“Lo sanno tutti: il carcere ha fallito” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 2 luglio 2020 Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino: “Chi entra poco delinquente diventa molto delinquente. Le politiche di reinserimento sociale sono all’anno zero”. Se è vero che il carcere è il luogo dell’indifferenza sociale, a Roma occupa uno spazio ancora più ingombrante. Convertito all’uso attuale alla fine del diciannovesimo secolo, il complesso architettonico di Regina Coeli si trova proprio nel cuore della capitale, dove un tempo la facciata di un convento rifletteva la potenza delle grandi famiglie romane. Oggi al segno della storia si sostituisce il disagio sociale: la Casa circondariale di Regina Coeli è un “manicomio, un vero e proprio porto di mare”, ci spiega Rita Bernardini, militante Radicale e presidente di “Nessuno Tocchi Caino”. Quello che conosciamo attraverso i suoi occhi è prima di tutto un carcere sovraffollato, senza spazi di socialità e zone di passeggio strettissime. Manca anche un’area verde, dove i detenuti possano incontrare i figli o giocare una partita a calcio. Con l’allentarsi dell’emergenza sanitaria è tornato ad aumentare il numero dei reati, con l’ingresso di altri 200 detenuti nella struttura: pur avendo una capienza di 600 persone, ne contiene ad oggi 900. “La sezione peggiore - spiega Bernardini - è la settima: quella dei nuovi giunti. Ci sono celle piccolissime, con due o tre con letti a castello, dove i nuovi arrivati restano chiusi anche per 23 ore al giorno, con una sola ora d’aria che si riduce a 40 minuti per gli spostamenti. In quel luogo terribile i detenuti restano anche per un anno: proprio nella fase iniziale della detenzione, quella in cui la disperazione porta più spesso al suicidio”. Altre sezioni del palazzo mantengono le vecchie reti che permettono di guardare nei piani superiori: è lì che all’arrivo di Marco Pannella “veniva giù il carcere”, racconta ancora Bernardini. “Vero e proprio idolo dei detenuti”, quando Pannella metteva piede a Regina Coeli bastava uno sguardo per recuperare l’umanità e l’intensità delle relazioni affettive sottratte così spesso ai detenuti. Il suo ricordo indelebile lo ritroviamo anche nelle parole di Marco Costantini, scrittore ed ex detenuto, ristretto per 16 anni a Rebibbia dall’età di 42 anni. Dopo aver avuto accesso alle misure alternative, da tre anni e mezzo sconta la sua pena fuori coniugando l’attività di scrittore all’impegno con il Partito Radicale. Lo incontriamo alla birreria “Vale la pena”, il primo locale romano ad aver sposato il progetto di “Economia carceraria”, una piattaforma nata dall’impegno comune di alcune cooperative che hanno scelto di investire in attività produttive per i detenuti. Proprio il lavoro, infatti, rappresenta per chi è recluso l’unica speranza di un futuro migliore. “Il carcere mi ha tolto solo la libertà fisica, ma con la testa sono sempre stato altrove”, racconta Costantini, che si prepara a dare alle stampe il suo ultimo lavoro. Quando era ristretto a Rebibbia è stato responsabile per cinque anni del call center Bambin Gesù, trasferito da un istituto all’altro non ha mai smesso di lavorare e tenersi impegnato: “per finire il mio primo libro ci ho messo 6 anni: scrivevo tutto a mano, poi ricopiavo al computer e caricavo su un dischetto che passava alla verifica. Una volta ottenuta l’autorizzazione potevo inviare il manoscritto alla casa editrice”. Dei suoi giorni dentro Costantini ricorda il tempo che scorreva lento e “due rumori che resteranno per sempre nella mia testa: la chiusura delle sbarre, con la chiave che girava a tutte le ore, e l’apertura dello spioncino di notte con la lampadina. Scrivere e studiare mi teneva in vita”. “Tutti sanno che il carcere è fallimentare. Chi entra poco delinquente diventa molto delinquente”, riprende Bernardini sul tema del trattamento in carcere. “Bisogna rafforzare l’intero settore del reinserimento sociale prosegue la presidente di “Nessuno Tocchi Caino” - su questo siamo all’anno zero. Nell’ordinamento penitenziario è previsto tutto, ma nella realtà non succede niente. L’ufficio per l’esecuzione penale esterna, ad esempio, che si occupa del detenuto quando accede alle misure alternative e deve accompagnarlo al reinserimento nella comunità ha talmente poco personale che a malapena riesce a seguire qualche caso. Abbiamo poco più di mille assistenti sociali in tutta Italia. Gli educatori sono pochissimi anche se sono fondamentali, perché attraverso le relazioni che costruiscono, danno modo di accedere alle pene alternative”. “La nostra Costituzione - conclude Bernardini - dice che le pene non possono essere contrarie al senso di umanità. Ma bisogna anche ricordare che il carcere non è l’unica pena: dovrebbe essere l’estremo rimedio”. Il carcere? Meglio abolirlo di Valter Vecellio lindro.it, 2 luglio 2020 Se il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ascoltasse Colombo, Cottarelli, Frattola. Un ministro della Giustizia, sia pure oberato dal tanto lavoro che il suo dicastero comporta, non foss’altro mosso da curiosità, dovrebbe trovarlo il tempo per conversare qualche ora con l’ex Magistrato Gherardo Colombo. Colombo alle spalle dispone di un curriculum di tutto rispetto, si è tra l’altro occupato di inchieste che hanno fatto ‘notizia’: la scoperta della Loggia P2 di Licio Gelli; il delitto di Giorgio Ambrosoli, l’inchiesta milanese di Mani Pulite, i processi IMI-SIR/Lodo Mondadori/SME… Invitarlo a pranzo o a cena per discutere di queste vicende. Certo che no. Piuttosto cercare di capire come, partito da quelle sponde, sia arrivato a questo approdo: “Secondo me per mettere una persona in prigione devi aver provato cosa è la prigione. Ma dovresti averla provata per davvero, non averla vista da turista, da operatore che arriva, interroga e se ne va”. Colombo potrebbe dire al Ministro della Giustizia: “Il carcere per me era uno strumento. Credevo, come si impara all’università, che fosse uno strumento di prevenzione speciale e di prevenzione generale, che servisse a evitare che una persona commettesse un reato per la paura della minaccia della pena. Per quanto non lo vedessi comunque bene, pensavo che fosse uno strumento necessario per educare le persone a rispettare le regole”. Trentatré anni di magistratura hanno cambiato la visuale di Colombo: “Sempre più ho interiorizzato la differenza tra l’articolo 27, che richiede che le pene non siano in contrasto con il senso di umanità, oltre a dover tendere alla rieducazione del condannato, e la situazione effettiva del carcere. Ormai sono convintissimo che la pena non serva a dissuadere dal commettere reati. Peraltro, l’inflizione di un castigo, se qualcosa fa, induce all’obbedienza; e una democrazia non ha bisogno di obbedienza, ma ha bisogno di capacità di gestire la propria libertà”. Per quel che riguarda il carcere, Colombo potrebbe dire al ministro che “generalmente è un luogo in cui le persone restano a scontare la pena, con degli interventi talmente minimali in senso rieducativo da essere molto spesso paragonabili al nulla”. Questo perché “manca un complesso di cose: più o meno dappertutto manca lo spazio vitale; manca il diritto all’igiene; è molto compromesso il diritto alla cura della salute; il diritto all’istruzione; il diritto all’informazione; il diritto, perché anche quello è un diritto, all’affettività. Dovremmo riflettere in modo approfondito sul senso di quell’espressione che si trova nell’articolo 27, ovvero che non si può essere contrari al ‘senso di umanità’”. Da ex magistrato e comunque da uomo di legge e diritto, Colombo direbbe al Ministro un qualcosa che somiglia tanto alla raccomandazione che cinquant’anni fa, sul filo della celia (ma non tanto) espresse Leonardo Sciascia: “Per mettere una persona in carcere devi aver provato cosa è il carcere. Ma dovresti averlo provato per davvero, non averlo visto da turista, da operatore che arriva interroga e se ne va. Una settimana dentro sarebbe necessario starci per capire che cos’è il carcere. È necessario capire che cos’è veramente il carcere. Oggi la stragrande maggioranza delle persone che sono in carcere non è pericolosa. Abbiamo una popolazione credo di circa 56 o 57mila detenuti, dopo che sono scesi un po’ con l’emergenza Covid, e di questi credo che ci saranno al massimo 20mila persone pericolose, volendo esagerare. Capirete che passare da 57mila a 20mila e occuparsi degli altri attraverso misure alternativa come l’affidamento in prova ai servizi sociali, vorrebbe dire anche rendere la vita di chi è detenuto più coerente con il principio costituzionale”. Infine, pensando alla personale esperienza maturata in 28 anni di magistratura, Colombo direbbe: “Ho fatto il giudice o il pubblico ministero investigativi, era usuale per me frequentare, per interrogarle, delle persone che erano detenute. Non ho visto solo le carceri italiane, lavorando a uno dei tavoli degli Stati Generali mi è capitato di visitare le carceri norvegesi e poi quelle boliviane, esperienze radicalmente diverse: in Norvegia sembra davvero un albergo a cinque stelle, mentre in Bolivia è un paese circondato da mura. Di esperienze ne ho avute molte e sono tutte esperienze che confermano la mia convinzione ormai sicura che, così com’è qui da noi, il carcere dovrebbe essere abolito”. Un ministro della Giustizia, sia pure oberato dal tanto lavoro che il suo dicastero comporta, non foss’altro per curiosità, dovrebbe trovare il tempo di ascoltare l’economista Carlo Cottarelli: dopo una carriera trentennale al Fondo Monetario Internazionale, Cottarelli ora dirige l’Osservatorio sui conti pubblici italiani; ne ricaverebbe utilissimi suggerimenti sulle ‘riforme a costo zero’: “Riduzione dei tempi della giustizia e semplificazione burocratica: sono le riforme più importanti per rilanciare l’economia italiana. Ci sono troppi moduli da compilare, troppi adempimenti da espletare. Pensi alla mole di documenti che le aziende devono presentare per ottenere i prestiti garantiti dallo stato: è un’impresa che abbrutisce. Dobbiamo procedere più svelti, con procedure semplificate e controlli successivi rigidissimi; solo così possiamo creare un ambiente favorevole agli investimenti privati”. Cottarelli avrebbe modo di spiegare che con Next Generation EU, il piano di rilancio proposto dalla Commissione europea, l’Italia potrebbe aggiudicarsi risorse enormi, a patto di saperle impiegare: “È la prima volta che l’Europa mette a disposizione importi tanto elevati, e lo fa chiedendo, in cambio, non austerità ma capacità di spesa, investimenti pubblici per infrastrutture, digitalizzazione, capitale umano, riforma dei pubblici uffici e della giustizia. Dobbiamo presentare al più presto progetti dettagliati e credibili. Se i ministeri sono sprovvisti delle competenze necessarie, le cerchino altrove. O rimpiazzino i ministri. Non possiamo perdere tempo. Stando alla proposta di regolamento della “Recovery and resilience facility, il grosso delle risorse europee affluirebbe nel 2023-2024 mentre l’anno prossimo gli esborsi previsti varrebbero il 5,9 percento del pacchetto da seicento miliardi. “La differenza la farà la rapidità d’azione del governo. Dobbiamo agire entro settembre al massimo”. Il ministro potrebbe chiedere a Cottarelli: come va riformata la giustizia? “Molti giudici non accettano l’idea che un tribunale sia un’organizzazione complessa che produce un servizio, e che tale servizio vada fornito in modo tempestivo. Occorre sviluppare migliori capacità di gestione e organizzazione all’interno degli uffici giudiziari, il che richiede non solo addestramento adeguato ma anche il riconoscimento di una larga autonomia al dirigente. Si potrebbero introdurre corsi obbligatori di management per chi aspira a incarichi direttivi. Sarebbe opportuno, inoltre, ridurre drasticamente il numero di magistrati fuori ruolo per incarichi amministrativi e limitare la possibilità di attività extragiudiziarie. I togati lavorino nei palazzi di giustizia, non nei ministeri”. Un ministro della Giustizia, sia pure oberato dal tanto lavoro che il suo dicastero comporta, non foss’altro per curiosità, dovrebbe trovare il tempo di sfogliare un accurato studio realizzato da Edoardo Frattola per l’Osservatorio sui conti pubblici italiani’ dell’università Cattolica. Se ne ricava che non è vero che la giustizia in Italia è lenta perché lo stato spende troppo poco per il settore. In realtà, i dati dimostrano che l’Italia non spende meno risorse per la giustizia rispetto alla media europea. Lo studio smentisce una delle convinzioni più radicate tra i difensori del “partito delle toghe”: che la causa della lentezza della giustizia italiana (civile e penale) vada rintracciata nel basso livello di spesa da parte dello stato, che costringe gli uffici giudiziari a soffrire di una carenza di personale e di risorse. I numeri dimostrano il contrario. I dati Eurostat sulla spesa per Law Courts, cioè per il funzionamento dei tribunali, indicano che nel 2018 l’Italia ha speso per i propri tribunali lo 0,33 per cento del Pil (5,8 miliardi di euro), in linea con la media Ue. Anche la Spagna ha speso lo stesso ammontare in rapporto al Pil (0,34 per cento), la Francia leggermente meno (0,24 per cento) e la Germania poco di più (0,39 per cento). Alla stessa conclusione si arriva analizzando i dati del Cepej, l’organismo del Consiglio d’Europa che si occupa di monitorare l’efficienza della giustizia: in termini di spesa pro capite (133 euro) siamo in linea con gli altri paesi. Più che spendere poco, si spende male. L’Italia si colloca al 24esimo posto in classifica in Europa per il numero di giudici e Pubblici Ministeri ogni 100mila abitanti: solo 15 unità, meno della metà rispetto alla media Ue (31). Soltanto Malta, Francia, Regno Unito e Irlanda ne hanno meno di noi. Le cose non cambiano se si considera la consistenza dello staff amministrativo (cioè il personale che supporta l’attività di giudici e pm): siamo al 23esimo posto con sole 49 unità ogni 100mila abitanti, contro una media Ue pari a 79. Com’è possibile allora che l’Italia spenda tanto quanto la media europea, pur impiegando un personale molto più ridotto? Lo studio dell’Osservatorio conclude che la ragione va rintracciata nelle buste paga dei magistrati, in particolare quelli in servizio presso le Alte Corti. Tra i giudici il problema non è costituito tanto dalla retribuzione delle toghe a inizio carriera, che comunque è in media quasi il doppio del salario lordo medio nazionale (sotto la media Ue, ma superiore a quella dei colleghi di Francia e Germania), quanto dallo stipendio dei giudici della Corte di Cassazione, che fa salire il nostro Paese al terzo posto in classifica in Europa, con un valore decisamente più alto della media: “Tenendo conto del salario medio nazionale, per esempio, in Italia la retribuzione di un giudice della corte suprema è del 90 per cento più elevata che in Francia ed è quasi quattro volte più alta della retribuzione in Germania”. Quello che emerge dai dati è che l’Italia non spende meno risorse per la giustizia rispetto alla media europea, ma ciò nonostante il personale a disposizione è decisamente inferiore alla media: “Questo”, conclude Frattola nel suo studio, “sembra dipendere dal fatto che in Italia i giudici e i pubblici ministeri, pur essendo relativamente pochi, guadagnano di più che all’estero in rapporto al salario medio nazionale”. Insomma: tra Colombo, Cottarelli, Frattola, il ministro della Giustizia di cose su cui riflettere e operare, ne ricaverebbe. Se solo trovasse il tempo per ascoltarli. Percorsi di messa alla prova di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2020 Quando avremo e quando avrete il coraggio, l’energia e la creatività per scommettere davvero sulla giustizia di comunità? Chiudo la nostra stanza su zoom e le emozioni come sempre anticipano il pensiero. Le accolgo tutte con gioia e stupore. Come potrei essere quieta e distaccata dopo aver sentito quel ragazzaccio di A. - che ci ha fatto tanto faticare con il suo scetticismo, la sua irritazione, il suo ostinato rifiuto delle regole - dire con voce appena un po’ commossa, giusto per non perdere la faccia: “Siamo belle persone, meritiamo un futuro buono. Meritiamo di essere felici”. Hanno sorriso tutti; le ragazze volontarie, il professore, la giovane imprenditrice, lo studente e il ragazzo del Maghreb che non ha ancora deciso bene chi è e dove deve stare. Il quarantenne sciupato da una vita non proprio impeccabile. E poi tutti gli altri. Questo strano progetto di “messa alla prova” che impegna le persone imputate in un lavoro di crescita personale e di gruppo attraverso la scrittura di sé e il confronto rispettoso e leale, ci impegna in uno sforzo a volte davvero molto faticoso, ci insegna ad affrontare anche i rischi che le relazioni non superficiali portano con sé. E poi, quando hai l’impressione di non farcela, ti apre orizzonti che non osavi nemmeno immaginare. È un volontariato nascosto che non conosce la retorica a volte persino un po’ stucchevole del carcere, delle sbarre, delle chiavi ecc.ecc. Non dà visibilità e non suscita né fantasie né curiosità. Eppure ci sta insegnando tanto sul genere umano e sulle sue possibilità di crescere, di superare i limiti, di camminare gli uni a fianco degli altri. Con fatica e cadute e sconfitte ma anche risalite e scoperte. Così dovrebbero essere i percorsi di messa alla prova; una palestra per allenare e stimolare il cambiamento, per aprire nuovi orizzonti. Un lavoro di “rieducazione” condiviso, una proposta pedagogica forte e coraggiosa. Così dovrebbero essere le misure di comunità, cioè tutte quelle pene di cui troppi si riempiono la bocca senza, però, scommettere nulla. E allora io sento questa indignazione (così come la intende Piero Colaprico non come una lamentela ma una sorta di passione civile, se ben ricordo) che sale forte e che mi fa scrivere ora - subito dopo aver salutato il gruppo per non perdere nessuna delle emozioni che ho vissuto - che sono stanca di sentire magnificare le alternative alla pena detentiva senza vedere mai una scommessa seria e coerente da parte delle istituzioni. Un progetto chiaro. Scrivo perché non posso farne a meno perché qualcuno sarà pur responsabile per non aver osato abbastanza, investito abbastanza, creduto abbastanza. C’è un lavoro enorme da fare, c’è la possibilità di impedire che certe storie difficili diventino irreparabili, c’è lo spazio per lavorare insieme ai tanti ragazzi che sono cresciuti così, come l’erba nei campi, senza regole con tante e tantissime paure mai confessate. Il nostro Paese deve avere la forza per occuparsene. La politica deve avere il coraggio per progettare a lungo termine. Le istituzioni devono avere la generosità e la competenza per lavorarci. Servono più educatori, più assistenti sociali, più psicologi. Più don Milani e meno comparsate televisive. Serve una classe dirigente con qualche idea. Altrimenti, per favore, state zitti. E non fate finta di non volere il carcere. Siate coerenti e onesti. Per una volta, almeno. *Giornalista esperta in scrittura autobiografica Errori giudiziari in aumento: mille casi nel 2019, 105 in più dell’anno precedente di Simona Musco Il Dubbio, 2 luglio 2020 Lo Stato ha liquidato quasi 45 milioni per gli errori certificati lo scorso anno. Rispetto all’anno precedente in aumento anche la spesa (+33%). Mille casi di ingiusta detenzione nel 2019: è quanto rilevato da “Errorigiudiziari.com”, che come ogni anno ha analizzato i dati in possesso del ministero dell’Economia e delle Finanze, incaricato dei risarcimenti, stilando una classifica dei casi distretto per distretto. Gli ultimi numeri disponibili raccontano di un incremento dei casi accertati (105 in più rispetto al 2018), con un aumento del 33 per cento della spesa, per un totale di risarcimenti pari a 44.894.510,30 euro. La città con più casi accertati è Napoli, che conta 129 ingiuste detenzioni, seguita da Reggio Calabria (120), Roma (105), Catanzaro (83), Bari (78), Catania (57), Messina (45), Milano e Venezia (42), Palermo (39). Sul piano dei risarcimenti, a guidare la classifica, con la spesa più alta, è Reggio Calabria, dove lo Stato ha dovuto sborsare poco meno di 10 milioni di euro (9.836.865), seguita a gran distanza da Roma (4.897.010 euro, circa la metà), Catanzaro (4.458.727 euro) e poi Catania, Palermo e Napoli (poco più di tre milioni a testa), Bari, con due milioni e mezzo circa, Lecce e Messina (poco meno di due milioni) e infine Venezia, con un milione e 300mila euro. Dal 1991 ad oggi oltre 28mila casi - Il dossier affonda le proprie radici nel 1991, primo anno di cui sono reperibili dati conservati negli archivi del ministero. Da allora e fino al 31 dicembre 2019 i casi totali di ingiusta detenzione sono stati 28.893, ovvero poco più di 996 l’anno, per un totale di 823.691.326,45 euro spesi dallo Stato, una media di circa 28 milioni e 400 mila euro l’anno. Una cifra altissima, che comprende anche i casi più eclatanti di errori, ovvero quelli che hanno visto innocenti scontare pene per reati mai compiuti prima di essere riconosciuti come tali. Ci sono, ovvero, casi come quello di Giuseppe Gullotta, condannato ingiustamente per la strage di Alcamo, che ha passato ingiustamente 22 anni in carcere, o Angelo Massaro, anche lui recluso per un ventennio per un omicidio mai commesso. Sono questi i casi per cui lo Stato si è ritrovato a liquidare le cifre più importanti: si tratta, dal 1991 a dicembre 2019, di 191 persone, più di sei ogni anno. Errori che sono costati allo Stato 65.878.424,57 euro (2 milioni 271 mila euro circa l’anno). I casi di “ingiusta” custodia cautelare - Ma il dato più grosso riguarda quello relativo alle persone risarcite per aver trascorso un periodo di custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari per un’accusa che li ha visti uscire assolti. Dal 1992 al 31 dicembre 2019 si contano 28.702 casi (quindi la maggior parte degli errori monitorati dal ministero), con una media di 1025 innocenti in custodia cautelare ogni anno e indennizzi oltre i 757 milioni di euro, ovvero poco più di 27 milioni di euro l’anno. Nel solo 2019, gli errori giudiziari sono stati in tutto 20, due in più rispetto al 2018, “a conferma di una tendenza in continuo aumento negli ultimi quattro anni”, appuntano Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di Errorigiudiziari.com. E negli ultimi dieci anni, la somma annuale ha superato i 15 casi l’anno, limite considerato la “soglia psicologica”. “L’unica parziale buona notizia, se non altro per le casse dello Stato, riguarda la spesa in risarcimenti - concludono Lattanzi e Maimone: nel 2019 è stata di 3.798.586,90 euro, quasi quattro volte in meno di quanto versato alle vittime nel 2018. Ma va detto che i criteri di elaborazione dei risarcimenti sono molto più discrezionali e variabili rispetto a quelli fissati invece dalla legge per l’ingiusta detenzione”. Sport nelle carceri: nasce la Rete nazionale Uisp varesenews.it, 2 luglio 2020 Il progetto punta a rafforzare e avvalorare lo sforzo fatto in questi anni da Uisp su queste tematiche sia a livello nazionale sia europeo. Si è svolto martedì 16 giugno il primo incontro della Rete nazionale Uisp per le carceri, nata con l’obiettivo di creare un gruppo di lavoro aperto a dirigenti, operatori e operatrici che, a vario titolo, si occupano di promuovere attività motoria e sportiva negli istituti di pena. “L’iniziativa nasce dal desiderio di avviare un confronto periodico e permanente per discutere e riflettere insieme su come affrontare al meglio le varie problematiche che ogni giorno affrontiamo nelle complesse realtà penitenziarie - commenta Stefano Pucci, responsabile nazionale delle politiche Uisp per la Salute e l’inclusione - con la convinzione che lo scambio e la condivisione delle esperienze possa rappresentare una risorsa per trovare soluzioni concrete. E poi può diventare un’opportunità per migliorare la comunicazione interna all’associazione e potenziare quella verso l’esterno, rafforzando e valorizzando il prezioso lavoro che da anni Uisp svolge in questo ambito. La convinta partecipazione e l’apprezzamento degli intervenuti ci conferma che questa è la strada giusta, nell’ottica della costruzione della rete associativa nazionale Uisp quale associazione di promozione sociale”. Molti i temi emersi, che saranno approfonditi nei prossimi incontri della rete che si riunirà nuovamente entro la prima metà di luglio. Diverse anche le problematicità, tra le quali la difficoltà nel reperimento dei fondi: un tema complesso, che merita un percorso formativo specifico e, parallelamente, si evidenzia il ruolo centrale che assume il personale penitenziario. Nell’incontro è stato inoltre presentato il progetto triennale europeo Sppf-Sport in Prigione un Piano per il Futuro, appena avviato, che vede l’Uisp assumere un ruolo centrale tra i partner che vi hanno aderito proprio per la sua trentennale esperienza diffusa su tutto il territorio nazionale. Il progetto prevede una mappatura a livello europeo delle iniziative e delle attività volte a facilitare il reinserimento sociale di ex detenute e detenuti. A breve sarà disponibile anche un “contenitore” on-line per lo scambio di materiali (anche di archivio), manuali, articoli, foto e video, affinché chi lavora nell’Uisp su questi temi possa condividere informazioni e disporre di buone pratiche realizzate dalla nostra associazione sul territorio, utili a fornire spunti, modalità di lavoro e documentazioni utili ad avviare o sviluppare nuove progettualità. È disponibile l’indirizzo mail retenazionalecarceri@uisp.it, alla quale i componenti della Rete Uisp possono fare riferimento. Il Covid non ha fermato la Consulta, la presidente Cartabia: “Dovevamo garantire il diritto” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 2 luglio 2020 La Corte Costituzionale non ha bloccato la sua attività nemmeno durante la chiusura forzata, creando anche un podcast che racconta il “dietro le quinte”. Continuità, pienezza del contraddittorio e ragionevole durata del processo. Il lockdown imposto dall’epidemia di coronavirus non ha fermato il lavoro della Corte Costituzionale, come ha sottolineato la presidente Marta Cartabia, intervenuta ad Agora Estate, ricordando i tre principi della giustizia costituzionale garantiti anche durante il periodo di chiusura. Anzi, i mesi di quarantena hanno forse permesso di “gettare un ponte per rafforzare illegame con i cittadini”, secondo le parole della stessa presidente. Che nel corso del suo pur breve mandato alla guida della Consulta - iniziato l’11 dicembre 2019 e che avrà termine il 13 settembre 2020 per scadenza del novennato come giudice costituzionale - ha saputo innovare la Corte sia dal punto di vista procedimentale sia tecnologico, avvicinandola al comune sentire dei cittadini. Una Corte che già dai viaggi nelle scuole e nelle carceri - da quest’ultimo è stato tratto il docu-film “Viaggio in Italia: la Corte Costituzionale nelle carceri” - si era dimostrata attenta alle tematiche sociali che investono la comunità, fino a spiegarle attraverso un podcast nato in pieno lockdown. “Abbiamo iniziato a parlare dell’iniziativa già dallo scorso autunno - ha detto Cartabia - I podcast sono uno strumento di grandissimo sviluppo educativo soprattutto per i giovani, che apprendono molto durante l’ascolto”. E così, sin dalla puntata La Costituzione e la Repubblica, registrata dalla stessa presidente e pubblicata lo scorso 2 giugno, i cittadini possono ascoltare le voci dei giudici che spiegano, ad esempio, il rapporto tra la Corte e il carcere, l’economia, gli stranieri. Tra le novità di cui ha parlato la presidente Cartabia anche i processi “con una maggiore partecipazione della società civile e di esperti, per rafforzare il legame di fiducia tra cittadini e istituzioni”. E ne ha parlato sempre al plurale perché, ha spiegato, “la Corte è un collegio ampio, ed esserne alla guida vuol dire valorizzare tutti i contributi”. Avvicinandosi il momento dell’addio alla Consulta (il mandato di giudice costituzionale non è rinnovabile), la presidente ha risposto alla domanda su cosa farà dopo il 13 settembre, spiegando che tornerà agli studi accademici e all’insegnamento universitario. “Credo che il lavoro educativo di formazione delle nuove generazioni sia un contributo che si dà non soltanto per lo svolgimento di un’attività professionale - ha concluso - ma anche per la crescita del Paese”. Quelle toghe prigioniere di piccoli favoritismi e debolezze troppo umane di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 2 luglio 2020 La contraddizione con la necessaria immagine di austerità. Piccole miserie, inserti di commedia all’italiana dentro la tragedia di una democrazia che si sospetta essere stata alterata da un intervento poco ortodosso della magistratura. Sarà perché in Italia le cose più gravi contengono sempre un elemento che rischia di farle precipitare nel grottesco, oppure perché spesso da noi, come diceva Ennio Flaiano, “la situazione politica è grave, ma non è seria”, eppure anche in questo ennesimo capitolo della guerra tra magistratura e politica, nella confessione di un magistrato che dice di aver partecipato in Cassazione a un “plotone d’esecuzione” per condannare e far fuori politicamente Silvio Berlusconi, si annidano particolari che dalla tragedia stingono nella commedia. Lo scenario è fosco, se confermato anche solo in parte il meccanismo perverso raccontato dal giudice: una manovra orchestrata per stroncare il leader di un partito e di uno schieramento, la magistratura politicizzata come ariete per annichilire per via giudiziaria un avversario politico, la Cassazione che in fretta e furia emette il suo verdetto di condanna per costringere un ex presidente del Consiglio a scontare una pena ingiusta e ritirarsi dalla scena politica, e comunque ad essere estromesso da senatore. Uno scenario gravissimo, appunto, e le opposte tifoserie, prima di affrontarsi con le solite grida e le solite scomuniche, dovrebbero prima accertare quali siano veramente i fatti, perché una nuvola troppo densa grava sulla politica italiana sospettata, grazie all’appoggio fattivo di una parte della magistratura, di aver cancellato il leader da battere con mezzi sleali e non democratici. Tempi di nubi e sospetti - Per la magistratura sono tempi di nubi e di sospetti. Ma tra registrazioni, intercettazioni, trojan e denunce, il caso del processo a Berlusconi come ultima propaggine mediaticamente rilevante e il caso Palamara esploso da un anno a questa parte sembra sempre che un elemento grottesco contribuisca a dare un’immagine di una magistratura prigioniera di miserie, piccoli favoritismi umani troppo umani, e comunque in contraddizione con l’immagine di austerità e di gelosa autosufficienza che il potere giudiziario dovrebbe offrire di sé in uno Stato di diritto. Emerge per esempio dai resoconti dei giornali che hanno trattato questa vicenda un particolare non ancora confermato e tutto da provare ma che avrebbe visto il giudice Franco interessarsi per un certificato medico contraffatto non per una seria malattia ma per un’operazione di chirurgia estetica al seno di una conoscente. Manovre spartitorie e lottizzazioni correntizie - Piccole miserie, inserti di commedia all’italiana dentro la tragedia di una democrazia che si sospetta essere stata alterata da un intervento poco ortodosso della magistratura. Ma di queste piccole miserie, il caso che si è addensato attorno alla miriade di intercettazioni del magistrato Palamara offre una varietà sconcertante, destinata a non gettare una luce molto positiva sulla tenuta istituzionale di chi dovrebbe essere solo la bocca della legge. Tra manovre spartitorie, lottizzazioni correntizie, nomine basate sulla fedeltà e l’appartenenza, cioè una tragedia per l’ordine giudiziario e per la qualità stessa di uno Stato di diritto rispettoso dei cittadini, emerge un quadro in cui, per esempio, la richiesta di biglietti in tribuna per le partite importanti, le segnalazioni di amicizie, l’offerta di piccoli privilegi, favori minimi, raccomandazioni minori, ammiccamenti vagamente clientelari fanno da sfondo poco compatibile con l’idea che dovremmo farci di una magistratura autorevole. Debolezze, cadute, vanità - Ora è l’interessamento per un certificato medico a favore di un intervento estetico al seno. Ma già ai tempi di Mani Pulite affiorò, senza nessuna rilevanza penale, un quadro di favori, di prestiti di contanti consegnati nelle scatole delle scarpe, e di affitti al centro di Milano. E molti hanno dimenticato l’inchiesta di un magistrato che doveva mettere sottosopra l’ambiente dello spettacolo e che finì nella relazione del suddetto magistrato con una soubrette, promettente promessa proprio in quell’ambiente dello spettacolo. Debolezze, cadute, vanità, spirito di sottobosco che però stridono con l’immagine che la magistratura dovrebbe coltivare, per trasmettere autorevolezza e indipendenza. E anche questo insieme di piccole miserie può costituire un indebolimento della fiducia dello Stato. Una doppia tragedia. Concorsi truccati per diventare magistrati: il Csm resta muto? di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 2 luglio 2020 Il trucco degli elaborati non anonimi e degli esaminatori truffaldini: un gravissimo danno d’immagine cui va posto rimedio. Su La Stampa di lunedì 29 giugno, Domenico Quirico ha delineato un quadro agghiacciante dei concorsi per l’ingresso in magistratura, una sorta di premessa a quanto abbiamo recentemente scoperto con la sciagurata vicenda Palamara. A seguito di innumerevoli ricorsi, un concorrente bocciato nei concorsi del 1992 e del 2000 è riuscito ad acquisire la completa documentazione relativa al 1992, ed è appunto a quella documentazione che si riferisce l’articolo di Quirico. Veniamo così a conoscenza del sofisticato e truffaldino sistema grazie al quale gli elaborati di alcuni candidati, che dovrebbero essere tutti rigorosamente anonimi, erano invece agevolmente individuabili; erano appunto quelli dei candidati che dovevano essere comunque dichiarati idonei, quelli per cui si era mossa la macchina della corruzione che attraverso vari passaggi arrivava ai componenti - magistrati e professori universitari - della commissione giudicatrice del concorso. I segni di riconoscimento lasciati sugli elaborati consistevano ad esempio nel saltare la prima riga dei fogli formato protocollo ovvero scrivere una facciata sì e una no. Ed ancora, dai verbali dei lavori della commissione giudicatrice risulta che la valutazione media su ciascun candidato è durata tre (3) minuti, durante i quali si sarebbe dovuto leggere e valutare collegialmente i tre temi di diritto civile, penale e amministrativo. Certo, la commissione era in grado di lavorare speditamente, posto che si sapeva in anticipo quali erano i candidati che dovevano comunque essere promossi. Pare anche che i temi di alcuni degli idonei contenessero errori clamorosi e grossolani, impensabili per qualsiasi laureato in legge. Siamo così venuti a conoscenza che un certo numero di magistrati per definizione truffatori, corrotti e corruttori da decenni esercitavano impunemente funzioni giudiziarie in cui vengono necessariamente in gioco fondamentali diritti personali e patrimoniali dei cittadini. Ho atteso qualche giorno a scrivere su questa vicenda perché mi auguravo che l’articolo suscitasse qualche reazione, qualche presa di posizione degli organi posti al vertice della magistratura o deputati al suo governo, dal presidente al Procuratore generale della Cassazione, dal Consiglio superiore della magistratura al ministro della giustizia. Purtroppo l’unica risposta è stata un silenzio assordante. Il che vuol dire che quelle rivelazioni non potevano essere smentite e che il Csm e i vertici della magistratura ne erano al corrente. Ma queste implicite ammissioni non bastano, i cittadini e la stragrande maggioranza dei magistrati onesti, quelli che hanno vinto il concorso senza ricorrere a loschi traffici e svolgono degnamente il loro mestiere, vogliono sapere di più. Vogliono sapere se i concorsi truccati del 1992 e del 2000 sono stati deviazioni isolate o costituiscono una prassi costante e tuttora attuale; se a suo tempo erano stati iniziati procedimenti penali e disciplinari nei confronti dei magistrati corrotti che facevano parte delle commissioni di concorso; se i magistrati truffaldini entrati abusivamente in carriera, di cui sono noti i nomi, sono stati destituiti e denunciati in sede penale; se e quali misure i vertici della magistratura e il Csm intendono assumere per evitare che la vergogna dei concorsi truccati possa ripetersi. Vi è da domandarsi quale fiducia possono riporre i cittadini in una magistratura di cui continuano a fare parte giudici e pubblici ministeri che erano già corrotti e corruttori prima ancora di entrare in servizio. Il gravissimo danno di immagine e di credibilità arrecato alla magistratura italiana potrà essere almeno parzialmente riparato solo da immediate risposte che dimostrino la volontà di contrastare lo scandalo dei concorsi truccati. Il silenzio del Consiglio e dei vertici della magistratura significherebbe che bisogna accettare di convivere con una fetta minoritaria ma potente - il caso Palamara insegna - di magistrati corrotti e corruttori. Ma questo atteggiamento non sarà mai avallato - ne sono certo - dalla stragrande maggioranza dei magistrati onesti e dalle forze politiche che si richiamano ai principi costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e della soggezione dei giudici soltanto alla legge. Riecco l’abuso d’ufficio, il reato “astratto” che fa litigare il governo di Giulia Merlo Il Dubbio, 2 luglio 2020 Nella bozza del Dl Semplificazioni c’è la modifica del delitto che spaventa sindaci e funzionari. Ciclicamente torna al centro del dibattito, insieme alla furia delle posizioni opposte e contrarie. Il governo Conte ha annunciato di voler mettere mano al reato di abuso d’ufficio: per definire in maniera “più compiuta” la condotta rilevante, ha spiegato il premier. La notizia ha suscitato un coro di indignazione. Da destra, con Matteo Salvini in testa, si chiede l’abolizione in toto “di un reato “fantasma” che blocca la Pubblica Amministrazione e rallenta tutto”. Al governo, invece, l’imbarazzo cresce nei 5 Stelle: nati come sostenitori dell’inasprimento delle pene (da deputati, il ministro Alfonso Bonafede e il suo sottosegretario Valerio Ferraresi avevano presentato un disegno di legge per portare la pena da 4 a 5 anni, in modo da permettere l’uso di intercettazioni come mezzo di ricerca della prova), oggi dovrebbero sottoscrivere una parziale riscrittura dell’articolo. Una riscrittura che per giunta potrebbe cancellare con un colpo di spugna i processi contro le sindache pentastellate Chiara Appendino e Virginia Raggi, accusa Forza Italia. In ogni caso, da qualsiasi fronte politico lo si guardi, il reato è la bestia nera di sindaci e amministratori: oltre alle prime cittadine di Torino e Roma, l’abuso d’ufficio è stato contestato anche al milanese Beppe Sala e ai due governatori di Puglia e Campania, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca. Oggi, la nuova formulazione in discussione nella bozza del dl Semplificazioni attribuisce “rilevanza”, oltre che alla violazione da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio delle regole di condotta previste dalla legge, anche “alla circostanza che da tali specifiche regole non residuino margini di discrezionalità per il soggetto”, modificando così l’attuale previsione che si riferisce genericamente alla violazione di norme di legge o di regolamento. L’ennesimo ritocco a una fattispecie che negli ultimi trent’anni è stata oggetto di rimaneggiamenti più o meno profondi ma che dagli anni Novanta instilla - per dirla con Conte - la “paura della firma” a tutti gli anelli di comando della Pa. Nel vecchio codice Rocco si chiamava “abuso innominato”, era rubricato all’articolo 323 del codice penale e puniva “il pubblico ufficiale il quale, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni”, avesse commesso qualsiasi fatto non preveduto dalla legge come reato da una particolare disposizione, “per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio”. Sostanzialmente, una norma penale in bianco, con una fattispecie vaga ma una pena definita. Poi arrivarono gli anni Novanta e l’allora ministro della Giustizia del governo De Mita, Giuliano Vassalli, oltre alla riforma del codice di procedura penale, avvia e porta all’approvazione anche la legge 86 del 1990, che modifica profondamente i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione. Così l’abuso innominato diventa abuso d’ufficio e si trasforma in una delle figure cardine del sistema dei delitti contro la Pa. L’articolo 323 viene di fatto riscritto e allargato dal punto di vista soggettivo, pur nel tentativo di circoscrivere la vastità della fattispecie precedente: incriminava, salvo che il fatto costituisse più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, avesse abusato del suo ufficio, con la circostanza aggravante nel caso in cui il vantaggio avesse avuto carattere patrimoniale. La nuova formulazione che inglobava le fattispecie di interesse privato e peculato per distrazione (abrogate come autonomi titoli di reato) - si sforzava di descrivere in modo preciso il fatto punibile proprio per evitare che la genericità della norma permettesse una eccessiva discrezionalità da parte della magistratura. Risultato non raggiunto, però, perché la prassi giurisprudenziale dilatò la fattispecie, provocando proprio ciò che si voleva evitare: lo sconfinamento del pubblico ministero in settori riservati alla discrezionalità della Pubblica amministrazione. Per provare ad arginare il fenomeno, passato il tornado di Mani Pulite, il governo Prodi I approvò nel 1997 la riforma che restringeva il campo di intervento, introducendo da un lato la clausola “salvo che il fatto non costituisca più grave reato” (così da tentare di rendere l’abuso d’ufficio ai reati di corruzione o concussione), dall’altro inserendo alcuni precisi elementi costitutivi del reato: lo svolgimento delle funzioni; la violazione di norme di legge o di regolamento; la limitazione al dolo intenzionale e il danno o vantaggio patrimoniale ingiusto come conseguenza della condotta (la cosiddetta doppia ingiustizia: condotta ingiusta e guadagno ingiusto). Nemmeno questo, tuttavia, ha nei fatti modificato l’attitudine allo “stiracchiamento” estensivo di una fattispecie capestro delle condotte più diverse. Ultimo in ordine di tempo a intervenire sul testo con un minimo ritocco è stato il governo Monti, che ha disposto nel 2012 l’inasprimento della pena, che da sei mesi a tre anni diventa da uno a quattro. Ora è il momento del governo Conte di tentare l’introduzione di limiti, tutti giocati in punta di lessico: difficili da approvare, oltre che aleatori. Del resto, maggioranze ben più coese della sua hanno tentato l’impresa di accorciare i tentacoli di un reato piovra con la fama di grimaldello giudiziario che destabilizza la politica. Ma con risultati non entusiasmanti. Il difficile equilibrio tra i poteri dello Stato di Sergio Lorusso Gazzetta del Mezzogiorno, 2 luglio 2020 È deflagrata in questi giorni l’ennesima vicenda che investe le relazioni (pericolose) tra politica e magistratura. Oggetto, la condanna confermata in Cassazione di Silvio Berlusconi, all’epoca capo indiscusso della maggiore forza politica del Paese, che a detta di uno dei componenti del collegio giudicante fu costruita a priori e voluta da una non meglio precisata manina. Il caso giudiziario si sottrae ad ogni valutazione ex post, essendo la sentenza divenuta definitiva nel 2013. Emergono, tuttavia, opacità che rafforzano le convinzioni dei nemici di una certa magistratura politicizzata. Una magistratura che si affiancherebbe all’opera della politica - non sappiamo se autonomamente o in maniera coordinata - determinando (o contribuendo a determinare) le sorti di leader e di forze politiche. Possibile - e opportuno - quindi valutarne le conseguenze per il quadro politico (di allora) e cercare di collocarlo in una più ampia fenomenologia. Occorre, insomma, andar al di là del caso specifico anche perché tale anomalo conformarsi dei rapporti tra poteri dello Stato - seppur con accenti assai variegati - è risalente e non sembra conoscere sosta. Da Mani pulite (per citare il caso più eclatante della seconda metà del secolo scorso, che sancì la fine della cd. prima Repubblica) alle recenti vicende giudiziarie che hanno coinvolto Matteo Salvini quando era ministro degli Interni. Da Bettino Craxi a Matteo Renzi. Un caleidoscopio di casi che hanno fatto parlare di Repubblica giudiziaria. Beninteso pubblici ministeri e giudici hanno il dovere, rispettivamente, di indagare su comportamenti potenzialmente illeciti penalmente e di decidere nei relativi processi. E senza alcuna distinzione tra imputati “comuni” e imputati “eccellenti”. Emerge, tuttavia, in alcuni casi una funzione ancillare di inchieste giudiziarie (che stanno magari muovendo i primi passi) rispetto all’azione di forze politiche tese a smantellare lo status quo. Con il rischio che l’eventuale responsabilità penale, di carattere individuale, funga da detonatore per il sovvertimento di assetti di potere che dalla prima dovrebbero - secondo i fondamentali dello Stato di diritto - prescindere. Certo, difficile è determinare il peso effettivo che vicende come quella adesso rispolverata - e ci si dovrebbe chiedere come mai solo ora, a sette anni di distanza dai fatti, riemerga all’improvviso, sottraendosi all’oblio - così come improbo è dimostrare l’esistenza di una sorta di pactum sceleris tra (certa) politica e (certa) magistratura. Esistono una serie di concause - rispetto alle quali è assai arduo effettuare una prova di resistenza-che rendono vana la risposta alla domanda “cosa sarebbe successo se non?”. Ma non è questo il punto. Occorre cercare di capire l’origine di tali deviazioni e le condizioni che le rendono possibili. Occorre comprendere il peso - da molti sottovalutato - che tali situazioni possono esercitare sulle dinamiche della vita democratica. E questo non certo con l’intento di delegittimare la magistratura ma, al contrario, di farle recuperare quella credibilità oggi sempre più in declino - un’incredibile nemesi rispetto ai fasti degli anni Novanta del secolo scorso - per via di vicende sconcertanti come quella del caso Palamara. Altrimenti si corre il rischio di mettere a repentaglio la democrazia, modello di gestione dello Stato fondato su di un sistema di pesi e contrappesi tra gli organi costituzionali o aventi rilievo costituzionale. Si tratta insomma (anche) di ridare lustro al terzo potere dello Stato che, attraversando una parabola la cui acme è stata raggiunta ai tempi di Tangentopoli, è sprofondato oggi ai livelli minimi di reputazione a far data dall’Unità d’Italia. Contrastando lo scivolamento verso un pericoloso squilibrio tra poteri dello Stato. Una magistratura ideologicamente orientata emerge negli anni Settanta del secolo scorso. Si tratta, tuttavia, di fenomeno affatto paragonabile a quello qui analizzato. I cd. pretori d’assalto, difatti, sì propongono di dare tutela a diritti non riconosciuti dalla legge grazie all’interpretazione, talora estremizzata, delle norme vigenti. Sopperendo così alle inerzie e alle resistenze del legislatore. In qualche modo sostituendosi a questo, costringendolo magari a correre ai ripari. Emerge tuttavia - pur nella diversità del fenomeno - un elemento significativo per inquadrare le odierne distorsioni. Ogni vuoto è destinato ad essere colmato, perché “la natura rifugge il vuoto” (Aristotele). Trasponendo l’affermazione dal mondo della filosofia e della fisica a quello delle istituzioni, ci si accorge come i periodi di predominio della magistratura coincidono con quelli di una politica debole (e delegittimata). La prima Repubblica probabilmente sarebbe finita egualmente, la magistratura ne ha in qualche modo certificato la scomparsa o magari ne ha accelerato l’estinzione. Le indagini - talora aggressive - del pool milanese si innestarono in uno stato di profonda insoddisfazione dell’opinione pubblica di fronte ad un potere politico sclerotizzato. Il vero problema, dunque, è quello di garantire l’operatività dì quel sistema di pesi e contrappesi senza del quale la democrazia diventa solo una parvenza di democrazia, le cui sorti sono affidate al potere “vincente” di turno. Una “dittatura” a rotazione, con tutti gli altri poteri a fare da sfondo in attesa di assurgere al ruolo di protagonisti. Mentre i cittadini stanno a guardare. No tav, esclusa esimente di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2020 Corte di cassazione - Sezione VI Penale - Sentenza 1° luglio 2020 n. 19764. Lo scontro con le forze dell’ordine dei No Tav a Chiomonte non è scriminabile in virtù dell’affermazione di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale. Così la sentenza n. 19764 depositata ieri dalla Corte di cassazione penale ha definitivamente chiuso la vicenda giudiziaria degli otto imputati, che avevano fatto il ricorso di legittimità contro la sentenza di merito che ne aveva affermato la responsabilità penale per diversi reati, dal saccheggio agli atti di vandalismo, dalla violenza alla resistenza a pubblico ufficiale. La scriminante negata - I ricorrenti in Cassazione sostenevano che essendo il diritto all’ambiente e alla salute valori di rango costituzionale e avendo agito per garantirne l’affermazione, la loro condotta - come la rimozione del cancello posizionato nell’area di avvio del cantiere - non potesse avere rilevanza penale. Gli imputati invocavano, quindi, l’applicazione nei loro confronti della scriminante dell’aver agito per valori di particolare rilievo morale e sociale. Al contrario la Cassazione coglie l’occasione per spiegare che non scatta l’esimente se il “motivo rilevante” non è condiviso dalla prevalente coscienza collettiva e sostenuto da un generale consenso. E, soprattutto, che non è sufficiente l’intima convinzione dell’agente in ordine a tale rilevanza. Infine, spiega che pur sussistendo in ipotesi la scriminante essa non opera se non è l’unica vera causa psicologica del reato e non soltanto un “indiretto riferimento”. La Cassazione conferma il ragionamento secondo cui ciò che rileva nella vicenda e la specifica intenzione di opporsi alle forze dell’ordine e alla realizzazione di un’opera pubblica e non la funzionalità alla tutela dell’ambiente e della salute. L’affermato fine di difendere tali valori fondanti dello Stato democratico sarebbe solo ipoteticamente e in via indiretta la causa delle condotte imputate. Il motivo politico - L’argomento difensivo di aver agito solo per leciti motivi politici è stato altrettanto respinto. Infatti, spiega la Corte, che il fine politico non può di per sé integrare il motivo di particolare rilievo morale e sociale, col rischio di dare adito al libero arbitrio dei diversi e contrapposti fronti politici. Così viene anche ribadita la legittimità delle condanne per devastazione e saccheggio, come quella per violenza nei confronti del manifestante che aveva puntato ripetutamente negli occhi di un agente una luce laser. Firenze. Suicida a Sollicciano, ma aveva finito di scontare la pena da tempo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 luglio 2020 Giuseppe Pettrone era un collaboratore di giustizia, internato nel carcere fiorentino per scontare la misura di sicurezza in Casa lavoro. L’uomo che una settimana fa si è suicidato nel carcere di Sollicciano non era un detenuto. Lui, da tempo, aveva finito di scontare la pena, ma era stato raggiunto da una misura di sicurezza. Ancora una volta parliamo degli internati, gli ultimi degli ultimi, quelle persone che hanno finito di pagare per gli errori commessi, ma il loro destino rimane ancora in balia dei magistrati. Subiscono una pena prolungata nonostante sia già scontata, misure di sicurezza che risalgono al codice Rocco che ha come impronta il retaggio fascista che considera il lavoro come misura correzionale. Ma la vicenda di Giuseppe Pettrone, così si chiamava, è un caso ancora più particolare. Parliamo di un collaboratore di giustizia, grazie al quale si è potuto sgominare un pericoloso clan camorrista. Non aveva però un carattere facile, e per questo l’ha pagata cara. Anche troppo, secondo gli avvocati, il titolare della difesa l’avvocata Civita Di Russo del foro di Roma con la collaborazione dell’avvocato Matteo Moriggi. Nel momento in cui si è suicidato, come detto, si trovava al carcere fiorentino di Sollicciano a scontare la misura di sicurezza in casa lavoro, come aggravamento della precedente misura - molto più lieve perché in libertà vigilata - nonostante l’assenza di condotte gravi. Oltre a ciò, come se non bastasse, in piena emergenza Covid 19, lui era anche affetto di tubercolosi. Ma cosa era accaduto? Quando aveva finito di scontare la lunga pena, è stato raggiunto da una misura di sicurezza, ma lieve anche per il suo contributo alla giustizia. Parliamo della libertà vigilata. Sostanzialmente libero, ma con delle restrizioni sulla libertà di movimento e obbligo di firma. A causa del suo carattere iroso, si era dimostrato insofferente alle limitazioni, probabilmente conscio che teoricamente aveva già finito di scontare la pena. Per questo motivo il magistrato di Sorveglianza, a ottobre del 2019, ha emesso un provvedimento di aggravamento della misura di sicurezza già in atto, applicandogli quella della casa di lavoro. Quindi Pettrone è dovuto rientrare in carcere di Sollicciano dove, di fatto, una casa lavoro non c’è. Come ha sottolineato lo stesso avvocato difensore, nonostante il provvedimento punitivo sia comprensibile, tale severa decisione non era fondata su condotte particolarmente gravi, come ad esempio la commissione di reati, ma solo su un più generale atteggiamento di una sua insofferenza rispetto alla libertà vigilata. Sono passati sei mesi di detenzione (di fatto lo era), Pettrone si è comportato correttamente e i legali hanno fatto istanza per richiedere una modifica della misura di sicurezza. Ma non solo. Nel frattempo è scoppiata la pandemia Covid 19, con il rischio di focolai nelle carceri, cosa che è successa in alcuni istituti. Come se non bastasse, l’uomo ha contratto anche la tubercolosi. Una malattia che colpisce i polmoni e che lo ha reso ancora più vulnerabile in caso di contagio. Non era teoricamente un detenuto, la pena l’ha finita di scontare da tempo, e quindi sarebbe stato paradossale tenerlo ancora dentro, mentre in quel periodo le autorità cercavano di alleggerire la popolazione detenuta. Pettrone, quindi, aveva tutti i presupposti, se non per revocargli la misura di sicurezza, almeno per ripristinargli la libertà vigilata. Soprattutto in maniera celere visto l’emergenza pandemia, tant’è vero che il legale ha chiesto un’anticipazione dell’udienza. Nulla da fare. La magistratura di sorveglianza non ha ritenuto necessario anticipare, visto che il Covid 19, a Sollicciano, non c’era. A quel punto è stata fissata l’udienza “ordinaria” il 27 maggio scorso. L’esito della decisione però tarda ad arrivare. Passano giorni, settimane e probabilmente Pettrone non ha resistito per questo. Rimane ovviamente una ipotesi. Nel passato aveva anche temuto per la sua vita essendo collaboratore. Fatto sta che giovedì scorso viene ritrovato impiccato. Ha deciso di togliersi la vita, da persona non detenuta ma che di fatto lo era. L’amara ironia della sorte è che alla fine la decisione del tribunale è arrivata proprio due giorni fa. L’esito? Il rigetto dell’istanza. Teramo. Detenuto muore a Castrogno, il pm dispone l’autopsia Il Centro, 2 luglio 2020 Sarà l’autopsia a fare chiarezza sulla morte di un detenuto nel carcere di Castrogno. E.S., 47 anni, di Catania, è stato trovato senza vita nel suo letto nel settore alta sicurezza del penitenziario teramano. Sul corpo nessun segno di violenza e probabilmente a stroncarlo è stato un malore nel sonno. I familiari dell’uomo hanno presentato un esposto in Procura per chiedere di fare chiarezza e accertare sei nei giorni precedenti ci fossero stati altri malori e quindi una condizione di salute non adeguatamente valutata all’interno della struttura. Il pm Silvia Scamurra ha aperto un fascicolo a carico di ignoti e ha disposto l’autopsia che sarà eseguita nelle prossime ore. L’uomo era detenuto dall’anno scorso dopo essere stato arrestato con l’accusa di associazione mafiosa nell’ambito di una operazione portata avanti a Catania e che aveva visto l’arresto di 31 persone per associazione a delinquere di tipo mafioso finalizzata all’estorsione, all’usura e alla rapina. Lecce. Vietato l’uso di Skype per i colloqui con le famiglie, monta la protesta dei detenuti leccenews24.it, 2 luglio 2020 I fatti nella giornata di ieri a seguito di una Circolare. La manifestazione ha riguardato gli occupanti dei reparti C1 e C2 ed è durata un’ora. Sono stati minuti di forte tensione quelli vissuti nella giornata di ieri presso la casa circondariale di “Borgo San Nicola” a Lecce. I detenuti ristretti nei reparti C1 e C2 (si parla di circa 500 persone), infatti, hanno attuato una protesta, battendo contro le inferriate le suppellettili presenti nelle stanze di pernottamento. Il disagio si è protratto per circa un’ora, tenendo in apprensione gli agenti di Polizia Penitenziaria. A rendere noto quanto accaduto, Pasquale Montesano, Segretario Generale Aggiunto di Osapp il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria. “All’origine della protesta - spiega il sindacalista - la frettolosa e non preannunciata Circolare con la quale si sospende il sistema Skype per i colloqui con le famiglie, decisione, questa, che rafforza ancor di più la nostra convinzione di un’Amministrazione Penitenziaria nel caos più totale e nella disorganizzazione che stanno generando forti rischi a un sistema sull’orlo del precipizio. Il nostro obiettivo - prosegue - è quello di portare all’attenzione del Dap e delle Autorità politiche la disastrosa e drammatica situazione che si vive in Puglia, le inottemperanze in tema di relazione tra le parti, con il personale che dopo l’emergenza covid-19 si trova ad affrontare un ulteriore grave disagio, come per fare qualche esempio, l’apertura di nuovi reparti a Lecce, Taranto e Trani senza alcun adeguamento degli organici. Se il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede continua a esprimere vicinanza e gratitudine, fornendo, tra l’altro, numeri parziali che non tengono conto del fabbisogno in tema di organico, senza dare vita ad azioni concrete che risollevino il Corpo e l’intero sistema dalla palude nella quale sono finiti a causa sua e dei suoi predecessori, sappia che la Polizia penitenziaria non sarà affatto grata a lui. Ancor più grave è il fatto di agenti abbandonati a sé stessi, vittime di aggressioni, rivolte e, talvolta, anche esposti al fuoco amico. La Puglia - conclude - necessita di un concreto rinnovamento sia strutturale che gestionale”. Padova. Entro fine anno sarà istituita la figura del Garante comunale per i detenuti Il Gazzettino, 2 luglio 2020 Ad annunciarlo sono state, ieri mattina, l’assessore ai Servizi anagrafici Francesca Benciolini e la titolare dei Servizi sociali Marta Nalin. Assieme a loro il presidente dell’Autorità nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma. “Entro la fine dell’anno ha annunciato Benciolini anche la nostra città si doterà di uno strumento che è già presente in molti comuni italiani”. “I gruppi consiliari ha aggiunto Nalin dovranno individuare un rosa di nomi da cui, poi, il consiglio comunale dovrà attingere per designare il nuovo garante”. “Non bisogna mai dimenticare che, anche con i detenuti, si ha sempre a che fare con delle persone ha detto, invece Palma l’Autorità che presiedo, non si occupa solamente di persone detenute, ma anche dei diritti di chi vive nelle case di riposo o negli istituti che si occupano di disabili”. “Spesso Salvini mi definisce il Garante dei delinquenti ha concluso al leader della Lega ricordo che io mi occupo anche di anziani e di disabili. Questo dovrebbe farlo riflettere. In tutti i casi, il carcere di Padova per molti aspetti è all’avanguardia e questo dovrebbe agevolare il lavoro del garante”. In Italia un percorso avviato fin dal 1997 ma l’effettiva operatività, è avvenuta solo nei primi mesi del 2016. Si tratta di un organismo statale indipendente in grado di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà (oltre al carcere, i luoghi di polizia, i centri per gli immigrati, le Residenze per le misure di sicurezza - Rems, recentemente istituite dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, gli Spdc - cioè i reparti dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori, ecc.). Scopo delle visite è quello di individuare eventuali criticità e, in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare soluzioni per risolverle. Modena. “Carcere, urgente finire i lavori” Il Resto del Carlino, 2 luglio 2020 Il sindaco Muzzarelli scrive al ministro Bonafede: “Dopo i disordini di marzo è inutilizzabile”. “Completare al più presto i lavori necessari al pieno ripristino del carcere di Sant’Anna a Modena, ma con una riapertura graduale della struttura una volta garantito il personale necessario e una direzione stabile, evitando, comunque, situazioni di sovraffollamento”. Lo scrive il sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per sollecitare, dopo i tragici disordini di marzo (“una ferita per la città”), il “completamento dei lavori di sistemazione dell’istituto penitenziario che deve tornare funzionante e funzionale ai suoi scopi detentivi e riabilitativi, con il pieno ripristino anche delle attività culturali e sociali realizzate dall’associazionismo modenese”. In particolare, il sindaco rileva come “non sia sostenibile immaginare ulteriori presenze fino a quando non saranno garantite tutte le sicurezze interne, le ristrutturazioni e il superamento di diversi problemi strutturali e di manutenzione straordinaria dei diversi ambienti che da tempo erano stati riscontrati e segnalati”. Per Muzzarelli, infatti, il sovraffollamento è un annoso problema di tutto il sistema carcerario italiano e Modena ha titolo per rientrare nelle priorità degli interventi in programma. “Ai fini generali di sicurezza, ritengo poi necessaria - aggiunge il sindaco - una riapertura calibrata nel tempo della casa circondariale, garantendo non solo l’adeguatezza di tutti gli organici di personale necessari al funzionamento quotidiano della struttura, ma anche una governance stabile dell’istituto tramite una Direzione che possa lavorare con una prospettiva almeno di medio periodo. Quest’ultimo aspetto non si è verificato nel recente passato in quanto si è verificato l’avvicendarsi di tre direttori in un lasso di tempo ristretto”. Nella lettera il sindaco ricorda le vittime dei disordini di marzo che “hanno duramente colpito Modena e la sua comunità, generando un profondo dibattito pubblico, dentro e fuori le sedi istituzionali locali”. Per Modena, aggiunge Muzzarelli, si tratta di “una ferita per la città che da tanti anni, grazie al coordinamento dell’Amministrazione comunale e al contributo delle associazioni di volontariato, coltiva un’interazione aperta e positiva con lo Stato, con l’Amministrazione della struttura carceraria e con i detenuti: la legalità, il presidio di sicurezza territoriale e i tanti progetti di reinserimento ed educazione sociale sono gli elementi che caratterizzano da sempre il nostro territorio, nell’ottica della massima collaborazione tra istituzioni e società civile”. Per il sindaco, comunque, pur consapevole degli sforzi fatti dal Governo, ciò che è accaduto a Modena non è solo dovuto all’emergenza causata dal Coronavirus “ma anche di vecchi problemi e tensioni che sono esplose dolorosamente in questa contingenza storica straordinaria”. La lettera di Muzzarelli al ministro Bonafede si conclude ricordando le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, a inizio pandemia, rispondendo ai dubbi dei carcerati italiani, promise di impegnarsi per quanto nelle sue possibilità, per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare le condizioni di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio. “Il nostro Presidente - scrive il sindaco di Modena - è sempre un riferimento di valori e di impegno per un Paese più forte, e credo che il suo impegno sia quello di tutti noi, perché anche dalle condizioni di vita e di lavoro in carcere si misura la civiltà di un Paese”. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). Comune e carcere: intesa per il reinserimento dei detenuti avellino.zon.it, 2 luglio 2020 Siglato il protocollo di intesa che prevede la realizzazione l’avvio di un progetto per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità sul territorio comunale. È stato siglato tra il Comune di Sant’Angelo dei Lombardi e la Casa di reclusione “Bartolo, Famiglietti e Forgetta” di Sant’Angelo dei Lombardi il protocollo di intesa che prevede la realizzazione di un progetto per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità per le persone detenute nella casa di reclusione presente sul territorio comunale. Il protocollo prevede che fino ad un massimo di 5 persone detenute nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi (ammesse al lavoro all’esterno), potranno prestare un’attività non retribuita per conto del Comune ed in favore della collettività. I detenuti che avranno accesso al progetto, opereranno sotto la supervisione di un coordinatore che ne monitorerà il percorso. Tra gli ambiti in cui i detenuti potranno impegnare il loro lavoro si evidenziano i servizi di tutela e cura del patrimonio culturale, la cura e la manutenzione del verde pubblico o azioni di tutela del patrimonio ambientale. Il protocollo nasce dalla crescente sinergia tra Comune e Casa di reclusione e rappresenta il primo passo di un percorso volto a favorire pratiche sempre più concrete di reinserimento sociale e lavorativo. “Sono molto soddisfatto di questa iniziativa, che rappresenta un modello che viene usato a livello internazionale per creare un ponte tra le case di reclusione e la società. La reclusione, come espresso in Costituzione, deve rappresentare prima di tutto uno strumento di rieducazione ed è con questo spirito che abbiamo avviato questo progetto per il quale ringrazio fortemente la direttrice Marianna Adanti e tutto il personale della Casa di reclusione del nostro Comune”, ha concluso il Sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi Marco Marandino. Siracusa. Detenuti puliranno strade e spiagge, intesa tra il Comune e il carcere blogsicilia.it, 2 luglio 2020 I detenuti del carcere di Siracusa saranno impiegati in lavori di pubblica utilità, tra cui la pulizia e la manutenzione dei beni comuni, il recupero del decoro urbano e la valorizzazione di beni culturali, la cura e la manutenzione del verde e delle aree libere di proprietà comunale, la pulizia e il decoro delle spiagge e delle coste. È quanto prevede l’accordo tra il Comune di Siracusa ed il direttore del carcere, Aldo Tiralongo, che firmeranno l’intesa. “Da tempo il Comune intende promuovere, nell’ambito del proprio territorio, l’esecuzione di lavori socialmente utili o di pubblica utilità - dichiara il sindaco di Siracusa Francesco Italia - e con questo protocollo offriremo opportunità lavorative ai detenuti di Cavadonna. L’accordo avrà una durata triennale e - prosegue il sindaco - oltre a fornire un importante aiuto in termini di manutenzione cittadina e ripristino del decoro urbano, sarà volto a favorire il reinserimento sociale dei reclusi attraverso attività che, abbinate ad un’adeguata formazione, potranno garantire future opportunità di lavoro”. “Questo protocollo - dice l’assessore alla Protezione civile Giusy Genovesi - è il frutto di un lavoro portato avanti con l’amministrazione carceraria, che ringrazio per aver accolto e condiviso la proposta, e con il contributo dell’assessore Rita Gentile. Rappresenta un progetto di inclusione ad altissimo valore sociale già redatto dal mio assessorato alla Protezione civile e politiche di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. Uno dei primi interventi riguarderà la pulizia e il decespugliamento delle aree incolte di proprietà comunale al fine della prevenzione incendi. Il protocollo d’intesa - aggiunge Genovesi - ridurrà il peso economico degli interventi che gravano sul bilancio comunale, oltre a migliorare il decoro urbano e la tutela dell’incolumità pubblica. Ulteriori progetti, sempre proposti all’Amministrazione, potranno realizzarsi anche attraverso la stipula di altre convenzioni con società, associazioni o club service che vorranno partecipare supportando il Comune con mezzi e attrezzature”. I singoli progetti riguarderanno interventi volti alla ricerca di future opportunità occupazionali a favore della popolazione detenuta, lo svolgimento di attività per favorire una maggiore dignità nell’esecuzione della pena detentiva e l’acquisizione di competenze ed abilità sociali e professionali utili al reperimento di opportunità lavorative. Rossano (Cs). Il design incontra il sociale, i detenuti arredano il salone di Nilo Acri di Martina Caruso ecodellojonio.it, 2 luglio 2020 Incidere nel legno come nel tessuto sociale. Una mission nel trasporto emotivo racchiusa nel lavoro artigianale. Dopo un lungo periodo di attesa e un’apertura rinviata a causa dell’emergenza Coronavirus, è iniziata, orami da qualche giorno, l’avventura di Nilo Acri nel suo nuovo e moderno salone Hair & Beauty nell’area urbana di Rossano. I tempi di attesa per la fine del lockdown hanno permesso di perfezionare un progetto d’architettura, curato dall’architetto De Rosa, che nasconde una meravigliosa iniziativa al servizio del sociale: la preziosa e consolidata esperienza della Falegnameria Santoro, ora guidata da Carmine Santoro, ha contribuito a rendere la storia del nuovo salone ancor più speciale. Grazie alla collaborazione tra la FCS ed il Ministero della Giustizia con il “Progetto penitenziario”, l’azienda svolge la propria attività all’interno di una delle strutture in dotazione all’Istituto Penitenziario di Corigliano Rossano. Un progetto con il quale la FCS ha inteso coniugare l’iniziativa imprenditoriale e l’impegno sociale, contribuendo materialmente al processo di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Ed è proprio all’interno delle strutture nell’alta sicurezza della casa di reclusione che Carmine Santoro, assieme ai detenuti hanno lavorato alla realizzazione dei mobili d’arredo per il salone Hair&Beauty di Nilo Acri, un ragazzo giovane e ambizioso, entusiasta per l’inizio di questa sua nuova avventura che afferma: “Il risultato finale ha superato le mie aspettative. Sono davvero soddisfatto dalla professionalità di tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del Salone. Mi riferisco a ciascun lavoratore. A tal proposito, ci tengo a esprimere il mio entusiasmo in merito al progetto penitenziario al quale partecipa la falegnameria Fcs e a ricordare il contributo, in ambito sociale, che quest’ultima apporta alla comunità”. Una storia di passione e professionalità che riesce a trasformare i luoghi di isolamento in teatri di dignità e regala stupore durante un cambio look. Omotransfobia, contrario il popolo del family day di Monica Rubino La Repubblica, 2 luglio 2020 Salvini: “Legge pericolosa”. Arcigay: “Il testo è un grande passo avanti”. Da Gandolfini a Pro Vita, le associazioni in difesa della famiglia scendono in campo contro il testo unico depositato alla Camera ieri dal deputato dem e relatore Alessandro Zan. Gaycenter: “Dal leader della Lega dichiarazioni ipocrite”. Il popolo del “Family day” leva gli scudi contro la proposta di legge che combatte l’omotransfobia depositata ieri dal relatore e deputato del Pd Alessandro Zan. E così i pasdaran della famiglia sovranista, che chiamano “naturale”, antiabortisti e antigay, lanciano una manifestazione di piazza l’11 luglio, per un sabato di protesta in più di 100 città italiane. E ricevono il sostegno dei leader della destra, a cominciare da Matteo Salvini che definisce “pericolosa” la legge Zan: “L’Italia è un Paese che non discrimina. Se viene picchiato o discriminato un omosessuale o un eterosessuale la via è la galera, non c’è differenza”, chiosa il capo della Lega. E, provocatoriamente, chiede una legge “contro l’eterofobia”. “È una legge di tutti, troviamo convergenza”, gli risponde Zan, che aggiunge: “In commissione ci sono posizioni diverse tra maggioranza e opposizione ma questa non deve essere una legge ideologica. Qui stiamo parlando della vita delle persone e del rispetto dei diritti umani”. Tra i due schieramenti, la posizioni delle associazioni Lgbti+, soddisfatte comunque che il testo sia arrivato in Parlamento. “È un testo migliorabile, ma rappresenta un grande passo avanti”, commenta Arcigay. E il Gaycenter commenta le parole di Salvini bollandole come “dichiarazioni ipocrite”. Di “legge liberticida” parla invece il leader del Family Day, Massimo Gandolfini: “Istituisce, ma non definisce, il reato di omotransfobia - attacca - lasciando alla magistratura amplissimi margini di interpretazione che rischiano di colpire la libera espressione del pensiero; menziona una controversa identità di genere - contestata anche dalle femministe - che basandosi sull’auto-percezione può comprende oltre 50 definizioni”. “La teoria del gender diventerà legge e i bambini saranno obbligati a festeggiare l’identità transgender già dall’asilo, questo succederà in ogni scuola di ordine e grado”, sono le fosche previsioni di Toni Brandi e Jacopo Coghe, presidente e vice presidente di Pro Vita e Famiglia onlus. “Questo testo è la fotocopia di quello che bloccammo al Senato nella scorsa legislatura. È provocatorio, liberticida e oscurantista”, tuona Carlo Giovanardi di Idea. “Con questa legge i genitori non potranno rifiutare una baby sitter transgender o la propaganda delle drag queen nelle scuole dei loro figli. Nessuno potrà opporsi all’utero in affitto. Sarà considerata discriminazione opporsi al matrimonio o all’adozione gay” è la conclusione del leghista Simone Pillon, il senatore ultrà della famiglia tradizionale. La maggioranza difende la legge - Ma la maggioranza si stringe compatta in difesa della legge, in elaborazione da nove mesi e che finalmente ha trovato la sintesi in un testo unico, frutto di un compromesso fra cinque pdl, di cui una firmata anche da Forza Italia. Alle accuse del centrodestra risponde su Facebook il deputato Pd Matteo Orfini: “È una legge che stabilisce un principio semplice e sacrosanto: discriminare e aggredire qualcuno solo per chi sceglie di amare è una cosa orribile e grave. E va punita duramente. Chi si oppone vuole solo impedire una norma di civilta”. Sulla stessa linea anche il dem Maurizio Martina: “Dopo un’attesa durata 25 anni è venuto il tempo che anche l’Italia faccia questo passo”. Entusiasmo anche dal M5s, che rivendica il contributo determinante del Movimento al testo Zan: “Ce l’abbiamo fatta, 7 su 9 degli articoli vengono dal testo che come M5S presentammo nel 2019” afferma la senatrice Alessandra Maiorino, vice presidente vicaria cinquestelle al Senato. Soddisfatte anche le associazioni Lgbti+ che definiscono la legge “un passo avanti, sebbene migliorabile”, come afferma Fabrizio Marrazzo portavoce del Gay center, che sottolinea la necessità di aumentare il budget messo a disposizione per centri antiviolenza e case rifugio. “È del tutto assente nel testo anche il tema importantissimo delle teorie riparative, cioè dei percorsi a cui vengono sottoposte persone lgbti+, spesso minori, per correggere un orientamento o un genere ritenuto non conforme alle attese”, sottolinea invece Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay. Anche i sindacati intervengono nel dibattito, con la Cgil che chiarisce: “La pdl è già un compromesso, no a modifiche al ribasso”. Che cosa prevede la legge - Il testo depositato ieri alla Camera da Zan si riallaccia alla legge Mancino che contrasta i reati di razzismo e prevede il carcere da uno ai quattro anni per chi istiga alla violenza omofobica intervenendo sull’articolo 604 bis del codice penale. Questo punisce con “la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” nonché con “la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Il testo di Zan aggiunge in entrambe i casi che la punibilità interviene anche negli identici atti “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. Inoltre il testo base estende alle condotte motivate dalle medesime ragioni l’aggravante speciale prevista dall’articolo 604-ter del codice penale e finora riguardante i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. C’è poi una parte non repressiva ma che mira a diffondere una cultura della tolleranza. In particolare viene istituita una data italiana, il giorno 17 maggio, quale “Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere”. Inoltre il Dipartimento per le Pari opportunità “elabora con cadenza triennale una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere”. Ancora viene “istituito un programma per la realizzazione in tutto il territorio nazionale di centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere. I centri garantiscono adeguata assistenza legale, sanitaria, psicologica, di mediazione sociale e ove necessario adeguate condizioni di alloggio e di vitto alle vittime”. “Attaccano la legge? Sono di più le persone che aspettano da anni” di Carlo Lania Il Manifesto, 2 luglio 2020 Omotransfobia. Alessandro Zan, relatore del testo contro l’omofobia: “La libertà di espressione è sacrosanta, ma non può diventare istigazione all’odio”. Legge “provocatoria, liberticida e oscurantista”, che mette “il bavaglio alla libertà di pensiero”. Di più: frutto del “furore ideologico della lobby lgbt”, per arrivare a chi, come il senatore leghista Simone Pillon, ritiene che se la legge contro l’omotransfobia e la misoginia in discussione in commissione Giustizia della Camera dovesse essere approvata “nessuno potrà opporsi all’utero in affitto”. Non ha ancora visto la luce ma il provvedimento che aggiunge ai reati previsti dalla legge Mancino anche le discriminazioni fondate “sul sesso, sul genere sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere” è già diventato il bersaglio degli attacchi delle destre e degli ultrà cattolici. Al punto che l’organizzazione Pro Vita chiede di scendere in piazza l’11 luglio perché “nessuno rischi di finire in carcere per le proprie idee e perché difende la famiglia”. “Ce l’aspettavamo”, replica il relatore della legge in commissione, il dem Alessandro Zan. “È una legge che è già fallita cinque volte. Questo è il sesto tentativo ma è chiaro che le opposizioni per quanto numerose non sono tante quante sono le persone che aspettano da tanti anni una legge che le difenda”. Onorevole Zan, però intanto piovono accuse. Francamente sono stupito da tanto clamore. Stiamo parlando di una legge che difende persone che vengono picchiate, discriminate, bullizzate semplicemente per ciò che sono, perché si tengono per mano, perché si amano. Inoltre teniamo presente che l’Italia è ancora arretrata rispetto ad altri Paesi europei che si sono dotati di una legge contro i crimini d’odio. Noi non ci siamo inventati niente di nuovo, stiamo applicando la legge Mancino che già punisce i reati per razzismo, odio etnico, nazionalità e religione. C’è una giurisprudenza che ha più di 40 anni con sentenze della Corte costituzionale e Alessandro Zan, relatore del testo contro l’omofobia: “La libertà di espressione è sacrosanta, ma non può diventare istigazione all’odio” della Corte di cassazione che limitano e bilanciano bene, in modo chiaro e inequivocabile, un principio sacrosanto in una democrazia liberale che è la libertà di espressione. Un concetto che non può però essere assoluto e diventare istigazione all’odio. Tra le critiche alla legge c’è anche quella delle femministe che contestano l’uso di un certo linguaggio e in particolare della definizione “identità di genere”. Cosa risponde? Il mondo del femminismo è vastissimo e tante intellettuali si sono espresse a favore della legge. Quella di identità di genere è una definizione consolidata nel nostro ordinamento. È presente anche nelle sentenze della Corte costituzionale una delle quali nel 2015 ha sancito il diritto di ciascuna persona a vivere la propria identità di genere. Ricondurre tutto alla questione ideologica trovo che sia un’involuzione del dibattito. Perché le donne, e anche le donne trans, non vengono picchiate per il loro sesso biologico bensì per il loro ruolo di genere. E poi l’identità di genere è una definizione contenuta nella convenzione di Istanbul. La legge non è solo repressiva ma prevede anche l’istituzione di centri territoriali contro la discriminazione. Si tratta di centri anti violenza ma anche case rifugio che oggi sono solo nelle grandi città gestite autonomamente dalle associazioni. Lo Stato si fa carico di realizzare, in collaborazione con le istituzioni locali e con le associazioni, questi centri che diano protezione alle vittime della violenza e che facciano anche mediazione sociale. Si tratta di un progetto pilota che viene finanziato quest’anno con 4 milioni di euro e poi vedrà un finanziamento annuale della stessa cifra. Il consiglio comunale di Pescara non ha votato un ordine del giorno contro l’omofobia presentato come gesto di solidarietà con il ragazzo picchiato perché camminava tenendo per mano il suo compagno. Che segnale è questo? Penso che sia l’espressione più crudele della politica. È davvero assurdo che la città non dia un segnale di sostegno e di solidarietà a quel ragazzo. Il contrasto ai crimini di odio non è più una battaglia comune sulla quale tutti dovremmo essere d’accordo perché stiamo parlando di una tutela rafforzata nei confronti di soggetti che sono vittime di violenza. Trovo tutto questo crudele. Lei ha chiesto collaborazione all’opposizione, ci crede davvero? Oggi (ieri, ndr) in commissione Giustizia abbiamo avuto una seduta molto, molto costruttiva, con un dibattito proficuo anche nella differenza di posizioni. E spero che si vada avanti in questo modo. Aspettiamo domani (oggi, ndr) quando la capigruppo deciderà il calendario d’aula per luglio e capiremo quando ci sarà la discussione della legge, Se come spero avverrà in questo mese è chiaro che in commissione bisognerà garantire un iter abbastanza spedito. Migranti. La grande secca delle rimesse di Danilo Taino Corriere della Sera, 2 luglio 2020 La pandemia, per esempio, sta portando un colpo terribile alle rimesse degli emigranti, con conseguenze globali piuttosto gravi. Nei Paesi più poveri, i disastri non arrivano mai da soli: viaggiano accompagnati da altri guai, che poi colpiscono a cascata. La pandemia, per esempio, sta portando un colpo terribile alle rimesse degli emigranti, con conseguenze globali piuttosto gravi. Secondo la Banca Mondiale, nel 2018 i flussi di denaro che i migranti hanno inviato alle famiglie rimaste nei loro Paesi di origine hanno toccato i 350 miliardi di dollari. Si tratta di gran lunga della maggiore fonte di reddito estera per gli Stati a basso reddito e fragili: si confrontano con i 150 miliardi di investimenti esteri netti diretti, i cento miliardi di aiuti allo sviluppo e praticamente allo zero degli investimenti di portafoglio. Quest’anno, la Banca Mondiale prevede che le rimesse crolleranno di circa cento miliardi di dollari, più o meno il 20% rispetto all’anno scorso. Per alcuni Paesi, quelli più dipendenti da questa fonte di reddito, il crollo sarà drammatico in sé. Per il Tajikistan, le rimesse costituiscono (costituivano) il 35% del Pil, per Bermuda il 32%, per Tonga il 28%, per il Kirghizistan il 27%, per il Nepal e il Lesotho il 26%, per Haiti il 24%, per la Moldavia il 23%, per il Salvador il 19%, per Samoa il 17%. Per questi e per altri Paesi, il prosciugarsi del flusso, causato dalla perdita di lavoro degli emigrati, aprirà problemi estremamente seri. Innanzitutto, milioni di famiglie dipendenti dal denaro che arriva dai loro parenti all’estero stanno perdendo reddito di sussistenza. Ma succede anche che le rimesse hanno solitamente una funzione anticiclica: quando un’economia fragile va male, per ragioni di finanza o per catastrofi naturali, il denaro che arriva dai migranti ha un effetto stabilizzante. In questo caso, la pandemia annulla però questo effetto: gli Stati colpiti dalla crisi economica da virus non potranno contare sulle rimesse, avendo molti degli emigrati perso a loro volta il lavoro. Questi espatriati, fino a sei mesi fa fonti di reddito, potrebbero addirittura vedersi costretti a lasciare il Paese ospite e a tornare a casa ad allargare l’esercito dei disoccupati. Un’analisi del Fondo monetario internazionale ha segnalato che un deflusso di lavoratori è probabile dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Le rimesse sono state nei decenni scorsi parte del grande fiume della globalizzazione che ha alimentato di risorse i Paesi più poveri. Fiume che ora rischia di finire in secca. Regeni, i genitori: “Un fallimento l’incontro con i pm del Cairo, richiamare l’ambasciatore” di Giuliano Foschini La Repubblica, 2 luglio 2020 I magistrati egiziani hanno nuovamente chiesto a quelli italiani informazioni sull’attività di Giulio. “Un gesto offensivo”. Doveva essere l’incontro della verità. E invece è stata l’ennesima presa di tempo: dopo quattro anni e mezzo dall’omicidio e 14 mesi dall’ultima rogatoria, non c’è ancora nessuna svolta nell’inchiesta egiziana sulle torture, il sequestro e l’assassinio di Giulio Regeni. “Un’offesa” dicono i genitori del ricercatore italiano ucciso al Cairo nel gennaio del 2016. Il procuratore generale del Cairo, Hamada Elsawi, non ha infatti ieri dato alcuna risposta al procuratore capo di Roma Michele Prestipino e al sostituto Sergio Colaiocco rispetto alle 12 richieste fatte nella rogatoria inviata ad aprile nello scorso anno, nell’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Domande, alcune banali, come l’elezione del domicilio, che permetterebbero però alla procura di Roma di processare i cinque agenti della National security indagati per il sequestro di Giulio. “Il procuratore generale egiziano ha assicurato - si legge nella nota inviata al termine dell’incontro avvenuto in video conferenza - che sulla base del principio di reciprocità le richieste avanzate dalla procura di Roma sono allo studio per la formulazione delle relative risposte”. In compenso gli egiziani hanno chiesto, per la prima volta, nuove indagini sul ruolo svolto da Giulio Regeni durante la sua ricerca, nonostante la stessa National security, il servizio segreto civile egiziano, avesse già certificato l’assoluta trasparenza del comportamento del ricercatore italiano. “Hanno formulato - si legge nella nota - alcune richieste investigative finalizzate a meglio delineare l’attività di Regeni in Egitto”. “Il procuratore di Roma - scrivono i magistrati - ha assicurato che, come già avvenuto dopo l’incontro di gennaio, la procura italiana risponderà in pochi giorni alla richieste egiziane. E ha insistito - si legge ancora nella nota - sulla necessità di avere riscontro concreto, in tempi brevi, alla rogatoria avanzata nell’aprile del 2019 ed in particolare in ordine all’elezione di domicilio da parte degli indagati, alla presenza e alle dichiarazioni rese da uno degli indagati in Kenya nell’agosto del 2017”. I genitori di Giulio sono molto delusi. “A leggere il comunicato della procura di Roma è evidente che l’incontro virtuale di oggi con la procura egiziana è stato fallimentare” dicono in una nota Paola e Claudio Regeni, insieme con il loro avvocato Alessandra Ballerini. “Gli egiziani non hanno fornito una sola risposta alla rogatoria italiana sebbene siano passati ormai 14 mesi dalle richieste dei nostri magistrati. E addirittura si sono permessi di formulare istanze investigative sull’attività di Giulio in Egitto. Istanze che oggi, dopo quattro anni e mezzo dalla sua uccisione, senza che nessuna indagine sugli assassini e sui loro mandanti sia stata seriamente svolta al Cairo, suona offensiva e provocatoria. Nonostante le continue promesse non c’è stata da parte egiziana nessuna reale collaborazione. Solo depistaggi, silenzi, bugie ed estenuanti rinvii”. La questione ora diventa evidentemente politica. Il Governo italiano aveva dato rassicurazioni sulla collaborazione egiziana, anche alla vigilia della vendita delle due fregate militari al Governo di Sisi. Le aveva date alla famiglia Regeni ma anche all’opinione pubblica italiana. “Il tempo della pazienza e della fiducia è ormai scaduto - dicono però i Regeni - Chi sosteneva che la migliore strategia nei confronti degli egiziani per ottenere verità fosse quella della condiscendenza, chi pensava che fare affari, vendere armi e navi di guerra, stringere mani e guardare negli occhi gli interlocutori egiziani fosse funzionale ad ottenere collaborazione giudiziaria, oggi sa di aver fallito. Richiamare l’ambasciatore oggi è l’unica strada percorribile. Non solo per ottenere giustizia per Giulio e tutti gli altri Giulio, ma per salvare la dignità del nostro Paese e di chi lo governa”. Regeni, tempo scaduto di Carlo Bonini La Repubblica, 2 luglio 2020 In questi quattro anni, la ricerca della verità sui responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni ha conosciuto giornate buie. Persino drammatiche. Ma è difficile ricordarne una peggiore di quella vissuta ieri. Perché da qualunque parte lo si voglia osservare, l’esito della “conference call”, il vertice da remoto, tra il procuratore generale egiziano Hamada Al Sawy e i nostri procuratori Michele Prestipino e Sergio Colaiocco è uno schiaffo senza precedenti non solo a una famiglia, ma ad un intero Paese. Dunque, la conferma che il tempo dell’attesa è scaduto. L’accidia con cui l’Egitto pospone ancora una volta a data da destinarsi le risposte ad una rogatoria che pende da 14 mesi e da cui dipende la legittimità e l’agibilità di un futuro processo nei confronti di cinque funzionari dell’intelligence egiziana è pari infatti solo alla protervia delle richieste in 14 punti avanzate dal Cairo alla nostra Procura sulla figura di Giulio. Sulle ragioni del suo soggiorno in Egitto, sulla natura dei suoi rapporti in quel Paese, sulle testimonianze rese da chi gli era vicino, su ciò che conservava la memoria del suo computer portatile. Perché in quelle domande - che per giunta hanno trovato da tempo risposta negli atti già nella disponibilità della Procura egiziana - non c’è solo la prova dell’evidente strumentalità di una mossa concepita solo per prendere altro tempo. C’è qualcosa di più e di peggio. C’è l’odioso riproporsi del veleno con cui l’Egitto, quattro anni fa, aveva tentato una prima intossicazione dell’inchiesta. L’ipotesi, cioè, che la vita e il lavoro trasparenti di un ricercatore universitario italiano nascondessero da qualche parte inconfessabili rapporti con l’intelligence inglese. Che Giulio fosse una spia, insomma. Ipotesi, per altro, che il precedente procuratore generale egiziano, Nabil Sadeq, aveva ufficialmente escluso con un atto formale che celebrava Giulio quale “ambasciatore di pace nel mondo”. Nella mossa egiziana c’è evidentemente del metodo. Confondere le acquisizioni di quattro anni di cooperazione giudiziaria e rimettere in discussione la figura di Giulio, significa infatti porsi nelle condizioni di poter riavviare un estenuante suk diplomatico in cui ricominciare a negoziare un possibile punto di caduta dell’inchiesta giudiziaria sulla base di nuovi presupposti. Ma nella mossa egiziana - e questo è quel che più conta - c’è anche tutta la drammatica improvvisazione, debolezza e balbettio della gestione di Palazzo Chigi e della Farnesina di questa vicenda. Conte, a inizio giugno, pur essendo stato avvertito da un azionista di peso della sua maggioranza come il Pd circa l’azzardo in cui si stava infilando, si è consegnato senza alcun “piano b” alle generiche assicurazioni di Al Sisi sulla volontà di riprendere la cooperazione giudiziaria, come se una vicenda di questo genere si risolvesse sul piano dei rapporti personali tra capi di governo. Mentre Luigi Di Maio ha scommesso in modo miope che spostare ogni volta più in là il momento delle decisioni lo avrebbe messo prima o poi in una condizione di maggior forza o, comunque, di minor svantaggio. Senza capire che aver invocato per due anni “conseguenze” (mai arrivate) in mancanza di “cambi di passo” (lo ha fatto anche ieri dopo averlo fatto la prima volta nel 2018, da vicepremier di un governo giallo-verde), rinunciare anche solo a chiedere a Londra una collaborazione diplomatica attiva nei confronti del Cairo, ha soltanto contribuito a convincere definitivamente il Cairo che Roma brandiva una pistola semplicemente scarica. Ora tutto diventa ancora più complicato. E lo spettacolo di queste ore ne è avvisaglia. Per quel che è possibile intuire, Di Maio tenterà di sfilarsi dall’angolo in cui si è cacciato richiamando per consultazioni il nostro ambasciatore (riproponendo così una mossa identica a quella decisa dal governo Renzi nel 2016). Ed è altrettanto probabile che a qualcuno sarà chiesto conto della Caporetto diplomatica di Palazzo Chigi. Facciamo una previsione: il direttore del Dis Gennaro Vecchione, amico e gran consigliori del premier. Regista silente della vendita delle fregate al Cairo e della restituzione degli indumenti di Giulio che di Giulio non erano. Stati Uniti. 1.334 prigionieri nei bracci della morte in violazione dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 luglio 2020 Il diritto internazionale non prevede un divieto assoluto nei confronti della pena di morte. Con lo sviluppo dei trattati e delle convenzioni, sono stati posti alcuni limiti: ad esempio, la proibizione di mettere a morte persone che al momento del reato avevano meno di 18 anni o il principio che la pena capitale debba essere riservata solo “ai reati più gravi”, ossia quelli che riguardano fatti di sangue. Altri limiti sono stati posti da organi sovranazionali. Da ultima, la Commissione interamericana dei diritti umani (che, nell’ambito dell’Organizzazione degli stati americani ha il compito di valutare possibili violazioni da parte degli stati membri), è intervenuta stabilendo che la permanenza da oltre 27 anni di un detenuto nel braccio della morte della California viola gli obblighi internazionali degli Usa. La Commissione ha fatto riferimento a una sua precedente dichiarazione, risalente al 2018 e riferita a un detenuto del Missouri, nella quale aveva scritto nero su bianco che “trascorrere 20 anni nel braccio della morte è una pena eccessiva e inumana”. Il Death penalty infomation center, uno dei riferimenti del movimento abolizionista statunitense ha fatto alcuni calcoli: 1334 detenuti in 26 stati degli Usa oltre che nelle giurisdizioni federali civili e militari, si trovano illegalmente nel braccio della morte. Quasi un terzo di questi, 429, si trova in California, stato che peraltro ha introdotto nel 2019 una moratoria sulle esecuzioni; 192 sono in Florida, 95 nel North Carolina. Al 1° gennaio 2020 la popolazione complessiva dei bracci della morte degli Usa era di 2620 prigionieri. Tre ex condannati graziati - Paul Browning in Nevada, Henry McCollum nel North Carolina e Glenn Ford in Louisiana - hanno atteso 30 anni prima che venisse annullata la loro condanna a morte. La Svizzera condannata dalla Cedu per il suicidio di un detenuto mattinonline.ch, 2 luglio 2020 La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha accolto il ricorso di una madre il cui figlio si era suicidato nel 2014 nella sua cella di Urdorf, nel canton Zurigo. Secondo i giudici di Strasburgo, la polizia non ha preso misure sufficienti per evitare che il quarantenne si faccia del male. L’uomo aveva avuto un incidente mentre era sotto l’influsso di alcol e farmaci. Ha confessato alla polizia e a sua madre, chiamata sulla scena del crimine, di aver avuto pensieri suicidi. Dopo un esame del sangue in ospedale, era stato messo in una cella non sorvegliata a Urdorf. Il Tribunale cantonale di Zurigo non ha rilasciato l’autorizzazione necessaria per un’indagine penale. Il Tribunale federale ha confermato la sentenza e respinto il ricorso della madre. Le conclusioni del Ministero pubblico secondo cui non vi era un sospetto apprezzabile di comportamento punibile erano state giudicate corrette. Un punto di vista che la Cedu non condivide. Secondo quanto riferito, la polizia non ha preso misure sufficienti per proteggere l’uomo. Lo hanno trattato come una persona responsabile, anche se dalle sue condizioni e dalle sue dichiarazioni risultava chiaro che aveva tendenze suicide. Inoltre, si sarebbe dovuta svolgere un’indagine penale, ha concluso la CEDU. Né il Tribunale cantonale di Zurigo né il Tribunale federale hanno tenuto conto del rapporto medico legale nelle loro considerazioni. Quest’ultimo stabilisce che l’uomo avrebbe dovuto essere sotto sorveglianza. Per la Cedu, questa è un’indicazione sufficiente per un possibile comportamento punibile. Medio Oriente. Israele è costretto a congelare le annessioni in Cisgiordania di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 2 luglio 2020 Pressioni internazionali e crisi politica. Scricchiola il governo Netanyahu. Ieri doveva essere il giorno in cui il progetto di annessione di parti della Cisgiordania, abitate dai palestinesi sarebbe approdato all’approvazione del Parlamento israeliano. Un momento gravido di conseguenze per il futuro che però, al momento, sembra essere stato rimandato ad una data imprecisata. È stato il ministro degli Esteri dello Stato ebraico, Gabi Askenazi, a renderlo noto con un laconico: “Suppongo che oggi non accadrà nulla”. Ma le scarne parole del ministro segnalano che il rinvio è dovuto alle frizioni interne nella maggioranza di governo di Tel Aviv. Askenazi infatti fa parte della compagine Bianco-Blu alleata alla destra del premier Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo ha concluso i colloqui con gli inviati Usa, nel solco del piano per il Medio Oriente voluto da Trump, ma probabilmente il tentativo di mediazione non è riuscito a mettere d’accordo le due parti. Il premier ha fretta, preoccupato dal dilungarsi dei tempi dopo di che alla Casa Bianca potrebbe non sedere più “The Donald”. Al contrario Benny Gantz, leader dei centristi, ha tutto l’interesse a prendere tempo in quanto, secondo gli accordi tra alleati, nel 2021 sarà lui ad essere primo ministro e potrebbe intestarsi un possibile anche se difficile accordo con i palestinesi. Ufficialmente Gantz, che è anche ministro della Difesa, ha motivato il suo atteggiamento dichiarando che in questo momento l’epidemia di coronavirus ha la precedenza (in Israele si sta assistendo a un ritorno dei contagi). In ogni caso Netanyahu potrebbe comunque annunciare una mossa di sapore propagandistico come l’annessione di un insediamento illegale alla periferia di Gerusalemme. Il piano di annessione per i palestinesi, così come è concepito, è irricevibile. “Non ci sederemo ad un tavolo su cui il piano americano- israeliano è sul patto”, ha detto Saeb Erekat, segretario generale del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, parole alle quali è seguita una mobilitazione popolare a Gaza City, mantenuta nonostante il rinvio. Il piano di annessione è stato presentato a gennaio e prevede l’annessione ad Israele di territori dove sono presenti insediamenti ebraici illegali per il diritto internazionale. Gli americani propongono anche la creazione di uno stato palestinese smilitarizzato che sembra più un mosaico di parti sconnesse di zone palestinesi. L’Autorità palestinese dal canto suo ha affermato comunque di essere disposta a rinnovare i colloqui a delineati dall’idea di Trump. Molto pesa anche l’opposizione internazionale, a partire dall’Unione europea e le Nazioni Unite che hanno più volte criticato Israele così come l’intera comunità dei paesi arabi. Al di là dei tempi però quella che sembra ormai essere fortemente intaccata è l’idea di “due stati per due popoli”. Soprattutto tra i palestinesi infatti la possibile annessione sarebbe solo una formalità visto che negli ultimi anni è aumentata in Cisgiordania la costruzione di insediamenti ebraici e di strade per soli coloni ebrei collegate a Israele. Libano. I rifugiati siriani stretti tra l’emergenza Covid-19, la crisi economica e i rimpatri forzati di Marta Serafini Corriere della Sera, 2 luglio 2020 Razzismo, raid, arresti arbitrari e torture si vanno ad aggiungere a mancanza di cibo e lavoro. Così alcune famiglie pensano al rientro in Siria anche se non è per niente sicura. La denuncia di Operazione Colomba: “Serve un accordo per rientri in aeree demilitarizzate”. “Siamo in 10 in questa tenda, mio marito ed io e i nostri 8 bambini. Posso percorrere al massimo 5 passi. Non possiamo uscire se non per andare al negozio all’entrata del campo. Il proprietario ci chiede l’affitto tutti i giorni, ma come possiamo pagare $50 se non possiamo lavorare?”. “Nostra madre stava diventando cieca e non potevamo permetterci di ricoverarla qui in Libano, per questo siamo tornati a Houla, in Siria. Dopo dieci giorni i soldati governativi sono arrivati e ci hanno costretto ad arruolarci nell’esercito. Al momento, io sto combattendo per il governo siriano a Idlib e mio fratello e? in servizio ad Aleppo. E? stato arruolato da Hezbollah e riportato a Dahiyeh (quartiere sciita a Beirut, Libano), dove e? stato tenuto in un campo di addestramento militare. Al momento sta combattendo con Hezbollah contro l’ISIS a Hama (Siria)”. Miriam e Hadi fanno parte del milione e oltre di rifugiati siriani in Libano, bloccati tra l’impossibilità di non poter tornare a casa, il rischio di essere rimpatriati a forza e l’ostilità di un Paese in crisi che non è più in grado di accogliere i profughi che arrivano dagli Stati circostanti. Il primo caso di Covid-19 e? stato registrato in Libano a marzo 2020 e ha causato la chiusura su larga scala di scuole, università, e spazi pubblici, seguite da raccomandazioni di auto- isolamento per chiunque presentasse i sintomi del virus. “Mantenere l’auto-isolamento, cosi?come un’igiene adeguata e? quasi impossibile per chi vive in condizioni di disagio nei campi profughi o in edifici fatiscenti e sovraffollati”, spiegano Caterina F. e Paola F. di Operazione Colomba. Il 15 marzo 2020, con 99 casi di Covid-19 confermati, il Libano ha dichiarato lo stato di emergenza, imponendo la quarantena a tutti i residenti e chiudendo università, scuole, aeroporti, porti, ristoranti, bar e locali. Il 26 marzo poi il governo di Beirut ha imposto un coprifuoco parziale tra le sette del mattino e le cinque del pomeriggio. Marzo è stato anche il mese in cui il Libano ha quasi raggiunto il fallimento economico. Il nuovo primo ministro Hassan Diab ha dichiarato che il Libano non e? stato in grado di pagare 1.2 miliardi di dollari di obbligazioni e che l’ipotesi della bancarotta non è esclusa. Visto il protrarsi della crisi economica e politica, e? praticamente certo che il disagio economico del paese legato all’emergenza della pandemia, inciderà in maniera significativa sulla capacita? di garantire i servizi di base ai suoi cittadini e al milione circa di rifugiati ospitati. Questa pressione mette molti siriani nella condizione di preferire l’alternativa del ritorno in patria alla permanenza in Libano, nonostante la totale mancanza di garanzie sulle condizioni di sicurezza in Siria, con l’unica altra opzione di tentare di raggiungere l’Europa via mare. Nell’agosto del 2019, il servizio di sicurezza libanese (GSO) ha confermato di aver deportato 2,731 cittadini siriani in Siria. Da allora, il Servizio di sicurezza non ha rilasciato nuovi numeri sulle deportazioni e ha rifiutato di fornire dati su richiesta. Le stime dei rimpatri volontari dal Libano sono ancora incerte. Nel luglio 2019, il ministro della difesa russo dichiarava che circa 96,000 siriani erano stati rimpatriati per mezzo dei programmi di rimpatrio coordinati dal Servizio di sicurezza libanese.20 Nel novembre 2019, il presidente libanese Michel Aoun forniva all’UE stime di circa 390,000 rifugiati siriani tornati in patria tramite i programmi di rimpatrio o autonomamente. I dati ufficiali dell’ONU invece segnalano circa 38,500 rifugiati registrati che hanno compiuto il rimpatrio fino all’agosto 2019, mentre dati più? recenti non sono ancora disponibili. A prescindere da quale sia il numero esatto, Operazione Colomba ha rilevato che la maggior parte di questi ritorni sta accadendo in maniera informale e indipendente, da parte di individui o famiglie che decidono di tornare in Siria senza comunicare i propri spostamenti all’Unhcr o alle autorità. Il desiderio di riunirsi con la famiglia in Siria, di avere un accesso più economico ai servizi sanitari e ai farmaci, cosi? come la speranza di trovare condizioni lavorative migliori, sono tutti fattori decisivi nella scelta di rimpatriare. Questo si aggiunge alle continue intimidazioni, alle discriminazioni e alle misure politiche sempre più severe subite dalla popolazione siriana in Libano. Risultato, chi torna non lo fa perché crede che la Siria sia sicura, ma perché è diventato insostenibile continuare a vivere in Libano. Prima di tornare, la maggior parte delle persone tenta il cosiddetto “tafyish”, ossia l’atto di ottenere informazioni riguardo alla propria segnalazione sulla lista dei ricercati, cercando di corrompere agenti di sicurezza del regime. Se i nomi vengono trovati sulla lista, e? molto improbabile che una persona si arrischi a ritornare. Molto spesso, tuttavia, vengono restituite informazioni false, che pero? contribuiscono al processo decisionale di molti individui e famiglie che, una volta in Siria, vengono arrestate. Essere rimpatriati o tornare in Siria e? un altissimo rischio per la maggior parte dei rifugiati in Libano. Su 1.916 casi ufficiali di deportazione documentate dalla Rete Siriana per i Diritti Umani fino all’agosto 2019, 784 sono stati arrestati immediatamente e altri 638 sono scomparsi. Per le famiglie che sono tornate autonomamente, i rischi per la sicurezza non sono molto diversi da quelli dei deportati: Operazione Colomba ha raccolto testimonianze di molti siriani che sono tornati in Siria per poi essere arrestati sulla base di accuse inventate. Molti volontari hanno ricevuto conferma diretta di casi di persone scomparse a pochi giorni o settimane dal loro ritorno, di arresti, torture e arruolamento forzato ai danni di familiari e amici in Siria. Con la crisi e il Covid la situazione è peggiorata. Da un lato il regime di Damasco, stretto lui stesso dalla morsa della crisi economica e dall’epidemia di coronavirus affronta manifestazioni di piazza ma non sembra disposto a fare concessioni all’opposizione, dall’altro la retorica anti-rifugiati siriani, che da mesi viene avvallata da messaggi politici xenofobi da parte di politici e autorità libanese, ha normalizzato un alto livello di ostilità della popolazione locale verso i siriani. Prima dell’esplosione delle proteste sociali, a ottobre 2019, l’ex ministro degli Esteri e capo del Movimento Patriottico Libero Gibran Bassil aveva pubblicamente dipinto i profughi siriani come i responsabili dell’elevato tasso di disoccupazione e del danno economico del Paese, accusato inoltre l’Onu di “diffondere la paura” e di intimorire i rifugiati che avrebbero voluto tornare volontariamente in Siria. “Tuttavia, nelle proteste in piazza cominciate a ottobre 2019 la difficile convivenza fra libanesi e profughi siriani in Libano non e? mai stata usata come capro espiatorio dai manifestanti”, sottolineano le operatrici di Operazione Colomba. Le manifestazioni sono state indirizzate verso la corruzione e l’incompetenza della classe politica e spesso, durante le proteste, sono stati intonati canti di solidarietà fra libanesi e siriani. Insieme all’inasprimento delle misure contro le imprese e i lavoratori siriani, si e? registrato un aumento del numero di incursioni militari nei campi profughi, in particolare nella valle della Beqaa. Durante tali incursioni, molti fra gli uomini vengono interrogati e arrestati per mancanza di documenti in regola. In molte occasioni, il luogo in cui vengono detenuti gli uomini, arrestati ai posti di blocco sull’autostrada o durante le incursioni nei campi, rimane sconosciuto per giorni. Segnalazioni su maltrattamenti e torture subite dai siriani all’interno delle prigioni libanesi sono state pubblicate da varie associazioni, testimoniando un preoccupante aumento di arresti arbitrari e un sovraffollamento delle carceri. Nel mese di giugno 2017, Human Rights Watch ha segnalato la morte di 5 cittadini siriani detenuti dall’esercito libanese, pubblicando le foto dei cadaveri, i quali recavano segni visibili di tortura. Stretta su Hong Kong. Oltre 300 arresti di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 2 luglio 2020 Torna la mobilitazione: ma ora chi va in piazza rischia fino all’ergastolo. Cortei, scontri, centinaia di arresti: Hong Kong è di nuovo in fiamme. Ma la legge di sicurezza nazionale imposta dalla Cina di Xi non ferma la protesta. Cortei, blocchi stradali, cannoni ad acqua della polizia, centinaia di arresti. Hong Kong, nel primo giorno dell’era della Legge di sicurezza nazionale imposta da Pechino, è tornata a mobilitarsi, come aveva fatto per mesi l’anno scorso. Ma ora tutto cambia: da ieri chi viene arrestato rischia l’incriminazione per sedizione, secessionismo, terrorismo o collusione con forze straniere. La Legge cinese prevede da un minimo di tre anni di carcere fino all’ergastolo. Però, in tanti non hanno avuto paura. E qualcuno sta già pagando: almeno dieci degli arrestati sono accusati di violazione della nuova legge, la più giovane è una ragazzina di quindici anni che sventolava un drappo indipendentista. La grande rivolta - La scintilla della grande rivolta di Hong Kong, nell’estate 2019, era stata la legge sull’estradizione. Fu ritirata dopo mesi di marce oceaniche, scontri, lacrimogeni, roghi, l’occupazione per una notte del Legislative Council, la trasformazione dei campus universitari in fortezze assediate. Una sfida intollerabile per il Partito-stato. Ieri, nel 23° anniversario della restituzione della colonia alla Cina e nel primo giorno di applicazione della Legge sulla sicurezza nazionale voluta dal presidente Xi Jinping, Pechino ha rivelato che chi sarà arrestato dagli agenti dell’intelligence cinese spediti a Hong Kong potrà essere estradato e processato nella Madrepatria (vale a dire consegnato a tribunali nella Cina continentale, non più ai giudici garantisti della City). Non è più prevista la libertà sulla parola in attesa del processo: solo il carcere. Al mattino, durante la cerimonia del doppio alzabandiera, cinese e hongkonghese, solo una dozzina di persone ha osato marciare per protesta lontano dalla Bauhinia Square, sigillata da 4 mila poliziotti e da alti reti di recinzione. Le cinque domande - Poi, più persone hanno preso coraggio e alcune centinaia di dimostranti si sono concentrati in Causeway Bay. Il corteo scandiva slogan per incitare a non abbandonare le “Cinque domande” al governo: liberazione dei detenuti, commissione d’inchiesta indipendente sulla repressione da parte della polizia e soprattutto “suffragio universale e democrazia” (si potevano invocare fino all’altro giorno a Hong Kong, ora sono sinonimi di sovversione e cospirazione con forze straniere). I manifestanti si sono trovati di fronte cordoni di agenti che li hanno accolti con un nuovo striscione di ammonimento. La procedura di ordine pubblico nella City prevede che un agente per ogni reparto tenga pronti nello zaino gli avvisi da srotolare di fronte agli assembramenti e ai cortei. Gialli, rossi o neri a seconda della gravità della situazione sul campo. “Attenzione, disperdetevi”, “Un altro passo e carichiamo”, “Lancio imminente di lacrimogeni”. Ora quello appositamente scritto per la Legge di sicurezza: è su sfondo viola e avverte che urlare slogan antigovernativi infrange la National Security Law cinese: “Potete essere arrestati e processati”. C’è una versione in cinese e una in inglese, perché tutti capiscano, anche i residenti stranieri della City. E subito c’è stato il primo arresto: un uomo che aveva un manifesto con la scritta “Hong Kong Independence”. Rischia l’incriminazione per sedizione e secessionismo. Il corteo però si è infoltito, alcune migliaia di dimostranti e grida di “Resistenza fino alla fine”; qualche blocco stradale, la polizia ha schierato un cannone ad acqua, usato spray urticanti e moltiplicato gli arresti, circa 370 prima di notte. La governatrice - A Bauhinia Square, dopo l’alzabandiera, la governatrice Carrie Lam ha detto ai dignitari: “La decisione di introdurre la Legge sulla sicurezza nazionale era necessaria ed è stata tempestiva, per mantenere la stabilità di Hong Kong e il principio “Un Paese due sistemi”. A Pechino conferenza stampa di Zhang Xiaoming, vicedirettore esecutivo dello Hong Kong and Macau Affairs Office: ha detto che i sospetti arrestati da agenti del nuovo Ufficio di intelligence cinese nel territorio potranno essere processati in Cina, perché non ci si può aspettare che il sistema legale hongkonghese sia in grado di svolgere tutto il lavoro di applicazione della Legge di sicurezza nazionale. L’articolo 55 sancisce che l’ufficio di Pechino a Hong Kong eserciti giurisdizione su casi “complessi” o “gravi”. Zhang ha concluso: “Questa legge è un regalo di compleanno per Hong Kong e si dimostrerà preziosa nel futuro”. I sudanesi chiedono giustizia per le vittime della sollevazione contro Bashir di Michele Giorgio Il Manifesto, 2 luglio 2020 Resta alta la tensione nelle strade sudanesi dopo le proteste di massa di due giorni fa in cui una persona è rimasta uccisa e diverse altre ferite, organizzate per chiedere giustizia per le vittime della sollevazione popolare che nell’aprile dell’anno scorso portarono al rovesciamento dell’allora presidente Omar al Bashir. Centinaia di migliaia di sudanesi martedì hanno scandito slogan e bruciato copertoni nel centro di Khartum, delle città gemelle di Khartum Nord e Omdurman, oltre che a Kassala, nel Sudan orientale, e nel Darfur. Fra le richieste c’è quella avanzata dall’organizzazione “Famiglie dei martiri” che vuole lo svolgimento di un’indagine sulle violazioni dei diritti umani e l’uccisione di 87 manifestanti durante il sit-in del 3 giugno 2019 davanti al quartier generale dell’esercito a Khartum. Ma ci sono anche la nomina di un parlamento di transizione e di commissioni incaricate di realizzare le riforme. Le proteste hanno spaventato non poco il primo ministro Abdallah Hamdok che si è affrettato a descrivere le richieste della piazza “legittime”. “Ribadisco l’obbligo per il governo di ottenere giustizia e di garantire che i crimini commessi negli ultimi 30 anni non vengano ripetuti”, ha promesso. Hamdok si è impegnato ad annunciare per i prossimi giorni decisioni “che potrebbero avere un impatto significativo - politicamente, economicamente e socialmente” avvertendo che “alcune parti” non meglio precisate “cercheranno di usarle per alimentare e creare instabilità”.