il Premio Nobel per la Pace per la storica tregua con l’Eritrea, sta provando a riformare le strutture politiche e militari del Paese, ma il passaggio ad una democrazia multipartitica sta trovando numerosi ostacoli. Nonostante numerosi oppositori politici siano stati liberati, le forze di sicurezza hanno represso le proteste degli ultimi mesi con estrema violenza.