I diritti dimenticati dei detenuti di Mauro Palma* La Repubblica, 30 luglio 2020 La pandemia di Covid-19 impone la necessità di uno sguardo nuovo sulle carceri. Qua e là nelle passate settimane si sono sentite voci che indicavano come il lockdown avesse implicitamente funzionato quale esperienza unificante, ponendo tutti nella stessa situazione di privazione della libertà: sia chi ne era già privato perché ristretto oltre cancelli e muri, sia chi doveva rimanere a casa, spesso lontano da persone care. Non è stato così. Nei luoghi dove la libertà era già precedentemente negata, qualunque ne fosse la ragione, l’ansia per il rischio di un contagio da cui sarebbe stato impossibile difendersi si è aggiunta a quella che tali spazi chiusi di per sé generano. Una doppia ansia che è spesso sfociata nell’angoscia. La nuova situazione ha però portato con sé anche la necessità di un nuovo sguardo verso questi mondi generalmente poco visibili e spesso visti soltanto in occasione di eventi drammatici. In particolare, verso il carcere. Uno sguardo che, incalzato anche dalle rivolte nei primi giorni di chiusura, non ha potuto evitare di leggere un dato: i provvedimenti incentivavano la detenzione domiciliare per ridurre il numero delle persone detenute e creare spazi per possibili isolamenti sanitari, ma molti rimanevo dentro perché privi di “fissa dimora”. Da qui, la necessità di guardare del carcere anche la composizione sociale e non limitarsi ai due, pur importanti, temi che assorbono il dibattito attorno a esso: la sicurezza e il sopraffollamento. Il primo tema è ovviamente essenziale. Ma le persone che necessitano di una particolare osservazione e uno specifico “regime penitenziario” sono attorno alle diecimila, su un totale di circa cinquantatremila e grave è la miopia di leggere anche gli altri quarantatremila con questa lente. Non considerando, per esempio, che oggi più di novecento persone sono in carcere per una pena inferiore a un anno e altre duemila per una pena tra uno e due anni - non residui di pene maggiori, ma proprio quelle irrogate. Difficile dare un senso a una detenzione così breve, se per elaborare un qualsiasi progetto di “trattamento” occorre una osservazione di mesi. Il rischio è che si tratti solo di un periodo recluso che spesso si replicherà, in una successione di entrate e uscite dal carcere che segnano vite ai margini della società, senza mai intervenire realmente su di esse. Perché queste presenze sono indicative dell’assenza di reti di supporto sociale e legale che altrimenti avrebbero permesso di accedere alle misure alternative che il nostro ordinamento prevede. Indicano problemi che si riverberano sul carcere, ma che questo non può risolvere, perché sono il risultato di altre assenze che interrogano il territorio e le sue istituzioni per le risposte mancate a situazioni che andrebbero in altro modo affrontate, anche per una maggiore sicurezza della collettività. Qui si salda la limitatezza anche del secondo tema, relativo all’affollamento. Che, preso in sé finisce col prestarsi a soluzioni geometriche di spazi individuali da assicurare o edilizie, come taluno a volte ripropone. In realtà, proprio quell’insieme di persone condannate a pene brevi o che hanno un breve residuo ancora da scontare - per circa ventimila persone meno di due anni - pone domande sulla previsione di strutture diverse che, pur mantenendo il doveroso aspetto sanzionatorio, si articolino in modo differenziato sia di controllo che di supporto per costruire percorsi che, peraltro, nel medio-lungo periodo finirebbero per essere anche economicamente più convenienti. Forse allora i due temi prevalenti andrebbero immersi in quello più ampio del significato delle pene. Non perdiamo l’occasione di un nuovo sguardo. *Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale Le colpe collettive per il carcere isolato di Davide Ferrario Corriere della Sera, 30 luglio 2020 Ho fatto il volontario al “Lorusso e Cutugno” dal 2004 al 2010. Un “articolo 17”, come si dice in gergo. Prima avevo fatto altri cinque anni a San Vittore. Misi quell’esperienza in un film che girai lì nel 2008, Tutta colpa di Giuda, che uscì nelle sale l’anno dopo. Protagonisti Kasia Smutniak, Fabio Troiano, Luciana Littizzetto; ma soprattutto detenuti e agenti della sezione Prometeo, quella in cui lavoravo. Lo si può vedere ancora su Sky proprio in questi giorni. Mi ricordo benissimo quello che mi disse prima delle riprese il direttore allora in carica, Pietro Buffa: “Lei ha l’ultima occasione di filmare un momento particolare della storia del carcere: tra poco cambierà tutto”. Quella frase mi è tornata in mente in questi giorni, nei quali l’attuale direttore e il capo degli agenti sono stati rimossi per la questione delle torture su un gruppo di detenuti. Buffa aveva ragione. Quel film fotografava gli ultimi momenti di una stagione in cui una generazione di direttori e operatori aveva cercato di “aprire” l’istituzione alla società, recuperando il rapporto tra “dentro” e “fuori” che si interrompe quando la porta della galera si chiude dietro al condannato (che, tra l’altro, non sempre è tale; il numero di persone in attesa di giudizio è abnorme). Ed è vero che da allora in poi si è affermato un processo di rimozione che ha riportato il carcere a essere un luogo separato ed autoreferenziale, che produce su chi vi entra un effetto devastante. Non parlo solo dei detenuti. Nella mia esperienza, chi vi lavora - in primis gli agenti penitenziari - è sottoposto a pressioni non diverse. Se i detenuti sono dei prigionieri, gli altri sono ostaggi di un sistema che la società che lo produce considera nient’altro che una discarica sociale. Non dimentichiamo che nel 2013 la mensa delle Vallette fu teatro di una tragica sparatoria in cui un agente uccise un collega e poi si suicidò. In questa dozzina d’anni una tendenza ideologica (cavalcata dalla politica) ha spinto a considerare la galera come un posto da abbandonare a sé stesso e a respingere con fastidio ipocrita qualsiasi discorso su quello che vi succede (e su cosa a davvero serva la pena). Anche a Torino è andata così. Quando cominciai a lavorare alle Vallette, si organizzavano periodici incontri tra detenuti e semplici cittadini, con la partecipazione del personale. C’era una “waiting list” di 1500 persone disposte a seguire questi incontri. C’erano molti canali che consentivano al mondo carcerario di non sentirsi solo, ma parte di un contesto. Non che adesso ci sia il deserto, ma si tratta di iniziative personali, il più delle volte lasciate alla buona volontà dei singoli. Ma se si perde il rapporto tra carcere e città, si apre la strada all’autolesionismo e alla violenza. Che, ancor prima che malvagità, rivela la pura frustrazione dell’abbandono. Al di là delle responsabilità individuali che le indagini accerteranno, quello che è successo alle Vallette rivela una colpa collettiva. Entrare in carcere è un trauma (e uscire anche) di Lucio Boldrin Avvenire, 30 luglio 2020 Quasi ogni giorno vedo arrivare nuovi detenuti, ma ne vedo anche che escono, con le loro borse e i sacchi neri, quelli della spazzatura. Chi va in qualche comunità, chi ai domiciliari e chi torna libero. Compiuto il rito scaramantico di buttare in un cassonetto le ciabatte e spezzare lo spazzolino da denti usati durante la carcerazione, con la speranza di non ritornare più in carcere, comincia la loro nuova avventura. Ma se chi va ai domiciliari o in una comunità ha già qualche certezza sul suo futuro prossimo, molti “liberanti” non ne hanno alcuna. Per tanti di loro, anzi, vi è solo un grande punto interrogativo: dove andare? Non tutti, infatti, hanno una famiglia pronta a riaccoglierli o la prospettiva di un lavoro e, quindi, di un sostentamento economico per vivere dignitosamente. Il guaio è che se a quel punto interrogativo non si trova risposta a breve, si torna spesso sulla strada della delinquenza e poi, di nuovo, dietro le sbarre. Purtroppo ho già visto casi così. Allora, chi si dovrebbe occupare di coloro che escono dal carcere? Passata la sbarra della casa di detenzione, lo Stato chiude la “pratica” e il “liberante” deve arrangiarsi da solo. È difficile perfino trovare le parole per esprimere quanto ciò sia difficile per la maggior parte di loro. Più volte mi sono trovato davanti queste persone (detesto la parola ex detenuti) completamente spaesate: buttati in strada dopo anni di reclusione, alcuni senza sapere nemmeno dove andare a prendere l’autobus. In mezzo al traffico e ai rumori della città, sono colti da un vero stato di malessere. Più volte, accompagnandone qualcuno alla metropolitana o alla stazione Termini, ho dovuto fermare l’automobile perché si sentivano “come sulle montagne russe”. Mi è rimasta impressa una frase di un detenuto che, quando uscirà, avrà passato i 60 anni e sa già che si troverà completamente solo e senza un lavoro: “Sono cambiato. Sento che la realtà del carcere non mi appartiene più, ho capito i miei errori e il mio impegno è quello di non tornare più a delinquere. Ma in qualche modo dovrò pur mangiare...”. Ecco, quella frase sospesa mi ha lasciato intendere tante cose. Se non si comprenderà veramente l’importanza di curare non solo la custodia, ma anche il reinserimento sociale di chi è stato “dentro”, le celle saranno sempre sovraffollate e le strade sempre piene di chi commette reati e vive di espedienti. *Cappellano della Casa Circondariale di Roma Rebibbia Il 41bis è un abominio e parlarne non significa appoggiare le mafie di Michele Passione* Il Dubbio, 30 luglio 2020 Parlare del rispetto dei diritti è come bestemmiare in chiesa, per questo chi lo fa viene attaccato. Qualche giorno fa il dott. Catello Maresca ha preso carta e penna e ha detto la sua sul 41bis; gli capita spesso e di solito dispensa buoni consigli, che la Commissione Antimafia raccoglie al volo (vedi alla voce “divieto scioglimento dei cumuli”). Ospite fisso di una trasmissione in prima serata nella quale si regolano conti personali, ha lamentato che il regime differenziato sia diventato “il male assoluto, addirittura più della stessa mafia che tende a contrastare”. Così, utilizzando la retorica del “ricordo a me stesso”, ricostruita la genesi e gli sviluppi della disposizione che a tutt’oggi regola “situazioni di emergenza” (che non finisce mai), il nostro parla a chi deve ascoltare (tra poco si vota) e sostiene che chiunque avanzi critiche a questa grundnorm della mortificazione del Diritto e della Dignità lo faccia per ostilità ideologica, giacché i “principi supremi” invocati sarebbero figli di un’epoca passata, nella quale si pensava stoltamente che la mafia non esistesse. Ora, siccome mi sono un po’ stancato di passare per uno stolto idealista (sono ostinato, non ostile) o peggio ancora di dover leggere che vi sono “soloni del carcere morbido che tessono la loro tela”, comincio col dire che la mafia è una merda, così ci capiamo. Però, siccome qui nessuno tiene bordone a Cosa Nostra (e non occorre ricordare a un signore che di mestiere fa il pm che le allusioni sono inaccettabili, tanto più in un campo come questo), occorre anche chiarire una volta per tutte che in Alsazia non sono proprio tutti ignoranti o corrivi e le cose di Casa nostra le conoscono pure loro; basterebbe leggere un po’ di sentenze della Cedu ogni tanto. La verità è un’altra, da sempre: chi tocca i fili muore e parlare del rispetto dei Diritti di tutti e dell’abominio del 41bis è come bestemmiare in chiesa. Così si spiegano gli attacchi alle Corti (Costituzionale, Edu, ai vari Magistrati di Sorveglianza che fanno il loro lavoro), nel tentativo di condizionarne le argomentazioni e le decisioni da assumere. Invece, secondo il pm, una miscellanea che somiglia al complotto demo-pluto-giudaico-massonico terrebbe insieme “Garanti, l’intellighenzia sinistrorsa (molto sensibile al tema delle garanzie) ed una sempre più numerosa stampa compassionevole”. Dall’altra parte, il deserto. Forse è il caldo, forse l’effetto prolungato del lockdown o forse davvero si è perso il senso della realtà, ma sostenere che “invettive mafiosoidi non trovino ostacoli” (di nuovo, le allusioni), laddove (salvo i radicali) non si trova un politico uno che denunci l’uso improprio della galera differenziata, è qualcosa di veramente incredibile e non merita commenti ulteriori. Basta accendere la tv. Però il dott. Maresca non ci sta e passando dal triplice imperativo del “resistere” di tangentopoli al “denunciare” di oggi, “scoperto il giochetto” (terza allusione) propone di “sparigliare”. Vestiti i panni del riformatore il pm campano ha la soluzione: rivedere l’ordinamento penitenziario. Ecco le proposte (“i cardini ideologici”): “lavoro obbligatorio per tutti”, (qualcuno lo avvisi, che non si può fare! Il lavoro è un diritto, non un’imposizione, secondo le leggi di questo Paese), “anche per i mafiosi”, riservando “il regime di rigore differenziato ai detenuti più riottosi”. Basta un aggettivo e si torna lì, che del resto “la fedina penale dei mafiosi è fatta di continue ricadute nel crimine, segno che almeno per loro il programma di recupero non serve a nulla”. Battiamo le mani. Nuovi costituenti si facciano avanti. Da quattro anni (era il 29 luglio) Alessandro Margara ci ha lasciato e ci manca moltissimo; per una breve stagione provò a portare al Dap una certa idea della pena, il suo era “il carcere dopo Cristo”. Durò troppo poco e fu un ministro comunista a metterlo all’uscio. Ci è mancato poco che al Dipartimento arrivasse il dott. Maresca, come Gesù nel tempio. Buona fortuna. *Avvocato La ferita del carcere di Torino di Giancarlo Caselli La Stampa, 30 luglio 2020 I fatti terribili successi nel carcere di Torino, dei quali è in corso la verifica investigativo-giudiziaria, non possono cancellare la lunga tradizione di attività trattamentali anche innovative che lo hanno contraddistinto a partire dagli anni 80. L’elenco è lunghissimo. Con la gestione di una delle prime “aree omogenee” per instaurare un dialogo costruttivo con i terroristi dissociati; i primi approcci comunitari con i malati di Aids; i corsi per ebanisti dell’istituto Plana; lo sviluppo del polo universitario e la comunità per tossicodipendenti “Arcobaleno”: si avvia una sorta di staffetta di umanità penitenziaria (pur a fronte di crisi enormi date dal perenne sovraffollamento), poi sviluppata dal direttore Pietro Buffa, “scovato” ad Asti da Francesco Gianfrotta, un giudice torinese che allora lavorava col sottoscritto a Roma nel Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Così Torino registra, dal 2000, una sequenza di risultati imponenti. Detenuti che studiano e conseguono un diploma o la laurea e detenuti al lavoro nelle cooperative. Corsi di formazione per il personale che, con ruoli diversi, opera in carcere. A riprova del nuovo clima determinatosi nell’istituto crolla, fino a rimanere azzerato per anni, il numero dei suicidi. Per rimediare al “vuoto” del tempo carcerario si crea una “scuola accoglienza” che ruota mese dopo mese nei reparti più difficili, con eccellenti operatori che oltre a insegnare cercano di ridare alle persone un po’ di dignità. Si apre la sezione Sestante, pensata per il trattamento del disagio psichico non collegato al reato commesso e gestita da personale specializzato dell’Asl, in anticipo sull’attuazione - che avrà inizio molti anni dopo - della riforma della tutela della salute in carcere. E poi esperienze ludiche ma non meno importanti per dare una certa vivibilità a quel mondo rinchiuso: il “torneo della speranza”; il teatro sociale, che negli anni ha avvicinato la città a quel suo pezzo separato, isolandolo un po’ di meno; e poi la “Drola”, prima squadra dì rugby inventata dietro le sbarre da un inossidabile operatore, sempre pronto - coi suoi baffoni bianchi - a fare del bene con una palla ovale. Risultati straordinari, che han fatto del carcere di Torino un istituto aperto alla città e proiettato sul territorio che riceverà il detenuto una volta scontata la pena. Offrendo la dimostrazione concreta che “un altro” carcere è possibile; che la pena detentiva può essere davvero una pena utile: nel senso che se scivola nelle spirali della persecuzione vendicativa, finisce per essere inefficace, sia per chi subisce il castigo sia per chi da quel torto è stato ferito. Il colpevole deve essere punito secondo le leggi, ma se (quando lo accetti) non viene aiutato a capire - anche con le modalità di espiazione della pena - il perché del suo errore, la punizione incattivisce chi la subisce, confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e nuova insicurezza per la società civile. Si tratta di una “mission” che deve essere condivisa e perseguita con convinzione da tutte le componenti dell’universo penitenziario. Quando ciò si verifica, molto dipende dal carisma di chi governa la peculiare complessità di un grande istituto penitenziario. In una perenne calca detentiva che spesso supera di molo la capienza regolamentare, la popolazione di un singolo carcere comprende, inevitabilmente, persone dal profilo molto diverso: classificate in alta sicurezza e in regime di custodia attenuata; non classificate e sex offenders; stranieri e tossicodipendenti; con pene brevi o medio-lunghe; o “semplicemente” in attesa di giudizio. Rispetto a ciascuna di queste categorie ambiente e regime detentivo devono essere diversi. Per ottenere da tutti i collaboratori un impegno mirato ad un trattamento differenziato dei detenuti occorre una riconosciuta autorevolezza del direttore: interfaccia di un modo fermo, non autoritario, di rapportarsi a quanti lavorano in carcere e di un atteggiamento lungimirante, non buonista, con cui affrontare i problemi. Tutto ciò si è verificato per anni nel carcere di Torino. Che ovviamente non è mai stato un luogo felice o ameno, ma per decenni è stato un posto dove il lavoro di alcuni suoi direttori e di tantissime persone da loro sapientemente coinvolte ha cercato di dare una speranza. Il più bel riscontro, oltre ai riconoscimenti che il ministero della Giustizia ha tributato, magari adottando a livello nazionale alcune prassi penitenziarie torinesi, lo si deve al sindaco Chiamparino, secondo cui il carcere della città non ha mai rappresentato un problema del quale preoccuparsi o vergognarsi ì: era anzi stato un continuo stimolo da seguire nella sua creatività ed umanità. A questo modello, nonostante la bufera contingente, si deve tornare al più presto. Con il contributo di tutti, a partire dai dirigenti nazionali del Dap fino a ogni componente sana o rinnovata del personale torinese. E con il sostegno dell’amministrazione e dei politici locali, oltre che della società civile in tutte le sue articolazioni: perché la civiltà di una comunità si misura anche da come funziona il carcere che ne fa parte. “Uno Stato serio s’interroga sugli innocenti messi in carcere ingiustamente” di Liana Milella La Repubblica, 30 luglio 2020 Costa contro Pignatone. Il deputato di Fi contro l’ex procuratore di Roma sulla proposta di legge per le ingiuste detenzioni. “È contro le toghe” dice Pignatone. “È una legge di civiltà” per Costa. “Una persona è finita ingiustamente in galera. Lo Stato che fa? Paga e si volta dall’altra parte, in attesa del prossimo pagamento, o cerca di capire perché è stato, a torto, privato qualcuno della libertà?”. Parte da questo interrogativo la replica di Enrico Costa, deputato di Forza Italia e responsabile Giustizia del suo partito, all’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone che, dalle pagine dei commenti di Repubblica, ieri ha criticato la proposta di legge Costa sull’ingiusta detenzione. Su cui è d’accordo anche il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma che, secondo Pignatone, rappresenta un errore perché “finisce per indicare all’opinione pubblica i magistrati come colpevoli di tutti i casi di ingiusta detenzione, cosa certamente non vera. E diventa un implicito segnale lanciato a pm e gip a non adottare misure cautelari”. Pignatone sostiene che, dopo tante leggi per aumentare le pene, adesso la sua proposta è contraddittoria perché fa apparire i magistrati come “negligenti, prevenuti e innamorati del tintinnio delle manette”... “Vorrei innanzitutto spiegare cosa c’è nella mia legge. Qualora venga riconosciuta un’ingiusta detenzione e sia pagata dallo Stato una somma a titolo d’indennizzo, il fascicolo dev’essere inviato “al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza”. Si prevede poi una sanzione disciplinare a carico “di chi abbia concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale”, successivamente riconosciuta come ingiusta detenzione”. Beh, ammetterà che questo passaggio comporta nei fatti, come scrive Pignatone, una presunta colpevolezza del magistrato che ha ordinato le misure... “Per capire il senso della mia proposta bisogna partire dai dati. Nel 2019 i casi d’ingiusta detenzione sono stati mille, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione di 44.894.510 milioni di euro. Rispetto all’anno precedente, è in deciso aumento il numero di casi (+105) e soprattutto la spesa (+33%). Il sito errorigiudiziari.com rivela che nel 2019 il record di casi indennizzati spetta a Napoli, con 129, seguita da Reggio Calabria con 120 e da Roma con 105, poi Catanzaro con 83, Bari con 78 e Catania con 75. Il record della somma spetta a Reggio Calabria con 9.836.000 euro, seguita da Roma con 4.897.000 e Catanzaro con 4.458.000”. E questo cosa significa? Che tutti questi magistrati sono colpevoli? “Dal 1992, anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione nei registri conservati presso il ministero dell’Economia, al 31 dicembre 2019, si contano 28.702 casi: in media, 1.025 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto, per una spesa che supera i 757 milioni di euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27 milioni di euro l’anno”. E allora? Lei vuole mettere sotto processo disciplinare tutte le toghe che hanno firmato gli arresti? “In un Paese civile ci si dovrebbe interrogare sulle ragioni di questi errori. Ci dovrebbe essere qualcuno che, di fronte a un’ingiusta detenzione riconosciuta e indennizzata, riprenda in mano i fascicoli del procedimento e approfondisca per capire se qualcuno ha sbagliato. Una persona è finita ingiustamente in galera. Lo Stato che fa? Paga e si volta dall’altra parte, in attesa del prossimo pagamento, o cerca di capire perché è stato, a torto, privato qualcuno della libertà?”. Ammetterà che in questa sua pretesa c’è in nuce un processo alla magistratura... “Non voglio né intimidire alcuno, né soffocare la lotta alla criminalità, ma neanche dimenticare che, dietro un innocente in carcere ci sono famiglie distrutte, attività lavorative andate in frantumi, ferite che non si rimarginano. Spesso un arresto, che poi si riconosce essere ingiusto, è sbandierato in conferenze stampa dove suona solo la campana dell’accusa, con buona pace della presunzione d’innocenza...”. Ma questo è quello che dicono da anni i garantisti che vorrebbero cancellare con un colpo di spugna tutti i processi all’insegna dell’illegalità più diffusa... “Io ho visto invece, in questi anni, inchieste con titoli altisonanti, magari poi smentiti dai fatti, foto sbattute in prima pagina, la sentenza mediatica pronunciata in 24 ore. Poi, quando arriva il processo vero e stabilisce che quella persona è innocente, possono essere passati anni: chi ha sbagliato è stato promosso a più alti incarichi, ma resta una persona in carne ed ossa cui è stata tolta non solo la libertà, ma anche la possibilità di recuperare la credibilità”. E quindi lei propone di trasformare pm e gip in potenziali colpevoli da mandare sotto ispezione e successivo accertamento disciplinare? “Io pongo una questione e faccio una domanda: è giusto o sbagliato dire che occorre approfondire se un arresto ingiusto sia stato disposto per negligenza o superficialità? Ogni professionista che sbaglia finisce sotto i riflettori e paga. Di fronte ad oltre 28mila ingiuste detenzioni, non solo nessuno o quasi nessuno ha mai pagato, ma addirittura nessuno ha mai analizzato la natura di questi errori”. Ma si rende conto che lei sta chiedendo il processo sul processo? “Se lo Stato con una mano priva della libertà e con l’altra si scusa e risarcisce, qualcosa da verificare c’è. Poi si potrà ovviamente concludere che la verifica ha escluso ogni negligenza o che l’errore era inevitabile, ma almeno si è fatto un approfondimento. Oggi non si fa neanche questo. E se anche ci fossero gravi responsabilità, nessuno potrebbe venirle a conoscere e sanzionare. Un Paese civile non mette frettolosamente questi fascicoli in archivio, ma si organizza per evitare di ripetere gli stessi errori. Almeno quelli evitabili. Soprattutto quelli che privano della libertà personale una persona del tutto ingiustamente”. Buffa: “Un carcere rimane un carcere, ma occorre umanizzarlo” di Cesare Burdese ilgiornaledellarchitettura.com, 30 luglio 2020 Conversazione a tutto campo con Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria, sul ruolo dell’architettura per affermare il carcere della Carta costituzionale. Il nodo critico dell’agenda politica, mai in sincronia tra scelte e realizzazioni. Il carcere è una costruzione filosofica e sociale, ma è anche una realtà fisica e umana, fatta di luoghi ed edifici, di norme e regole, di esseri umani e di relazioni sociali, di storie e rappresentazioni. In sostanza una microsocietà, la cui territorialità e governance sono condizionate, almeno in parte, dalla configurazione architettonica dell’edificio che la ospita. Quindi, che ruolo affida all’architettura, per rispondere al mandato costituzionale riferito alla pena, ancorché carceraria? Partirei dalla prima parte della domanda, laddove si parla del carcere come di una costruzione filosofica e sociale. Ritengo corretta una tale definizione anche se implica una distonia rispetto alla seconda parte del quesito. Il carcere è indubbiamente una microsocietà, ma non credo che sia tanto la concezione architettonica a condizionarla, quanto piuttosto la costruzione filosofica e sociale a determinare la forma del carcere. Ad esempio, gli istituti costruiti a cavallo degli anni ‘70 e ‘80 sono stati condizionati dall’emergenza terroristica, per cui sono monocellulari perché il bisogno del momento, rispetto alla reclusione dei terroristi, era quello dell’isolamento e della possibilità di limitare le comunicazioni e la socialità. Quando feci ingresso nel carcere di Torino non vi era nessuna area verde. Oggi vi si trova un numero esorbitante di alberi e di arbusti perché, nel frattempo alle originarie esigenze se ne sono sostituite altre. Nella fase del concepimento di una prigione due logiche s’incontrano e, in una certa misura, si scontrano: quella dei progettisti e quella dell’amministrazione che lo dovrà governare. Da un lato gli architetti pensano l’edificio secondo i criteri abituali della loro professione (estetici, funzionali, tecnologici, rispettosi dei bisogni materiali e psicologici degli utilizzatori, ecc.). Dall’altro l’amministrazione impone un capitolato tecnico estremamente preciso e vincolante in termini di sicurezza. Sino a che punto si conciliano queste due logiche tra loro contrastanti? Innanzi tutto bisognerebbe chiedersi se possono incontrarsi, prima ancora di dire su quale terreno lo possano fare. In questo momento non intravvedo un incontro sistematico tra architetti ed amministrazione; vedo piuttosto un’assenza di rapporto. Viceversa, come dicevo prima, la prassi è trasfondere in una progettazione in larga parte in mano agli apparati statali quello che, in un dato momento, è ciò si vuole ottenere dal carcere. Nei rarissimi casi degli anni’70 in cui alcuni architetti esterni hanno contribuito alla progettazione degli istituti, ciò è avvenuto sulla base di un’idealità che li accomunava con la politica. Ma quel capitolo si è chiuso, e i motivi non li saprei dire. Sta di fatto che oggi lo Stato, più che l’Amministrazione penitenziaria, fissa le priorità del momento, e demanda agli organi preposti la progettazione che, sostanzialmente, rispetta almeno nei capitolati quelle che sono le indicazioni ordinamentali rispetto agli spazi, alla funzionalità ecc. Limitandoci al solo Occidente, dovunque, la gran parte dei condannati a pene carcerarie torna a delinquere; la maggior parte di essi non viene riabilitata ma semplicemente repressa, e privata, insieme ai loro cari, di elementari diritti che le Carte costituzionali di ogni stato sanciscono. Quanto di tutto è imputabile alle negatività architettoniche insite nel carcere quale istituzione totale? La domanda affonda le sue radici su una delle tante narrazioni che del carcere si fanno: una sorta di effetto ottico che è un gioco tra la verità e la verosimiglianza. Chiunque abbia potuto approfondire la statistica sa che con i numeri si può dire tutto e il contrario di tutto. Il nostro è un caso scuola. Sostenere che la pena carceraria abbia una sua inefficacia perché determina, questo è il termine chiave, una recidiva, e che la sua struttura fisica abbia un ruolo, pecca di almeno un errore di fondo. Qualunque visione deterministica si fonda sulla verosimiglianza piuttosto che sulla verità. È evidente che se analizzo il tasso di recidiva tra una popolazione condannata a misure alternative alla detenzione e lo comparo con quello riferito ad una popolazione condannata a pene detentive scopro, rispetto a quest’ultima, un tasso molto più importante. Ma ciò che i numeri tacciono è il fatto che stiamo parlando di due popolazioni completamente diverse, perché quello che fa stare le persone fuori, e riduce in qualche modo il tasso di recidiva, non è lo strumento penale che è stato utilizzato, ma il frutto della selezione per il quale quella misura è stata data, ed è una selezione sulle caratteristiche di affidabilità della persona, quando per affidabilità intendiamo normalità statistica rispetto al comportamento che ognuno dei consociati è tenuto ad avere. Allora a questo punto è da mettere in crisi l’affermazione che il carcere, nella sua forma, determini una mancata riabilitazione e, consequenzialmente alla domanda su quanto tutto ciò sia imputabile alle negatività architettoniche che conosciamo, tenderei a dire scarsamente imputabile perché è chiaro che una condizione di vita peggiorativa non può che stigmatizzare la persona; ma è la condizione sociale e psicologica dell’uomo in carcere, prima ancora della forma di quest’ultimo, ad indurre quel risultato. Faccio parte di quella cerchia di architetti che operano sostenendo che la giusta considerazione del rapporto fra spazio ed essere umano, con i suoi bisogni materiali e psicologico-relazionali, nell’edificio carcerario, possa consentire di passare da un’architettura “che mortifica ed annienta” a un’architettura “che valorizza e riabilita” e offrire opportunità e dignità, tanto ai fruitori del servizio penitenziario, quanto al servizio stesso. Fino a che punto può l’architettura, con i suoi valori estetici e sociali, contribuire a cambiare nel carcere il corso negativo delle cose? La domanda utilizza alcune formule la cui risposta, negli anni 70 e 80, avrebbero visto mettere in crisi lo stesso quesito, probabilmente rimandandolo al mittente. Mi riferisco all’architettura che valorizza e riabilita. Ancor di più mi scuote l’affermazione per la quale l’architettura possa “contribuire a cambiare nel carcere il corso negativo delle cose”. Il carcere rimane comunque privazione della libertà, e dimenticarlo può significare edulcorare questa dura realtà, seppure con tutte le nostre buone intenzioni. Ma, detto questo, non sono un estremista e intendo rispondere alla domanda concentrandomi sull’offerta, da parte dell’architetto, di opportunità e dignità. Questo riconduce il discorso ad una visione più pragmatica attraverso uno degli elementi in gioco, in questo caso l’elemento architettonico. Non si può certo dire che la forma entro la quale la relazione umana e penitenziaria si svolge non debba essere presa in considerazione e sia indifferente ma, dal mio punto di vista, non è l’elemento prioritario seppur importante. È giusto che debba avere una sua coerenza nel senso di creare spazi adeguati allo svolgimento di quelle sottolineate relazioni umane, ma in tal senso, ne è funzione non determinante. Alcune carceri recentemente realizzate all’estero si possono definire opere di architettura e non semplice edilizia, in quanto sufficientemente risolte sia sul piano funzionale che su quello estetico, ma soprattutto attente ai bisogni materiali e immateriali dei loro utilizzatori, indipendentemente dal titolo di utilizzo. Come valuta tali realizzazioni, dal punto di vista della funzione riabilitativa della pena e dell’umanizzazione del carcere? La funzione riabilitativa, dal mio punto di vista, è concettualmente un’anticaglia. È un concetto che è stato ampiamente messo in crisi non solo nel volgo comune ma anche dagli addetti al settore. Quando sono entrato nell’Amministrazione si parlava di rieducazione, poi di risocializzazione e poi di reinserimento, successivamente di riabilitazione e ora di risarcimento: tra la rieducazione e il risarcimento passa dentro un fiume d’idee, posizioni e pratiche molto diverse tra loro. Anche in questo caso la forma architettonica credo incida poco. Sul punto dell’umanizzazione, viceversa, le condizioni e le forme strutturali di un luogo sono invece importanti. L’ampiezza di uno spazio, la sua gradevolezza cromatica, le condizioni dell’illuminazione, il tipo di arredamento, l’adeguatezza degli ambienti in relazione alla loro funzione aiutano a creare una migliore vita all’interno di un carcere. Un luogo dove vivi da solo nella tua cella, dotata di una certa gradevolezza e riservatezza e con un bagno a disposizione è ben diversa, in termini di umanità, da un luogo degradato in cui tu sopravvivi con tante altre persone che non ti sei scelto e senza alcuna intimità, per inciso la condizione più frequente nel nostro panorama penitenziario. Sarei comunque un po’ più “laico” nel definire un carcere un’opera di architettura: una simile affermazione, pochi anni fa, sarebbe stata violentemente cassata. Un carcere rimane un carcere. Credo che l’opera di architettura abbia a che fare con la bellezza e il benessere, deve colpire per uno o più dei suoi elementi caratteristici che ti devono stupire, ti devono dare sensazioni positive. Ma questa condizione è cosa ben diversa da un luogo ed una condizione dove la volitività è fortemente limitata dal nucleo centrale e dove l’adattamento è la regola per tutti e a tutti i costi, pena la disperazione e la follia. Gian Paolo Nascetti già nel 1983, sulle pagine de “La nuova città”, con riferimento allo stato delle nostre infrastrutture penitenziarie, parlava della consapevolezza, che ci deriva dall’analisi storica, che ogni progettualità architettonica sottende un modello di esecuzione penitenziaria, e di quanto essa ci induca a rilevare come il riferimento costante e puntuale del nostro ordinamento penitenziario ad una esecuzione personalizzata e ad una diversificazione del trattamento non possa che aver accentuato l’aporia tra finalità rieducativa e miseria della situazione edilizia penitenziaria esistente. Come valuta in quella prospettiva la realtà odierna? La prospettiva che viveva Nascetti nel 1983 appartiene ad un momento storico che poi non ha più avuto seguito. Ne è venuta meno l’idealità, l’elemento culturale di fondo. Nel 1983 siamo a 8 anni dalla riforma penitenziaria, in un momento in cui l’ordinamento è già in crisi ma si cerca di mantenere e rilanciarne lo spirito. È chiaro che c’è un vivace dibattito nel quale rientrano anche ragionamenti di questo genere. In realtà la miseria della situazione edilizia era forse più grave all’epoca che oggi. Siamo negli anni della gestione Amato che ha avuto il grande merito, tra i tanti, d’istituire l’edilizia penitenziaria. All’epoca non si poteva parlare davvero di un’edilizia penitenziaria che era stata, in larga parte, frutto del riutilizzo di conventi, rocche, fortezze ecc. Se ciò è vero allora, probabilmente, si distorce la storia quando si sostiene l’accentuazione dell’aporia tra le finalità rieducative della pena e la miseria della situazione esistente. All’epoca si credeva ad una finalità rieducativa, e questo forse obnubilava il fatto che la miseria della situazione edilizia era davvero grave. Oggi forse non si crede più davvero alla finalità rieducativa, ma emerge invece la condizione edilizia e la sua precarietà, che è una precarietà tra le tante italiane, dalle scuole ai ponti che crollano. È una miseria generalizzata che, ovviamente non può non interessare anche questo settore. Che cosa pensa in merito ai progetti di rifunzionalizzazione a carceri delle nostre caserme dismesse? Per fare solo qualche esempio, dalla Nino Bixio a Casale Monferrato, alla Barbetti a Grosseto, alla Cesare Battisti a Napoli? È un’occasione. Se parli delle cose della giustizia e della condizione del carcere in Italia non puoi non tener conto che l’Amministrazione non ha in mano tutte le carte del processo. La variabile determinante riguarda la decisione di ampliare o meno la platea delle persone a cui dedicare la prigione: è una scelta che concerne la politica criminale e quella sociale. Perché prima di quello penale, esiste un problema sociale dalla portata molto più ampia della capacità risolutiva dell’Amministrazione penitenziaria e che continua a fornire uomini da restringere dietro alle mura di un carcere. Tengo a precisarlo perché spesso, quando si parla di sovraffollamento, si genera un corto circuito; come se il sovraffollamento fosse un problema creato dall’Amministrazione penitenziaria senza tener conto che essa ne è vittima. Basti vedere che cosa è successo in questo periodo contraddistinto dalla pandemia. È stato subito chiaro che il distanziamento sociale era uno dei rimedi più efficaci per limitare il diffondersi del virus. Ma come si può attuare in carcere? Una parte della nostra società ha detto che bisogna svuotare le carceri ma, ovviamente, l’altra parte ha detto esattamente il contrario. Per questi ultimi il rischio della delinquenza è maggiore del rischio della pandemia all’interno delle strutture penitenziarie, mentre i primi lo accettano tranquillamente per evitare quella che si prospettava come una vera e propria ecatombe. In Lombardia ho circa 4000/4500 celle e all’inizio della pandemia avevo 8000/8500 persone. È evidente che avrei dovuto ridurre della metà il numero degli ospiti per garantire loro un sistema efficace di prevenzione, ma così non è successo. Allora, in un simile contesto, qual è la priorità? Lo spazio, fare dello spazio, che se non riesci a limitare gli ingressi devi gestirli all’interno. Quindi, la conversione delle caserme rappresenta un’occasione perché è un sistema rapido che ti fa evitare tutta una fase procedurale di espropriazione di terreni e di ricorsi connessi. In uno dei suoi ultimi libri, intitolato Umanizzare il carcere, Lei prende in considerazione la revisione normativa e gestionale finalizzata all’umanizzazione del sistema penitenziario italiano, messa in atto a seguito delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Come interpreterebbe lo stesso tema in chiave architettonica? Proprio su questo, ultimamente, mi è stato dato l’incarico di ritornare con altri colleghi su una definizione di modello gestionale dei detenuti. Il dibattito si è poi concentrato sul fatto che le persone dovessero uscire fisicamente dalle proprie celle e vivere una vita diversa da quella che, ordinariamente, fino a quel momento si era condotta. Uno dei nuclei centrali del lavoro assegnato corrisponde alla domanda: uscire dalla cella perché e per dove? La prima risposta è relativamente semplice. La chiusura in una cella obbliga una persona in uno spazio ristrettissimo, mentre la sua chiusura all’interno del suo reparto la costringe in un luogo che ha almeno un corridoio che normalmente misura tra i venti e i cinquanta metri. La seconda risposta è molto più complicata perché, anche se abbiamo dato a questa persona cinquanta metri di corridoio in più il problema è che questo non è comunque umano, se a questo non viene connesso anche altro. Allora, una delle questioni che si sta dibattendo è: dove li portiamo e per fare che cosa? Gli istituti costruiti negli anni ‘90 avevano previsto spazi ai piani terra da utilizzare per il lavoro, lo studio ecc., salvo che poi vennero sacrificati per farli diventare spazi di servizio, cioè uffici, magazzini depositi ecc.; anche in una certa parte dedicati alle attività trattamentali, ma non sono mai stati sufficienti per accogliere tutti, con il risultato che, finiti gli spazi, sono state respinte le proposte di attività. Ecco che interpretare in chiave architettonica l’umanizzazione del carcere significa progettare spazi sufficienti per fare uscire tutte le persone dalle loro celle, al fine di portarle in queste aree. A questo punto terminerebbe il mandato architettonico e dovrebbe iniziare quello relazionale, quello fattivo, legato alle attività che queste persone dovrebbero porre in essere. Nella Relazione al Ministro sugli interventi in atto e gli interventi da programmare a breve e medio termine della Commissione ministeriale per le questioni penitenziarie del 25.11.2013, si indicava “(…) la necessità di avviare un’ampia discussione basata sul principio di non doversi poi trovare a gestire strutture, una volta ultimate, che non permettano una concezione della detenzione non meramente reclusiva; al contrario si promuoverà un’ipotesi di sperimentazione di istituti basati su modelli radicalmente diversi di organizzazione della detenzione. In questo contesto appare essenziale adeguare le cognizioni progettuali dell’Amministrazione penitenziaria anche attraverso il confronto e il contributo del mondo della progettazione architettonica con l’obiettivo di recuperare anni di previsione di strutture non centrate sull’analisi dei bisogni, materiali e psicologici, dei suoi futuri utilizzatori e parimenti non attente agli sviluppi culturali dello stesso pensiero architettonico”. Che cosa di tutto ciò è stato attuato? Innanzi tutto chiariamo che questa relazione è frutto di una commissione in cui c’erano degli architetti ed esprime il loro comprensibile punto di vista. Bisogna contestualizzare il momento e l’ambito. Non è un caso che sia il 2013, e non è un caso che in quel momento la politica s’indirizzasse verso alcuni obiettivi, tanto è vero che la commissione è frutto di un atto politico, di una volontà politica, come reazione alla sentenza Torreggiani. Allora cosa è stato attuato? Sono stati fatti dei tentativi, ma nel frattempo è cambiato il momento politico; e torniamo all’inizio della nostra conversazione. Le decisioni politiche si modificano repentinamente, molto più dei tentativi operativi e gestionali. Questo vuol dire giocare sempre perennemente in contropiede; ovvero, è difficile rendere coesi scelte e realizzazioni, E ciò, purtroppo, fa sempre riferimento al pendolarismo dell’agenda politica rispetto al carcere, che dovrebbe vedere una sincronia sino ad oggi mai realizzata. Dalla Luna alla Terra, viaggio tra il mondo carcerario e la realtà esterna di Martina Blasi epale.ec.europa.eu, 30 luglio 2020 “Il nostro mondo non è capace di guardarsi dentro, ma solo di pensare a come esistere oggi, dove la legge della bellezza effimera è l’unica protagonista e dove un’opera d’arte come un essere umano può essere accantonata strappandole anche il gusto di ascoltare il suo nome”. (Aniello Intartaglia, fotografo, riflessioni in occasione della mostra “Diffidenza” interamente dedicata al tema del carcere, realizzata sulle rovine del carcere di Procida). La citazione, tratta da una riflessione di Aniello Intraglia, fotografo, che ha raccontato attraverso le immagini il disorientamento dell’uomo davanti alla realtà carceraria, mi fa pensare al caffè virtuale preso con Giuseppe Medile, detto Pino, detenuto presso Rebibbia, attualmente in detenzione domiciliare in quanto considerato un soggetto a rischio nell’emergenza covid-19. Diffidenza, smarrimento, rimozione. I detenuti, simboli viventi di problematiche sociali, si ritrovano a vivere insieme in carceri costruite ai confini della città, persone emarginate da un sistema sociale che tende a promuovere la criminalità per poi nascondere il problema. Il 16 luglio in “Un caffè con … Erasmus e dintorni” Giuseppe Medile si è reso disponibile a fare un’intervista e a parlare di sé insieme con Maria Teresa Caccavale, la docente che fin da subito ha notato in lui un’attitudine al dialogo, alla scrittura e quindi allo studio e che lo ha coinvolto in numerosi progetti di scrittura a partire da un manoscritto autobiografico che Pino scrive a Rebibbia, dove sconta una lunga pena, e nel quale racconta la sua escalation nel mondo della malavita, la latitanza in Brasile, l’atroce realtà delle carceri sudamericane. Grazie all’impegno di Maria Teresa e delle docenti Cecilia Bernabei e Adele Costanzo, il libro è stato pubblicato con il titolo “I giocattoli di Dio” dalla casa editrice Chi Più Ne Art. Durante la sua detenzione Pino scopre il valore della cultura, studia, consegue il diploma Tecnico e si iscrive alla facoltà di Psicologia, ma soprattutto continua a dedicarsi alla scrittura, infatti è autore anche di numerose poesie e di alcuni dei testi narrativi raccolti nell’antologia “Lenta cavalca nel tempo la prossima ora”, opera dei detenuti che frequentano la scuola della sezione carceraria di Rebibbia. “Pino ha la capacità di mettersi in gioco” racconta Maria Teresa e Pino infatti si mette subito in gioco anche durante l’intervista, parla senza filtri e si racconta come se fosse veramente davanti ad un caffè con quattro amici, così l’atmosfera si riempie subito di semplicità e spontaneità e ci dimentichiamo di essere a distanza. Del resto prima dell’intervista ci ha raccontato che la tecnologia in carcere è estremamente limitata, il divario digitale enorme, e adesso non gli sembra possibile essere in diretta con uno smartphone! Gli chiediamo se sente la responsabilità di essere un role model, ovvero un esempio positivo per altre persone che come lui si trovano in regime detentivo e che possono, seguendo il suo esempio, decidere di seguire la scuola in carcere, risponde con un messaggio ai giovani, anche se non ha fiducia di essere ascoltato: “Sono nato in una borgata, c’era povertà in casa mia e nel rione nel quale abitavo, non ho potuto studiare e la strada mi ha portato in carcere varie volte, […] poi ho conosciuto Teresa e mi sono segnato a scuola, ma inizialmente era per passare il tempo, perché passavo il tempo a giocare a carte, ma poi mi sono accorto che mi piaceva studiare ed ero anche incentivato dai professori che mi dicevano che avevo delle qualità […] Se la cultura l’avessi conosciuta in tempi remoti forse avrei preso altre direttive. Purtroppo, quando entri una volta e una seconda volta in carcere, poi non hai più possibilità di riemergere nella società. […] Ora voglio dire ai giovani che non sono nessuno, sono un fallito, non fate come me perché se nella vita risolvi i tuoi problemi con il crimine non c’è nulla da fare, finisci in carcere e tutto quello che hai fatto ti viene gettato addosso come il fango”. La sua storia ci ricorda che in carcere non devono venire meno i diritti costituzionali e l’articolo 27 della nostra Costituzione dice che la detenzione deve tendere alla rieducazione del condannato. La persona, sebbene con tutte le limitazioni imposte dal carcere, deve essere responsabile della propria giornata, mentre, ci ricorda Maria Teresa Caccavale, l’insieme di regole dettagliate e ferree che scandiscono la vita e le attività dei reclusi, portano il soggetto a sentirsi non un adulto quale è, ma un bambino soggetto a premi o sanzioni a seconda del rispetto o della disobbedienza alle regole poste. Pino Medile in carcere usa la scrittura per manifestare liberamente il proprio pensiero, ma anche per dare un senso al tempo della detenzione. Sul tema interviene così Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, durante il convegno “La scuola dell’inclusione non ha confini. L’istruzione per adulti e la scuola in carcere, risorse da valorizzare nel quadro europeo”, organizzato dal CeSPI il 19 dicembre 2019 presso la Biblioteca del Senato di Roma: “Dobbiamo ricostruire la modalità per dare senso a quel tempo, altrimenti anche i corsi di istruzione diventano dei riempitivi. La questione della significatività del tempo si pone oggi molto più forte che in passato, in quanto un anno di sottrazione di tempo oggi contiene un’esperienza vitale enorme. Il tempo carcerario deve essere accelerato altrimenti queste persone non sono reinseribili perché il punto base è la comprensione del presente. Il presente ha delle sue forme, dei suoi strumenti e noi dobbiamo rendere l’individuo in grado di comprendere il presente, perché un individuo che non è in grado di comprendere il presente non è in grado di inserirsi in esso e quindi è destinato alla serialità dei suoi ritorni all’interno del carcere”. Pino conferma e racconta che il tempo in carcere cammina diversamente dal tempo esterno. In questo periodo di arresti domiciliari può uscire per due ore al giorno, ma il tempo all’esterno scorre così veloce che sente di non fare in tempo ad uscire, che già deve rientrare a casa. Dice:” Lo studio aiuta perché non pensi che sei in carcere, ma quando finiscono gli studi allora è un dramma, perché finisce anche il rapporto con i docenti, i docenti che spesso ti ascoltano anche dopo le lezioni, gli confidi le tue pene, a volte assorbono la tua sofferenza e quando vanno via ti ritrovi solo, devi tornare in cella, è come se tu non avessi più famiglia, la scuola è la famiglia”. La scuola è fatta di relazioni, “La scuola, luogo di maggiore respiro del pensiero e di relazioni più aperte ed umane, è anche il luogo nel quale la sofferenza può emergere con più evidenza, trovando le sue parole e immagini, trovando modo di prendere figura e rappresentazione nelle figure e nelle rappresentazioni della cultura, della scienza e dell’arte” in Imparare dentro. La scuola in carcere a cura di A. Arizza, C. Cosenza e A. La Fortuna, Quaderni spiegazzati del Centro Ricerca, Sperimentazione e Sviluppo della Lombardia. Significativo e centrale è dunque il ruolo del docente, come spiega Maria Teresa: “È un rapporto importante. il docente è qualcuno che viene da fuori, che non viene percepito dai detenuti come parte del sistema carcere. È una persona che non li giudica che non porta con sé i pregiudizi della società. Si crea un rapporto di fiducia e il docente in carcere sente questa responsabilità […] il docente spesso va oltre il proprio ruolo perché un percorso rieducativo deve comprendere tutti gli attori coinvolti, il docente, l’educatore, lo psicologo, questo è fondamentale affinché il percorso di rieducazione sia proficuo” Il docente è un ponte di comunicazione con il mondo esterno, un mondo percepito lontano e nel quale il soggetto recluso, qualora venisse scarcerato e ritornasse a far parte della vita civile quotidiana, non è detto che riesca a ricostruirsi un ruolo proprio a causa di quella frattura enorme che divide la realtà esterna dal pianeta carcere, come spesso si sente dire. Le parole di Pino sono, ancora una volta, chiarificatrici: “è un’altra dimensione, come se sei sulla luna e poi, se esci dal carcere, torni sulla terra. Sulla luna hai le tue abitudini per sopravvivere, sulla terra tutto ciò che hai cercato di costruire in anni di detenzione non conta niente, non conti niente, nessuno sa chi sei e se lo sanno ti mettono da parte”. Le sfide della scuola in carcere sono numerose, come affrontarle? Credo che parlare, saper ascoltare e fare tesoro delle storie altrui, possa essere un buon punto di partenza, come dimostrano le tante e varie storie dei Role models Erasmus+. Senza dimenticare il tema della responsabilità del soggetto recluso verso gli offesi, i danneggiati, i feriti, compito questo di un modello diverso di giustizia che vede ancora una volta nel legame con la società una possibile chiave di svolta. Riformare la Giustizia, una strada obbligata per salvare il Paese di Massimo Krogh Il Mattino, 30 luglio 2020 Il nostro Paese, per l’insopportabile durata del processo penale, ma non solo, si distingue in peggio nella geografia della civiltà avanzata; purtroppo si avverte una incapacità totale a risalire la china. Occorre riconoscere che lo sfascio è al traguardo. La complessità visibile del disastro giudiziario va valutata senza perdere di vista il cambiamento della società, non solo industrializzata ma globalizzata in un quadro di rapporti prevalentemente finanziari, dove la gente, polso della democrazia, ha percepito la fragilità del potere politico/amministrativo sui temi della criminalità economica, nel clima sfrenato dei consumi e dei flussi migratori sfuggiti alle regole. Il cambiamento storico ha colto impreparato il nostro Paese. Non si è trovato di meglio che mettere a conflitto politica e giustizia, ingessando le disfunzioni del servizio giudiziario, che, peraltro, dovrebbe rappresentare l’immagine della giustizia come effettiva garanzia dello Stato di diritto; il quale è un ordinamento originario che, attraverso la Costituzione, si pone come instauratore di sé stesso, e perviene alla propria attuazione nella sintonia con ii diritto oggettivo. Il legislatore non ha forse avvertito, culturalmente, che la società stava cambiando ed ha, imprudentemente, mescolato inquisitorio e accusatorio, conservando un modello garantistico burocratico piuttosto che sostanziale e non cogliendo la necessità di una diversa cultura delle garanzie, fondata sulla effettiva oralità e immediatezza della formazione probatoria. Senza dire dei maxiprocessi, vera e propria piaga, molto meglio punire subito qualcuno piuttosto che investigare su tutti finendo per non punire nessuno. La nostra giustizia sembra modellata più sull’idea di una paziente attesa della prescrizione che sul principio costituzionalizzato di ragionevole durata in vista di una decisione giusta. È chiaro che il rimedio non può cercarsi nel sacrificio delle garanzie, che però non devono prestarsi alla pretestuosità, Ad ogni modo, per non perdersi e capire, sembra necessario distinguere fra giudice e pubblico ministero, figure che nel linguaggio corrente sono talvolta accomunate, al punto che tutti i magistrati sono chiamati giudici. Una netta distinzione, visiva e critica, dovrebbe separare il magistrato che accusa da quello che giudica. Il pm è la giustizia attiva, quella cioè che si muove e si sente, che tocca le corde sensibili della gente, il giudice è l’organo che deve giudicare le persone emettendo le sentenze; potrebbe dirsi la giustizia passiva, nella disgregazione del complessivo apparato giudiziario, dove aspetta per farsi sentire. È sconfortante l’incapacità politica nel fallimento della giustizia. Ed è abbastanza penosa, in tale contesto, la cerimonia che inaugura l’inizio dell’anno giudiziario. Fu introdotta nel 1865, ma già se ne avevano esempi nel Granducato di Toscana e poi nel Regno di Sardegna, il fascismo trasferì la cerimonia dalla Cassazione a Palazzo Venezia. In realtà, lo stato della giustizia non parrebbe consono ad occasioni celebrative, meglio il decoroso silenzio e lo sforzo per cambiare. Bisogna, però, dire che sarebbe ingiusto considerare i magistrati responsabili di questo dissesto, al contrario ne sono le prime vittime, costretti ad un pesante lavoro su processi inutili, creati da un sistema sbagliato. L’ho detto altre volte, ma giova ripeterlo, i magistrati sono anche essi vittime di un sistema giudiziario costruito ai limiti dell’anarchia; si è adottato il rito accusatorio, figlio della Magna Charta e della Common law, mantenendo tutti i pilastri del rito inquisitorio, figlio del Concilio Lateranense, un pasticcio che parla da sé. Riformare la giustizia è una impresa quasi disperata in un contesto dove ogni cosa è soverchiata dall’incomprensione dei relativi problemi. Sarebbe logico, anzi parrebbe una strada obbligata, l’adeguamento totale al rito accusatorio, scelto da molti anni, ma disapplicato nei fatti, ed un ripensamento sulla obbligatorietà dell’azione penale che soffoca il Paese. Nella riforma del Csm rispunta il sorteggio per indicare i candidati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2020 Rispunta il sorteggio nel disegno di legge di riforma del Csm (41 articoli in tutto). Abbandonata come modalità assoluta di scelta dei consiglieri, l’estrazione a sorte torna dalla finestra nella procedura di indicazione delle candidature. Detto infatti che è prevista l’istituzione di 19 collegi, i magistrati eleggibili possono presentare la loro candidatura nel collegio dove esercitano le funzioni giudiziarie. La candidatura è corredata della firma di almeno io e non più di 3o magistrati in servizio nel medesimo collegio. Ciascun magistrato può firmare per la presentazione di una sola candidatura. Per ampliare la platea dei soggetti eleggibili e permettere un canale di accesso alla candidatura diversa dalla presentazione, nella convinzione che l’autogoverno sia un dovere di tutti i magistrati, è imposto che in ogni collegio devono essere previste almeno io candidature; nel caso il numero non sia raggiunto con le candidature volontarie, scatterà l’integrazione con candidati estratti a sorte. L’estrazione, in seduta pubblica, riguarderà un numero di magistrati pari al quadruplo di quelli necessari, i cui nominativi saranno inseriti in un elenco numerato progressivamente secondo l’ordine di estrazione. I magistrati estratti a sorte saranno candidati nel collegio, se non si dichiareranno indisponibili (nel termine di quarantotto ore dalla pubblicazione dell’esito dell’estrazione), seguendo l’ordine di estrazione. Per consentire un’effettiva possibilità di equilibrata composizione di genere è previsto che le candidature devono rispettare una perfetta parità fra i generi. Anche per questo aspetto si è previsto che se le candidature volontarie non garantiranno questo risultato, si procederà all’individuazione, tramite estrazione, di un numero di magistrati del genere meno rappresentato pari a quello dei candidati del genere maggiormente rappresentato. Ma a venire sorteggiati saranno anche i componenti della commissione deputata al conferimento degli incarichi direttivi sia per quanto riguarda i componenti togati sia per quelli eletti dal Parlamento. Nel medesimo articolo del disegno di legge (il n. 27) trova poi posto anche la formalizzazione del divieto all’istituzione di gruppi all’interno del Consiglio, sottolineando invece responsabilità e autonomia di ciascun consigliere. Per quanto riguarda i componenti di nomina parlamentare, restano eleggibili deputati e senatori, mentre l’unico divieto interessa i componenti del Governo, in carica oppure nell’Esecutivo nei 2 anni precedenti. Il sistema elettorale è incardinato su un doppio turno. Quattro le preferenze che potranno essere espresse, nel rispetto della parità di genere; sarà eletto al primo turno di votazione il candidato che ha ottenuto nel collegio almeno il 65% dei voti. Se nessun candidato ha ottenuto al primo turno la maggioranza, il secondo giorno successivo si procede al secondo turno di votazioni tra i 4 candidati che al primo turno hanno ottenuto il maggior numero di voti nel collegio. Per il conteggio della maggioranza necessaria per l’accesso al secondo turno, ai voti espressi nel primo turno di votazione peri candidati indicati al secondo posto sulla scheda si applica un coefficiente pari a 0,90; a quelli indicati al terzo posto si applica un coefficiente pari a 0,80; a quelli indicati al quarto posto si applica un coefficiente pari a 0,70. Quanto alla procedura di conferimento degli incarichi di vertice degli uffici, riprende quota l’anzianità, visto che è previsto che non siano valutati gli aspiranti che, rispetto al più anziano, presentano, per le funzioni semi-direttive, un’anzianità di servizio inferiore di oltre 7 anni e, per le funzioni direttive, un’anzianità di servizio inferiore di oltre 5 anni. Strage di Bologna. L’appello dei legali di Cavallini “Mattarella desecreti gli atti” di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 30 luglio 2020 Fra i documenti top secret quelli della commissione Moro: “Lì la verità”. La difesa dell’ex Nar Gilberto Cavallini, condannato in primo grado all’ergastolo a gennaio per concorso nella strage del 2 agosto, chiama in causa direttamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla vigilia della sua visita in città per commemorare le vittime delle stragi di Ustica e della stazione. Gli avvocati Gabriele Bordoni e Alessandro Pellegrini lanciano un appello affinché la prima carica dello Stato intervenga “per togliere il segreto sulle carte della commissione di inchiesta sul caso Moro”. Per i due legali - e non solo per loro - in quelle carte e nel carteggio tra gli ufficiali dei servizi di Roma e di Beirut tra il 1979 e il 1980 ci sarebbe “la verità sulla strage”. Diversa da quella scritta dalle sentenze passate in giudicato secondo le quali, appunto, gli esecutori materiali furono i Nar. “È una legge vergognosa e inqualificabile - attacca Bordoni - quella che permette che, caduto il segreto di Stato dopo 30 anni, rimanga il segreto amministrativo. Il presidente della Repubblica dovrebbe intervenire. Siamo pronti anche a ricorrere alla Consulta”. I legali ricordano anche che “il ministro della Giustizia Alfonso Buonafede e altri esponenti del governo negli ultimi due anni sono venuti alle commemorazioni a dire che tutte le carte sono ormai disvelate ma non è così, ci hanno preso in giro”. Altre carte “classificate” sono contenute nel fascicolo d’indagine della Procura generale che ha chiesto il rinvio a giudizio, nell’ambito dell’inchiesta sui mandanti della strage, di Paolo Bellini, ex di Avanguardia nazionale, e di altre tre persone accusate di depistaggio, tra cui due ex ufficiali dei carabinieri. La difesa di Cavallini ha ottenuto dal gip il permesso di visionare il fascicolo ma non il faldone di carte “classificate” dai servizi segreti e chiedono di rimuovere questo diniego. Inoltre, mentre si attendono le motivazioni della condanna in primo grado di Cavallini, fanno sapere che in Appello impugneranno le ordinanze con cui la Corte d’Assise ha rigettato una serie di richieste della difesa, tra le quali quella di sentire come teste il terrorista filopalestinese Carlos, detenuto in Francia, che dice di conoscere retroscena sulla strage, e quella di eseguire il test del dna sui resti di sette vittime donne, per capire se il lembo di volto rinvenuto nella tomba di Maria Fresu appartenga a loro. La perizia medico-legale ha escluso che appartenesse all’unica vittima che sembra essere stata disintegrata dall’esplosione. Bordoni e Pellegrini, inoltre, rifiutano l’ipotesi della Procura generale secondo cui il Venerabile maestro della P2 Licio Gelli finanziò la strage con 5 milioni di dollari sottratti dal crac del Banco Ambrosiano, di cui uno consegnato in contanti ai Nar il 31 luglio 1980. “È impensabile - dicono - che ci siano stati rapporti tra i Nar e Gelli, che depistò le indagini contro di loro”, “si vogliono processare i morti” dicono. Nelle carte della Procura generale c’è poi un’intercettazione ambientale in cui Carlo Maria Maggi, esponente di Ordine nuovo condannato per la strage di Brescia, dice alla moglie e al figlio parlando di Giusva Fioravanti: “Eh... intanto lui ha i soldi”. Era la sera del 18 gennaio 1996. “Qua nei nostri ambienti - prosegue poi Maggi - erano in contatto con il padre di sto’ aviere... e dicono che portava una bomba”. Per l’accusa Maggi parlava di Paolo Bellini, che aveva il brevetto da aviatore. Gli avvocati di Cavallini precisano che “non sono dimostrati rapporti tra i Nar e il signor Bellini”. Custodia cautelare, nel conto anche fasi non omogenee di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2020 La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, va fatta considerando l’intera durata anche se relativa a fasi non omogenee. Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 23166) aderiscono all’indirizzo minoritario affermato in sede di legittimità. Per il Supremo collegio l’unico - in linea con le indicazioni della Consulta e dei giudici di Strasburgo - che comporta il minor sacrificio della libertà personale. La Sezione remittente aveva chiesto lumi alle Sezioni unite, registrando il contrasto nei criteri di calcolo dei termini di custodia cautelare, che si crea quando, a causa della cosiddetta “contestazione a catena”, bisogna retrodatare la decorrenza, come previsto dall’articolo 297, comma 3 del Codice di rito penale. Secondo il disatteso indirizzo maggioritario, la retrodatazione andrebbe fatta frazionando l’intera durata della prima misura applicata, considerando nella seconda solo i periodi relativi a fasi omogenee. Solo così si potrebbe affermare lo sforamento del tempo massimo. Per i sostenitori di questa tesi, infatti, i termini di durata delle misure cautelari vanno ripartiti in base alle fasi dei procedimenti, con la conseguenza che non sarebbe possibile “sommare” periodi appartenenti a fasi disomogenee. In caso di contestazioni a catena, dunque, nella retrodatazione si dovrebbe tenere considerare solo del periodo di restrizione sofferto in base alla prima ordinanza nella stessa fase. Per le Sezioni unite però seguendo questa via, non si scongiura il rischio di dilatare i tempi, anche a causa delle decisioni del pubblico ministero, il quale, pur conoscendo gli elementi alla base delle diverse ordinanze cautelari può non decidere per l’emissione simultanea. Del resto, ricorda il Supremo collegio, la Consulta (sentenza 408/2005) ha escluso che possa esistere uno spazio, offerto agli organi titolari del potere cautelare, di scegliere il momento dal quale far partire i termini di custodia in caso di più titoli e di fatti reato. In favore dell’orientamento prescelto, secondo il quale va nel “conto” anche il presofferto nelle fasi non omogenee, depone anche il tenore letterale della norma. L’articolo 297, comma 3, non prevede, infatti, nessun frazionamento della custodia già subìta che segua criteri di omogeneità delle fasi. La norma impone, ai fini della valutazione della durata massima, il semplice riallineamento del termine di inizio dell’efficacia della seconda ordinanza con quello di esecuzione della prima. È ancora la Consulta a suggerire la soluzione adottata, con le sentenze 233/2011 e 293/2013. Il giudice delle leggi, esprimendosi sulla retrodatazione ha chiarito che questa mira a scongiurare, in perfetta aderenza con i valori di certezza e di “durata minima”, “che la rigorosa predeterminazione dei termini di durata massima delle misure cautelatri possa essere elusa tramite la diluizione nel tempo di più provvedimenti restrittivi nei confronti della stessa persona, impedendo così il decorso dei termini relativi a più titoli di custodia. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza la scelta deve essere quella che comporta il minor sacrificio possibile della libertà personale. Il sequestro diretto delle somme impedisce l’equivalente su altri beni immobili di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 29 luglio 2020 n. 23042. In caso di sequestro finalizzato alla confisca, una volta eseguito il sequestro di somme nella disponibilità dell’ente, che ha beneficiato delle condotte illecite, considerate profitto del reato, non si può disporre il sequestro per equivalente sul denaro dell’autore del reato, attuandolo però su un immobile di sua proprietà. Tantomeno si può fare allo scopo di liberare dal vincolo cautelare i beni dell’ente sottoposti a sequestro diretto, o comunque per trasferire il vincolo cautelare. La Corte di cassazione, con la sentenza 23042, accoglie il ricorso del pubblico ministero contro il decreto con il quale veniva disposto il sequestro preventivo di un immobile del manager, al posto della somma di denaro. Alla base della misura l’omesso versamento dell’Iva per una annualità. La Suprema corte accoglie il ricorso, chiarendo che il Tribunale aveva ridotto l’ammontare della somma da sequestrare in seguito al pagamento del debito tributario derivante dal reato e in considerazione dell’avvenuto sequestro delle somme depositate sui conti bancari, da ritenere profitto del reato, commesso nell’interesse dell’ente. I giudici della terza sezione penale, precisano dunque, che, vista la capienza del sequestro diretto, non era possibile trasferire il vincolo cautelare dal denaro ad un appartamento, come avvenuto nel caso esaminato. Per la pubblica accusa, che trova l’avallo della Cassazione, la modifica non aveva inciso solo sulle modalità operative del sequestro, ma aveva avuto l’effetto di anteporre il sequestro per equivalente a quello diretto. Una decisione in contrasto non solo con il contenuto del provvedimento con il quale era stata decisa la misura, finalizzata alla confisca, ma anche con il principio della residualità del sequestro per equivalente, che può essere attuato solo quando non è possibile sequestrare il profitto diretto. Marche. Situazione sanitaria nelle carceri, doppio appuntamento per il garante anconanews.it, 30 luglio 2020 Doppio appuntamento in videoconferenza per il Garante dei diritti, Andrea Nobili, incentrato soprattutto sulla situazione sanitaria negli istituti penitenziari. Il primo, di respiro nazionale, ha coinvolto il Coordinamento dei Garanti dei detenuti e si è soffermato, oltre a fornire un quadro generale dei maggiori problemi carcerari, sulle misure di prevenzione da adottare in relazione all’emergenza epidemiologica da Coronavirus. Per quanto riguarda il secondo, invece, Nobili ha ritenuto opportuno un confronto diretto con i responsabili dell’Osservatorio regionale della sanità penitenziaria per approfondire le questioni legate alle condizioni di salute dei detenuti in ingresso e alle patologie che interessano quelli attualmente in carcere. Il Garante ha chiesto l’adozione di linee regionali d’indirizzo sulla prevenzione sanitaria, che rendano omogenei gli standard per tutti gli istituti penitenziari. Subito dopo la possibilità di ritornare in presenza, come si ricorderà, è stata portata a termine dall’Autorità di garanzia l’azione di monitoraggio in tutti gli istituti marchigiani, con un’ultima visita a Marino del Tronto di Ascoli Piceno. Nobili ha espresso un giudizio positivo sulla situazione generale, soprattutto in relazione alla tenuta delle strutture dal punto di vista sanitario, e alla capacità della Polizia penitenziaria di fronteggiare inevitabili momenti di tensione, ma non ha mancato di raccomandare estrema cautela per le fasi successive alla prima emergenza. “Non possiamo abbassare la guardia - sottolinea - perché il ritorno alla normalità deve essere necessariamente graduale, mettendo in atto tutti gli accorgimenti del caso. Continueremo a monitorare la situazione, come abbiamo fatto in via telematica anche nel momento peggiore, per affrontare tutte le eventuali criticità. Contiamo di effettuare nuove visite nelle singole strutture a partire dal mese di agosto”. Intanto, il Garante esprime soddisfazione per il seppur minimo riavvio delle attività trattamentali, che nei giorni scorsi ha visto protagonista a Montacuto di Ancona lo scrittore Guido Catalano nell’ambito del progetto “Ora d’aria”, inserito nel programma del Festival internazionale “La Punta della Lingua”. Bologna. “Detenuti con disagio psichico non adeguatamente seguiti e curati” di Ambra Notari Redattore Sociale, 30 luglio 2020 Mancano tecnici di riabilitazione psichiatrica, oss e infermieri: la denuncia del Sinappe. Anna Gargiulo (agente penitenziaria reparto femminile Dozza): “Senza figure professionali tutto ricade su di noi: ma non abbiamo una formazione adeguata, e rischiamo di compromettere il rapporto con le detenute”. “Il lockdown ha congelato qualsiasi altra patologia. Interrompere trattamenti e terapie per chi ha un disagio psichico può significare subire importanti regressioni, cancellare anni di lavoro. Servono professionisti, figure adeguatamente formate: non possiamo essere noi, di volta in volta, a trasformarci in psicologhe, psichiatre, educatrici. Non siamo formate per questo, il rischio è anche quello di compromettere i rapporti con le detenute”. A parlare è Anna Gargiulo, agente penitenziaria nella sezione femminile del carcere bolognese, sindacalista del Sinappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Gargiulo, insieme con i colleghi del sindacato Anna La Marca (agente penitenziaria del femminile di Reggio Emilia) e Nicola D’Amore (agente penitenziario della sezione penale maschile della Dozza) nei giorni scorsi ha effettuato una visiti sui luoghi di lavoro del carcere del capoluogo emiliano. Cosa è emerso? A fronte di una positiva ripartenza post-Covid, i detenuti - sia uomini sia donne, con un disagio psichico, talvolta senza (o in attesa) di diagnosi - non sono adeguatamente seguiti e supportati. Sono passati quasi 6 mesi dalle rivolte nelle carceri: 13 detenuti hanno perso la vita, di cui uno proprio nell’istituto bolognese. “Molti spazi della Dozza sono stati devastati, la situazione nei giorni successivi era allucinante, anche considerato che eravamo in piena emergenza sanitaria - ricorda D’Amore. Dobbiamo riconoscere che, dopo la prima fase del lockdown e dopo i giorni immediatamente successivi alla rivolta, l’amministrazione ha lavorato molto bene, sia per prevenire e contenere i contagi, sia per ricostruire e ristrutturare adeguatamente gli spazi distrutti o fatiscenti”. Grazie all’implementazione delle misure alternative, anche l’allarme sovraffollamento è rientrato: ora i detenuti sono circa 700 (erano 900 solo pochi mesi fa). Rientrata questa crisi - gestita anche grazie a una grande implementazione delle disponibilità tecnologiche dei detenuti (i colloqui, la cui interruzione per coronavirus è stata uno dei motivi alla base delle rivolte, si sono spostati online e sono stati intensificati) - però, è di nuovo il momento di occuparsi anche di tutto il resto. In Dozza c’è un reparto femminile che oggi ospita una settantina di detenute e c’è anche l’articolazione di salute mentale che accoglie 4 donne (capienza massima) con patologie psichiatriche. “Anche tra le detenute cosiddette comuni ci sono donne con un disagio psichico, donne che avrebbero bisogno di cure, di trattamenti specifici. Invece stanno lì, insieme a tutte le altre, convivenza che non giova a nessuno”. Nell’articolazione mentale ci sono solo un’infermiera e solo un tecnico di riabilitazione psichiatriche (TeRP, professionista sanitario presente nelle strutture riabilitative, figura istituita nel 2001 con il decreto ministeriale 29), che naturalmente hanno contratti da rispettare e ferie di cui godere. “Nel weekend, per esempio, il tecnico non c’è: se succede qualcosa - e succede sempre qualcosa - a chi ci si rivolge? Questo significa anche necessità di smaltire all’inizio della settimana il lavoro accumulato tra sabato e domenica”, spiega Gargiulo. “Nell’articolazione salute mentale c’è una donna con demenza alcolica: va lavata, cambiata, gestita - spesso ha atteggiamenti aggressivi, pericolosi per lei e per noi -, non vuole rientrare nella camera detentiva, non vuole che la camera sia riordinata. È molto difficile da gestire, non può ricadere tutto sulle nostre spalle”. Ad aggiungere insofferenza a questa delicata situazione, il caldo - la sezione femminile della Dozza non ha l’aria condizionata, al contrario delle altre sezioni - e l’assenza totale di attività: “Non hanno nulla da fare, niente che le possa tenere impegnate. I volontari ancora non sono rientrati. Non possono che essere concentrate sulla loro condizione, è facile immaginare come si possano sentire, a maggior ragione se hanno figli all’esterno. In queste condizioni non c’è nessun recupero, né sotto l’aspetto rieducativo né sanitario: è una sconfitta per tutti”, constata La Marca. Con sfumature diverse, le stesse necessità di un numero maggiori di figure professionali sanitarie e di una formazione adeguata per il personale è emersa anche nella sezione maschile: “Non c’è un’articolazione dedicata: anche qui i detenuti con un disagio mentale più o meno grave vivono con tutti gli altri. Avrebbero invece bisogno di essere seguiti in maniera assidua e professionale: qual è, altrimenti, la funzione rieducativa della pena? L’impressione è che il passaggio alle Rems, per ora, non stia assolutamente funzionando”, è la considerazione di D’Amore, che racconta di un detenuto che, passato di carcere in carcere, ha collezionato 80 denunce (tutte raccolte negli istituti penitenziari). “È un fallimento per il sistema penitenziario. Che aiuto sta dando il carcere a quest’uomo? Che senso ha ingolfare in questa maniera la giustizia?”. Torino. Dalla garante alle psicologhe: l’omertà nel carcere vinta grazie al coraggio delle donne di Ottavia Giustetti La Repubblica, 30 luglio 2020 E ora il vertice è tutto rosa: dal direttore al comandante delle guardie. Un detenuto seminudo, ammanettato e brutalmente imbavagliato mentre le guardie gli sputavano addosso e i medici e gli infermieri lo immobilizzavano, si trasformava in un folle cui avevano dovuto mettere una “mascherina, per evitare che sputasse”. Lui agli altri, quando a dover dare una spiegazione era il direttore del carcere, Domenico Minervini. I lividi segnalati non erano mai opera degli agenti. Le ferite venivano refertate come frutto di risse tra vicini di cella. Ed è andata così per molti anni, forse da sempre. Come ammette lo stesso Minervini in una telefonata, “coercizione all’interno del carcere c’è sempre stata ma abusiva e non tracciata”. Finché un movimento di indignazione e poi di denuncia sembra essere nato, leggendo le carte dell’inchiesta, al Lorusso e Cutugno intorno al 2017, per poi continuare a crescere, nonostante i tentativi di insabbiare i soprusi. Ed è stata soprattutto la tenacia silenziosa delle donne a far venire a galla quel che era sempre rimasto nascosto con l’inchiesta che vede indagate 25 persone, compreso il direttore Domenico Minervini. Insegnanti, psicologhe, assistenti legali. Professioniste con la vocazione dell’uguaglianza dei diritti, che periodicamente entravano in carcere, lasciandosi tutto alle spalle e immergendosi in un mondo diverso, con regole diverse. Una su tutti, Monica Gallo, nominata garante dei detenuti della Città di Torino nel 2015, anima di questa inchiesta penale che ha portato all’arresto di sei agenti della polizia penitenziaria e, ieri, alla rimozione dei vertici dell’amministrazione del carcere torinese. Nell’autunno del 2019, dopo che per mesi aveva cercato di ottenere provvedimenti per far cessare le violenze che si perpetravano al Lorusso e Cutugno, le sue relazioni sono finite tutte insieme in un fascicolo d’inchiesta della procura di Torino. Lei, le funzionarie che assistono i detenuti durante il percorso riabilitativo, le psicologhe, tutte avevano raccolto le confidenze dei detenuti, in particolare dal padiglione dei cosiddetti sex-offender, visto che da più parti arrivavano voci su come una “ squadretta” di agenti di polizia penitenziaria infieriva da quelle parti. E hanno dato corpo all’indagine mettendo in fila almeno undici casi analoghi a quello di Daniele Caruso, il detenuto sottoposto a Tso il 24 settembre 2018 con quelle modalità inspiegabili. Gallo, dopo qualche giorno, saputo dell’episodio era passata dal dirigente sanitario delle Vallette per chiedergli come mai Caruso fosse stato trasportato in ospedale quasi nudo, ammanettato e con un bavaglio alla bocca. Ma i vertici avevano sempre una spiegazione che ribaltava le responsabilità e proteggeva i violenti. Lei segnalava e le segnalazioni cadevano nel vuoto. Fino a novembre del 2019, quando l’inchiesta del pm Francesco Pelosi è entrata nel vivo e tutte quelle donne che nei mesi precedenti avevano preso carta e penna, senza rassegnarsi, sono diventate testimoni utili a riscostruire la realtà dietro le sbarre. Sarà un caso, ma ora sono ancora una volta due donne a prendere le redini del penitenziario torinese per mettere le basi di una storia differente: Rosalia Marino, 52 anni, nuovo direttore del carcere in arrivo dalla casa circondariale di Novara e Maria Lupi nuova comandante della polizia penitenziaria. Torino. Il Garante regionale: “Si faccia chiarezza su quanto accaduto al carcere” torinoggi.it, 30 luglio 2020 Mellano: “La sfida quotidiana è continuare a trovare gli stimoli per conquistare e garantire un’esecuzione penale efficace ed efficiente, anche avendo il coraggio di mettere in discussione un sistema che spesso espone i suoi stessi componenti a rischi ed abusi”. “Sulle vicende relative alla Casa circondariale di Torino non posso non auspicare che si faccia chiarezza il prima possibile, a tutela dei detenuti e dell’amministrazione”. Lo ha dichiarato il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano. “Nell’attesa delle verità processuali - ha aggiunto - era inevitabile che l’Amministrazione penitenziaria cercasse di assicurare le condizioni massime di serenità e trasparenza per tutti gli operatori, a cominciare dai ruoli apicali”. “Le notizie che quotidianamente emergono dalla comunità penitenziaria - ha ricordato - ci interrogano come persone prima ancora che come cittadini, come uomini prima ancora che come rappresentanti delle istituzioni. La cura, il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti previsto dalla Costituzione deve essere calato e incarnato nei singoli casi, spesso difficili e apparentemente incorreggibili, per di più in un contesto di delicati equilibri di forza: quella lecita e quella illegale”. “La sfida quotidiana - ha concluso - è continuare a trovare gli stimoli per conquistare e garantire un’esecuzione penale efficace ed efficiente, anche avendo il coraggio di mettere in discussione un sistema che spesso espone i suoi stessi componenti a rischi ed abusi”. Benevento. Non può restare in carcere ma è ancora lì da venti giorni ottopagine.it, 30 luglio 2020 Da venti giorni gli è stata revocata la custodia cautelare in carcere, incompatibile con le patologie psichiatriche di cui soffre, e ne è stata disposta la libertà vigilata, ma continua a restare nella Casa circondariale di contrada Capodimonte. Un lasso di tempo trascorso in attesa che l’Asl individuasse la struttura specializzata nella quale trasferirlo per consentirgli di ricevere le terapie che necessità. Se possa essere quella di Solopaca, scelta nelle ultime ore, lo si capirà solo dopo il colloquio che uno psichiatra del centro avrà domani con Teodoro Ialeggio, il 56enne ingegnere di Airola arrestato il 10 aprile dai carabinieri con l’accusa di tentato omicidio, a colpo di martello, della coniuge - M. R. R., sua coetanea-, all’epoca ricoverata in prognosi riservata al Rummo. Difeso dall’avvocato Paolo Abbate, il professionista è stato ritenuto incapace di intendere e di volere al momento del fatto e non imputabile, ma capace di stare in giudizio, da una perizia psichiatrica curata dal dottore Teofila Golia e decisa dal gip Loredana Camerlengo nel corso dell’incidente probatorio. Una perizia di cui Golia aveva illustrato i risultati il 9 luglio durante una udienza alla quale era seguita la pronuncia del giudice, che, come chiesto dalla difesa, aveva revocato la custodia in carcere al 56enne, stabilendone la collocazione in un centro adeguato. Che, a distanza di tre settimane, non è ancora avvenuta. Come più volte ricordato, il dramma, per fortuna sfiorato, si era verificato in un’abitazione di via Annunziata, riempita all’improvviso dalle urla della 56enne - è rappresentata dall’avvocato Stanislao Lucarelli - gravemente ferita dal marito, che, riacquistata la lucidità, aveva poi cercato di togliersi la vita tagliandosi le vene dei polsi. Durante la convalida dell’arresto, Ialeggio aveva domandato come stesse la coniuge che pensava, quando aveva chiamato i carabinieri, di aver ucciso per le martellate alla testa che le aveva inferto. Non ricordo ciò che ho fatto, so soltanto che non ce la facevo più, aveva sostenuto, raccontando la storia di una coppia affetta da depressione - per il 16 aprile era stata prenotata, e poi rinviata per l’emergenza sanitaria, una visita psichiatrica all’Asl - che, sentendosi abbandonata da tutti, dopo aver chiesto aiuto senza riceverlo, era arrivata al punto di non alimentarsi più con regolarità. Volevamo che venissero a prenderci a casa con la forza, ma non è accaduto, aveva continuato. Una situazione familiare molto complicata, aggravata dalla decisione che la moglie avrebbe preso: non sottoporsi più alla chemioterapia ordinata dopo un’operazione, a gennaio, per la rimozione di una neoplasia. Voglio morire, avrebbe detto lei all’uomo che aveva sposato, precipitandolo in uno stato di profonda prostrazione, in una fragilità che all’improvviso era evidentemente esplosa. Sassari. Lettera dal carcere: “A Bancali una situazione tragica” La Nuova Sardegna, 30 luglio 2020 Due pagine scritte in stampatello e inviate alla Nuova Sardegna per denunciare “una situazione giunta allo stremo”. La firma: “I detenuti di Bancali”. “Era già tutto complicato prima, ora con il Covid è tragica”. In particolare il riferimento è a una presunta limitazione di diritti “che in precedenza avevamo. Lo dimostra il fatto che i permessanti - scrivono - che una volta al mese devono uscire in permesso, al loro rientro devono fare 14 giorni di quarantena in isolamento. Mentre educatori e agenti della polizia penitenziaria escono e entrano dall’istituto come e quando vogliono. Cosa significa? Che noi siamo contagiosi e loro no?”. Parlano poi dei colloqui: “Sono un inferno. Se i familiari prenotano alle 11, è già tanto se riusciamo a fare il colloquio 4 ore dopo e nel mentre le nostre famiglie devono stare sotto il sole o la pioggia e se si lamentano vengono trattate con maleducazione”. Lamentano inoltre, i detenuti, di ricevere scarsa attenzione da parte degli educatori: “Noi comprendiamo la grande mole di lavoro che devono affrontare - scrivono nella lettera - ma molti nostri compagni ricorrono anche ad atti di autolesionismo per poter parlare con un educatore visto che i colloqui li fanno una volta all’anno, se va bene”. E aggiungono che un trattamento carente sarebbe riservato in particolare a stranieri e tossicodipendenti “abbandonati a loro stessi”. Nelle due pagine scritte a mano dal gruppo di detenuti di Bancali un passaggio riguarda anche quelli che i firmatari della missiva chiamano “i nostri compagni della sezione semiliberi” che a loro dire sarebbero “costretti a uscire solo per tre ore al giorno dalla cella e per il resto della giornata devono stare in una sezione di 10 metri, venti ore al giorno senza nessuna attività”. La lettera si conclude così: “Anche se abbiamo commesso degli errori siamo esseri umani con una famiglia, con un passato, un presente e, speriamo, un futuro”. Bergamo. Rieducare si può, il progetto che salva i carcerati di Marco Bibbià Avvenire, 30 luglio 2020 La storia del Comitato che dal 1982 è impegnato nella città lombarda per garantire la finalità riabilitativa della detenzione: “Abbiamo reso l’intera comunità responsabile partecipe del progetto, concedendo fiducia e fornendo occasioni di riscatto”. C’era una volta il carcere chiuso e inaccessibile, dove chi entrava rivedeva la luce a fine pena, senza contatti con il mondo esterno. Poi qualcosa è cambiato. Da Bergamo è partita la scintilla di un percorso nuovo che ha permesso di rendere più permeabile la barriera tra la società civile e chi è recluso. Lo racconta il professor Oliviero Arzuffi nel volume “Carcere e territorio - quarant’anni di storia bergamasca”, storia del comitato che negli ultimi decenni si è impegnato per garantire la finalità rieducativa della detenzione, in applicazione dell’art. 27 della Costituzione. Un’esperienza nata negli anni bui del terrorismo. “Nell’estate del 1982 - spiega Arzuffi, tra i fondatori del comitato - avendo assistito al processo per i reati compiuti dagli esponenti di Prima Linea durante gli “anni di piombo”, ci chiedemmo chiesero se era lecito starsene con le mani in mano davanti al destino di questi ragazzi, bergamaschi per lo più. E se le loro colpe non riguardassero in qualche modo anche la nostra città”. La risposta arrivò in fretta: “Il delitto o la devianza non sono solo la conseguenza di una scelta personale, ma anche l’esito di meccanismi, di stili di vita, di disvalori presenti in una comunità”. E l’impegno seguì di conseguenza. Prima il difficile dialogo con l’istituzione carceraria per convincerla della necessità di aprire il portone ai volontari, poi il faticoso avvio delle prime attività educative e culturali all’interno della struttura. Fino alle tante iniziative fiorite negli anni anche all’esterno, per dar modo ai detenuti di sperimentare un graduale reinserimento nel tessuto sociale. “La terza fase, che va dalla fine del primo decennio del secolo ad oggi - continua Arzuffi - è imperniata sull’elaborazione di una precisa metodologia di intervento per rendere sempre più efficaci i progetti, elaborati con la partecipazione di molteplici realtà di territorio, sia istituzionali che del Terzo Settore”. Il risultato è tangibile: l’intera comunità si sente responsabile partecipe del progetto di riabilitazione, concedendo fiducia e fornendo occasioni di riscatto. Il detenuto non è più visto come un reietto, ma come un “fratello” che è scivolato, cui tendere una mano per aiutarlo a rialzarsi. Roma. Comunità di Sant’Egidio, al via oggi le “Cocomerate della solidarietà” agensir.it, 30 luglio 2020 “Cocomerate della solidarietà” in carcere con i detenuti dopo il lockdown: le organizza la Comunità di Sant’Egidio. “La pandemia da coronavirus ha creato nei mesi scorsi grandi difficoltà nelle carceri, per l’accentuato isolamento e la mancanza di contatti con l’esterno. La Comunità di Sant’Egidio, che da anni visita con regolarità numerosi istituti penitenziari italiani, è riuscita ad organizzare per l’estate una campagna di solidarietà e di sostegno nelle carceri romane”, si legge in una nota. Oggi, 30 luglio, a partire dalle 11.30 - nel pieno rispetto delle precauzioni sanitarie - si svolgerà a Regina Coeli una “cocomerata di solidarietà”. “Si tratta non solo di fare festa in un momento complicato, anche per il caldo estivo - precisa la nota - ma di un segnale importante per ricordare a tutti la necessità del recupero nel tessuto sociale di tante persone”. Anche quest’anno le “Cocomerate della solidarietà” sono rese possibili grazie alla collaborazione e al generoso contributo del Car (Centro Agroalimentare Roma). Gli appuntamenti per le “Cocomerate della solidarietà”, finora fissati, sono oggi nel carcere di Regina Coeli; il 5 agosto, alle 11, a Rebibbia femminile; il 20 agosto, alle 11, a Rebibbia maschile. “Sul fine vita la politica delega ai giudici ciò che finge di non vedere” di Simona Musco Il Dubbio, 30 luglio 2020 Luisella Battaglia, componente del Comitato nazionale di Bioetica: “È penoso e intollerabile che siano i tribunali ad affermare quei diritti sui quali il Parlamento è perennemente in ritardo. La verità è che questa legge non è gradita”. “È penoso e intollerabile che siano i tribunali ad affermare quei diritti sui quali la politica è perennemente in ritardo. La verità è una sola: una legge sul fine vita non è gradita”. Luisella Battaglia il suo contributo lo aveva dato, da componente di quel Comitato nazionale di Bioetica che lo scorso anno ha fornito al Governo un parere sul suicidio medicalmente assistito. Ma nonostante il limite di tempo fissato dalla Consulta al Parlamento per legiferare sul tema, tutto rimane ancora fermo. Si muovono soltanto i tribunali, da ultimo quello di Massa, che ha assolto Marco Cappato e Mina Welby, rispettivamente tesoriere e co-presidente dell’associazione Luca Coscioni, dall’accusa di istigazione e aiuto al suicidio per la morte di Davide Trentini. Battaglia è sicura: “Per fare una buona legge sono sufficienti le indicazioni della Consulta”. Professoressa, la sentenza di Massa riapre il dibattito sul fine vita, con un caso diverso rispetto a quello di dj Fabo. Ciò allarga le maglie rispetto ai paletti fissati dalla Consulta? La sentenza introduce un aspetto di novità, perché Trentini non era collegato alle macchine, come invece lo era dj Fabo. E secondo me il Tribunale lo ha fatto a ragione. Ma il quadro di garanzia è rimasto intatto rispetto a quanto stabilito dalla Consulta, in quanto fa riferimento all’accertamento della volontà dichiarata della persona che intende uccidersi, con tutto quello che ne consegue. Direi che si tratta di garanzie severe, che comprendono anche l’alleanza terapeutica tra chi cura e chi è curato. Il grande timore che viene avanzato da chi parla di china eutanasica, secondo me, non ha molta ragione di essere. Il pm ha parlato di nobili intenti di un gesto che, però, difetta dei presupposti che lo rendono lecito, il che significa che manca una norma sul fine vita, nonostante le sollecitazioni della Consulta e il parere del Comitato nazionale di Bioetica. Com’è possibile che non si affronti la questione a livello politico? La straordinaria arretratezza delle lotte per le battaglie civili fa parte della storia del nostro Paese. Quanto tempo abbiamo impiegato per arrivare alla legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento o a quella per il divorzio? Parliamo di decenni. Questa è la cattiva tradizione del nostro Paese sul fronte dei diritti civili. Non c’è da stupirsi molto, ma da rammaricarsi e anche profondamente. Adesso si può anche evocare la situazione d’emergenza, ma anche in passato c’è sempre stato qualcosa di più urgente: i problemi del fine vita sono sempre stati rinviati, con la scusa che non erano così rilevanti. In realtà sono importantissimi, perché ne va della nostra dignità e del nostro destino. Temo che il Parlamento tarderà ancora. E sono profondamente delusa, perché le esigenze della vita e del fine vita sono veramente pressanti, come dimostrano questi fatti tragici. C’è chi parla di strumentalizzazione di fatti dolorosi, ma non potrò mai dimenticare quello che ha dovuto passare dj Fabo perché venisse acclarata la sua volontà di porre termine alla propria vita. Ha dovuto farlo in pubblico, una cosa che ho trovato grave per uno Stato di diritto. Davvero possiamo parlare di suicidio assistito: abbiamo assistito alla sua confessione e mi sono vergognata, perché non si deve arrivare a questo affinché un Paese civile consenta ad una persona che vuole morire di farlo. Che poi consentire è un termine sbagliato: ritengo che ci sia un diritto. Su questo punto la bioetica si divide… Io sono per una bioetica liberale che ritiene che ci sia il diritto di disporre della propria vita, con tutta la responsabilità e la cura per coloro che hanno un’idea diversa. In uno Stato di diritto ci deve essere posto per gli uni e per gli altri. Il problema è che mentre per i liberali questo è scontato, perché la libertà di pensiero fa parte del loro credo, per i dogmatici è più difficile. Capisco la difesa strenua della vita e del suo valore, ma questo non deve impedire a chi la pensi in maniera diversa di seguire i propri valori. È fanatismo pretendere che il mio bene sia quello di tutti. Però con la stessa fermezza non accetto in alcun modo che ci venga rimproverato di trascurare la cura di chi è vulnerabile. Nel documento abbiamo sottolineato anche la necessità di garantire le cure palliative, quindi la massima attenzione alle cure, sottolineando che sul punto l’Italia è molto indietro. Non vengono praticate sufficientemente e non c’è neanche una competenza adeguata. Ma non è assolutamente connesso al diritto di chi chiede, in maniera inequivocabile, di porre fine alla propria vita, che è molto diverso dall’istigazione al suicidio. Ma questo lo capirebbe anche un bambino. Qualcuno avanza il sospetto della deriva eutanasica… In tutte le grandi controversie della bioetica c’è sempre qualcuno che parla della deriva. Ma è un argomento fallace, perché quello che viene definito da una legge è preciso e si ferma lì. L’eutanasia non c’entra nulla con il suicidio assistito e questo lo abbiamo detto con molta chiarezza nel documento del Comitato. L’accompagnamento al suicidio non comporta assolutamente un atto eutanasico: la volontà è la mia, il gesto è il mio, nella mia piena autonomia. Ma quello che è grave e pericoloso in questo argomento è che ingenera, in chi legge, l’idea che da una cosa derivi un’altra, necessariamente. Non è triste che per affermare un diritto come questo sia necessario passare per i tribunali? Non solo è triste: è intollerabile. Ma questo lo abbiamo già dovuto verificare anche per la legge 40 sulla fecondazione assistita: ci sono voluti 10 anni per smantellare quella che era la legge più illiberale e proibitiva, modellata sulla visione cattolica della nascita e della fecondazione. In uno Stato liberale non dovrebbe essere consentito che una legge sia basata su una sola concezione etica. Per smantellarla ci sono volute sentenze, fino alla dichiarazione di incostituzionalità da parte della Consulta dei singoli punti. È stato durissimo e non vorrei si ripetesse lo stesso scenario. È penoso che compiti del genere tocchino ai tribunali, che evidentemente sono molto più vicini all’opinione pubblica di quanto non lo sia il legislatore. È un deficit della nostra democrazia: la politica è perennemente in ritardo. Un’altra ingiustizia, per me molto grave, è che il suicidio assistito venga consentito a chi se lo può permettere, dal punto di vista economico. Chi non può andare in Svizzera viene condannato a vivere. Ed è come una condanna all’ergostolo costringere a vivere chi non vuole farlo. Quale potrebbe essere una buona legge che salvaguardi le esigenze e i diritti di tutti? Basta seguire le indicazioni della Consulta, in qualche modo contenuti nel documento del Comitato nazionale di bioetica, che è un organo di consulenza della presidenza del Consiglio. Non vedo quali siano le difficoltà. Il tempo è passato, ora c’è l’emergenza, ma avrebbero potuto farlo anche prima. Diciamocelo: questa legge non è gradita. Ma questo non corrisponde al sentimento del Paese. Omotransfobia, la commissione Giustizia dà il via libera al testo di Monica Rubino La Repubblica, 30 luglio 2020 La legge in aula alla Camera il 3 agosto. La maggioranza trova l’accordo. Sì agli emendamenti di Italia Viva che riguardano i fondi a disposizione e la Giornata nazionale, con modifiche che renderanno meno impegnativo il riferimento alle scuole. Accolte anche le richieste delle femministe: si procederà a trovare una definizione più precisa rispetto al termine “identità di genere”. Dopo l’accordo di maggioranza trovato in commissione Giustizia che ha dato il via libera al testo, la legge contro l’omotransfobia approderà nell’aula della Camera lunedì prossimo, il 3 agosto per la discussione generale. Lo ha stabilito ieri sera la Conferenza dei capigruppo di Montecitorio. L’esame proseguirà nei giorni successivi. Un vero successo, dunque, per i partiti di governo che hanno trovato la quadra sul provvedimento. Esulta anche il primo firmatario del provvedimento, Alessandro Zan del Pd che è anche relatore: “Approvato in Commissione Giustizia il ddl contro #omotransfobia e #misoginia. Grazie alle colleghe e ai colleghi che hanno convintamente difeso il testo: la maggioranza è forte e coesa contro l’odio e le discriminazioni. Ora in Aula a Montecitorio il 3 agosto”. L’intesa, viene spiegato, riguarda alcune modifiche che sono state apportate al testo base. Restano, invece, da definire ancora alcuni punti, che saranno “approfonditi in sede di esame in Aula”. È, ad esempio, il caso della definizione, al centro di un’accesa polemica da parte del mondo dell’associazionismo femminista: nel testo attuale si parla di “genere, identità di genere, sesso, orientamento sessuale”. In Aula si valuterà la possibilità di prevedere una “definizione più precisa”. Per quel che riguarda, invece, le modifiche apportate in commissione, “abbiamo trovato l’accordo su 2-3 emendamenti di Italia viva che saranno riformulati”, spiegano fonti dem, e che riguardano “la questione dei fondi da destinare al contrasto dell’omofobia (sul punto è sorto un “contrasto” con la norma inserita nel decreto Rilancio) e la Giornata nazionale”, con modifiche che renderanno “meno impegnativo il riferimento alle scuole”. A seguito dell’intesa raggiunta, le forze di maggioranza hanno ritirato tutti gli altri emendamenti presentati, ad eccezione appunto delle proposte di modifica di Iv che saranno riformulate. Restano nettamente contrari al ddl Zan Lega e Fratelli d’Italia, mentre Forza Italia ha sin dall’inizio lasciato aperti alcuni spiragli. “L’indicazione data al gruppo dal presidente Berlusconi è il voto contrario”, spiega Giusi Bartolozzi, “ma come sempre, nella storia di Forza Italia, il presidente lascia ai deputati la più ampia libertà su temi come questi. Per quel che mi riguarda, non voterò mai contro questo testo di legge che dà piena attuazione al dettato anche dell’articolo 3 della Costituzione. Se ci saranno altre auspicate modifiche, per me dirimenti, come la questione della procedibilità di ufficio, che vorremmo allineata ad altri reati similari e dunque a querela di parte, il mio voto sarà a favore. Diversamente, mi asterrò e credo, come me, potrebbero fare altri deputati di Forza Italia”. Cosa può fare l’Onu per il dramma dei migranti di Alessandro Orsini Il Mattino, 30 luglio 2020 Il barboncino sbarcato con i tunisini a Lampedusa non stupisce: è noto, ormai da tempo, che molti migranti provengono dagli strati medi e alti della popolazione africana. L’Ispi, oggi presieduto da Giampiero Massolo, ha rivelato che il 60% degli africani sbarcati in Europa negli ultimi sei anni, pari a un milione e 85 mila persone, proviene da Paesi con un reddito pro capite tra i 1.000 e i 4.000 dollari l’anno, classificato come medio-basso dalla Banca Mondiale. Il 29%, invece, proviene da Paesi con un reddito pro capite tra i 4.000 e 112.000 dollari l’anno (reddito medio-alto), e il 7% da Paesi con un reddito pro capite superiore ai 12.000 dollari (reddito alto). Il barboncino è utile nella misura in cui aiuta a ricordare questi dati. Ovviamente, le ricerche quantitative devono essere integrate dalle ricerche qualitative, che si occupano di guardare i migranti negli occhi. Soltanto il contatto diretto consente di stabilire se un uomo è realmente disperato egli occhi dicono che molti migranti non lo sono. La tunisina con gli occhiali da sole ha dichiarato di essersi imbarcata perché in Italia si sta bene e in Tunisia non c’è libertà. Per quanto l’idea di libertà sia relativa, la Tunisia è uno dei Paesi più liberi di tutta l’Africa. Nel 2015, ha addirittura ricevuto il premio Nobel per la Pace per tutto ciò che ha fatto in favore della democrazia e della libertà. Nello specifico, il premio è stato conferito al “quartetto del dialogo nazionale tunisino”, un gruppo formato da avvocati, lavoratori, impiegati e attivisti tunisini. Premiare un gruppo così eterogeneo significa premiare un’intera società. I premiati sono: la Confederazione dell’industria tunisina, la Lega tunisina peri diritti umani, l’Ordine degli avvocati tunisini e l’Unione generale dei lavoratori tunisini, il cui segretario è Houcine Abbassi. Queste quattro organizzazioni hanno meritato il premio Nobel “per il loro contributo decisivo nella costruzione di una democrazia pluralistica in Tunisia in seguito alla rivoluzione tunisina del 2011”. Sappiamo bene che i problemi in Tunisia sono molti. Tuttavia, proprio per amore dell’Africa, è bene riservare l’ospitalità ai migranti che ne hanno davvero bisogno. I sentimenti hanno un ruolo importantissimo in politica ed è per questo che milioni di europei accettano che le leggi dello Stato vengano talvolta “abusate” per aiutare i disperati. Davanti alla disperazione, l’opinione pubblica afferma che lo Stato non può essere disumano nella difesa dei confini. È un modo elegante di dire che le leggi possono essere violate, se offendono la coscienza morale degli europei, cosa che, purtroppo, è accaduta a Khinns, a est di Tripoli, dove tre migranti sudanesi sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco nel tentativo di scappare dalla guardia costiera libica. L’Oim, che nel settembre 2016 è entrata nel sistema Onu, diventando agenzia collegata alle Nazioni Unite, ha condannato i fatti, Fin qui siamo d’accordo. Il problema è che l’Oim ha prontamente sollecitato l’Unione Europea a intervenire perché “la Libia non è un porto sicuro”. A parte il fatto che in Libia non esiste niente di sicuro, visto che è in corso una guerra civile, l’Oim dovrebbe riflettere su ciò che l’Onu è diventato in questi anni. Che si tratti di immani catastrofi umanitarie (Yemen e Siria), di proliferazione nucleare (Corea del Nord) o di immigrazione, l’Onu ha assunto le caratteristiche di un’autorità morale che produce per lo più studi e documenti, senza alcuna capacità di incidere sui problemi reali. A noi piacciono le autorità morali, tolte le quali, insegna Durkheim, gli uomini brancolerebbero nel buio, ma come può l’Oim chiedere all’Unione Europea di mettere ordine nei porti libici dimenticando che l’Onu, in Libia, ha prima istituito un governo a Tripoli e poi ha lasciato che venisse bombardato dal generale Haftar? Il risultato è stupefacente: l’Oim chiede porti sicuri in un Paese i cui porti stanno per essere accerchiati dalle navi da guerra della Turchia e dell’Egitto, che intendono darsele di santa ragione per il predominio su Sirte e la base di Alslufra. Per portare la politica con i piedi per terra, proveremo a indicare la sequenza corretta delle mosse da seguire. In primo luogo, l’Onu dovrebbe portare la pace in Libia. Soltanto dopo, l’Unione Europea potrebbe aiutare le autorità libiche a creare un sistema di controllo delle frontiere e di protezione dei migranti. Uno degli errori di molti osservatori occidentali è di non considerare che una guerra civile abbassa il livello di umanità di un Paese intero. Sempre parlando dell’autorità morale di una società, un omicidio nel centro di Roma o di Firenze provoca un’impressione enorme. Lo stesso omicidio, nel centro di Aleppo in Siria, di Mosul in Iraq. odi Kabul in Afghanistan, provoca un’impressione minore. Non perché romani e fiorentini siano diversi da siriani, iracheni e afgani. ma perché Roma e Firenze non sono state dilaniate da una sanguinosissima guerra civile, con bombe. stupri, omicidi e decapitazioni. C’è un lavoro molto grande da fare in Libia in favore della pace, a cui è legato il rispetto dei diritti umani nei porti. Il problema è che tutto il lavoro che si sta facendo in queste ore è in favore della guerra giacché l’Onu, in Libia, è una bellissima autorità morale, che ci piace tanto, ma con cui non ci facciamo niente. Migranti, nasce ResQ. Gherardo Colombo: “Salvare vite umane è un dovere” di Marta Serafini Corriere della Sera, 30 luglio 2020 Il magistrato di Mani Pulite lancia una onlus per mettere in mare una nave di soccorsi. Grandi (Unhcr): “Anche l’Uganda apre i suoi confini. Italia non ha scuse”. “Sarei contento se qualcuno mi venisse a salvare se stessi annegando in mare? Sì, sarei contento”. La “semplice domanda” se l’è posta Gherardo Colombo. La risposta è stata accettare la presidenza onoraria dell’associazione ResQ - People Saving People, onlus che comincerà le attività di soccorso e salvataggio delle persone in difficoltà in mare e che oggi è stata presentata alla stampa. Centotrenta soci, provenienti da ogni settore della società civile (“tra noi ci sono avvocatori, educati, missionari, operai, bibliotecari. E perfino uno stenotipista”, sottolinea Sara Zambotti, antropologa, giornalista e co-fondatrice della onlus), ResQ è nata da un piccolo gruppo di amici, professionisti di varia natura che, stanchi di vedere morire migliaia di persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, hanno deciso di rompere il muro dell’indifferenza. Un’iniziativa salutata con favore anche da Filippo Grandi, alto commissario dell’Unhcr, che durante la presentazione alla stampa, ha sottolineato come il “salvataggio in mare sia un tema internazionale che va ben al di là del solo coinvolgimento italiano”. E se la riposta deve essere il confronto con la società civile - ha aggiunto Grandi - non va dimenticato come “il 90 per cento dei rifugiati non si trovi in Paesi europei. Di recente, ad esempio, l’Uganda, Paese in enorme difficoltà, ha aperto i suoi confini ai rifugiati congolesi. Ecco perché non ha scuse chi chiude le sue frontiere”. Obiettivo di ResQ è dunque dotarsi di una nave al 100% italiana per soccorrere i naufraghi e operare su due fronti: in mare con un team di dieci professionisti e volontari per prestare soccorso e raccogliere le testimonianze di quanto accade a poche miglia dalle nostre coste, e a terra con campagne di informazione. “Per raggiungere questo obiettivo ci siamo come meta i 2,1 milioni di euro. Una cifra importante, che sarà raccolta attraverso donazioni sul sito e con campagne di crowdfunding”, sottolinea Lia Manzella, progettista, fundraiser e membro del direttivo di ResQ. Un’impresa non facile “Ma - spiega Luciano Scalettari, presidente di ResQ - quando è nata l’associazione, giorno dopo giorno, abbiamo trovato e continuiamo a trovare sempre nuovi compagni di strada: volti noti e persone comuni, ingegneri, studenti, magistrati, pensionati, giornalisti, scrittori, operatori umanitari, persone di religioni diverse mosse tutta dal valore fondamentale del diritto alla vita”. Nettamente contraria rimane invece la Lega con il senatore Simone Pillon che afferma: “Trovo gravissimo che PD, 5stelle e renziani abbiano mantenuto nel testo Zan la giornata dell’omo-lesbo-bi-transfobia, che si configura come indottrinamento gender obbligatorio di bambini e ragazzi nelle scuole italiane. Massimo rispetto per tutti, ma lasciate ai genitori la libertà di educare i loro figli come previsto dalla Costituzione”. Sulla stessa linea anche Massimo Gandolfini, leader del Family Day: “Il ddl Zan prende sempre più la forma di un guazzabuglio legislativo che non definisce alcun reato di discriminazione, lasciando ampi spazi a derive liberticide”. La seconda vita di Colombo, da Mani pulite ai migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 30 luglio 2020 L’ex pm presidente onorario di ResQ: “Una nave italiana per salvare chi fugge nel Mediterraneo”. “Guardi se vuole discutere delle responsabilità dell’Europa o di altri lo facciamo un’altra volta. Oggi voglio parlare solo dell’importanza di salvare la vita di chi affoga nel Mediterraneo”. Non accetta divagazioni Gherardo Colombo. L’ex pm di Mani pulite è il presidente onorario di ResQ-People Saving People, neonata onlus che punta ad avere al più presto una propria nave, “100 per 100 italiana”, da inviare nel Mediterraneo centrale per soccorrere i migranti che fuggono dalla Libia. Il progetto, nato da un gruppo di amici “stanchi di vedere morire migliaia di persone in mare”, consiste nell’acquistare una nave di 40 metri, con 10 persone di equipaggio e nove tra medici, infermieri, soccorritori, mediatori e giornalisti. Costo dell’operazione: 2,1 milioni di euro da raccogliere attraverso crowdfunding e donazioni sul sito ResQ.it in modo da poter salpare entro i prossimi 18 mesi. Un’iniziativa che finora ha raccolto già 130 adesioni e che ieri ha ricevuto anche l’appoggio dell’Alto commissario Unhcr Filippo Grandi. “Mi pare immorale discutere ancora se sia giusto o meno salvare vite in mare - ha detto Grandi -. Per me è un obbligo da ogni punto di vista e abbiamo bisogno della società civile per farlo”. Concetto condiviso dall’ex pm: “È importante che ci assumiamo noi questo compito”. Come è nata l’iniziativa? Mi sono domandato: se io fossi lì lì per annegare in mezzo al Mediterraneo, mi piacerebbe che qualcuno venisse a salvarmi? Ovviamente ho risposto di sì, che mi piacerebbe e credo che chiunque di noi, in qualunque modo la pensi, se sta annegando vorrebbe essere salvato. Quindi è necessario che ci sia qualcuno che eviti che le persone anneghino. E siccome le persone continuano ad annegare se c’è qualcuno in più che le salva tanto meglio. Dalle aule di tribunale al salvataggio dei migranti è un bel salto. Cosa tiene assieme due attività così diverse? C’è un filo rosso che le lega ed è un collegamento molto stretto con la nostra Costituzione che è inclusiva e ha come punto di partenza preciso l’esclusione assoluta della discriminazione. Tutto il resto viene di conseguenza. L’articolo 2 afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, a partire dal diritto alla vita che la Costituzione non cita solo perché è il presupposto essenziale perché possano esistere tutti gli altri. Poi c’è l’articolo 32, la Repubblica tutela la salute di tutti, non solo dei cittadini, non solo dei cattolici, non solo di una determinata etnia. Ripeto, di tutti. Lei è un uomo di legge. Spesso nelle vicende che riguardano i migranti assistiamo a delle violazioni del diritto internazionale, a partire dall’obbligo di soccorrere chi si trova in difficoltà in mare... Guardi se noi parliamo di altre cose succede che necessariamente finisce in secondo piano quello che è invece il tema più importante, che è la vita delle persone. Parliamo di questo e chiediamoci se può essere in qualche modo oggetto di transazione o di scambio. La risposta è no e allora fermiamoci qui e concentriamoci su questo. Da molto nel Mediterraneo è assente l’Europa con la sua capacità, che in passato aveva, di soccorrere i migranti... Se cerchiamo di mettere in mare una nave per salvare le persone è perché sentiamo come responsabilità nostra il fatto che le persone vanno salvate. Di tutto il resto, di tutte le altre responsabilità ne parliamo un’altra volta. È importante che ci assumiamo noi il compito. Vede la delega, la rappresentanza, sono tutte cose importanti,,ma se possiamo intervenire noi direttamente allora facciamolo. Il resto non mi interessa, perché toglie rilievo al tema: salviamo chi annega, e non: facciamo salvare chi annega. Pensa di partecipare in futuro a una missione con la nave? Sulla nave ci salirò senz’altro, quello che temo è di essere di impiccio. Ma far vedere che si può fare qualcosa è importantissimo. La memoria corta sui nostri fondi alla Libia di Paolo Mieli Corriere della Sera, 30 luglio 2020 Sul rifinanziamento della guardia costiera, Il Pd dovrebbe ricordarsi i proclami per l’accoglimento senza condizioni lanciati quando c’era il governo Conte 1. Per una triste coincidenza quando gli agenti del mare tripolini hanno ucciso tre migranti sudanesi che provavano a fuggire su un gommone, proprio in quelle ore a Roma si teneva un raduno di protesta contro il rifinanziamento italiano di quella stessa guardia costiera libica. La scrittrice Michela Murgia (su “La Stampa”) ha notato che stavolta i manifestanti erano circa 250. Pochi. Molto pochi se si pensa che un anno e mezzo fa ad un analogo appuntamento si erano presentati in cinquemila. Di qui uno “sconcertante sospetto”: non sarà, si è chiesta l’autrice di “Accabadora”, che “per molti chiedere salvezza e dignità per i migranti è stato un fatto di antagonismo politico, non di diritto umanitario” talché “sparito l’antagonista (Salvini), è sparita anche l’indignazione”? Una domanda carica di evidenti sottintesi. Mettiamo subito in chiaro che, a differenza di Michela Murgia, continuiamo a ritenere che il piano elaborato nell’estate 2017 dal Ministro dell’Interno Marco Minniti - imperniato sulla sperimentazione di canali legali per i fuggitivi, sul controllo Onu dei campi di contenzione nordafricani, sulla valorizzazione delle municipalità libiche come argine alla tratta dei migranti - non fosse affatto “di impianto salviniano”. In ogni caso l’anno seguente, i suoi compagni di partito, per poter più agevolmente combattere Matteo Salvini, hanno in buona sostanza sconfessato le proposte di quel Minniti che era stato il loro Ministro dell’Interno. E così gli esponenti del Partito democratico si sono abbandonati a dichiarazioni assai impegnative, mai immaginando un possibile ritorno alla guida del Paese. Invece nell’estate successiva tutto si è capovolto, talché adesso il Pd si trova nelle condizioni di dover far convivere il realismo manifestato ai tempi del governo Gentiloni con i proclami per l’accoglimento senza condizioni lanciati quando a Palazzo Chigi c’era Conte versione uno. Di qui i borbottii che hanno accompagnato l’approvazione dei nuovi fondi ai guardacoste libici. Passi falsi? Il Pd non avrebbe dovuto reagire con un’alzata di spalle a fronte dell’incresciosa circostanza per cui questo via libera è passato grazie al voto determinante della destra. C’è in questa fase politica - osserviamolo per inciso - un’assenza di rigore nella disponibilità ad accogliere voti dall’altra sponda. Quando si tratta di trattative sottobanco per commissioni, nomine e posti in Rai, si può fingere di non farci caso. Ma allorché entrano in gioco valori, è difficile non prestare attenzione a qualche eccesso di disinvoltura. C’è dell’altro. Riccardo Magi, sodale di Emma Bonino, ha ricordato che un anno fa - ai tempi del Conte uno - il Pd non partecipò al voto sulla proroga della missione sostenendo che, prima di pronunciare il proprio sì, “la strategia andava cambiata” e i “centri di detenzione svuotati”. Dopodiché la “strategia” è rimasta la stessa, i centri sono sempre più stipati ma il Pd ha approvato il rifinanziamento. Magi ha maliziosamente ricordato a Graziano Delrio, che dodici mesi fa - quando il Pd si asteneva - loro due erano assieme sulla Sea-Watch per chiedere di far scendere “i naufraghi in fuga dall’inferno libico”. Poi qualcosa è cambiato. Dopo che il suo partito è andato al governo, Delrio non ha ritenuto di imbarcarsi nuovamente su una di quelle navi e ha anzi guidato i deputati Pd al voto per donare una decina di milioni di euro alla Guardia costiera libica. Nel nome, sostiene Delrio, dell’impegno “per una rapida modifica del memorandum con la Libia”. Magi, Matteo Orfini, Nicola Fratoianni, tutti quelli che erano sull’imbarcazione umanitaria sono rimasti dell’opinione di allora. Delrio, no. Infine c’è un problema più generale. Quattro mesi prima dell’esplosione pandemica il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti aveva annunciato che non si sarebbe dato pace finché il Parlamento non avesse approvato lo “ius culturae” (o come adesso si chiama il diritto di cittadinanza per gli immigrati). Idem per la radicale modifica dei cosiddetti decreti Salvini. Poi, in febbraio, l’Assemblea nazionale del Pd ha votato all’unanimità contro il rifinanziamento della Guardia costiera libica. Ripeto: all’unanimità. Invece nel giorno della verità i parlamentari del partito di Zingaretti - con le eccezioni di cui si è detto - si sono pronunciati a favore dei soldi ai guardiani della costa libica. Giustamente Roberto Saviano si è domandato (su “Repubblica”) che valore avesse il voto di febbraio. L’Assemblea nazionale - si è chiesto - non conta nulla? Di rimando lo scrittore è stato sommerso da una marea di chiacchiere sulle benefiche iniziative che il Partito democratico ha preso o intende prendere per la “stabilizzazione” della Libia e il coinvolgimento di Sarraj nella “lotta ai trafficanti di esseri umani”. Noi, a differenza dell’autore di “Gomorra” che le ha sbeffeggiate, vogliamo credere nella sincerità di queste intenzioni. Ma onestà intellettuale impone di dare atto a Saviano che la sua domanda non ha ricevuto risposta. Ci sarà pure un caso di principio su cui la sinistra italiana tutta (o almeno la sua maggioranza) è disposta a tener duro. I Cinque Stelle questi valori - per quanto li si possa giudicare sballati - mostrano di averli. Poi alla fine, talvolta, i pentastellati cedono. Ma almeno combattono per quello in cui credono e per cui avevano preso impegni al cospetto dei loro elettori. La sinistra, a quel che è dato vedere, meno. Molto meno. Siria. Sette anni senza padre Paolo Dall’Oglio di Francesca Caferri La Repubblica, 30 luglio 2020 La famiglia: “Non si fermi la ricerca della verità”. Oggi l’anniversario della scomparsa del sacerdote gesuita: fu visto l’ultima volta mentre si recava al quartier generale dello Stato islamico a Raqqa. Le sue ultime parole nella Siria divisa, insanguinata e affamata, risuonano ancora oggi: “Continuate a sognare la Siria libera”. Padre Paolo Dall’Oglio aveva salutato così, la sera di sette anni fa, gli studenti di Raqqa alla cui manifestazione si era recato: lo avevano accolto come un eroe, in quella che allora era una delle prime città libere dal controllo del governo siriano di Bashar al Assad. Poco dopo quel saluto, “Abuna”, come tutti lo chiamavano in Siria, si era recato al quartier generale dello Stato islamico del Levante e dell’Iraq, che da poco aveva fatto base in città, per chiedere la liberazione di alcuni amici cristiani. Da allora, di lui non si sa più nulla. Alcune testimonianze lo davano ancora vivo nel 2017, ma la loro attendibilità non è mai stata provata. A sette anni esatti da quella scomparsa, la famiglia e gli amici di padre Paolo tornano oggi a chiedere che non si smetta di cercare di far luce sulla sua sorte. Le indagini si sono arenate a lungo di fronte al muro imposto dalla dominazione delle milizie islamiche su Raqqa e dintorni, ma non hanno fatto passi avanti neanche quando lo Stato islamico è stato sconfitto e la sua “capitale” liberata, nel 2017: non è stato cercato né interrogato - a quel che risulta alla famiglia e agli amici - Adbul Rahman Faisal, capo delle corti islamiche dell’Isis al tempo della scomparsa. Né si è pensato di procedere all’analisi del Dna dei resti umani (5600 persone, secondo le stime) trovati in più di 20 fosse comuni di Raqqa: qui, se fosse stato ucciso subito dopo la scomparsa, come molti pensano, potrebbe trovarsi il corpo del sacerdote. Quel che è certo è che nella Siria piegata da 9 anni di rivoluzione prima e di guerra civile poi, il ricordo del sacerdote romano, 65 anni, 30 spesi nel Paese, dove fondò la comunità monastica di Mar Musa e praticò il dialogo concreto fra religioni e persone è ancora vivo. Ayouni, un documentario della regista siriana Yasmine Fedda, in uscita in questi giorni, accumuna Paolo Dall’Oglio a Bassel Kartabil, una delle menti della rivoluzione siriana, arrestato e ucciso nelle carceri del regime senza che la sua famiglia per anni sapesse nulla del suo destino. E agli altri 100 mila scomparsi nelle carceri siriane: la ricerca di risposte sul loro destino, anno dopo anno, giorno dopo giorno, va avanti. Brasile. Coronavirus, prorogata per 30 giorni sospensione visite in carcere agenzianova.com, 30 luglio 2020 Il Dipartimento penitenziario nazionale del Brasile (Depen) ha prorogato la sospensione delle visite sia da parte di familiari che di avvocati ai detenuti nelle carceri federali per altri 30 giorni. La disposizione prevede anche la sospensione di attività educative, di lavoro e di assistenza. La misura è stata adottata a partire dalla fine di marzo per prevenire la diffusione del nuovo coronavirus. Sono permesse solo visite da parte dei propri legali, in via eccezionale e solo in caso di esigenze urgenti o in caso di scadenze procedurali legate a richieste giudiziarie. Come nelle versioni precedenti l’ordinanza prevede anche l’adozione delle “misure necessarie per promuovere il massimo isolamento dei detenuti di età superiore ai 60 anni o con malattie croniche, durante i movimenti interni negli stabilimenti”. Il numero di contagi da nuovo coronavirus confermati all’interno del sistema carcerario brasiliano ha raggiunto quota 13.778 segnando un aumento del 99,3 per cento tra il 22 di giugno e il 22 di luglio. Lo ha reso noto il Consiglio nazionale di giustizia (Cnj), sottolineando che le vittime sono state 136. In particolare 5.113 casi sono relativi ai dipendenti del sistema carcerario, tra i quali si sono contati 65 morti, e 8.665 i casi tra i detenuti, tra i quali si sono contati 71 morti. L’indagine condotta dal Cnj tiene conto delle informazioni provenienti dai gruppi di monitoraggio e ispezione del sistema penitenziario, dai bollettini dei dipartimenti sanitari statali e dal Dipartimento penitenziario nazionale (Depen). Tra i prigionieri, il maggior numero di casi è stato registrato nel Distretto Federale (Df), dove 1.620 persone hanno contratto il virus, e tre sono morte, e in Pernambuco, con 1.033 casi e sei morti. Secondo il Cnj nei penitenziari del paese sono stati finora effettuati 18.607 test su prigionieri e 19.132 su dipendenti. Nel sistema socio-educativo che accoglie i detenuti minorenni, sono stati registrati 2.356 casi di covid-19 (aumento dell’80,2 per cento in 30 giorni) e 16 decessi. Sono almeno 88.539 i morti per patologie riconducibili al contagio da nuovo coronavirus in Brasile, 921 in più rispetto al numero di decessi registrati nelle precedenti 24 ore. Lo rivela il ministero della Salute, rendendo nodo che il numero complessivo di contagi, sommando i dati forniti dai dipartimenti della Salute dei 27 stati, è salito ad almeno 2.483.191 casi, 40.816 in più rispetto a quelli registrati 24 ore precedenti. Il tasso di mortalità (numero di persone morte sul totale della popolazione), in costante crescita nelle ultime due settimane è salita ulteriormente al 42,1 per cento, mentre il tasso di letalità (numero di deceduti per i quali era stata diagnosticata la covid) è del 3,6 per cento. Salito anche il tasso di incidenza che raggiunge i 1.181 casi per ogni 100.000 abitanti. Secondo il monitoraggio della Johns Hopkins University il Brasile ha un indice inferiore solo a quello del Cile (1.835 per 100.000 abitanti), Stati uniti (1.270 per 100.000 abitanti) e Perù (1.175 per 100.000 abitanti), tra i paesi con più di 10 milioni di abitanti. Secondo quanto reso noto dal Consiglio nazionale dei dipartimenti della Salute degli stati brasiliani (Conass) nella settimana compresa tra 19 e il 25 luglio è stato registrato il più alto numero di nuovi contagi (319.389) e decessi (7.714). Inoltre, sin dalla metà giugno il Brasile registra oltre 200 mila casi e oltre 7 mila decessi a settimana, il che indica che la curva epidemiologica non è ancora entrata nella fase discendente. Turchia. Passa la legge anti social media. Amnesty: “È censura” di Marco Ansaldo La Repubblica, 30 luglio 2020 Ok del parlamento alle norme che garantiranno il controllo su Facebook, Twitter e Youtube. Il pugno di Erdogan si abbatte sui social. Già giornali e televisioni, sia locali che esteri, negli ultimi anni sono passati abbondantemente sotto le maglie strette imposte da Ankara. Adesso è la volta delle varie piattaforme online. Da sempre il presidente turco non ama i social, e ora tocca a loro fare i conti con le nuove norme appena approvate. Che poi si tratti di giganti come Facebook, Twitter, YouTube e Instagram, poco importa alla Turchia di oggi, molto attenta nel veicolare informazioni e messaggi che non si discostino dalla narrativa ufficiale. Il Parlamento turco, su proposta del partito conservatore di origine religiosa fondato da Recep Tayyip Erdogan, e dal suo alleato, i nazionalisti che derivano dal movimento dei Lupi grigi, ha fatto passare una legge che permetterà al governo di esercitare un maggiore controllo su social, obbligandoli a rispettare condizioni piuttosto rigide. In caso contrario saranno costretti a pagare multe salatissime e ad affrontare riduzioni della larghezza della banda. Privati della pubblicità, e costretti dunque alla scomparsa in Turchia. La nuova legge prevede esattamente questo: le piattaforme che nel Paese registrano più di un milione di utenti giornalieri dovranno nominare un loro rappresentante legale. La mancata nomina di un rappresentante, che deve essere un cittadino turco, comporta sanzioni e la riduzione progressiva della larghezza di banda della piattaforma, rendendola inaccessibile. I social media, inoltre, dovranno archiviare i dati dei loro utenti, rendendo più facile l’accesso della magistratura in caso di necessità. Opposizione e attivisti sono subito insorti, parlando di legge “draconiana” e di “censura” che le autorità adesso estenderebbero, dopo i giornali, le radio e le tv, anche al web. E hanno invitato i media a respingerla. Ma la legge è stata studiata nei minimi dettagli dai consiglieri del presidente. E assegna all’esecutivo un potere enorme di controllo e di regolamentazione dei social media. I dirigenti di Giustizia e sviluppo, la compagine conservatrice al vertice, la definiscono una mossa per arginare l’odio nella rete, i crimini cibernetici, e i troll che si scagliano contro determinati obiettivi. Ma d’ora in avanti, oltre ad aprire uffici in Turchia e procedere alla nomina obbligata di un rappresentante locale - e quindi soggetti anche al pagamento di tasse non indifferenti - le varie piattaforme sociali saranno chiamate a rispondere per la rimozione di commenti “offensivi, minacciosi, discriminatori”, segnalati dalle autorità centrali. Google, Facebook, Twitter e Instagram, quest’ultimo popolarissimo in Turchia dove l’alto sviluppo tecnologico è favorito da una massa di utenti giovani molto abili ed esperti nel settore, saranno costretti ad avere una banca dati sugli utenti registrati. Tutto questo favorirà ovviamente i controlli sulle persone che utilizzano le diverse piattaforme. Il braccio di ferro non parte da oggi. Sono alcuni anni che il capo dello Stato turco chiede al Parlamento un intervento per regolamentare i social media. Così alla Grande assemblea nazionale il disegno di legge, giudicato come controverso dall’opposizione repubblicana e dal partito democratico filo curdo, aveva fatto una prima comparsa già ad aprile. Poi, sulla base delle proteste, e anche per non inimicarsi la classe elettorale giovanile, era stato ritirato. Un episodio però lo ha fatto imporre di nuovo: quando, poche settimane fa, la nascita del nipote di Erdogan, figlio della sua primogenita e del ministro dell’Economia, Berat Albayrak (cognato dunque del presidente), ha scatenato in rete una serie di ingiurie e di commenti molto poco edificanti. Erdogan, furibondo, a quel punto è sceso in campo personalmente, spendendosi per fare approvare le nuove norme. Il Parlamento ha approvato il disegno di legge nella notte. Le prime reazioni a livello internazionale sono molto negative. “I social media hanno un’importanza centrale per tante persone che li usano per informarsi - dichiara l’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti Human Rights Watch. Questa legge dà il via a un periodo di censura sul web”. E Amnesty International, per bocca del suo rappresentante Andrew Gardner, afferma: “È una chiara violazione del diritto alla libertà di espressione online. La legge rafforzerà le capacità del governo di censurare i contenuti digitali e perseguire gli utenti di Internet. Molti utenti turchi si stanno già autocensurando per paura di irritare le autorità”. Quella di Ankara contro i social è l’inizio di una battaglia appena cominciata, dove ci saranno diversi sviluppi. Colombia. Criminalità battuta con il “modello Medellín” di Danilo Taino Corriere della Sera, 30 luglio 2020 L’ex sindaco, 46 anni, nato egli stesso nella “Città dell’eterna primavera”, sostiene che in meno di tre decenni Medellín è diventata “un benchmark per il mondo”, tra l’altro uno dei centri per la Quarta Rivoluzione Industriale in America Latina, inserita in un programma del World Economic Forum. Qualche numero - e un esempio - che può essere utile ai sindaci alle prese con la criminalità. Per dire che anche nelle situazioni più drammatiche si può batterla. È il caso di Medellín, casa di Pablo Escobar e del cartello di narcotrafficanti che dalla città colombiana prese il nome. In un incontro con Marjorie Henríquez per il Fondo monetario internazionale, l’ex sindaco Federico Gutíerrez (in carica dal gennaio 2016 al gennaio 2020) ha tracciato i cardini di un risultato straordinario: la riduzione del tasso di omicidi, elevatissimo negli Anni Ottanta e Novanta quando il cartello dominava gli affari e la vita della città. Nel 1991, il tasso di omicidi fu di 381 per centomila abitanti. Oggi, il tasso è attorno a venti. È insufficiente, dice Gutíerrez: l’obiettivo deve essere zero. Ma si tratta comunque di un crollo del 95%. L’ex sindaco, 46 anni, nato egli stesso nella “Città dell’eterna primavera”, sostiene che in meno di tre decenni Medellín è diventata “un benchmark per il mondo”, tra l’altro uno dei centri per la Quarta Rivoluzione Industriale in America Latina, inserita in un programma del World Economic Forum. Gutíerrez spiega che il cambiamento è avvenuto grazie alla partnership tra poteri pubblici e società, in modo pragmatico puntando su istruzione, sicurezza e sostenibilità. Per quel che riguarda la sicurezza, oltre all’uso della polizia si è trattato di riempire i vuoti sociali in cui prevalevano criminali e fuorilegge. Per la sostenibilità, l’obiettivo è stato quello di rendere la città piacevole da vivere, non nel degrado: 65 nuovi bus elettrici; l’introduzione dei Metrocables, un sistema di teleferiche complementare alla metropolitana; 80 chilometri di piste ciclabili; nuovi tram e un progetto pilota di taxi al 100% elettrici. La parte forse più entusiasmante è quella dell’istruzione: ottomila bambini che non frequentavano la scuola sono stati recuperati alle aule e la città ha creato 43 mila borse di studio per l’istruzione superiore. In una metropoli di quasi due milioni e mezzo di abitanti, moltissimo resta da fare. Ma la svolta di Medellín è un caso di valore globale. Decisive sono state la rocambolesca lotta al cartello del narcotraffico e la sconfitta di Escobar. Ma che anni di narcoterrorismo potessero essere relegati alla storia non era scontato. Un modello e una speranza, anche per l’Italia.