Il Dap sbaglia: la linea dura non è l’antidoto alla violenza di Alessio Scandurra* Il Riformista, 31 luglio 2020 La circolare di Via Arenula suggerisce la repressione come risposta al conflitto nelle carceri. Ma i fatti dicono che la forza non serve. Serve invece un modello di detenzione che guardi alla Costituzione. Ci sono in questo momento in Italia numerosi procedimenti penali in corso per il reato di tortura, introdotto nel codice penale italiano nel 2017, dopo anni di iniziative politiche e di campagne che hanno visto spesso Antigone tra i protagonisti. Molti di questi procedimenti riguardano il carcere. Tra questi vale la pena segnalare il caso di San Gimignano, per fatti che risalgono al 2018, quello di Monza, per fatti del 2019, o quello di Torino, dove recentemente, e per altro titolo di reato, si è saputo che sono indagati anche il direttore della Casa Circondariale, il Comandante di reparto e un leader sindacale. I fatti, in questo caso decine di episodi di violenza brutale denunciati dalla Garante comunale, risalgono al 2017. Abbiamo dunque finalmente un reato, e abbiamo anche cominciato ad usarlo, ma è chiaro che tutto questo non basta. Quando si parla di tortura ancor più che la repressione conta la prevenzione. Se questo è infatti vero per ogni reato, in questo caso lo è ancora di più per due ragioni: da un canto la tortura è una condotta difficile da accertare e da punire, le indagini incontrano molti ostacoli ed il rischio di impunità è purtroppo altissimo. Dall’altro la tortura, quando commessa da un appartenente alle forze dell’ordine, è un reato che più di altri genera un profondo senso di insicurezza: i casi in cui chi deve garantire il rispetto delle leggi e l’effettività dei diritti fa l’esatto contrario danneggiano enormemente la relazione di fiducia e di collaborazione che ci deve essere tra società e forze dell’ordine in un paese democratico. In questo contesto abbiamo preso sul serio la sollecitazione lanciata dall’Amministrazione penitenziaria nella sua circolare del luglio di quest’anno. Il documento, pur auspicando in apertura un “approccio integrato” alla regolazione della vita interna, che tenga conto anche del profilo della prevenzione per contenere le possibili cause di tensione nella vita in carcere, appare in effetti orientato verso un modello di gestione del conflitto interno alle carceri schiacciato sulla repressione. Anche per questo motivo Antigone ha pubblicato in questi giorni un documento mirato a promuovere un modello di detenzione costituzionalmente orientato. Negli ultimi anni in Italia questo modello si è tradotto tra l’altro nell’adozione della cosiddetta sorveglianza dinamica e del sistema a celle aperte, che di fatto è ormai in uso nella maggior parte dei nostri istituti. È un modello che tende a minimizzare la presenza oziosa in cella dei detenuti e dunque a promuovere l’organizzazione e la partecipazione ad attività strutturate durante il giorno. Da alcune parti si accusa questo modello di rappresentare una minaccia alla sicurezza degli istituti. Dall’esperienza delle nostre visite appare il contrario: gli operatori e i detenuti si dicono favorevoli, gli atti di autolesionismo e le infrazioni disciplinari più gravi sono di meno dove vige il sistema delle celle aperte e, forse non a caso, le rivolte scoppiate nelle carceri italiane durante l’emergenza coronavirus sono state meno frequenti negli istituti dove vigeva questo sistema, e dunque dove si è probabilmente più abituati a gestire conflitti ed emergenze con un approccio integrato, centrato anche sul dialogo. Ma la sola apertura delle celle chiaramente non basta. La giornata detentiva va riempita di relazioni e attività significative. Il mondo del lavoro dovrebbe assomigliare il più possibile a quello della comunità libera e preparare alla vita professionale futura (Regola 26 delle Regole penitenziarie europee) ma da noi ciò non accade: tra i detenuti che lavorano la gran parte svolge attività discontinue e poco professionalizzanti e la formazione professionale è ormai molto poco diffusa. Anche l’accesso alle attività fisiche è limitato, spesso a causa della indisponibilità di spazi adeguati, mentre la scuola spesso si svolge nella stessa fascia oraria di altre attività, costringendo i detenuti a sacrificare altre cose o a rinunciarvi del tutto. Nel nostro documento auspichiamo anche la massima residualizzazione dell’uso della forza, nella cui direzione il nostro sistema si è mosso da tempo ma che oggi sembra tornare indietro nel dibattito sull’uso in carcere del Taser. L’idea che la presenza in carcere di armi, anche se ad impulsi elettrici, possa essere un elemento di contenimento della tensione è della violenza è chiaramente risibile e surreale. Le nostre carceri oggi sono assai meno violente di come non fossero fino a pochi decenni fa, o di come tutt’oggi sono quelle di altri paesi. E questo certamente non è accaduto grazie all’uso della forza o del pugno di ferro. Non dimentichiamolo. *Associazione Antigone Nelle carceri l’effetto Lucifero. Necessario ripensare il sistema di Enrico Sbriglia* Il Dubbio, 31 luglio 2020 Quando i custodi si trasformano in aguzzini lo stato deve rivedere i propri modelli. È un classico e credo che abbia in qualche modo segnato la mia vita professionale, offrendomi ulteriori convinzioni al riguardo. Il titolo italiano del libro è “L’effetto Lucifero”, sottotitolo “Cattivi si diventa?” di Philip Zimbardo, professore di psicologia. Racconta di un esperimento: siamo a Stanford, il prof. Zimbardo vuole studiare i comportamenti di un certo numero di giovani di buona famiglia, americani Doc, anzi Wasp (White Anglo- Saxon Protestant), che precedentemente avevano dato il loro consenso a partecipare allo stesso, senza però che si scendesse nei dettagli su ciò che ad essi sarebbe stato chiesto. Il 15 agosto del 1971, di domenica, una delle tante calde e banali domeniche di quell’estate, alcuni di essi vengono arrestati con accuse generiche e approssimative da veri poliziotti, i quali collaborano evidentemente al progetto universitario. Le modalità degli arresti sono tali che i malcapitati non si accorgono assolutamente della finzione. I ragazzi, privati della libertà personale, vengono condotti ed associati in un carcere posticcio, fatto di celle e di grate vere, di telecamere, i custodi, che indosseranno sempre il berretto con la visiera e gli occhiali a specchio tipo Ray-ban, sono anch’essi degli studenti ma a differenza dei primi, sanno di dover recitare una parte. Ai detenuti viene imposto un regolamento carcerario fatto di assurdità che gli stessi devono assolutamente far proprio, pena un crescendo di sanzioni e reazioni violente. Ebbene, accade l’inverosimile (ma nella vita reale come sarà in tutti i luoghi ove lo Stato, attraverso le sue donne e i suoi uomini in uniforme, stringe tra le mani la libertà di una persona, col rischio di stritolarla ove non ponga attenzione?) e i custodi, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, si trasformano in veri e propri carcerieri, mostrano malvagità crescente, non riescono più a fermarsi, entrano nella parte degli aguzzini feroci e disdegnano il diverso ruolo, che pure sarebbe legittimamente d’attendersi, di tutori della legalità in prigione. La situazione precipita progressivamente, al punto che si sarà costretti a sospendere la simulazione scientifica, dopo appena una settimana, ed a intervenire con la massima tempestività, prima che accada l’irreparabile. L’esperimento, quello che poteva essere immaginato come un gioco di ruoli, si traduce in una rappresentazione della cattiveria che si fa carne, sangue, lagrime; Lucifero, il primo angelo del Signore, si trasforma nel capo dei demoni e come tale si comporta. Il paradosso è che l’esperimento avrebbe avuto come obiettivo quello di mettere a fuoco soprattutto la reazione dei detenuti verso la situazione di prigionia, ma al contrario, l’attenzione crescente e preoccupata degli osservatori universitari è andata verso i custodi, che tracimavano ormai con disinvoltura il confine tra il bene ed il male, che si percepivano “padroni” assoluti della vita altrui. Sono ormai passati quasi 50 anni d’allora, ma il ripetersi di storie terribili che sentiamo oggi, le quali ne evocano numerose altre che, ad intermittenza, come dei tenebrosi e profondi fiumi carsici, sono emerse dai luoghi non della Legge ma della disperazione e della grettezza istituzionale, ci obbligano a ripensare i modelli, ci impongono scelte e soluzioni di controllo non più soltanto rivolte ai custodi, ai tutori dell’ordine, a chiunque abbia tra le sue mani una persona, ma anche a tutte quelle istituzioni che con i primi si interfaccino e a quanti le rappresentino, affinché le profanazioni della dignità umana non abbiano mai l’imprimatur dello Stato, anche ove si trattasse di custodire il peggiore criminale o il presunto tale: è, in fondo, la differenza tra legalità e illegalità, perché continuare a non capirlo? Ammetto che, nella mia pluridecennale veste di direttore penitenziario, sono stato fortunato, perché ho sempre trovato collaboratrici e collaboratori leali, tra i vice- direttori, i Comandanti, il personale del Corpo, così come anche tra i medici, gli educatori, i funzionari, i preziosi cappellani, gli indispensabili volontari, ma anche perché, senza mai tentennare, ho costantemente esigito il rispetto delle regole, perseguendo nei modi di legge, rigorosamente, quanti mostrassero di discostarsi da tali principi che non possono essere oggetto di negoziazione pattizia, perché non sono nella disponibilità dei servitori dello Stato, dei Servitori per l’appunto. Non sono stato simpatico a tanti, non importa, però era il prezzo che pagavo per addormentarmi, seppure per poche ore la notte, con la mia coscienza, senza che la stessa mi divorasse. E con questo spirito ho superato i conflitti, le proteste, non sempre pretestuose ahimè, ma comunque espresse seppure con forza anche con ragionevolezza e senso della misura, fatte salve alcune situazioni limite. Ho avuto la fortuna di trovare agenti “calmi”, presenti, professionali, e questo ha fatto spesso la differenza. Il diritto è anche cultura giuridica ed umana e, per i Corpi di Polizia, anche formazione ed addestramento permanenti, spero davvero che si voglia tornare proficuamente ad investire in essa. *Penitenziarista, già dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria “L’emergenza Covid ha fatto esplodere tutta la brutalità insita nel carcere in sé” di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 31 luglio 2020 “Non sempre è facile veicolare messaggi di solidarietà nella società, ancor più quando si parla di determinate categorie sociali. I detenuti sono visti con molta diffidenza, si presuppone che “se stanno in carcere qualcosa devono aver fatto”. Ci racconta Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha che da anni è impegnata a divulgare solidarietà sociale. I sentimenti che accompagnano la maggior parte della società, verso chi sta in carcere, sono intrisi di pregiudizi e da una buona dose di “retorica della colpa” secondo la quale chi delinque lo fa perché è nato delinquente e vuole delinquere. “Periodicamente organizziamo incontri tematici in collaborazione con le università - continua Sandra Berardi - le camere penali, circoli culturali, ultimamente anche online, e riscontriamo un grande interesse anche tra la gente “comune” non solo tra gli addetti ai lavori, tra gli studenti o tra i familiari. Il problema principale sta nella cattiva informazione che contribuisce a formare l’opinione pubblica in chiave giustizialista”. La maggior parte dei media, ci spiega, tratta l’argomento carcere e detenuti in maniera tale che la società non vada oltre l’equazione “Ha sbagliato? Si buttino le chiavi!” Poco ci si interroga rispetto al significato e alle origini delle pene, al perché del carcere, al chi stabilisce cosa è reato e come sanzionare chi infrange le regole di una comunità. Ancor meno ci si interroga su come prevenire l’infrazione delle regole; quali siano le cause, i contesti in cui maturano; se esistono responsabilità sociali e politiche per alcuni “delitti”. “Possiamo affermare tranquillamente che alcuni articoli della nostra Costituzione sono completamente ignorati dai più. Mi riferisco in particolare all’art. 3, l’obbligo per lo Stato a rimuovere le cause e gli ostacoli affinché tutti i cittadini possano avere le stesse opportunità senza distinzione alcuna. All’art. 27, ovvero al carattere “rieducativo” della pena. Inoltre credo che si confonda lo Stato con il governo e l’equivoco di fondo, e di comodo, è frutto di un processo di deresponsabilizzazione sociale che negli ultimi secoli ha completamente delegato a chi gestisce la cosa pubblica il benessere della comunità. In tempi più recenti la politica, a sua volta, ha delegato la magistratura a gestire e regolare i meccanismi socio-economici determinando un approccio penalistico alla risoluzione di problematiche che necessiterebbero di risposte altre”. Il Covid-19 ha amplificato questa emergenza? “L’emergenza Covid ha fatto esplodere tutta la brutalità insita nel carcere in sé. A cominciare dai numeri. Al 7 marzo la popolazione detenuta aveva oltrepassato di gran lunga la “capienza regolamentare” di 47.000 “unità” arrivando a contenere oltre 61.000 persone. 14.000 persone in più non sono un freddo dato statistico, sono persone ammassate in cameroni anche da 12/13 letti con un bagno-cucina per tutti in condizioni igienico-sanitarie precarie mentre i media, già nelle settimane precedenti il lockdown, avevano iniziato a martellare giorno e notte, a reti unificate, con il bollettino dei morti di Covid e le raccomandazioni per una accurata igiene personale ed evitare assembramenti. Tutte le paure, le tensioni e le contraddizioni si sono amplificate fino ad esplodere con la sospensione dei colloqui con i familiari. E non è un caso che le rivolte siano scoppiate nelle sezioni “comuni”, le sezioni dove c’è una più alta concentrazione di persone con un tasso di sovraffollamento che in alcuni casi sfiora il 200%. Con buona pace degli amanti della dietrologia, non c’è stata nessuna regia anarco/mafiosa dietro le rivolte di marzo, ma la sottovalutazione della reazione che avrebbero avuto persone già private della libertà, degli affetti, di un senso alla propria esistenza - ed anche alla propria detenzione, condannate all’inazione per 20-22 ore al giorno - alla notizia della chiusura dei colloqui con i familiari e l’impossibilità di mettere in pratica il distanziamento fisico. A conferma dell’incapacità di gestire l’emergenza Covid in carcere possiamo sottolineare il colpevole ritardo nella predisposizione delle aree protette e la mancanza di Dpi nelle prime settimane di lockdown. Il dato che emerge ad una attenta analisi dell’azione di governo sulla popolazione detenuta è l’aver trattato in termini securitari una emergenza sanitaria mondiale che avrebbe necessitato ben altra attenzione politica come stava già avvenendo in altri paesi. L’Iran, ad esempio, già il 3 marzo aveva predisposto la sospensione della pena a circa 70.000 detenuti; in Italia, invece, è stata messa sul banco (mediatico) degli imputati l’ormai famosa circolare del 21 marzo, e qualche capro espiatorio nei vertici del Dap, che seguiva le linee (di buon senso) dettate dall’OMS con effetti tragici per la popolazione detenuta, soprattutto per i detenuti anziani e gravemente ammalati. Ritengo che il clamore sulla sospensione della pena a due/tre nomi “eccellenti” sia stato sollevato strumentalmente per due ordini di motivi: la quasi totalità dei media che ha trattato la questione ha omesso alcune questioni importantissime che, viceversa, se riportate correttamente, avrebbero ridimensionato molto il peso di queste sospensioni. Sul caso Bonura, ad esempio, si è omesso il fatto che a dicembre, dopo circa 6 mesi quindi, avrebbe finito di scontare per intero la sua condanna; omissioni analoghe si registrano nel caso Zagaria per il quale il magistrato di sorveglianza aveva disposto la sostituzione della misura detentiva per soli 5 mesi, il tempo di curarsi. Con l’insediamento dei nuovi vertici del Dap viene emanata una nuova circolare che ricalca quella precedente. E non poteva essere altrimenti visto che il diritto alla salute è l’unico diritto qualificato come fondamentale nella Costituzione italiana. Quale è stato allora il vero obiettivo della querelle? Quando mi pongo questa domanda mi appaiono i volti dei 14 detenuti morti durante le rivolte. E il fatto che su questi 14 morti, sui trasferimenti dei detenuti in piena pandemia, con diffusione di contagi, è pesato, e pesa, un silenzio istituzionale e mediatico gravissimo che dovrebbe far riflettere sullo stato della democrazia”. Far conoscere la realtà carceraria è importantissimo perché l’umanità che vi è reclusa fa parte delle nostre comunità e “non ci si può nascondere dietro la formula che la responsabilità penale è personale. La cura, l’attenzione dello Stato verso ogni suo componente deve essere a monte. Se impiegassimo tutte le risorse che vengono impiegate per la repressione per prevenire i fenomeni devianti e rimuoverne le cause potremmo anche riuscire a liberarci del carcere”. Ma quali sono le battaglie sociali portate avanti dall’associazione Yairaiha? “Yairaiha sogna un mondo libero dal carcere. Da anni portiamo avanti la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis, in quanto riteniamo che siano una pena e un regime in netto contrasto con il dettato costituzionale che oltrepassano la barbarie del carcere in sé. E poi il diritto alla salute; facciamo decine e decine di segnalazioni in merito alla salute negata e qualche campagna per l’applicazione degli istituti di tutela della salute dei detenuti (art. 47 OP e 32 della Costituzione). Ormai da tempo, e in diverse parti del mondo, intellettuali, giuristi e pezzi di movimenti sociali stanno elaborando ipotesi riduzioniste e abolizioniste dell’istituzione carceraria. Diverse esperienze concrete, come le comunità educanti per i carcerati da qualche anno attive anche in Italia su modello delle Apac brasiliane, attive già dagli anni 70, puntano ad un processo partecipato di recupero del reo che gradualmente investe anche l’ambiente sociale in cui la persona ha maturato il delitto. Questi tipi di percorsi, messi a confronto con la realtà carceraria ed i risultati (disastrosi) raggiunti, ci dimostrano il fallimento dell’istituzione carceraria per come è concepita in Italia”. Una pena che reclude e annienta la persona, la infantilizza, la priva degli affetti e del diritto alla salute, che le fa perdere la dignità di essere umano, è una pena dannosa e controproducente e, nella maggior parte dei casi, ottiene l’effetto contrario a quello professato dalla pretesa punitiva dell’azione penale... “Nelle comunità educanti si indagano le ragioni del delitto e si progettano i possibili risarcimenti delle vittime; si accompagna la persona a comprendere il male fatto e a cercare di riparare. È un approccio completamente diverso che pone le basi per un processo di responsabilità collettiva rispetto ai fenomeni devianti. Fenomeni che, non dimentichiamolo, sono endogeni alla nostra società non corpi estranei”. Per scelta non hanno mai fatto visite autorizzate nelle carceri, “ma ispezioni insieme a parlamentari sensibili. Devo dire che negli ultimi anni i parlamentari italiani hanno pressoché rinunciato al potere/dovere di ispezionare i luoghi di detenzione “a sorpresa”. Fino allo scorso anno abbiamo effettuato tante ispezioni assieme con l’ex eurodeputata Eleonora Forenza (una delle ultime ad aver assolto pienamente alla sua funzione); la lista è lunga, ma le ultime ispezioni hanno riguardato Bari e la sezione femminile del carcere di Lecce. Dal carcere di Bari, ma anche da Poggioreale precedentemente, siamo uscite stravolte per il degrado strutturale e per quell’umanità reclusa. La maggior parte delle persone detenute non sono “pericolosi criminali”, ma gente che vive di espedienti. Piccoli spacciatori e tossicodipendenti, parcheggiatori abusivi, ladruncoli, tantissimi con la doppia diagnosi (tossicodipendenti e con disagio psichico). Tratto comune del 90% della popolazione detenuta è la provenienza geografica: meridionali e migranti. Uno spaccato sociale che ci restituisce, in carne e ossa, il carattere razzista e classista della fabbrica penale. E questa è la fotografia delle carceri, non solo in Italia”. La progettazione carceraria del nostro paese va rifondata di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 31 luglio 2020 Affrontare il tema della dimensione architettonica del carcere in Italia, significa descrivere la storia e la cronaca di un fallimento culturale che si è consumato, a livello teorico e pratico nel corso degli anni, a partire dal varo della riforma introdotta dal nuovo Ordinamento Penitenziario con la Legge n.354 del 1975 e che continua ad invalidare il monito costituzionale ed il dettato normativo in tema di pena detentiva. Con l’introduzione di quella riforma, nella dimensione architettonica del carcere non sono stati studiati ed adottati i presupposti operativi necessari per la sua applicazione, vale a dire una diversa e più moderna e coerente concezione edilizia ed architettonica degli istituti stessi ed una loro diversa collocazione urbanistica. Il modo riformato di vedere e concepire la figura del detenuto: non più numero in una massa indifferenziata, non più soggetto passivo di un trattamento punitivo e repressivo, ma persona in senso proprio, partecipe e protagonista delle attività trattamentali, dirette non a “redimerlo” attraverso l’espiazione, ma alla sua auto-educazione, grazie al trattamento individualizzato, all’osservazione scientifica della personalità, al lavoro in équipe, avrebbero dovuto avviare sul piano teorico prima e pratico dopo, il concepimento e la realizzazione di Istituti completamente altri, rispetto a quelli del periodo antecedente. (1983 A. Caponnetto, A. Dessì) Così non è stato. Nel corso di oltre quarant’anni si sono continuati a costruire in Italia carceri disumani ed alienanti, caratterizzate da spazi vitali che non lasciano spazio né alla libera espressione né ad attività organizzate, non funzionali ad un moderno trattamento carcerario, né per facilitare e stimolare contatti socializzanti tra la comunità esterna e la popolazione detenuta, così da porre al servizio del territorio la struttura penitenziaria e viceversa. (1983 A. Caponnetto, A. Dessì) Non si è stati capaci, nelle progettazioni che periodicamente sono state elaborate, di andare oltre l’esclusivo utilitarismo, e questo a totale discapito di soluzioni architettoniche non in grado, nei confronti dell’utenza, di spalancare nuove possibilità di arricchire l’esperienza, di agire prevalentemente in modo da convalidare, rassicurare, incoraggiare, sostenere, favorire, essere creativi. È mancato il ruolo dell’architettura nel suo significato umano fondamentale, l’edilizia ha avuto il sopravvento. Gli edifici carcerari sono stati concepiti esclusivamente per soddisfare esigenze funzionali più riferiti alla sicurezza che non al trattamento, con il risultato di creare luoghi che negano esperienze, invalidano, rendono incerti, scoraggiano, minano, reprimono, e distruggono il corpo e lo spirito. Non sono stati messi in conto i bisogni materiali, psicologici e relazionali dell’individuo a vario titolo fruitore del carcere. (Vedi C. Burdese, Linee guida e idee progettuali per la nuova Casa Circondariale di Bolzano, in Dentro le mura, fuori dal carcere, Caritas Diocesi Bolzano-Bressanone, 2014) Parafrasando le parole sull’Architettura Moderna dell’architetto spagnolo Ignasi de Solà-Morales, ci si è limitati in buona sostanza a produrre una architettura fondata esclusivamente sul paradigma della razionalità tecnica, ignorando i sentimenti e le emozioni dell’architetto come interprete dei desideri e delle speranze della società. Non si è sentita l’esigenza di avvalersi dell’architettura, che, in quanto arte a pieno titolo, è espressione dello spirito del tempo, manifestazione di aspirazioni e obiettivi di giustizia, uguaglianza e solidarietà, ricerca ancora, nelle agglomerazioni sociali costituite dalle città, di una felice armonia tra vita del singolo e della collettività. Ci si è fermati agli imperativi della razionalità tecnica, dell’efficienza, della mediazione fra bisogni e risorse, all’analisi di questi bisogni e all’individuazione delle possibilità materiali di dare ad essi una risposta. Se per spazio non si intende solo quello materiale, ma anche la dimensione umana e psicologica in cui i soggetti si muovono, allora non si può che concludere che la struttura stessa condiziona e determina comportamenti e scelte, contribuendo, inoltre, a far si che il recluso acquisisca o consolidi i valori ed i principi della sottocultura carceraria. La coesistenza forzata, la monotonia dei ritmi quotidiani, la mancanza di stimoli, la ristrettezza e lo squallore delle forme architettoniche, per non parlare alla necessità di adattarsi passivamente all’ambiente per poter sopravvivere, non possono non generare - da un lato - spinte violente e sopraffattive e - dall’altro - non possono non immiserire l’individuo, riducendolo - con il passare del tempo - dallo status di persona umana a quello di detenuto. Ed è in questo clima esistenziale che nascono e prosperano gruppi di potere, bande rivali, violenza e passività, in sostanza un nuovo tipo di devianza, diversa da quella originaria. Paradossalmente, il carcere - con tutto il suo apparato teso a garantire la sicurezza - genera al suo interno quella violenza che vorrebbe eliminare. (1983 A. Caponnetto, A. Dessì) Dopo la “rinuncia” degli Stati Generali dell’esecuzione penale, tutti i governi che si sono succeduti, hanno dimostrato di non comprendere i termini della questione, procedendo al contrario come sempre ed in questo modo affossando ogni possibilità di riscatto costituzionale della dimensione architettonica del carcere. Niente visite di Ferragosto ai detenuti: i nuovi vertici Dap bloccano l’iniziativa Radicale di Daniele Priori Il Riformista, 31 luglio 2020 “Causa emergenza sanitaria da Covid-19, tuttora in vigore e in procinto di essere rinnovata fino ad ottobre, siamo stati autorizzati a visitare solamente 5 istituti di pena dei 190 presenti sul territorio nazionale e con delegazioni formate al massimo da due persone” denunciano dal Partito Radicale. Così nel dibattito davvero poco stimolante tra negazionisti e allarmisti in relazione alla diffusione attuale del Covid-19, a rimetterci di sicuro saranno per primi, ancora una volta, i detenuti che in larghissima parte non potranno ricevere la tradizionale visita di Ferragosto dei militanti radicali. “Prendiamo atto di questa decisione e vogliamo considerare questa risposta dei nuovi vertici del Dap un atto simbolico volto alla ripresa - che riteniamo prioritaria e urgente - di tutte le attività interne ed esterne previste dall’ordinamento penitenziario e da un’esecuzione penale improntata ai principi costituzionali” dichiarano il segretario Maurizio Turco e la tesoriera del Prtt, Irene Testa. “Non v’è chi non veda, infatti, che l’emergenza sanitaria si è solo sovrapposta ad una gravissima emergenza penitenziaria, che dura da tempo, che nel tempo si è andata aggravando e che ha sacrificato i diritti fondamentali della persona detenuta. Ci auguriamo pertanto che - come è pure successo negli anni passati grazie al Partito e a Radio Radicale - ci sia una mobilitazione generale dei parlamentari (che non hanno bisogno di autorizzazione per visitare le carceri) che li veda presenti e impegnati in tutta Italia e in tutti gli istituti”. “Urgono atti e iniziative concrete per riportare il carcere nell’alveo della Costituzione, per ridare a chi ha sbagliato il diritto ad emendarsi con dignità e a chi all’interno del carcere presta la propria opera di poterlo fare in un luogo adeguato sia strutturalmente sia dal punto di vista degli organici oggi del tutto carenti sotto tutti i profili, in particolare quelli destinati al percorso riabilitativo della persona detenuta”. Il nodo, come è chiaro e evidente, resta proprio la proroga dello stato d’emergenza, in relazione al quale Turco e Testa commentano con sarcasmo e realismo: “Sono chiare le ragioni tecniche, chiarissime quelle politiche, sconosciute quelle sanitarie”. “Il fatto - proseguono - che il Primo Ministro Giuseppe Conte abbia deciso di sottoporre al Parlamento la decisione di prorogare lo stato di emergenza è un atto dovuto che fa meglio comprendere la gravità del non averlo fatto quando l’emergenza è stata dichiarata” dichiarano dal Partito Radicale. “La questione più inquietante è che quando fu dichiarato lo stato di emergenza sanitario, decisione evidentemente supportata da dati scientifici (che a seguito della sentenza del Tar forse saranno resi pubblici), ci volle un mese per prendere provvedimenti sanitari”. Attesa per i verbali del Cts desecretati - La sentenza alla quale fanno riferimento Maurizio Turco e Irene Testa è quella dello scorso 13 luglio quando il Tar del Lazio ha deciso che i verbali delle riunioni del Comitato Tecnico Scientifico andranno desecretati. Secondo i giudici amministrativi, infatti, vietare l’accesso agli atti da parte dei cittadini è stata una scelta errata, in quanto i verbali richiesti del Cts erano prodromici all’emanazione dei Dpcm e non erano qualificabili come “atti amministrativi generali”, come invece sostenuto nella memoria difensiva da Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento della Protezione civile. Di qui l’ordine di far vedere e fare copia degli atti, entro 30 giorni. Una battaglia fortemente sostenuta anche da Partito Radicale che lo scorso 11 maggio aveva inoltrato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri una richiesta di accesso agli atti per prendere visione dei processi verbali delle sedute e ha chiesto di ottenere le copie di intese e pareri. Inutile dire che ad oggi nessuna risposta è stata data. “Non c’è bisogno di poteri straordinari - concludono Turco e Testa - per invitare o obbligare i cittadini a misurare la febbre, lavarsi le mani, indossare le mascherine, stare distanziati fisicamente, ed eventualmente sanzionarli in caso di mancato rispetto dell’obbligo a farlo”. Dieci chili di linee guida ma i tribunali sono fermi di Massimiliano Di Giorgio Venerdì di Repubblica, 31 luglio 2020 Le indicazioni per gestire la giustizia nell’emergenza sono un’enormità e un avvocato le ha persino pesate. Utili? Tra scadenze saltate e udienze rinviate al 2021, in realtà tutto è paralizzato. Stampate su carta, le linee guida per il Covid-19 diffuse dai vari uffici giudiziari di Roma pesano la bellezza di 10 chili. La prova della bilancia l’ha fatta giorni fa Antonino Galletti, presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati della capitale. Ma nonostante la riapertura fisica dei tribunali, avvocati e utenti segnalano ritardi stratosferici e difficoltà a ottenere documenti, a rispettare scadenze. O anche solo a trovare qualcuno che risponda al telefono. Si fa presto a dire smart working. Molti impiegati, dopo essere stati obbligati prima a prendere le ferie, da casa non hanno accesso ai registri per questioni di sicurezza. “Da noi il telelavoro non esisteva e c’era già un problema di organici”, dice Felicia Russo, coordinatrice nazionale per il settore giudiziario del sindacato Cgil Fp, che sta trattando con il ministero della Giustizia un accordo nazionale per il lavoro a distanza. A Roma, prima del Covid-19, gli uffici giudiziari lavoravano già con un organico ridotto di oltre il 30 per cento: 410 addetti in meno rispetto ai 1200 previsti. Con l’emergenza, la situazione è precipitata. L’ufficio notifiche del tribunale, per esempio, per settimane ha aperto solo un’ora al giorno, dalle 8 alle 9. Ci sono cancellerie chiuse fino a settembre: impossibile depositare relazioni e istanze. E alcune prime udienze per la separazione legale di coppie sono state rinviate ad aprile 2021. Il tribunale romano da settembre terrà udienze anche il pomeriggio e forse il sabato mattina, ma un po’ ovunque si cercano soluzioni in corsa e i sindacati discutono di protocolli per organizzare meglio l’accesso ai singoli uffici. Al palazzo di Giustizia di Milano, dove prima della pandemia entravano giornalmente 7.000 persone, i penalisti hanno già protestato per l’elevato numero di processi, spesso fissati alla stessa ora, col rischio di assembramenti. Ad Ancona le aule resteranno aperte ad agosto. A Salerno le proteste degli avvocati hanno convinto il presidente a raddoppiare il numero di ingressi al giorno. I Tar, tribunali amministrativi regionali, hanno tenuto perché i procedimenti erano già informatizzati e il lavoro è continuato a distanza. Ma la giustizia penale e quella dei giudici di pace è ancora soprattutto cartacea. Separazione delle carriere rinviata in commissione. Fi: “Non è melina” di Giovani M. Jacobazzi Il Dubbio, 31 luglio 2020 È tornata, come previsto, in commissione Affari costituzionali alla Camera, la proposta di legge costituzionale, d’iniziativa popolare, sulla separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura. Lo ha deciso ieri mattina l’Aula di Montecitorio dopo che lunedì scorso era iniziata la discussione generale. “Con lealtà e fair play rispetto a quanto stabilito dall’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali chiediamo il ritorno nella stessa commissione della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere, fortemente sostenuta dall’Unione delle Camere penali”, ha detto il deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, intervenuto ieri a Montecitorio come relatore del provvedimento. “Questo ritorno non può e non deve avere alcun intento dilatorio: l’obiettivo, all’opposto, è ricercare un accordo che riporti il testo in Aula il prima possibile”, ha aggiunto il parlamentare forzista. “La discussione in Aula ci ha consentito di far circolare sia le idee fondamentali di imparzialità e trasparenza del giudice rispetto al pm sia alcuni numeri, ossia quelli degli articoli della Costituzione che a questa proposta danno forza e consistenza. È oggi più che mai necessario ripristinare i valori costituzionali della parità fra accusa e difesa, in un contraddittorio effettivo che consenta finalmente di attribuire al “processo” la qualifica di “giusto processo”, ha detto Sisto. La commissione aveva avviato l’esame in sede referente a febbraio del 2019, dopo che, alla fine del 2017, l’Unione Camere penali, promotrice dell’iniziativa, aveva depositato in Parlamento le oltre 70mila firme raccolte. La discussione, fino a questo momento, è stata, data la delicatezza della materia, alquanto complessa. A marzo del 2019, l’ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi della commissione, aveva deciso, all’unanimità, di procedere a un ciclo di audizioni informali. Tale ciclo di audizioni era terminato il successivo luglio. Fra gli auditi, l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente del Comitato promotore della proposta di legge, Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense, i professori di Diritto Vincenzo Maiello, Giorgio Spangher, Oreste Dominioni, il presidente dell’Unione Camere penali, Gian Domenico Caiazza, l’ex presidente della Camera e magistrato Luciano Violante. Al termine delle audizioni erano stati presentati alcuni emendamenti, la maggior parte dei quali proposti da gruppi di maggioranza, di natura soppressiva di tutte le parti del testo. Per evitare che la votazione sulle proposte emendative comportasse la soppressione dell’intero testo e il conseguente conferimento di un mandato a riferire all’Assemblea in senso contrario sul provvedimento, tutte le forze politiche avevano convenuto di procedere a una fase di ulteriore valutazione politica sulla materia. Nell’ufficio di presidenza della commissione, integrato dai rappresentanti dei gruppi, il 22 luglio scorso il presidente Giuseppe Brescia (M5s) aveva proposto di concludere l’esame in sede referente non procedendo né alla votazione degli emendamenti né al conferimento del mandato al relatore. In tal caso, nella discussione generale in Aula, Brescia, come presidente, avrebbe dato conto dell’andamento dell’esame in sede referente, senza alcuna valutazione di merito. Su tale proposta avevano convenuto tutti i gruppi, nonché il relatore sul provvedimento, il deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto. Nell’ultima seduta in sede referente della commissione del 23 luglio, Brescia aveva comunicato la decisione assunta in seno all’ufficio di presidenza, segnalando anche l’opportunità che nel corso della discussione in Aula venisse proposto di rinviare il provvedimento in commissione per giungere, una volta per tutte, a un esame più compiuto del testo. Come poi avvenuto ieri. Secondo l’onorevole di Forza Italia Pierantonio Zanettin, ex membro del Csm nella scorsa consiliatura e ora componente della commissione Giustizia della Camera, “si tratta di una occasione unica: quanto è successo al Csm ha messo in evidenza la necessità di un intervento sulla magistratura. Si vedrà se Italia viva, che è in maggioranza e rivendica sempre di essere un partito garantista, vorrà seguire Forza Italia in questa battaglia di civiltà”, ha aggiunto il parlamentare azzurro. Dignità alla giustizia di Carmelo Barbieri* Il Foglio, 31 luglio 2020 Dietro la magistratura del rancore c’è la degenerazione delle correnti. Idee per sconfiggere il carrierismo. La questione morale della magistratura italiana e del suo sistema di autogoverno si pone con forza. Recentemente il presidente della Repubblica, vertice del Csm, ci ha ricordato quanto sia necessario e urgente che il potere giudiziario recuperi piena credibilità, condizione essenziale perché le decisioni vengano rispettate e, dunque, eseguite. È necessario però comprendere le ragioni di questo crepuscolo per poter decidere quali interventi riformatori deliberare. Perché per anni la gestione delle prerogative dell’organo di autogoverno dei magistrati è stata improntata a logiche non solo correntizie ma addirittura clientelari, facendoci assistere ad un vero e proprio mercimonio della funzione? Da più parti si sente dire, probabilmente non senza ragione, che la causa andrebbe ritrovata nel carrierismo che ha infettato la magistratura e i magistrati. La domanda è: perché e da che cosa il carrierismo è stato generato? A questa domanda non si sente offrire risposte. Di solito, quando all’interno di un gruppo, di una categoria, in tanti si comportano male anziché bene, si muovono scompostamente piuttosto che stare fermi sentendosi appagati dalla funzione che svolgono, la ragione è sistemica e non individuale. È troppo facile convincersi che la colpa si trovi nell’amoralità di questo o quel membro del Consiglio Superiore o di alcuni capi corrente. Se la base non avesse abbracciato questa logica, gli spregiudicati consiglieri e capi correnti avrebbero avuto vita breve. Invece non è stato così; il conformismo, purtroppo, è assai seducente. Pare piuttosto che a tanti il luogo dove si trovavano non piacesse, volevano altro, anche venendo a patti con la propria moralità. Questo luogo era la corsia della giurisdizione. Il fatto è che, fatta eccezione per alcuni settori, la giurisdizione, la sua fanteria, versa da tempo in una condizione di grave marginalità. Una buona parte delle questioni di cui si occupa dovrebbero esserle sottratte, perché irrilevanti, per trovare delle modalità altre di risoluzione, dai sistemi di mediazione a forme di definizione in sede amministrativa anche mediante un radicale percorso di depenalizzazione. Il numero degli avvocati in Italia dovrebbe essere ricondotto a razionalità: attualmente è di oltre 240 mila mentre nella vicina Francia è pari a poco più di 65 mila. Plastica dimostrazione di quanto si va dicendo si trova nelle intollerabili condizioni in cui versa da anni la Corte di cassazione, posta al vertice del sistema. Il numero dei procedimenti civili definiti dalla Corte nel 2019 è di circa 33.000 mentre il numero di quelli penali è di poco superiore a 50.000. Siamo oltre gli 80 mila procedimenti in un anno. La stragrande maggioranza di questi non avrebbero dovuto giungere in Corte, semplicemente perché non meritevoli del vaglio del giudice più “alto”. Giusto per alzare lo sguardo da terra, nell’affine Francia, sempre nel 2019, il numero dei ricorsi decisi dalla Cour de cassation è stato di poco superiore 24.000, di cui 17.000 circa nel settore civile; mentre i casi pervenuti dinanzi al Bundesgerichtshof, la Corte federale tedesca, nel 2019 sono stati poco più di 5.000 nel settore civile e circa 3500 in quello penale. Ci si ostina a non vedere che una modifica della norma costituzionale, un unicum nel contesto europeo, che attribuisce il diritto di sottoporre alla Corte di ultima istanza ogni caso, dal più banale al più complesso, con conseguente dovere di quest’ultima di pronunciarsi, è urgente e ineludibile per riconsegnare dignità al giudice supremo e restituirlo al suo ruolo fondante di garante dell’uniforme interpretazione della legge. Se queste sono le condizioni in cui si trova il vertice la base non sta meglio: il numero dei procedimenti civili pendenti dinanzi agli uffici giudiziari è pari a circa 3.300.000, l’Italia è terzultima per la durata dei processi civili e commerciali in primo grado, nel nostro Paese per una sentenza di secondo grado occorrono 843 giorni, e per il terzo grado 1.299 giorni, i tempi più lunghi fra i principali Stati dell’Unione. Sono oltre un milione e mezzo i procedimenti penali pendenti dinanzi agli uffici giudicanti, di cui molti per reati di modesta entità, che andrebbero risolutamente depenalizzanti perché privi di ogni incidenza nel contrasto della criminalità. Tutto questo genera demotivazione e frustrazione. Stiamo assistendo a un processo analogo a quello che da anni ha tragicamente colpito la scuola e l’università. La degenerazione correntizia ha indotto poi gli esclusi, e non solo, ad elaborare risentimento e vittimismo ed un immobilistico disimpegno per pretesa superiorità morale. Il carrierismo si sconfigge invece restituendo dignità e centralità alla giurisdizione, recuperando il suo senso ultimo anche attraverso una riforma del sistema di accesso dei nuovi magistrati che consenta di ritrovare spinte motivanti e porre un freno alla grave burocratizzazione in atto. Per farlo le linee di riforma dovrebbero dispiegarsi nel solco della magistratura come potere prim’ancora che come servizio, con le conseguenti responsabilità che ne derivano. Il carrierismo si sconfigge ricostruendo la giurisdizione come un luogo dal quale non vale la pena muoversi. *Magistrato del Tribunale di Milano Inchiesta Palamara, la resa dell’ex pm: “Via libera a tutte le intercettazioni” di Italo Carmignani e Egle Priolo Il Messaggero, 31 luglio 2020 Luca Palamara ha spiegato per otto ore mercoledì, ma non è detto che la procura perugina gli abbia creduto. Anzi. Otto ore fino a notte inoltrata per contestare le nuove accuse che la squadra di Raffaele Cantone muove all’ex pm: la violazione del segreto istruttorio sull’esposto presentato dall’ex pm Stefano Fava al Csm contro l’ex procuratore di Roma Giuseppe Menatone e l’aggiunto Paolo Ielo, più due casi di corruzione per quei quattro weekend trascorsi tra il 2011 e il 2018 in un albergo di lusso a Capri in cambio di favori al fratello dell’imprenditore proprietario dell’hotel e i due scooter che Palarnara avrebbe ricevuto tra il 2018 e l’aprile 2019 dal titolare di Aureli Meccanica con tanto di pagamento di alcune multe. Anche in questo caso per la procura si tratterebbe di regalie in cambio del suo interessamento in un processo che vedrebbe coinvolte madre e moglie del proprietario degli scooter. Otto ore di serrata partita a ping pong, tra contestazioni precise, mirate e quelle carte che per i sostituti procuratori Gemma Miliani e Mario Formisano rappresentano prove granitiche. L’ex consigliere del Csm ha risposto punto per punto: i viaggi deluxe a Capri con la famiglia, la moglie e l’amica Adele Attisani? Frutto di “rapporti di amicizia decennale con Leonardo Ceglia Manfredi (titolare della srl proprietaria del Punta Tragara, cinque stelle da 500 euro al giorno, ndr) e nessun interessamento su procedimenti che riguardano lui o i suoi familiari”, ribattono i legali. Gli scooter? Solo un mezzo “a disposizione degli amici in Sardegna, preso in prestito per un periodo limitato di tempo e le multe pagate direttamente o restituendo i soldi”. La comunicazione del nome della moglie dell’imprenditore al pm romano che seguiva il caso? Nessuna interferenza, ma solo “tri interessamento” per conoscere le novità sul procedimento delle parenti di un amico praticamente fraterno. L’accusa sull’esposto invece ha sollevato questioni interne al Csm, dinamiche interne alla procura di Roma, nell’ambito della successione a Pignatone, con quella fuga dì notizie contestata dai legali dell’ex presidente dell’Anm perché “le notizie uscite sui giornali erano già note”. E non fossero bastate le otto ore di mercoledì (“Poi vedremo gli sviluppi”, ha vaticinato la difesa), ieri mattina Palamara si è trovato di nuovo davanti ai pm perugini e al gip Lidia Brutti, che deve decidere quali intercettazioni trascrivere nell’ambito del procedimento principale che vede l’ex pm indagato sempre per corruzione per le ristrutturazioni e altri viaggi (da Favignana a Londra fino a Dubai) regalati - secondo la procura - per favori all’imprenditore Fabrizio Centofanti. Più strateghi che sfibrati, gli avvocati hanno rinunciato a presentare eccezioni davanti al gip all’acquisizione delle intercettazioni, comprese quelle “parlamentari” che vedono coinvolti anche Cosimo Maria Ferri, deputato di Italia viva e giudice in aspettativa, e l’ex ministro Luca Lotti, entrambi non interessati dal procedimento perugino. “Per quanto riguarda le intercettazioni che coinvolgono i parlamentari riteniamo che sia competente la Camera dei deputati”, ha detto però al termine dell’udienza l’avvocato Benedetto Buratti. Tutto rinviato quindi al 21 settembre per la nomina del perito. Data utile per la difesa per studiare tutte le carte, ma anche perché successiva al 15, quando inizia il procedimento disciplinare (con il Csm che ha già detto no alla ricusazione di Piercamillo Davigo) sul cosiddetto mercato delle toghe e il “sistema delle correnti” in magistratura. Per quelle nomine pilotate, è l’accusa, a Roma come a Perugia. Dove, però, dopo il terremoto nel Csm, l’ha spuntata proprio Cantone. Campania. La Relazione del Garante dei detenuti: “La sofferenza del carcere riguarda tutti” di Giusy Santella linkabile.it, 31 luglio 2020 “Ogni volta che c’è morte e sofferenza in un carcere, queste non appartengono solo a chi è dentro, ma a tutti noi, che su questo tema dobbiamo collaborare”: queste le parole pronunciate dal Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, durante la conferenza stampa svoltasi per presentare la relazione sulle attività svolte e i risultati ottenuti nel corso del 2019, insieme al rapporto sulle carceri campane al tempo del Covid. Una frase che invita a una riflessione collettiva sul tema carcerario e in particolare sulle sue contraddizioni. La presentazione è stata introdotta dalla presidente del Consiglio regionale della Campania Rosa D’Amelio, che ha sottolineato l’importanza della figura del Garante e ha rinnovato il proposito di portare avanti progetti rieducativi e incisivi. “Bisogna evitare la solitudine e la mancanza di trattamento, che uccidono più di una pandemia. Ciambriello come garante è stata una scelta giusta e motivata”: queste le sue parole, a rimarcare i drammi che quotidianamente si consumano tra le mura penitenziarie e la stima per il lavoro svolto dal garante campano dei detenuti. Centrale è stato nel dibattito il tema dei suicidi, ben 29 dall’inizio dell’anno, senza contare i numerosissimi tentativi evitati dal tempestivo intervento del personale penitenziario. Le difficoltà di carattere psicologico sono molte, acuite in questo periodo da ipotesi di isolamento sanitario che hanno portato alcuni detenuti a togliersi la vita, essendo diventata per loro insopportabile la permanenza solitaria e priva di senso in carcere. Anche la nostra Regione porta avanti un triste primato: ben 7 suicidi dall’inizio dell’anno, con l’ultimo di soli pochi giorni fa. Dati allarmanti che segnalano la necessità di un dibattito serio e di una riforma che metta al centro l’individuo e le sue esigenze, superando la convinzione che il carcere sia l’unica risposta possibile o quella migliore. Sicuramente l’emergenza sanitaria ha messo in luce le criticità del nostro sistema penitenziario, prima tra tutte l’enorme problema del sovraffollamento. Ben 94 detenuti sono stati contagiati e tre di questi hanno perso la vita, mentre 204 agenti sono risultati positivi e due tra loro sono morti. Il carcere non è quindi il luogo impermeabile al contagio che molti si illudevano fosse e le detenzioni domiciliari concesse da quelli che il Garante campano definisce coraggiosi magistrati, erano più che mai necessarie per evitare una strage. Il professore Samuele Ciambriello ha ritenuto doveroso fare riferimento anche ai quattordici detenuti che hanno perso la vita nelle rivolte scoppiate a inizio marzo in 27 istituti penitenziari italiani, e che hanno assunto toni violenti a causa di una situazione di tensione creatasi per la mala gestione dell’emergenza e un’errata comunicazione nei confronti dei detenuti: “noi Garanti e l’associazione Antigone abbiamo chiesto delle risposte su queste morti che ufficialmente risultano avvenute tutte per overdose di metadone ma ci sono ancora troppi misteri”. Come sottolineato dal Garante dei detenuti, dalla relazione presentata emerge che rispetto alla sanità alcune questioni sono in via di risoluzione per alcune delle carceri campane che presentano numerose criticità, ma i passi in avanti da fare sono ancora molti e una delle problematicità sottolineate riguarda la mancata stabilizzazione del personale sanitario. Molte le iniziative promosse e in partenza da settembre, tra cui sportelli di orientamento al lavoro, attraverso cui attuare quella promessa rieducativa e risocializzante cui la pena tende in base all’articolo 27 della Costituzione o anche attività che possano rendere meno dura la reclusione come la sartoria prevista per la sezione femminile del carcere di Bellizzi Irpino. “Non si tratta di essere giustizialisti o garantisti, né di affermare che sono tutti innocenti. Ciò che vogliamo è applicare la legge, in particolare quelle norme che permettono di scontare la propria pena in una misura alternativa. Sono per coniugare certezza della pena con qualità della pena. per questo ho ritenuto giusto e doveroso dopo le confessioni di decine di detenuti di santa Maria Capua Vetere di aver ricevuto violenze e soprusi, investire del caso la procura competente, che ha recentemente inviato a 57 agenti di polizia penitenziaria avvisi di garanzia”: queste le parole conclusive del professore Samuele Ciambriello. Novità che possono essere positive, ma per le quali c’è bisogno della collaborazione di tutti i soggetti coinvolti, oltre che della società esterna. Campania. Emergenza carceri, nove suicidi in quattro mesi di Massimo Romano napolitoday.it, 31 luglio 2020 Il Garante regionale dei detenuti pubblica il rapporto 2020: “Nei nostri istituti mancano spazio, servizi igienici e personale. Condizioni non dignitose”. Non saranno archiviate come vittime del Covid-19, eppure è difficile non collegare all’emergenza sanitaria i nove morti in carcere registrati in Campania dal 27 marzo 2020 a oggi. Il rapporto carceri 2020 presentato dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello parla chiaro. Se nel 2019 si era registrato una riduzione dei suicidi (da 10 a 6), da quando è scoppiata la pandemia l’equilibrio di molti detenuti ha avuto un pericoloso scossone. Non solo per la paura del contagio, ma anche per il divieto temporaneo delle visite dei parenti. Un provvedimento che ha lasciato i carcerati nel loro stato di isolamento. Ma è l’intero quadro dell’universo penitenziario campano a destare preoccupazione. Secondo il documento redatto da Ciambriello, il numero dei reclusi supera del 17 per cento quello che lo stato delle strutture consentirebbe. Il sovraffollamento delle celle è un tema di grande attualità: “Ci sono casi lampanti - spiega il garante - come la cella 55 de padiglione Roma di Poggioreale, dove anche con questo caldo ci sono 14 detenuti con un solo finestrino a disposizione”. Contando tutti gli istituti di reclusione in Campania, circa 22 per cento non ha le docce in cella, mentre la percentuale si allarga al 37 per cento se parliamo di servizi igienici essenziali. “Ho fatto una battaglia per consegnare i frigoriferi in alcune carceri, ma in alcune mancano addirittura le prese della corrente”. A tutto ciò si aggiunge l’inadeguatezza numerica del personale. Il rapporto tra agente e detenuti è di 1 a 2, ma se si prende in considerazione l’area educativa, il conto è di una persona per ogni 100 reclusi. Percentuali realizzare con i numeri assoluti, non tenendo in considerazione turnazioni, malattie e ferie. Una buona notizia arriva dai contagi: “Abbiamo affrontato bene l’emergenza - afferma Ciambriello - Abbiamo registrato solo 4 contagi tra popolazione carceraria, agenti e personale medico”. Proprio la paura per la diffusione dei contagi ha fatto scoppiare, a marzo, diverse rivolte. “In tutta Italia contiamo 14 morti tra i reclusi - attacca il garante. Strano che per tutti loro la causa della morte sia overdose di metadone. Serve un’attenzione diversa su ciò che avviene in galera”. Un’altra emergenza è la facilità con cui, soprattutto a Poggioreale, entrano cellulari e droga. I primi servono anche a i boss a controllare le operazioni dei clan dalla cella. “Bisogna chiedersi come è possibile che droga e telefonini arrivino all’interno. Dopo le nostre denunce, 57 agenti di polizia penitenziaria sono stati raggiunti da un avviso di garanzia”. Campania. D’Amelio: “Più misure detentive alternative e progetti di socializzazione” orticalab.it, 31 luglio 2020 La presidente del Consiglio regionale: “Il Covid ha amplificato i problemi già esistenti nelle carceri. Ora bisogna avere il coraggio di sostenere misure detentive alternative per alleggerire la pressione del sovraffollamento, incrementare le figure sociali nelle carceri e attuare progetti di socializzazione, rieducativi e umanizzanti. Per questo la Regione sta riprogrammando le risorse per interventi e progetti come, ad esempio, la realizzazione di un campetto di calcio all’interno del carcere di ad Ariano Irpino e la casetta dell’acqua a Sant’Angelo dei Lombardi”. Così dichiara la presidente del Consiglio regionale Rosetta D’Amelio, intervenendo alla presentazione della relazione annuale sulle attività svolte dal Garante dei detenuti, il quale ha distribuito un rapporto dettagliato sulle attività, criticità e sui progetti realizzati negli istituti penitenziari della Campania durante l’emergenza sanitaria legata al virus Sars Covid-19 intitolato “Il carcere in Campania al tempo del Covid”. “La relazione presentata da Ciambriello - ha sottolineato D’Amelio - è puntuale ed è il frutto di un lavoro tenace con il quale ha incontrato e ascoltato migliaia di detenuti, ha visitato le strutture, è intervenuto in situazioni difficili, come nei giorni delle proteste scoppiate in molti istituti penitenziari italiani e anche in Campania durante la quarantena, diventando un saldo punto di riferimento per gli operatori e i detenuti”. “Purtroppo - ha continuato la presidente - dobbiamo registrare che il sovraffollamento, le celle e le condizioni di detenzione violano ancora la Convenzione europea. Le nostre strutture detentive appaiono ancora inadeguate a una vita dignitosa. Basti ricordare che il 22% delle strutture non presenta docce in camera e il 37% degli istituti non prevede servizi igienici essenziali nelle stanze. Il Covid poi ha amplificato i problemi. La spia di questo disagio è il dato preoccupante dei suicidi. Sono 29 i detenuti che su tutto il territorio nazionale si sono tolti la vita da inizio dell’anno, di cui 6 solo in Campania. E appena domenica scorso, nel carcere di Fuorni, c’è stata la settima vittima da inizio dell’anno”. “Occorre intervenire e invertire la rotta. Certo - ha ricordato D’Amelio- molte competenze in materia non sono della Regione. Ma bisogna avere il coraggio di sostenere misure detentive alternative al carcere per alleggerire la pressione del sovraffollamento, cosi come sancito dall’art. 27 della Costituzione. Occorre evitare che in questo periodo la solitudine e il vuoto dei trattamenti e dei percorsi progettuali uccidano più di una pandemia. Il congelamento delle attività di risocializzazione, di volontariato e di reinserimento, la diminuzione dei contatti con i propri affetti ha prodotto un evidente senso di abbandono e arrendevolezza. Per questo, per quello che compete alle Regioni, puntiamo a incrementare le figure sociali nelle carceri e attuare progetti rieducativi e umanizzanti. Il campetto di calcio all’interno del carcere di ad Ariano Irpino e la casetta dell’acqua a Sant’Angelo dei Lombardi sono due esempi di come si possano concretamente migliorare le condizioni di vita dei detenuti” Fermo. In carcere da dieci giorni: 22enne si toglie la vita dietro le sbarre Il Resto del Carlino, 31 luglio 2020 Sull’episodio è intervenuto anche il Garante regionale dei detenuti Nobili: servono forme che vadano oltre la restrizione. Probabilmente era arrivato all’esasperazione e tutta la sua fragilità è venuta a galla in un caldissimo pomeriggio della casa di reclusione di Fermo. Così ha deciso di farla finita sul serio e si è ucciso. A perso la vita in questo modo, nel modo più atroce, con un gesto autolesionistico, un 22enne residente a Porto Sant’Elpidio recluso da una decina di giorni in carcere perché non aveva rispettato l’obbligo di allontanamento domiciliare. Il giovane era dentro per una misura cautelare (legata a presunti maltrattamenti ai danni della madre) e quindi in maniera temporanea. Mercoledì pomeriggio, intorno alle 18, la tragedia. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno trovato il corpo senza vita del ragazzo all’interno della cella. Nonostante l’intervento dei sanitari del 118 e del carcere, per lui non c’è stato nulla da fare, il suo cuore aveva ormai cessato di battere per sempre. Sul drammatico episodio è intervenuto il Garante regionale dei diritti della persona, Andra Nobili, che ha evidenziato i problemi determinati dalle patologie psicologiche e psichiatriche, chiedendo il riavvio delle attività trattamentali, individuate anche come forma di sostegno alla permanenza in carcere. “Si tratta di un problema serio - ha spiegato Nobili - a cui vanno date risposte diverse rispetto al passato. Per i soggetti con problemi psichici e psichiatrici il carcere non basta, devono essere individuate forme d’intervento che vadano oltre la semplice restrizione nell’istituto penitenziario”. Proprio sulla questione della situazione sanitaria nelle carceri, il Garante ha attivato nei giorni scorsi un confronto diretto con i responsabili dell’Osservatorio regionale della sanità penitenziaria per affrontare sia le questioni legate all’emergenza coronavirus, ma anche a tutte le altre patologie che interessano i detenuti. “Nel contesto generale - ha sottolineato Nobili - credo che il riavvio formale delle attività trattamentali possa fornire un contributo non indifferente per rendere più sostenibile la permanenza in carcere, anche su un versante più specificatamente psicologico”. Nelle prossime ore il Garante arriverà a Fermo per un esame più attento di quanto accaduto. Purtroppo non è la prima volta che il carcere di Fermo è teatro di tragedie simili e a pagare con la vita di solito sono i più giovani e più fragili. Torino. Torture al carcere delle Vallette: “Quel detenuto sembra Cucchi” di Elisa Sola Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2020 “Che poi quello che mi ricordo l’anno scorso, quando c’erano gli altri colleghi che sono stati trasferiti, sai a Zelig? Quando quello diceva: vatti a fare 5 minuti di vergogna, quando si metteva nell’angolo 5 minuti”. Non erano comiche quelle che andavano di scena al terzo piano del blocco C del carcere di Torino. Ma una sorta di tragedia, quasi ordinaria, se si leggono le parole di denuncia inviate da un professore che insegna dentro alle Vallette agli inquirenti: “Il blocco C è il girone infernale. Gli schiaffi allegri non sono finiti. Più di un detenuto italiano di mezza età e con alti livelli di istruzione mi riferiscono tra le lacrime che lì si perde la dignità”. La testimonianza dell’insegnante compare nelle 5.800 pagine di atti dell’indagine sulle presunte torture messe in atto da 21 agenti, svolta dal Nucleo investigativo della polizia penitenziaria e coordinata dall’aggiunto Enrica Gabetta e Francesco Saverio Pelosi. Ex direttore ed ex comandate della penitenziaria delle Vallette sono indagati per favoreggiamento, altri due sindacalisti per aver rivelato segreti d’ufficio. In totale sono 25 le persone coinvolte - difese dagli avvocati Luca Bruno, Enrico Calabrese e Loredana Gemelli - e almeno 10 le parti lese. Dalle intercettazioni registrate negli ultimi due anni si comprende come, per alcuni poliziotti, si trattasse soltanto di un “gioco”. Per la Procura invece quegli agenti avrebbero commesso violenze e sevizie in maniera continuata e costante: ecco perché viene contestata la tortura. Diceva un agente alla fidanzata: “E niente, mo’ ce ne rientriamo, andiamo a dare i cambi che oggi mi sto divertendo?”. Rispondeva lei: “Ah sì? A menà?”. La replica: “No, oggi stile Israele anni 40”. C’è anche un altro aspetto inquietante: i trattamenti sanitari obbligatori. Un giovane carcerato, che frequenta con profitto il secondo anno di liceo, viene obbligato a fare un Tso. Per raggiungere l’ambulanza che lo aspetta fuori dal Lorusso e Cutugno, gli agenti lo avrebbero obbligato a percorrere, a piedi nudi, in mutande e con un bavaglio in bocca, l’intera sezione. Una scena che, scrivono gli inquirenti, lasciò le insegnanti che assistettero “molto turbate”. Fuori dall’ospedale Molinette, dove il ragazzo verrà portato, un’insegnante sentirà dire da un agente: “Se fosse per me l’avrei sciolto in un bidone di acido”. La notte tra il 24 e il 25 dicembre un altro detenuto viene sgridato perché il lenzuolo è sistemato male. Un agente “ubriaco” lo sbatte contro la porta e lo prende a pugni in un occhio. Nessuno porta il ferito in infermeria. Scrive la Procura: “Più persone assistono al fatto e nonostante i numerosi tentativi di farsi accompagnare in infermeria, soltanto dopo tre ore verrà portato dal medico”. La vittima denuncia. Pochi giorni dopo qualcuno darà fuoco alla sua cella. La punizione che invece avrebbero inflitto alcuni poliziotti a un anarchico di 24 anni appena arrivato in cella, che aveva imbrattato il muro con una scritta, sarebbe stata quella di privarlo della forchetta. In un clima nero, dove le violenze sarebbero state quasi all’ordine del giorno - con 166 “incidenti” avvenuti tra il primo gennaio e il 2 ottobre 2018, molti dei quali etichettati come “cadute dalle scale” - tra i detenuti delle Vallette qualcuno si salvava grazie alla solidarietà. Nel caso di un uomo che sarebbe stato picchiato più volte dagli agenti, fu il compagno di cella medico a rendersi conto della gravità del caso e a denunciare, dopo aver visto i lividi sulla sua schiena. Restano poi una serie di misteri. Come il giovane ricoverato in coma in ospedale il 12 dicembre 2019, entrato alle Vallette quando pesava 80 chili. Dopo pochi mesi ne aveva persi 30. La Garante dei detenuti lo scorso dicembre scriveva: “Il giovane racconta degli svenimenti e si presenta in sedia a rotelle. Riferisce di non riuscire a ingoiare più nulla. Ha le labbra completamente aride e di colore scuro. Fatica a esprimersi per l’assunzione massiccia di Valium. Ha le stesse sembianze di Stefano Cucchi”. E, prima del coma, il 4 dicembre, la Garante aveva addirittura chiesto “un intervento urgente esprimendo timore per un imminente evento critico”. Cagliari. Carcere di Uta, spesi 100 milioni per un flop di Stato di Mauro Pili L’Unione Sarda, 31 luglio 2020 Per la Procura la spesa è di 80 milioni di euro anche se poi, da quello che emerge, le opere vere e proprie ammonterebbero a 60 milioni. Nei bunker di Uta, a due passi dalle pale eoliche e dalle distese di pannelli fotovoltaici dell’area industriale di Macchiareddu, i lavori non sono mai finiti. Il piano carceri d’oro non si smentì: il cantiere trasformatosi in fabbrica infinita di perizie, revisioni prezzi, collaudi dimenticati e pagamenti senza verifiche divenne oggetto di studio. Ad occuparsene direttamente la Procura della Repubblica di Cagliari. Inchiesta a tutto tondo su una montagna di soldi pubblici spesi chissà come per una cattedrale nel deserto, alle pendici del parco di cervi e mufloni, sulla seconda avenue dell’area industriale nata per far posto alla chimica. Il 30 ottobre 2013 la consegna al Ministero della Giustizia. Si aprono le sezioni detentive maschile e femminile. Le proteste, però, non mancano, l’acqua che filtra dai tetti, disservizi e soprattutto personale carente. I collaudi sono tabù. La magistratura ad ottobre scorso ha chiuso le indagini. Le parole chiave dell’inchiesta si sintetizzano: lavori “mai eseguiti oppure pagati due volte”. Accuse imponenti: vengono riscontrate opere “non conformi” e una lunga lista di interventi-fantasma che hanno fatto sborsare allo Stato una valanga di milioni. Il muro dei 100 milioni - Il quadro finanziario del carcere di Uta è complesso: per la Procura la spesa è di 80 milioni di euro anche se poi, da quello che emerge, le opere vere e proprie ammonterebbero a 60 milioni. Venti milioni di peculato ipotizzati dagli uffici di piazza Repubblica nell’inchiesta del pubblico ministero Emanuele Secci. Dodici gli indagati con tanto di avvisi di conclusione delle indagini preliminari. Si parla di tutto nei capi d’accusa: dalla frode in pubbliche forniture al falso e favoreggiamento. Tra tutte le pecche, però, ve ne era una che balzava agli occhi: la mancata realizzazione dell’ala per i detenuti in regime di alta sicurezza, il cosiddetto 41 bis, le celle dei capimafia. L’hotel senza via di scampo, muri antifuga, cemento armato a manetta, era previsto a chiare lettere nel capitolato d’appalto. Doveva essere fatto con quello stanziamento indicato nel bilancio dello Stato. E invece niente. Riina è morto e Bagarella avanza con gli anni. Il blitz di martedì di Bernardo Petralia, magistrato antimafia, chiamato tre mesi fa a guidare il Dipartimento delle carceri del ministero della Giustizia, è naufragato in un clamoroso nulla di fatto. Voleva a tutti i costi inviare a Uta una valanga di capimafia che da tempo sconquassano la vita nelle super-celle dei boss in giro per l’Italia. Al ministero hanno persino stilato una lista d’attesa per i detenuti da spedire nel sud dell’Isola. Da sistemare ci sono i 41 bis del carcere di Novara, in subbuglio da tempo e soprattutto quelli di Milano “Opera” con 94 capimafia e a L’Aquila con 166. Nomi di spicco, vertici assoluti delle più criminali organizzazioni del malaffare. In ballo ci sono i capi clan, 263 della Camorra, 231 di Cosa nostra, 202 esponenti di ‘Ndrangheta e 21 della Sacra Corona Unita. Il flop del piano d’estate - Petralia con il suo vice Roberto Tartaglia speravano di portare a casa le 110 postazioni per gli eredi di Provenzano, Riina, Cutolo e Zagaria. E, invece, nulla di fatto. La vista ai loro occhi è stata disarmante. Struttura in altissimo mare. Il cantiere per la costruzione del padiglione per il regime speciale è fotografato dal garante dei detenuti che nella relazione al parlamento scrive: un grande spreco di beni e strutture, come per esempio la cucina già attrezzata, mai utilizzata e in via di deterioramento (vi sono apparecchi per la conservazione e la cottura di alimenti anch’essi abbandonati). Nell’area esterna sono accumulati, inoltre, i materiali già acquistati per i lavori mai finiti (tondini di ferro, piastrelle, cavi, mattoni e così via), macchinari (compresa una gru): il tutto è stato trovato in abbandono e deterioramento, mentre all’interno dell’edificio i lavori erano interrotti da tempo. Il locale cucina è invece completo con tanto di attrezzature per la conservazione e la cottura del cibo, anch’esse abbandonate a loro stesse. Tutto fermo nonostante il quadro economico abbia vertiginosamente sfondato il muro dei 100 milioni. La lista della spesa - Il bilancio finanziario è degno dell’epoca delle carceri d’oro. Stanziamenti per 94,536 milioni di euro, a fronte di una disponibilità di 89,8 milioni di euro da parte del ministero delle Infrastrutture. Da sommare altri 3 milioni di euro per i lavori di completamento e gli allacci, somme aggiuntive per 1,4 milioni di euro per maggiori costi dei materiali e 3,3 milioni di euro in seguito ad una transazione con l’impresa. Il reparto che sarebbe dovuto essere di Don Luchino Bagarella resta, però, un’incompiuta. Mancano le strutture sanitarie che non possono in alcun modo essere condivise con il resto della struttura carceraria. Sia a Sassari, dove sono già 90 i boss, sia a Cagliari manca il SAI, il Servizio di Assistenza Intensiva, struttura ritenuta obbligatoria per i detenuti in regime di Alta sicurezza o ex articolo 41 bis o.p. Il garante lo scrive senza mezzi termini: nonostante la forte presenza di un elevato numero di soggetti pericolosissimi in regime di alta sicurezza o 41 bis in tutta la regione sarda non esiste la struttura sanitaria obbligatoria dedicata a questi casi. Petralia è ripartito cupo in volto. Ha capito che i tempi per la conclusione di quel braccio del “fine pena mai” gli faranno saltare il blitz d’estate in terra sarda. Sindacati sul piede di guerra - A rovinargli ulteriormente la trasferta nell’agognata Caienna sarda arriva il documento unitario di tutte le sigle sindacali della polizia penitenziaria sarda. Parole di fuoco e una dichiarazione esplicita di guerra a decisioni calate dall’alto senza confronto. Le organizzazioni dei lavoratori avevano chiesto da tempo un incontro con i vertici del dipartimento. I missionari del Ministro della Giustizia li hanno ignorati come non mai. La reazione non si è fatta attendere: “Il capo del Dap - scrivono i rappresentanti degli agenti - ha perso un’occasione per confrontarsi e conoscere le vere esigenze operative del personale. Continuano ad essere assegnati in regione detenuti che nella penisola si sono rivelati ingestibili, hanno aggredito il personale o si sono resi protagonisti di rivolte ed hanno fomentato evasioni e disordini. Se effettivamente a breve arriverà l’incremento dei detenuti appartenenti al 41 bis, senza prevedere l’aumento dell’organico di Polizia Penitenziaria deficitario di circa 450 Agenti, con soli 4 Direttori e con Istituti privi di Comandanti, si rischia il tracollo. Questi atteggiamenti - conclude il documento - ci portano indietro nel tempo. Se il buon giorno si vede dal mattino per la Sardegna è già notte fonda”. Catanzaro. Un vigneto di speranza accanto al carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 31 luglio 2020 Un terreno abbandonato, nei pressi della casa circondariale di Catanzaro “Ugo Caridi”, tornerà presto a essere fertile e produttivo grazie all’iniziativa promossa nell’ambito di un protocollo d’intesa tra la direzione dell’istituto penitenziario e l’azienda Calabria Verde. I firmatari si propongono di impiantare e rendere produttivo un vigneto autoctono nell’appezzamento adiacente all’istituto, recuperato e coltivato da persone detenute e in misura alternativa alla detenzione. L’accordo, firmato dalla direttrice del carcere Angela Paravati e dal commissario straordinario di Calabria Verde, Aloisio Mariggiò, definisce forme di collaborazione tra l’azienda e l’amministrazione penitenziaria basate sulla comune convinzione che l’uso equilibrato delle risorse naturali e attività nel settore agricolo possano rappresentare delle valide opportunità di formazione e di lavoro per i detenuti. La direzione della Casa circondariale, secondo gli impegni definiti dall’intesa, metterà a disposizione la mano d’opera, mentre Calabria verde, fornirà le piante e offrirà il supporto tecnico necessario per piantumare le specie arboree, oltre a sostenere con fondi propri l’iniziativa. Calabria Verde, ente strumentale della Regione istituito nel 2013 per assolvere a tutti gli interventi sul territorio nel campo della forestazione e della difesa del suolo, ha in fase di progettazione corsi di formazione in attività d’impresa forestale o agricola, servizi di supporto e accompagnamento psicologico e professionale e altre iniziative utili a favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di detenuti o di altri soggetti svantaggiati. Nell’economia penitenziaria si contano diverse esperienze di viticolture e produzione di vini. Tra le più consolidate, il progetto Vale la pena della casa di reclusione di Alba “Giuseppe Montalto” dove i detenuti coltivano uve di nebbiolo, barbera, dolcetto e cortese, vinificate e poi imbottigliate dagli studenti dell’Istituto Enologico Umberto I. E nel carcere di Gorgona, dai vigneti di sangiovese, vermentino nero e ansonica, coltivati da alcuni detenuti, nascono due etichette dei pregiati vini Frescobaldi, azienda con cui l’amministrazione penitenziaria ha avviato un progetto nel 2012. Piazza Armerina (En). Si conclude il corso per pizzaiolo in carcere dedalomultimedia.it, 31 luglio 2020 Pizza, cultura e solidarietà. La Casa Circondariale di Piazza Armerina, in occasione della conclusione di un corso di formazione di Pizzaiolo, che si è tenuto all’interno dell’istituto, a cura del Cisi di Enna, organizza l’evento “Pizza Galeotta. Metti una Pizza a Piazza”, che si terrà il prossimo 3 agosto. Un’occasione per fare gustare le pizze, realizzate dai detenuti allievi del corso, con la guida dei maestri pizzaioli, ad autorità, sarà presente, tra gli altri, il sindaco della città dei mosaici, Nino Cammarata, ed amici. L’idea, messa a punto dalla direzione del carcere, con il contributo di idee della collaboratrice culturale, Samantha Intelisano, prevede la consegna degli attestati, una degustazione, letture scelte a cura di Roberta Battista e musiche dal giradischi ed avrà come location la biblioteca, attualmente in via di allestimento. Si tratta di uno dei primi eventi realizzati in un istituto penitenziario dopo la fase di maggiore emergenza Covid. Teatro della manifestazione la biblioteca, la cui implementazione è stata in questi mesi obiettivo primario della direzione. In particolare per l’arredamento è stato privilegiato il materiale artigianale riciclato, quali le cassette di vino. Una prima dotazione è stata offerta dal ristorante siracusano Don Camillo mentre nel corso della manifestazione di lunedì prossimo 3 agosto sarà Mirko Costa, delle cantine Planeta, a consegnare una dotazione di cassette da vino che saranno utilizzate per ampliare la biblioteca del carcere. “Ambiente che vuole essere, non mero luogo di smistamento di libri, ma centro di cultura dell’istituto, luogo di riunioni e di diffusione del sapere e di incontri come quello di giorno 3 - dice il direttore della Casa Circondariale, Antonio Gelardi - Per questo siamo fra l’altro grati alle cantine Planeta, a cui va il ringraziamento ed il plauso della direzione, che ha risposto alla nostra richiesta con grande generosità e lungimiranza”. L’evento sarà replicato nei giorni successivi per i familiari dei detenuti che hanno preso parte al corso, che avranno la possibilità di gustare le pizze confezionate dai familiari e di trascorrere, pur nel rispetto delle misure precauzionali, delle ore diverse da quelle dei normali colloqui. Sassari. L’ex carcere dell’Asinara diventa un albergo per il turismo sostenibile di Giovanni Massaiu sassarioggi.it, 31 luglio 2020 Il progetto avviato dalla direzione del Parco dell’Asinara. L’ex carcere dell’Asinara è pronto a diventare un albergo. Il progetto, iniziato mesi fa, è ora possibile grazie ad uno stanziamento di 800mila euro per la realizzazione dei primi 38 alloggi nella struttura a Cala d’Oliva, che daranno avvio ad una nuova vita per il parco dell’Asinara. Il progetto sarà sostenuto dalla Regione e dal Comune di Porto Torres. Il direttore del Parco, Vittorio Gazale, assicura che non ci saranno stravolgimenti delle strutture e che nel borgo è già presente tutto il necessario: la struttura, una chiesa, una piazza, uno spaccio, una pizzeria. Dopo il sopralluogo, avvenuto lo scorso anno da parte del verificatore incaricato da Europarc, Filippo Belisario, il parco ha ottenuto la certificazione (primo in Sardegna), per lo sviluppo turistico e ambientale delle aree protette in tutta Italia. La Carta Europea per il Turismo Sostenibile (Cets) è appunto una certificazione che consente la gestione dei Parchi nazionali, a favore del turismo sostenibile nei parchi e nelle aree protette europee. Entro il mese di luglio era attesa l’ufficialità per riconoscere anche al parco dell’Asinara questa certificazione. Dunque si potrebbero aprire nuovi orizzonti e nuove opportunità per il turismo sardo attraverso la valorizzazione delle strutture del parco, in passato carcere di massima sicurezza nel quale, tra gli altri, furono detenuti i membri delle Brigate Rosse, Totò Riina e Raffaele Cutolo. “La tortura in Italia esiste ed è un crimine del potere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 luglio 2020 L’e-book: “È un crimine del potere”. L’associazione Antigone che si occupa della tutela dei diritti umani nel sistema penale ha prodotto un e-book scaricabile gratuitamente dal sito che approfondisce, sia dal punto di vista giuridico che empirico, le possibilità applicative della legge attualmente in vigore e dall’altro prova a fare luce sulle situazioni e i luoghi in cui il rischio di subire la tortura è più alto. La tortura esiste ed è un crimine del potere. L’associazione Antigone che si occupa della tutela dei diritti umani nel sistema penale ha prodotto un e-book scaricabile gratuitamente dal sito che approfondisce, sia dal punto di vista giuridico che empirico, le possibilità applicative della legge attualmente in vigore e dall’altro prova a fare luce sulle situazioni e i luoghi in cui il rischio di subire la tortura è più alto. Al suo interno si possono leggere i contributi del garante nazionale Mauro Palma, l’avvocata Simona Filippi, Francesca Cancellaro, Giuseppe Mosconi, Gennaro Santoro, Federica Brioschi, Carolina Antonucci e Claudio Paterniti Martello. Nel 1989 l’Italia ratificò la Convenzione contro la tortura votata il 10 dicembre 1984 dall’Onu. Obbligo che l’Italia ha disatteso per quasi trent’anni. Le proposte di legge volte a riempire questo vuoto non sono mancate. Alcune erano promosse da Antigone, ma tutte, fino a luglio del 2017, si sono arenate in Parlamento. Il reato di tortura, dunque, in Italia esiste da poco. Non si può dire lo stesso della tortura che senza un reato specifico è sempre stato difficile perseguire. Nel primo capitolo dell’e-book si analizza il testo della legge sul reato di tortura. Se ne evidenziano i limiti ma anche le inaspettate possibilità interpretative. Nel secondo capitolo si ripercorrono alcuni dei processi in cui Antigone è coinvolta e che hanno un rapporto con la tortura. Nel terzo capitolo il Garante Mauro Palma sottolinea i fattori di rischio legati alla tortura nel contesto penitenziario, gli elementi critici da monitorare con più attenzione e l’importanza della prevenzione, oltre che del suo perseguimento in sede penale. Nel quarto capitolo ci si concentra sugli hotspot, in cui molti migranti vengono trattenuti senza alcuna convalida dell’autorità giudiziaria e in assenza di rimedi interni che permettano di denunciare maltrattamenti e condizioni di vita. Nel sesto capitolo si esplorano gli effetti dell’isolamento penitenziario e le ragioni per cui può essere dannoso. Nel settimo capitolo si presentano i risultati di una ricerca empirica sullo stato dei diritti durante la fase della custodia pre-cautelare, cioè dal momento dall’arresto a quello dell’udienza di convalida. Negli ultimi capitoli sono presentati i risultati di un’altra ricerca, volta a indagare se le Direttive dell’Unione Europea in materia di tutela delle vittime di reato siano andate a rafforzare le tutele di quei detenuti che restano vittime di violenza all’interno degli istituti penitenziari. Liberi fino alla fine della vita libera di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 luglio 2020 Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Coscioni, a capo del pool di avvocati che ha difeso Marco Cappato e Mina Welby nel processo per l’aiuto al suicidio fornito a Davide Trentini. Marco Cappato e Mina Welby durante il processo in Corte d’Assise a Massa. La corte d’Assise di Massa ha stabilito che Marco Cappato e Mina Welby non hanno istigato al suicidio Davide Trentini e che l’aiuto fornito dai due dirigenti dell’associazione Luca Coscioni all’uomo 53enne affetto da sclerosi multipla, supportandolo economicamente nel suo progetto di fine vita e accompagnandolo in una clinica Svizzera dove il 13 aprile 2017 ha ottenuto il suicidio assistito, non è un reato. La segretaria dell’associazione Filomena Gallo ha coordinato il pool di avvocati della difesa ottenendo una vittoria oltre le aspettative e un pronunciamento che estende il limite della non punibilità dell’aiuto al suicidio imposto dalla Corte costituzionale nel novembre scorso. Avvocata Gallo, quale linea processuale ha scelto di seguire? All’indomani della sentenza della Consulta abbiamo esaminato gli atti del processo che si è tenuto davanti la corte d’Assise di Massa e abbiamo deciso di chiedere una consulenza tecnica al dottor Mario Riccio e di proporla in dibattimento. Da questa consulenza è emerso che il livello di farmaci che Davide assumeva era importante ma non sufficiente per controllare totalmente il suo dolore. È agli atti che i medici avevano rifiutato la sua richiesta di avere una dose maggiore di antidolorifici perché ci sarebbe stato un arresto cardiocircolatorio. Inoltre il suo corpo aveva subito ormai il deterioramento di alcune funzioni con conseguenze pesanti e imbarazzanti. Così la Corte ha potuto verificare il fatto che non c’è stata alcuna istigazione al suicidio perché Davide aveva maturato questa convinzione da molto prima di chiedere aiuto. E, anzi, Cappato e Welby tentarono di dissuaderlo. La Corte ha riconosciuto che l’aiuto economico, materiale e legale da loro fornito come atto di disobbedienza civile - ricordiamo che si autodenunciarono - non è reato. Lo sarebbe per l’articolo 580 del codice penale, ma il nostro ordinamento è del 1930 ed è reso obsoleto dal principio costituzionale dell’autodeterminazione, scritto nella Carta del 1948. La Consulta ha chiarito che non è reato aiutare un aspirante suicida capace di autodeterminarsi, affetto da patologia irreversibile, sottoposto ad enormi sofferenze psichiche e fisiche, e dipendente (del tutto o parzialmente) da trattamenti di “sostegno vitale” che solo la scienza può definire. La consulenza del dott. Riccio e la sua deposizione dell’8 luglio scorso hanno fatto emergere che nel caso di Trentini il “sostegno vitale” erano i farmaci, mentre per esempio nel caso di Dj Fabo era un macchinario, da cui dipendeva parzialmente. Questo vuol dire che potrebbe essere lecito anche aiutare un aspirante suicida affetto da gravi patologie psichiatriche irreversibili e dipendente da psicofarmaci? La Corte parla genericamente di patologie gravi, irreversibili e che producono gravi sofferenze, ma pone il limite del paziente che deve essere pienamente in grado di autodeterminarsi. Cosa che sarebbe da escludere in caso di malattie psichiatriche. Non credo che si possa arrivare a questo, sono scettica, anche se non essendo un medico non so definire una patologia psichiatrica. Bisognerebbe ritornare in tribunale, per un caso del genere. D’altronde il Comitato nazionale di Bioetica ha ben descritto questi limiti dopo l’ordinanza 207 della Consulta emanata nel 2018, un anno prima della sentenza. C’è bisogno di una legge perché vanno affrontati tanti aspetti che riguardano la libertà di scelta nel fine vita. Il reato non è più reato ma nell’ambito di alcuni casi specifici. Il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, non certo un illiberale, in un’intervista all’”Huffington post” si dice preoccupato per le conseguenze di questa sentenza e sostiene che “l’autodeterminazione spesso è un concetto che funziona per chi ha molta cultura e molta ricchezza”. Cosa risponde? Mah, io credo che la malattia e la sofferenza non fanno differenza tra chi ha molta o poca cultura e ricchezza. Purtroppo toccano tutti. E una persona che non ha cultura e non ha ricchezza invece oggi in Italia ha un limite in più, perché non può andare all’estero e diventa prigioniera di una sofferenza indescrivibile. Quella persona invece deve sapere che può rivolgersi al Servizio sanitario nazionale e porre fine alle proprie sofferenze. Deve poterlo fare chiedendo la sedazione profonda o chiedendo un farmaco letale. Voi avete presentato in Parlamento anche una legge di iniziativa popolare sull’eutanasia legale, ma è tutto fermo. Forse questo non è il momento giusto? Non è una questione di contingenza: il problema - e il dott. Flick dovrebbe esserne cosciente - è che mentre la Corte auspica fortemente l’intervento del legislatore da oltre un anno, il Parlamento e il governo hanno smesso da troppo tempo di occuparsi dei temi che riguardano la libertà delle persone. Il presidente del Consiglio dovrebbe riportare in parlamento la sentenza della Consulta che chiama in causa il legislatore, e non è stato fatto. I presidenti delle due Camere dovrebbero aprire un dibattito su quel pronunciamento ma neppure questo è stato fatto. Ed è passato già quasi un anno: non è certo colpa del Covid. Non solo fine vita, dunque. Quali sono i temi più urgenti che attendono di essere affrontati, nell’ambito dei diritti civili? Sono tanti: dalla legalizzazione della cannabis - parliamo di droghe che dovrebbero essere sottratte alle narcomafie e ai “sodalizi criminali”, e il cui traffico funge da anticamera di reati più gravi - fino all’aborto, una legge di Stato che dobbiamo ancora difendere perché non viene applicata su tutto il territorio italiano. E poi l’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza e dei vari nomenclatori tariffari, che non vengono aggiornati dal 2017 e dovrebbero esserlo ogni anno. Negli ultimi giorni è stata nominata la nuova Commissione Lea, ma la precedente cosa ha fatto? Ricordo che ci sono malati con disabilità gravi che non riescono ad ottenere nemmeno gli ausili di cui hanno bisogno. Per questo Maurizio Bolognetti, uno dei dirigenti dell’associazione Coscioni, è al 24esimo giorno di sciopero della fame, ma non ha ricevuto alcuna risposta né dalla regione Basilicata, né dal ministro Speranza. Noi siamo stati due mesi in lockdown e ci sono sembrati un’eternità, eppure ci sono persone che vivono tutta la vita in lockdown e che non hanno quegli ausili necessari per avere un livello di vita accettabile. E perché non ce l’hanno? Perché l’atto che deve identificare l’erogazione di questi ausili non è stato scritto correttamente e la Consip evidenzia che così non si possono fare i bandi di gara. Una cosa gravissima. Ci occupiamo dei diritti dell’inizio e della fine della vita, ma in mezzo c’è la vita. E va tutelata. Qualche correlazione c’è tra diritti civili, promozione di una politica basata sulla conoscenza scientifica e sviluppo economico di un Paese? Se i diritti civili fossero rispettati nel nostro Paese garantirebbero la possibilità di usufruire dei benefici della scienza. Avremmo un volano per superare gli ostacoli e proiettare l’Italia nel futuro. L’economia si sviluppa anche così. Come abbiamo capito con l’emergenza pandemica, sanità e ricerca scientifica sono il cuore di Paese che non può fermarsi. Migranti. I profughi uccisi in Libia e il silenzio del governo Conte di Gennaro Migliore Il Dubbio, 31 luglio 2020 Quanti episodi oscuri della storia del nostro Paese e del mondo hanno segnato la nostra coscienza? Quanti crimini sono scolpiti nella nostra memoria collettiva? Tra gli episodi più efferati di certo rimangono quelli legati tra loro dal robusto filo della violenza, usata per spezzare l’anelito di libertà di uomini e donne che cercavano di costruire la speranza di una vita migliore, per sé è per i propri figli. Da Portella della Ginestra agli spari sulle manifestazioni pacifiche, la storia è piena di tragici eventi che sono monito imperituro per ogni coscienza democratica. Perché, vi chiederete, ricordare proprio oggi queste pagine nere della storia? Perché a pochi chilometri da noi, pochi giorni fa, c’è stato un eccidio perpetrato dalla sedicente guardia costiera libica, che ha ammazzato senza pietà tre uomini e ne ha feriti oltre venti. Questi uomini, naufraghi recuperati da questi carcerieri del mediterraneo, stavano provando a scappare da una sorte certa: chi viene riportato in questi campi di prigionia sa già che subirà violenze, torture e sistematiche violazioni dei più elementari diritti umani. E anche qui questi ragazzi uccisi cercavano la libertà e volevano sfuggire un’esistenza fatta di sofferenza e dolore. Di queste vittime però non conosciamo i nomi, le storie, le speranze e le sofferenze che certamente avevano già patito. Sono rubricati, sbrigativamente, come “sudanesi”. Come se bastasse dire da dove vengono per trovare la forza di girarsi dall’altra parte. Non sono “morti nostri”, non sono nostri connazionali gli assassini. Perché, quindi, occuparsene? Perché credo che questa sia una tragedia della nostra civiltà, della nostra politica, del nostro stare al mondo. Quegli assassini, quei criminali che secondo innumerevoli prove sono gli stessi che gestiscono i traffici di esseri umani, sono suppostamente alleati del nostro Paese. Alcuni di noi, Italia viva e altri deputati delle forze di maggioranza, hanno chiesto alla Camera di interrompere i finanziamenti a questa specifica missione, una delle tre in cui siamo impegnati in Libia. In Libia dovremmo rafforzare in modo molto più significativo la nostra presenza, operativa e diplomatica, impegnandosi, insieme alle altre forze europee, solo nelle aree di intervento dove sono i nostri contingenti militari. Ho atteso, sperato, che questo crimine potesse portare un ripensamento nelle forze politiche che hanno insistito nel finanziamento della missione che coinvolge la guardia costiera. Nulla. Ho immaginato che, mentre si sta rinegoziando il Memorandum d’intesa del 2017, il nostro governo almeno condannasse senza mezzi termini questa violenza inaudita. Una sanzione, un richiamo, una convocazione delle autorità libiche del Gna di Serraj. Nulla. È una sottovalutazione? Eppure ogni giorno c’è un diluvio di dichiarazioni che ci ricordano che la nostra priorità sia quella di contenere i flussi migratori, che evidentemente sono oramai largamente provenienti dalla Tunisia. Si tratta forse della consunta dottrina della “non ingerenza”? Peggio mi sento. Un Paese che ha conosciuto la violenza efferata e ha saputo sempre reagire non può rimanere inerte e silente di fronte a questo scempio. I criminali vanno chiamati con il loro nome e trattati come meritano. Si pretenda allora, oltre all’inchiesta che chiede l’Unhcr, che i colpevoli di queste esecuzioni sommarie vengano arrestati e sanzionati, secondo il diritto internazionale, non restando impuniti. E poi, che il nostro Paese blocchi i finanziamenti alla sedicente guardia costiera libica. Ne va del nostro onore. Migranti. Di Maio: “Dobbiamo distruggere i barconi, è un’emergenza nazionale” di Emanuele Buzzi Corriere della Sera, 31 luglio 2020 Il ministro degli Esteri: serve un accordo con Tunisi. Va ripresa la redistribuzione sospesa durante il lockdown. Luigi Di Maio, lei ha mostrato preoccupazione per la situazione degli sbarchi. In passato ha sposato la linea dura appoggiando il blocco delle navi. Ora? “Vede io vorrei intanto mettere una cosa in chiaro, qui non si tratta di avere una linea dura o meno, non c’è e non deve esserci un approccio ideologico al tema, bensì pragmatico e concreto. La questione degli sbarchi, unita al rischio sanitario con la pandemia è un tema di sicurezza nazionale. Quanto accaduto a Caltanissetta e a Porto Empedocle deve far pensare, i cittadini chiedono giustamente delle risposte e il dovere di uno Stato è darle quelle risposte, lavorando per risolvere il problema alla radice. Le ricordo che abbiamo avuto più di 35 mila morti per il coronavirus e come ho già detto se qualcuno è sottoposto a quarantena non può pensare di violare le regole italiane e andarsene in giro liberamente. Vale per chi ha diritto alla protezione internazionale così come per chiunque altro”. Cosa è cambiato allora? “Il momento è molto delicato, lo ha fatto presente anche la ministra Lamorgese. C’è una fase di instabilità politica in Tunisia che sta alimentando gli arrivi verso l’Italia e noi non dobbiamo pensare a come fermare gli sbarchi, ma a come bloccare le partenze. Questo è il nodo che stiamo affrontando già a livello governativo. Anche perché la Tunisia è un Paese sicuro e chi parte per l’Italia viene rimpatriato. Non sarà regolarizzato nessuno. Proprio oggi tra l’altro abbiamo convocato l’ambasciatore tunisino chiedendogli di accelerare i rimpatri e ci ha assicurato che dai primi di agosto ripartiranno (80 a volo). Inoltre abbiamo chiesto maggiore vigilanza a Sfax e sono stati trasferiti due pattugliatori dal governo di Tunisi”. Come interverrà il governo? Ha parlato con Conte e Lamorgese? “Si, ci siamo riuniti in questi giorni anche insieme al ministro Guerini. Il piano da avanzare è articolato. Intanto va portato avanti il negoziato per un nuovo accordo in materia migratoria e presto io stesso andrò a Tunisi per affrontare il tema, ma prima voglio i fatti. Bisogna lavorare subito ad un accordo con le autorità tunisine affinché sequestrino in loco e mettano fuori uso barchini e gommoni utilizzati per le traversate, perché le imbarcazioni che stanno arrivando sono di questo tipo qui, cosiddette fantasma, spesso fuggono ai radar. Lo scenario ricorda quello albanese degli inizi del 2000 e allora con il governo di Tirana si cooperò in questo senso, il che contribuì a fermare i flussi. Con Tunisi dobbiamo sperimentare la medesima strada a mio avviso, lavorando naturalmente su più fronti”. Quali? “Ad esempio in materia di cooperazione bilaterale, valorizzando gli stanziamenti della cooperazione allo sviluppo: rafforzare le istituzioni locali serve ad offrire possibilità di crescita e sviluppo a chi è in difficoltà e a dargli una prospettiva futura nel suo Paese di origine. Allo stesso tempo, facilitare gli investimenti delle nostre imprese nella regione mediterranea. Ma prima di parlare di questo, ci aspettiamo piena collaborazioni sul rafforzamento della cooperazione in ambito migratorio”. Un punto però sembra uguale al passato: lo scetticismo verso l’Ue che “deve dare una risposta a questa crisi”... “Sì, l’Ue deve rispondere e ho accolto con soddisfazione l’appello di ieri da parte della Commissione, che dopo i nostri avvisi si è detta pronta a collaborare. Noi chiediamo semplicemente che siano rispettati i patti. Chiediamo a Bruxelles un ruolo proattivo tanto in termini di riammissione che di riduzione delle partenze irregolari e in questa cornice vogliamo coinvolgere anche i Commissari UE competenti come gli Affari Interni Ylva Johansson, che si è già detta a disposizione, e il Commissario per l’Allargamento e il Vicinato Varhelyi”. Crede davvero sia possibile una redistribuzione dei migranti, specie se arrivano su piccole imbarcazioni? “La redistribuzione era già in vigore, poi sospesa durante il picco della pandemia, ma ora il picco fortunatamente in Italia è passato e il nostro confine meridionale, lo ricordo, è un confine europeo oltre che italiano”. Intanto al Senato si chiede il processo a Salvini. Lei cosa avrebbe votato? “Mi crede? Non ho più voglia di parlare di Salvini”. A livello politico, si inizia a parlare di Mes: ci sono spiragli che il M5S apra il suo utilizzo? “Il presidente Conte in Europa ha giocato una partita straordinaria, ottenendo il massimo che potevamo ottenere. Ha ripetuto più volte che l’Italia non ne avrà bisogno e noi abbiamo fiducia nelle sue parole”. Il M5S è andato in frantumi internamente alla Camera sulle commissioni “C’è qualcuno che non ha rispettato gli accordi, ma sono certo che Vito Crimi saprà trovare un punto di equilibrio nel M5S”. L’alleanza con i dem non decolla a livello locale. “Già ho detto molte volte che con il Pd si lavora bene sul piano nazionale, dopo di che credo sia essenziale ascoltare i territori e sono certo che lo è anche per il Pd. Ognuno dei nostri rappresentanti sul locale porta avanti delle battaglie e giustamente si fa portavoce delle istanze dei cittadini. Qualsiasi forza democratica che si rispetti ha l’obbligo di ascoltare i suoi territori”. Oggi è a Napoli per la veglia di Carmine Mario Paciolla, ucciso in Colombia in circostanze ancora da chiarire. Come mai? “Ho già incontrato la famiglia al rientro della salma, ho ascoltato il loro dolore. Sono qui perché queste persone meritano di conoscere la verità e di sapere come è morto loro figlio. È un loro diritto e noi lo difenderemo in ogni sede”. Migranti. Laura Boldrini: “Vi racconto l’orrore dei campi di detenzione libici” di Aldo Torchiaro Il Dubbio, 31 luglio 2020 Laura Boldrini, ex Presidente della Camera, dopo una carriera nella Fao e presso il Wfp, è stata portavoce dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati. Impegnata con Liberi e Uguali, ha aderito il 24 settembre scorso al gruppo del Pd. Il voto del 16 luglio sul Decreto missioni, che rifinanziava anche la guardia costiera libica, l’ha vista esprimersi contro. Sulle coste libiche la guardia costiera ha aperto il mitragliatore e falciato tre uomini. Era stato appena approvato il rifinanziamento italiano, gli stiamo dando tre milioni di euro. Uno dei motivi per i quali non ho votato quel rifinanziamento è proprio per i metodi che i libici usano verso i migranti, e perché ci sono elementi della stessa guardia costiera di Tripoli che sono in combutta con i trafficanti. Fanno il doppio gioco? Non lo dico come frutto di una mia elaborazione. Risulta chiaramente dai rapporti delle associazioni umanitarie e perfino delle Nazioni Unite, oltre alle decine di inchieste giornalistiche internazionali che lo documentano. D’altronde è un paese polverizzato, nel caos… In Libia c’è un conflitto armato, a tratti cruento, e ci sono delle perdite umane dei libici e dei migranti che sono chiusi a chiave in luoghi di detenzione dai quali non riescono a mettersi in salvo; alla luce di questo ritenevo e ritengo un errore politico rifinanziare la Guardia costiera libica. Il che non vuol dire non sostenere la Libia o comunque il governo internazionalmente riconosciuto. Ci sono modi e modi. Aiutiamo i libici a casa loro, ma non la guardia costiera? Modifichiamo il tipo di aiuto, si dovrebbe incrementare il sostegno allo sminamento, visto che in molte zone sono presenti mine; si potrebbe sostenere la società civile, le famiglie più vulnerabili, gli sfollati interni, vittime del conflitto. Non sto dicendo “freghiamocene della Libia”, sto dicendo che bisogna cambiare. E modificare sostanzialmente il Memorandum of understanding. Io feci un Question time alla Camera, tempo fa. A distanza di qualche mese non se ne è saputo più nulla. Se il Parlamento chiede al governo come intende agire, poi non può non ricevere risposta, non avere più contezza di quel che accade. Quando c’è stato da votare per il rifinanziamento, lo scorso 16 luglio, io e altri colleghi e colleghe di maggioranza non ce la siamo sentite. Un voto che ha comunque assegnato tre milioni in più dell’anno precedente. Eppure sappiamo piuttosto bene quel che avviene in Libia. C’è chi paragona i centri di detenzione libici ai lager nazisti. Sono sempre molto attenta alle parole, la terminologia è sostanza. Ritengo che quelli libici siano luoghi di detenzione dove viene praticato il sopruso, la violenza e anche la tortura. Sia in quelli governativi che negli altri. Viene sistematicamente negato il diritto di accesso ai centri da parte degli organismi internazionali. Sono luoghi dove manca qualunque garanzia di diritto alla tutela delle persone. Sono luoghi dove non si finisce per aver commesso un reato ma dove si sta perché si è entrati irregolarmente nel Paese. Questo devono capire le persone: chi è lì è soggetto a ogni tipo di ricatti, anche economici. Quasi ostaggi, praticamente. Spesso i reclusi in questi centri devono chiedere a chi è rimasto a casa di spedirgli denaro per essere rimessi in libertà. Vengono liberati se pagano, altrimenti rimangono chiusi dentro. Non esiste Stato di diritto, altro che porto sicuro. Rispetto alle diverse posizioni nella guerra civile libica, sappiamo com’è collocata la guardia costiera? È una guerra aperta, quella di Libia dove intervengono anche potenze straniere. Una guerra che ha già causato morti e migliaia di sfollati libici che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case: una situazione di pericolo generalizzato. Ripeto: con una guerra in corso, si possono considerare quelli libici “porti sicuri”? Lo ha ricordato poco fa anche l’Unhcr. Un avvitamento nella spirale del cinismo. Aiutiamoli a casa loro rimane uno slogan vuoto. Sono anni che mi adopero per far passare questo concetto: riportare i migranti intercettati in mare in un luogo non sicuro, vuol dire comunque esporli a nuovi pericoli. È paradossale, quei profughi che scappavano da situazioni di pericolo, riacciuffati dalla guardia costiera libica, già sapevano cosa li attendeva in quei centri di detenzione. E mentre cercavano di mettersi in salvo i libici gli hanno sparato addosso. Questi sono metodi deplorevoli e inaccettabili. I soldi dei contribuenti italiani non possono essere spesi per sostenere chi applica questi metodi. Dal punto di vista politico quale sarà la sua iniziativa? Tutti avrebbero dovuto capire, col voto in aula il 16 luglio scorso, che si stava combinando un disastro. Adesso cosa fare? Spero innanzi tutto che anche alla luce di questo episodio si acceleri la revisione del Memorandum of understandig tra Italia e Libia. Non prendiamoci in giro: avere dalla Libia la garanzia che avrà rispetto dei diritti umani è illusorio. Nel tavolo della diplomazia dobbiamo starci con il senso di realtà. Realisticamente, cosa si può fare adesso? Quel che va fatto in Libia è articolato su tre punti-chiave. Il primo è che vanno chiusi quei centri di detenzione dove sono arbitrariamente trattenuti i migranti, come chiedono le Nazioni Unite da mesi. Il secondo è operare una evacuazione umanitaria, un trasferimento verso tutti quei Paesi che possono offrire delle quote di accoglienza. Terzo, risparmiare sui costi ingenti dei centri detentivi garantendo un uso diverso delle risorse. Perché non offrire ai privati la possibilità di accogliere i profughi in casa? Avrebbe certamente un impatto finanziario minore. Coniugare rispetto per i diritti ed economicità per i contribuenti è possibile e anzi doveroso. Nella sinistra della maggioranza si è aperto un caso. Ma rispetto a un anno fa alcune cose sono cambiate. La ministra Lamorgese non usa il linguaggio di Salvini, non vediamo dirette Facebook dalla terrazza del Viminale, non fa di ogni sbarco il motivo per aumentare l’asticella della disumanità. I toni saranno cambiati ma i decreti Salvini rimangono dov’erano. L’accordo di governo prevedeva di superare i cosiddetti decreti Salvini, a cominciare dai rilievi del Presidente della Repubblica. Parliamo di quasi un anno fa. Doveva essere una priorità già prima del Covid, adesso io mi auguro che quanto prima ci sarà la chiusura del cerchio e che questi decreti vengano radicalmente superati. Dobbiamo rimediare ai danni fatti da Salvini: quei decreti sono fatti apposta per aumentare l’insicurezza. La aumentano? Certo, perché quei decreti, abolendo il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, hanno messo migliaia di persone in condizioni di irregolarità. E questo ha creato ancora più marginalità e più problemi, specialmente agli enti locali. Un’altra bandiera di quei decreti era la mancata iscrizione dei residenti asilo all’anagrafe. La Corte Costituzionale ad inizio luglio lo ha dichiarato incostituzionale. Se le anagrafi municipali perdono di vista chi è sul territorio, non può esserci sicurezza. Quindi sono tutte norme contrarie ai nostri principi, a quelli della Costituzione, dell’ordinamento e a quelli delle convenzioni internazionali. E non è il momento di superarli? Certo. Ma finora pare che vi sia stato sempre qualcosa di più urgente, cambiare quei decreti non sembra essere stata una priorità. Non dimentichiamo: nella maggioranza c’è una componente che ha firmato e votato quei decreti ed è dunque più riluttante a metterci mano. Ma c’è un accordo di governo e pacta sunt servanda. Non si può più rimandare. “Le carceri Usa? Preservano la supremazia bianca” di Frédérique Libot e Lorenzo Fargnoli Left, 31 luglio 2020 “La composizione etnica delle galere statunitensi è il frutto di una precisa volontà di imprigionare afroamericani” spiega Mumia Abu-Jamal, giornalista e attivista all’ergastolo. “Lo scopo - spiega - è alleviare le ansie dei ricchi e mantenere la subordinazione nera”. In America, i neri sono intimiditi, picchiati, molestati, fermati e perseguitati dai poliziotti. Il loro timore di dover interagire con le forze dell’ordine è motivato. E questa paura è reciproca”. È l’atto di accusa di Mumia Abu-Jamal, attivista, scrittore e giornalista statunitense, condannato alla pena di morte per l’omicidio dell’agente di polizia, Daniel Faulkner, nel 1982. Dopo una colluttazione per un brutale fermo del fratello, fu ritrovato ferito e incosciente accanto al corpo esanime del poliziotto. L’ex membro del Black panther party e simpatizzante del Move (un’organizzazione politica radicale afroamericana di Philadelphia) si è sempre dichiarato innocente. Il processo, che non ha fatto chiarezza in modo dirimente sugli eventi, è stato seriamente compromesso da una serie di vizi procedurali e irregolarità, fra cui ricordiamo i commenti razzisti pronunciati dal giudice durante le udienze. Amnesty International, la Commissione per i diritti umani dell’Onu e perfino il Parlamento europeo hanno difatti chiesto la revisione della sentenza. Grazie alla forte mobilitazione internazionale e al sostegno di numerose personalità (come la scrittrice premio Nobel Toni Morrison, il linguista Noam Chomsky, il cantautore Bruce Springsteen e il gruppo Rage against the machine), l’attivista, diventato uno dei maggiori simboli della lotta contro la pena di morte nel mondo, ha visto la sua pena capitale essere commutata in ergastolo nel 2011. Attualmente, le speranze che venga un giorno liberato sono pressoché nulle. Eppure quasi quarant’anni di detenzione, di cui trenta nel braccio della morte, non hanno messo a tacere la sua voce. Nonostante l’amministrazione carceraria abbia cercato diverse volte di impedirglielo, il giornalista commenta l’attualità ogni settimana su Prison radio e ha pubblicato sei libri. La sua opera prima, Live from death row (Harper perennial, 1996), si è classificata tra i best seller del New York times. Oggi Mumia Abu-Jamal risponde alle domande di Left dal carcere di Mahanoy in Pennsylvania. Secondo l’ultimo studio condotto dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (2013), il 37% dei carcerati nel Paese sono afroamericani, nonostante costituiscano solamente il 13% della popolazione totale. Come interpretare questi numeri? Queste statistiche non illustrano altro che le tattiche della cosiddetta “guerra alla droga”, una falsa battaglia agli stupefacenti avviata da Richard Nixon cinquant’anni fa per destabilizzare i movimenti di libertà e d’indipendenza dei neri e dei portoricani. (In un’intervista postuma pubblicata su Harper nell’aprile 2016, John Ehrlichman, il consigliere di Nixon per la politica interna, ha rivelato che il vero obiettivo della war on drugs era di criminalizzare i nemici storici del governo, la sinistra pacifista e i neri: “Potevamo arrestare i loro leader, perquisire le loro case, interrompere i loro incontri e diffamarli giorno dopo giorno sui media”, ndr). Oggi, l’America rurale prevalentemente bianca si confronta con il più grande problema di droga della storia, secondo uno studio condotto nel 2018 della National institute on drug abuse, gli americani bianchi senza diplomi universitari rappresentano l’80% dei decessi per overdose da farmaci oppioidi. Però mentre ai bianchi viene concessa la riabilitazione, i neri vengono mandati in carcere. La società americana, avendo deindustrializzato il lavoro, ha dovuto costruire prigioni per impiegare distretti rurali bianchi per generazioni. Pertanto i numeri che cita, che non hanno nulla a che fare con le droghe, ma con l’economia, il tasso di occupazione bianca, i profitti delle case farmaceutiche e del sistema privato carcerario, sono il risultato di una precisa volontà di incarcerare afroamericani. Lo squilibrio è ancora più evidente se si osserva la proporzione di afroamericani, il 40%, tra le vittime uccise durante i fermi della polizia... Il mio sospetto è che questi crimini abbiano una precisa funzione sociale: contenere, limitare, recintare la vita dei neri per mezzo di una repressione violenta, così da alleviare le ansie dei ricchi e cioè preservare la supremazia bianca che, per definizione, necessita una subordinazione nera. In questo contesto qual è il ruolo storico della polizia negli Stati Uniti? La storia delle forze dell’ordine statunitensi ha un’origine diversa da quella anglo-europea. La tradizione della polizia statunitense deriva dalla paranoia bianca legata agli spostamenti degli africani sul territorio. All’origine, vi erano dei gruppi di uomini bianchi autorizzati a sorvegliare e controllare gli schiavi. Il loro compito era quello di investigare e riferire le discussioni e le relazioni, in particolare all’interno dell’attivismo nero. Leggendo in questi giorni Set the night on fire, di Mike Davis e Jon Weiner (Verso, 2020), ho scoperto che negli anni 60, il capo della polizia di Los Angeles, William H.Parker, inviò manifesti di reclutamento nelle carceri dell’Alabama, Stato del Sud storicamente culla del suprematismo bianco, in cerca di agenti da inserire nel Los Angeles polite department. La prima funzione della polizia in America è sempre stata il controllo degli afroamericani. Qual è stato il peso della consapevolezza di una sostanziale impunità nella perpetuazione degli abusi della polizia nei confronti della comunità afroamericana? Basta guardare la foto del poliziotto con il ginocchio sul collo di George Floyd. Sembra tranquillo come un cetriolo con le mani in tasca! Pensi che non sappia di essere intoccabile, in quel momento? Certo, se si è comportato così è proprio per le concessioni che ha ricevuto in passato dai suoi superiori. D’altronde, in 19 anni di servizio l’agente Derek Chauvin ha collezionato 18 denunce per comportamento violento, senza mai ricevere un procedimento disciplinare. E tutta la storia degli Stati Uniti, sin dalla fine della Guerra civile, dimostra che il meccanismo funziona così. La Corte suprema, nel creare la dottrina “dell’immunità qualificata” (uno strumento legale che offre una protezione speciale ai pubblici ufficiali nei casi di abusi contro i civili, ndr) per proteggere gli sbirri, ha sentenziato essenzialmente che loro non possono fare nulla di male. Il sistema protegge il sistema. Quanto il caso di George Floyd è singolare rispetto alle decine di rivolte per i diritti civili che si sono succedute nella storia degli Stati Uniti? Questi movimenti non si scatenano per via di un caso specifico, ma di “un lungo treno” di oppressione e impunità da parte di rappresentanti dello Stato e della polizia in particolare. Il caso di George Floyd non è proprio singolare, però è simbolico. Perché? Pensate a Emmett Till, l’adolescente di Chicago che nel 1955 andò a visitare la sua famiglia in Mississippi. Il quattordicenne è stato picchiato, torturato e ucciso, presumibilmente per aver fischiato una donna bianca. Quando al funerale sua madre aprì la bara per mostrare il corpo martoriato al pubblico, accese un fuoco che alimentò il movimento per i diritti civili. Allo stesso modo, le immagini, riprese dai cellulari, delle suppliche struggenti di Floyd che non riesce a respirare, mentre la sua gola viene schiacciata sotto il ginocchio di un poliziotto bianco, hanno costretto l’opinione pubblica a prendere sul serio il problema della violenza della polizia, anzi del terrore poliziesco, e hanno scatenato un movimento globale per la giustizia. La storia del Black panther racconta di continue infiltrazioni da parte dell’Fbi e della polizia per screditare il movimento e privarlo dei suoi leader. Secondo te è una prassi tuttora attuale? Nel suo racconto autobiografico, Eyes to my soul: The rise or decline of a black Fbi agent (The Majority Press, 1996), Tyrone Powers, un agente federale nero, racconta un episodio molto evocativo accaduto negli anni della sua formazione. Quando interrogò il suo istruttore riguardo la fine di Cointelpro, ossia il programma, segreto e non autorizzato, di sorveglianza, infiltrazione, e neutralizzazione degli individui e dei movimenti ritenuti sovversivi dall’Fbi, gli rispose qualcosa del genere: “Se funziona, perché smettere?”. Lo Stato si oppone sistematicamente a coloro che cercano un cambiamento sociale, che si tratti di Martin Luther King Jr., Malcolm X, Huey Percy Newton. (A partire del 1969, Cointelpro prese di mira i Black panthers. I leader del movimento furono assassinati, incarcerati e accusati ingiustamente di crimini. Durante i loro processi, tattiche di intimidazione dei testimoni, di spergiuro e di negazione delle prove erano normalmente attuate, ndr). E attualmente al movimento Black lives matter. Documenti interni risalenti al 2017 dimostrano che l’Fbi sorvegliava il movimento Black lives matters con la designazione di “Black identity extremists”. Si è parlato molto dei danni ai beni di consumo durante le rivolte, al punto di aver reiteratamente scansato il tema della perdita ingiusta di una vita umana per mano di rappresentanti dello Stato. Cosa pensi della natura del dibattito pubblico sulle proteste? Gli Stati Uniti, a causa della pervasività del capitalismo nella società, hanno un feticcio per gli articoli di consumo, lo shopping e l’euforia degli acquisti. Di fronte a un tale fascino, la vita dei neri non ha alcuna possibilità, poiché il valore di quest’ultima è profondamente svalutato in questo Paese. Nel film BlacKKKlansman di Spike Lee (2018) la coppia di protagonisti si scontra sulla questione del metodo della lotta per i diritti civili degli afroamericani: cambiare le cose dall’interno o abbattere il sistema intrinsecamente razzista. Oggi quale strada ti sembra più pertinente? La domanda vera è: riforma o rivoluzione? Quello sarà la gente a deciderlo. Ma mi sembra che i problemi siano così insolubili, gli odi e gli scontenti così radicati, che una semplice riforma non possa risolvere le questioni sollevate da questo momento storico. La politica, e non mi riferisco a quella attivista, ma a quella borghese bipartitica, è così distante dal polso del movimento che non penso ci sia alcuna speranza che possa dare una risposta davvero significativa. Marx ed Engels hanno affermato che lo Stato non è che il comitato esecutivo della classe dominante, vale a dire che serve gli interessi dei potenti, non quelli dei poveri, degli oppressi e degli espropriati. È possibile costruire uno Stato che sia al servizio degli ultimi? Non senza un potente movimento rivoluzionario. Temo che le mezze misure non saranno mai sufficienti. Il carattere internazionale delle proteste attuali è un segno di sostegno alla comunità afroamericana, e al movimento antirazzista più in generale, o di una presa di coscienza collettiva di uno svuotamento delle democrazie? Le dimostrazioni e le proteste anti razziste filo-afroamericane sono globali perché le oppressioni subite dai neri statunitensi hanno i loro echi nelle vite dei neri in tutto il mondo. La negrofobia è un fenomeno universale. Gli aborigeni in Australia, i turchi in Germania, i pakistani e i giamaicani a Londra o i senegalesi a Parigi, non importa davvero dove. Chi protesta sa che i frutti della schiavitù e del colonialismo permangono tuttora come resti marci del passato che contaminano il presente. E la libertà è dolce. Isis, Amnesty: “Due mila bambini Yazidi abbandonati a se stessi” di Marta Serafini Corriere della Sera, 31 luglio 2020 La ong britannica denuncia la mancanza di supporto ai minori ridotti in schiavitù dallo Stato islamico, nonostante i gravi traumi. Angelina Jolie all’Onu: se non manteniamo le promesse in quanti altri soffriranno? Rapiti, torturati, violentati e costretti a combattere per l’Isis. E poi abbandonati a loro stessi una volta che sono stati liberati. È la sorte di quasi 2000 bambini Yazidi. Dopo essere stati prigionieri dei miliziani - lo Stato islamico ha attaccato la comunità nell’agosto del 2014 riducendo in schiavitù e uccidendo migliaia di persone - oggi questi bambini soffrono di lesioni, stress post-traumatico, ansia e depressione. Non aiutarli e supportarli significa non pensare alle conseguenze che la loro condizione potrebbe avere sull’intera regione. La denuncia arriva da Amnesty International che ha pubblicato un dettagliato rapporto dal titolo Legacy of Terror: The Plight of Yezidi Child Survivors of ISIS. “Questi bambini hanno bisogno di un sostegno urgente da parte delle autorità nazionali in Iraq e della comunità internazionale per costruire il loro futuro”, ha dichiarato Matt Wells, vicedirettore del programma Crisis Response della ong britannica. “Sopravvissuti a crimini orribili, questi ragazzi devono ora affrontare un’eredità segnata dal terrore. La loro salute fisica e mentale deve essere una priorità negli anni a venire per far sì che possano reintegrarsi completamente nelle loro famiglie e nella comunità” ha spiegato Wells. Tra loro c’è Sahir, un giovane reclutato dall’Isis all’età di 15 anni, che ha raccontato: “Sono stato costretto a combattere. Ho dovuto farlo o sarei morto. Non avevo altra scelta. Era fuori dal mio controllo. Per sopravvivere, ho combattuto. È la cosa peggiore che possa accadere a una persona, la più degradante... [Dopo essere tornato dalla prigionia] avevo solo bisogno che qualcuno si prendesse cura di me, mi sostenesse e mi dicesse: “Sono qui per te”... Questo è quello che cercavo, e non l’ho mai trovato”. Molti ragazzi catturati sono rimasti disabili dopo essere stati costretti a combattere al fianco di Isis e non hanno ricevuto alcun sostegno da quando sono tornati a casa, afferma il rapporto. Anche Randa, una quattordicenne che è stata prigioniera dell’Isis per cinque anni, si è confidata: “Ero una bambina quando mi hanno fatto sposare. Mi hanno fatto soffrire. Voglio che il mio futuro sia migliore. Voglio che lo Stato Islamico risponda di quello che mi hanno fatto”. Amnesty ha scoperto che i servizi esistenti per le sopravvissute alle violenze sessuali hanno in gran parte trascurato le ragazze. “Queste bambine sono state sistematicamente sottoposte ai peggiori orrori sotto l’Isis, e ora sono state lasciate a raccogliere i cocci da sole” ha detto Wells. Un altro problema è che i giovani Yazidi sono spesso isolati al loro ritorno, poiché le famiglie e le comunità faticano ad accettare ciò che hanno vissuto durante la prigionia. Un problema aggravato dall’intensa attività di propaganda perpetrata dal gruppo terroristico, con l’obiettivo di cancellare l’identità, lingua e cultura degli Yazidi. In aggiunta, il quadro giuridico iracheno impone che un figlio di padre “sconosciuto” debba essere registrato come musulmano (e gli Yazidi sono molto legati alla loro religione). Diverse donne intervistate da Amnesty hanno raccontato le pressioni ricevute, venendo costrette o addirittura ingannate per abbandonare i propri figli. Sulla vicenda è intervenuta anche la delegata speciale dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, Angelina Jolie, che ha citato le ricerche di Amnesty al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite all’inizio di questo mese, quando ha chiesto maggiore sostegno ai bambini yazidi. “Se non siamo in grado di mantenere la nostra promessa di un approccio centrato sui sopravvissuti per i bambini yazidi, che costituiscono solo un gruppo relativamente piccolo di sopravvissuti, quanti altri bambini e giovani adulti soffrono in silenzio a livello globale?”, ha detto l’attrice. Repubblica Democratica del Congo, almeno 170 rapiti in tre anni di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 31 luglio 2020 Almeno 170 persone sono state rapite per ottenere un riscatto tra aprile 2017 e marzo 2020 da gruppi armati nella parte orientale della Repubblica democratica del Congo. Lo denuncia Human rights Watch (Hrw) in un rapporto pubblicato oggi sul sito web dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani, aggiungendo che oltre la metà delle persone rapite è costituita da donne e che la maggior parte di queste è stata violentata, anche più volte al giorno. I rapimenti avvengono vicino al Parco nazionale dei Virunga e alcune famiglie hanno venduto la loro terra per pagare i riscatti. Oltre alle violenze sessuali riguardanti ragazze e donne, le vittime di rapimento sono picchiate, torturate e spesso uccise in assenza di riscatto. Nella zona è attivo il gruppo ribelle ruandese Rud-Urunana, ma non è chiaro se sia responsabile di questi rapimenti. Nella nota, Hrw chiede in particolare alle forze di polizia congolesi di prendere provvedimenti per smantellare le bande criminali e arrestare i responsabili dei rapimenti e della violenza sessuale nell’area di Bukoma, nel territorio di Rutshuru, nella provincia del Nord Kivu. La missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite in Congo (Monusco), che ha una base nel raggio di 10 chilometri dai campi agricoli e dalle aree in cui si sono verificati i rapimenti, dovrebbe secondo l’ong “proteggere i civili pattugliando attivamente le aree ad alto rischio, coerentemente con il suo mandato”. Il gruppo ribelle ruandese Rud-Urunana - una fazione frammentata delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr) - controlla gran parte dell’area intorno a Bukoma. Questo gruppo armato è stato coinvolto in rapimenti negli ultimi anni e, sebbene il coinvolgimento di combattenti attuali o precedenti non possa essere escluso, Human Rights Watch non ha stabilito il loro coinvolgimento in questi casi recenti o se rispondono a una catena di comando. Da dicembre 2019 a giugno 2020, l’ong ha intervistato 37 persone sui rapimenti, tra cui 28 donne sopravvissute alla violenza sessuale, 5 delle quali erano bambine al momento dell’abuso. L’organizzazione ha anche intervistato attivisti locali, funzionari del governo e del parco e membri dello staff delle Nazioni Unite. I sopravvissuti hanno dichiarato di essere stati rapiti, a volte con i loro bambini, mentre lavoravano nei campi o sulla strada di casa, vicino alla città di Kiwanja. I loro rapitori li avrebbero costretti a camminare, mani legate, per diverse ore nel vicino Parco Nazionale Virunga. I sopravvissuti hanno dichiarato che i rapitori hanno legato di frequente gli uomini mani e piedi, picchiandoli, mentre le donne sono state “metodicamente violentate”. “I rapitori ci hanno detto che nessuna donna sarebbe uscita da lì vergine”, ha detto una sopravvissuta di 28 anni.