Il carcere del Covid, ricordando Margara di Saverio Migliori Il Manifesto, 29 luglio 2020 Oggi pomeriggio, a partire dalle ore 15.00, a quattro anni dalla scomparsa di Margara, torneremo a riflettere con tanti amici su questi temi, nel webinar intitolato: Il carcere dopo Cristo nell’emergenza della pandemia. La gestione irresponsabile delle carceri e l’attacco alla Magistratura di sorveglianza. Non sarà una commemorazione ma una occasione per trovare obiettivi puntuali di lotta, per ottenere riforme indilazionabili. Sarà presentato l’Archivio Sandro Margara, appena costituito come luogo di studio e di ricerca Mai come in questo momento, tornare al pensiero di Alessandro Margara può essere importante. D’altra parte, la grandezza delle persone e del loro operato, si misura proprio dalla capacità prospettica che hanno mostrato, dalla plastica resistenza alle trasformazioni culturali e sociali che le loro riflessioni e convinzioni riescono a mantenere nel tempo. E allora, bisogna riprendere una fugace, ma altrettanto acuta, affermazione dell’uomo e magistrato Margara, quanto nella sua prima Relazione annuale da Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, nel 2012, in Premessa, scriveva: “Sono convinto che la questione penitenziaria si collochi in un punto strategico e di forte crisi di questo mondo dopo Cristo, con una espressione che temo non voglia dire, come è d’uso, dopo l’apparizione di Cristo, ma dopo la sua sparizione”. Ebbene, di acqua sotto i ponti ne è passata molta nel giro di poco meno di un decennio, ma il carcere, oggi ancor più di ieri, sembra echeggiare alla sparizione di Cristo, più laicamente intesa da Margara come quel rischiosissimo declivio dei diritti, lungo il quale tutti hanno da perdere, soprattutto chi già attraversa una condizione di vulnerabilità sociale o di vera e propria esclusione. E come non individuare tra questi, appunto, le persone detenute, sovente ed impropriamente esposte all’incertezza dei diritti, quegli stessi diritti alla salute, alle relazioni familiari e sociali, allo studio ed al lavoro, ad un pieno reinserimento sociale che - in nome di una mal interpretata, ma anche mal riposta, richiesta di certezza della pena - subiscono continue contrazioni, revisioni, frizioni, sospensioni, timide concessioni. Tutto questo, nella lettura di Margara, sta dentro un quadro generale in cui il “mondo penitenziario” ha avuto, per così dire, delle “occasioni”: le riforme penitenziarie del 1975 e del 1986 che, nel tempo, hanno perso di efficacia, propulsività, passione, a causa principalmente di quella sparizione dei diritti che, in primo luogo, travolge i più deboli, coloro che maggiormente hanno bisogno di tutele e di certezza dei diritti. Il Covid-19 che, d’un tratto, rende esplicita la fragilità della nostra organizzazione sociale, esemplificando a tutti - per quanto in maniera necessitata - il significato di “chiusura”, “blocco”, contrazione delle libertà personali di movimento e di scelta, scarica i suoi effetti più devastanti proprio sui più vulnerabili: gli anziani, i detenuti, i disabili, i precari. L’emergenza pandemica ha certamente fatto vacillare la nostra società, una società in cerca di maturità. Quanto accaduto nelle carceri italiane negli ultimi mesi: dai tredici decessi tra i detenuti d’inizio pandemia, alla fortissima contrazione delle relazioni familiari, al larghissimo blocco di gran pare delle attività formative, culturali e lavorative, fino alle polemiche attorno alle cosiddette scarcerazioni facili, segnala una gestione delle carceri in estrema difficoltà, inadeguata, esito di anni di incertezza attorno alle politiche penal-penitenziarie, basti pensare al sostanziale fallimento degli Stati generali dell’esecuzione penale e delle riforme annunciate, le quali, forse, avrebbero potuto inaugurare una nuova stagione dei diritti, almeno in carcere. Oggi pomeriggio, a partire dalle ore 15.00, a quattro anni dalla scomparsa di Margara, torneremo a riflettere con tanti amici su questi temi, nel webinar intitolato: Il carcere dopo Cristo nell’emergenza della pandemia. La gestione irresponsabile delle carceri e l’attacco alla Magistratura di sorveglianza. Non sarà una commemorazione ma una occasione per trovare obiettivi puntuali di lotta, per ottenere riforme indilazionabili. Sarà presentato l’Archivio Sandro Margara, appena costituito come luogo di studio e di ricerca. Per partecipare: www.societadellaragione.it/margara Carcere, i virus sono tanti. Sulle orme di Margara di Franco Corleone L’Espresso, 29 luglio 2020 Quattro anni sono passati dal 29 luglio, giorno della scomparsa di Alessandro Margara. Una figura eccezionale che è stato punto di riferimento per chi si occupa del carcere come luogo di realizzazione dei principi della Costituzione. È stato magistrato di sorveglianza coraggioso, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria riformatore, presidente della Fondazione Michelucci attento alle contraddizioni della città e infine garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana. Gli amici e i compagni di vita anche questo anno intendono ricordare la sua figura, o meglio vogliono riflettere insieme rileggendo il suo pensiero lungo, che è raccolto nel volume di suoi scritti che ho curato “La giustizia e il senso di umanità”, in un momento di crisi profonda per la società tutta e maggiormente per gli esclusi, gli ultimi, gli emarginati. Purtroppo non sarà una riunione conviviale ma un webinar con un titolo impegnativo: Il carcere dopo Cristo nell’emergenza della pandemia. La gestione irresponsabile delle carceri e l’attacco alla Magistratura di sorveglianza. Sarà presentato anche il progetto dell’Archivio Margara che potrà costituire un luogo per approfondimenti di studio e di ricerca per studenti e per l’Università. Non sarà una commemorazione ma una occasione per proporre progetti di riforma a partire dalla realizzazione del Regolamento redatto da Margara venti anni fa. Un obiettivo centrale sarà costituito dalla campagna per l’approvazione della legge sul diritto alla sessualità e alla affettività in carcere redatta dall’Ufficio del Garante dei detenuti della Regione Toscana, fatta propria dalla Conferenza dei garanti regionali e approvata dal Consiglio Regione della Toscana e inviata al Senato per l’esame parlamentare. Il diritto alla salute e alla vita meriterà un impegno particolare. Infine la difesa della chiusura degli Opg e il rifiuto delle tentazioni neo-manicomiali saranno un banco di prova per chi intende difendere lo Stato di diritto. Nessuno tocchi Caino scava tra le storie dei “sepolti vivi” al 41bis di Valentina Stella Il Dubbio, 29 luglio 2020 Dibattere seriamente di carcere è impopolare, figuriamoci di 41bis, il regime speciale di detenzione concepito come strumento emergenziale in esito alle note stragi del 1992 per impedire ai boss di veicolare ai sodali in libertà i loro ordini criminali. Sono trascorsi ormai 28 anni da quella emergenza ma il carcere duro continua ad esistere, pur avendo perso la sua originaria essenza giustificatrice e si è mutato in un particolare tipo di tortura, usata per placare le ansie di sicurezza dei cittadini e per costringere i reclusi a pentirsi. Tutto questo all’interno di una indifferenza politica e mediatica. Ma c’è un gruppo di persone che cerca di promuovere il diritto alla conoscenza su quello che veramente succede quotidianamente in quelle celle e che nel contempo porta avanti iniziative politiche volte a superare i regimi detentivi speciali: è l’associazione Nessuno Tocchi Caino che sabato scorso ha organizzato un consiglio direttivo dal titolo “41bis: monumento speciale della lotta alla mafia, fossa comune di sepolti vivi”, prendendo spunto dall’uscita di un numero monografico sul “carcere duro” della rivista giuridica Giurisprudenza Penale. “Solo il vissuto di chi subisce questa forma di punizione può dare la forza per cambiare questo insopportabile stato di cose” ha detto la tesoriera di Nessuno Tocchi Caino, Elisabetta Zamparutti, introducendo le “storie e le testimonianze in diretta dalla fossa dei sepolti vivi”. Tra loro quella di Carmelo Gallico, detenuto per 5 anni al 41bis, oggi scrittore e divulgatore: “Mi era concessa un’ora di luce, una soltanto, nell’arco di un’intera giornata. La trascorrevo in quella scatola di cemento coperta da due fitte reti di metallo chiamato passeggio. Quindici passi per percorrerla in lungo, appena 5 in larghezza. All’inizio li contavo: camminavo in lungo con gli occhi chiusi sui miei pensieri e giravo a memoria. Le rimanenti 23 ore le trascorrevo nel chiuso della cella sotto il freddo pallore di un neon”. Poi ha preso la parola Immacolata Iacone, moglie di Raffaele Cutolo, che è sottoposto al 41bis dal 1992. La donna ha lanciato un disperato appello: “Lui sta pagando giustamente la sua pena ma vi chiedo a livello umanitario di farlo curare nelle sedi adatte. Non può pentirsi per ottenere questo: ha bisogno di cure. Nell’ultimo incontro avvenuto a Parma un mese fa non è riuscito ad alzare gli occhi, a portare una bottiglia d’acqua alla bocca, a parlare, ad interagire con me e nostra figlia. Sta peggio di come stava Provenzano. Il carcere di Parma è un cimitero di vivi: stanno solo aspettando di farlo uscire morto da lì. Facciamo prima a mettere la sedia elettrica”. Tra le testimonianze c’è stata quella dell’avvocato Lisa Vaira la quale, insieme al collega Andrea Imperato, segue il caso di Pasquale Zagaria che Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino, ha definito come “lo scandalo di uno Stato detto democratico, che pratica la tortura più di quanto accadeva durante il Ventennio con il Codice Rocco”. Proprio il magistrato di sorveglianza di Sassari, dottor Riccardo De Vito, che ha concesso il differimento pena per motivi di salute a Zagaria è intervenuto tra i primi: “Secondo me i decreti legge 28 e 29 del 2020 segnano una curvatura pericolosa. Ci eravamo lasciati prima dell’irruzione del covid con gli avanzamenti della Corte Costituzionale sul terreno delle ostatività; invece la pandemia ha fatto concretamente entrare nell’ordinamento uno slittamento di senso, vale a dire di nuovo la riproduzione degli automatismi, questa volta piegati però non al trattamento ma addirittura imposti rispetto alla platea dei diritti. A ciò si aggiunge il rischio che la magistratura di sorveglianza perda la sua cultura di discrezionalità e terzietà, rischiando di recepire acriticamente le valutazioni delle procure, che non sono di un giudice terzo”. Moltissimi altri interventi, tra cui quello di Rita Bernardini, del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma che ha espresso preoccupazione per una recente circolare del Dap che pone il rischio dell’utilizzo del trasferimento come elemento disciplinare che in Italia non è previsto, e anche accademici - Davide Galliani, Pasquale Bronzo - e avvocati tra cui Simona Giannetti, Michele Capano, Maria Brucale, Silvia Marina Mori, Maria Teresa Pintus, Alessandro Gerardi, Gianpaolo Catanzariti, e tanti altri. Per riascoltarli tutti si può consultare l’archivio di Radio Radicale. Carceri, un modello organizzativo che guardi a Costituzione e standard internazionali di Andrea Oleandri* antigone.it, 29 luglio 2020 La Circolare emanata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nei giorni scorsi disegna un modello di gestione del conflitto interno alle carceri interamente schiacciato sulla repressione, spingendo verso una gestione di tipo disciplinare della vita penitenziaria e una reazione esclusivamente repressiva degli episodi, anche violenti, che possono verificarsi in carcere. È un modello che amplifica il conflitto stesso invece di lavorare alla sua decostruzione. Un clima penitenziario sereno è quel che rende migliore la vita di chiunque abiti il carcere, detenuti e personale. Esso non si costruisce con l’uso massivo dell’isolamento disciplinare, con trasferimenti e con le punizioni esemplari bensì proponendo una vita penitenziaria piena di senso, con attività lavorative e culturali e con operatori capaci di instaurare relazioni di prossimità fondate sulla conoscenza delle persone detenute e delle dinamiche di sezione, come indicato dagli organismi internazionali con il concetto di sorveglianza dinamica. Il documento che abbiamo inviato nei giorni scorsi ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, si muove in questa direzione, verso un carcere che guardi alla Costituzione e agli standard internazionali. *Associazione Antigone Stop alle porte girevoli e ai magistrati che entrano ed escono dalla politica di Bruno Ferraro* Libero, 29 luglio 2020 Nella primavera del 2017 l’ex ministro Renato Brunetta pubblicò una lista trasmessagli, a seguito di sua insistita richiesta, dal Csm nella quale erano contenuti i nominativi di ben 221 magistrati ordinari che, essendo distaccati presso altri organi ed uffici, erano esentati dall’esercizio delle funzioni giudiziarie. Per 152 di essi si trattava di fuori ruolo ai sensi della legge 181 del 2008 in quanto destinati al funzionamento di essenziali strutture ministeriali, come l’Ispettorato, l’Amministrazione Penitenziaria, alcuni ministeri, scuola superiore, giustizia minorile, Csm, Corte Costituzionale, Presidenza della Repubblica. Per molti altri, però, il distacco era a beneficio (si fa per dire) di uffici del tutto estranei alla cultura giudiziaria o perché impegnati in politica (Parlamento, Governo, elezioni amministrative, assessorato regionale). Vi ritrovai nella lista nominativi dei quali stentai a ricordare un loro pregresso impegno come magistrati negli uffici giudiziari ovvero nell’esercizio della primaria funzione giurisdizionale. Sembrò essere l’inizio di un cammino riformatore. Tra i magistrati impegnati in politica c’era addirittura chi, prima come sindaco e poi come governatore di una popolosa regione, si era candidato per la segreteria nazionale del Pd (Michele Emiliano) nonostante una norma costituzionale vieti da sempre l’iscrizione di un magistrato ad un partito politico. A distanza di tempo, non sembra che la denuncia di Brunetta abbia dato l’esito sperato. Nel 2018 sono andati fuori ruolo altri 44 magistrati ed ammontavano ad 817 i magistrati in servizio con almeno un collocamento fuori dal ruolo organico nel corso della loro carriera. È fin troppo scontato affermare che siamo in presenza di un fenomeno allarmante che esige misure drastiche non ulteriormente rinviabili. I vuoti nelle aule di giustizia sono consistenti; più della metà dei magistrati in servizio sono di sesso femminile e quindi soggette ad un doveroso periodo di astensione per parto e maternità; le stesse donne reclamano giustamente la parità nell’accesso agli uffici pubblici diversi dai tribunali in osservanza dell’articolo 51 della Costituzione; il congelamento dei ruoli è penalizzante per quanti fanno affidamento in una sollecita risoluzione delle controversie promosse in sede civile e dei giudizi a loro carico in sede penale. Sarebbero già queste ragioni consistenti per restringere al massimo la platea dei giudici fuori ruolo. Si aggiunga la necessità di verificare se l’aspettativa del magistrato interessato è compatibile non solo con le esigenze organizzative della giustizia ma anche con il profilo della possibile lesione dell’immagine di imparzialità ed indipendenza del magistrato o con il pregiudizio derivante al prestigio della magistratura. All’interno della categoria circola da sempre, anche se spesso disapplicato, il detto dello scrittore latino secondo cui i magistrati sono come la moglie di Cesare, dovendo non solo essere ma anche apparire indipendenti: l’indipendenza, infatti, rientra nella stessa essenza della giurisdizione che è credibile solo se è imparziale. Ed allora si pensi seriamente all’introduzione di correttivi. Ad esempio una congrua sospensione dell’aspettativa per almeno 3-5 anni, dopo un ininterrotto fuori ruolo decennale, per evitare il rischio di carriere parallele e dare la possibilità di un fuori ruolo ad una più vasta platea di aspiranti. Ma soprattutto il divieto delle “porte girevoli” che consente ai magistrati di entrare ed uscire dalla politica, laddove invece la scelta di candidarsi in libere elezioni va permessa solo se chiara, trasparente e definitiva. *Presidente aggiunto onorario presso la Corte di Cassazione Sisto: “Separazione delle carriere, rotto l’incantesimo: la riforma si farà” di Errico Novi Il Dubbio, 29 luglio 2020 Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia, non considera una débâcle il ritorno in commissione a cui è irrimediabilmente destinata la separazione delle carriere. “È stata una giornata storica per tre ragioni: perché è arrivata in Aula una legge di iniziativa popolare, perché si trattava di una legge promossa dall’Unione Camere penali italiane e perché l’aula di Montecitorio rappresenta in ogni caso una straordinaria cassa di risonanza, dove siamo riusciti ad anticipare quello che accadrà: attuare la parità tra le parti nel processo anche all’interno dell’ordine giudiziario”. Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia, non considera una débâcle il ritorno in commissione a cui è irrimediabilmente destinata la separazione delle carriere. Nella discussione generale andata in scena lunedì a Montecitorio scorge anzi auspici di vittoria. Sia per gli avvocati, che attraverso l’Ucpi hanno raccolto 74mila firme e messo sul tavolo del legislatore la riforma costituzionale, sia per Forza Italia, “perché noi siamo stati sempre in primissima linea, veri sostenitori in Parlamento di questa sacrosanta riforma”. Tanto che lunedì avete quasi monopolizzato il dibattito in Aula... Siamo stati gli unici a utilizzare l’intero tempo messo a disposizione del gruppo, con gli interventi dei colleghi Calabria e Battilocchio, oltre a quello del sottoscritto. Il Movimento 5 Stelle non è pervenuto. Di fatto non si è visto, eppure con Fraccaro erano stati loro a presentare la proposta tranchant sulle leggi di iniziativa popolare. Ne arriva una per la prima volta all’esame dell’Aula e non dicono neppure cosa ne pensano? Il pentastellato Giuseppe Brescia è intervenuto solo nella sua qualità di presidente della commissione Affari costituzionali: “Non esprimo valutazioni di merito”, ha detto. Invece Bazoli ha spiegato la prudenza dem anche col rischio di scatenare reazioni nella magistratura: dimostra che nel merito la riforma è difficile da contestare? Certo, il fatto che si senta quasi il bisogno di giustificarsi con una controindicazione politica attesta quanto sia difficile criticare la separazione delle carriere nel merito. Ma vorrei citare un magistrato del calibro di Renato Bricchetti, presidente di sezione della Suprema corte, intervenuto lunedì sera, dopo la seduta alla Camera, a un webinar organizzato proprio dall’Unione Camere penali: “Le vere riforme non si possono fare con l’accordo di chi le subisce”, ha ricordato. Parliamo di una figura dalla grande onestà intellettuale. La separazione delle carriere attua il principio del giusto processo affermato all’articolo 111 della Costituzione, e una riforma che attua un principio già sancito dalla Carta non richiede, credo, il consenso di un sindacato dei magistrati. Ma se di qui a qui a qualche tempo il centrodestra approvasse la separazione delle carriere, Pd e M5S secondo lei avrebbero il coraggio di chiederne la bocciatura al referendum confermativo? Più che la mobilitazione dei partiti si creerebbe quella di chi non vuol perdere il privilegio della commistione tra attività giudicante e requirente. Perché di privilegio si tratta. E io temo che, in quel caso, Pd e 5 Stelle possano farsi veicolo di quella forte spinta prodotta dalla magistratura. Però lei considera maturo il tempo per una svolta sulle carriere dei magistrati, giusto? Sì, credo siano maturi i tempi per una rivoluzione culturale, possibile però solo attraverso una rivoluzione meccanica sulle carriere: cioè, va restituita autorevolezza e forza al giudice, innanzitutto al gip, rispetto al pm, attraverso la separazione di chi giudica da chi accusa. FI è certamente l’avanguardia garantista in Parlamento: avvertite su di voi il pregiudizio di chi ritiene abbiate una simile vocazione solo perché coincide con l’interesse del leader? Il fatto che Berlusconi sia stato uno sgradevole teste per il garantismo non cancella il fatto che noi abbiano avuto sempre lo stesso atteggiamento anche con chi apparteneva ad altre aree politiche, pure opposte alla nostra. Noi siamo garantisti innanzitutto in opposizione ai giustizialisti, a chi esalta solo decisioni di condanna, anziché le decisioni ispirate dalla serenità. Le divaricazioni dal Pd sulla giustizia stroncano ogni ipotesi di alleanza tra voi e loro? Non sono mai stato un fan di una simile ipotesi. Credo non stia in piedi soprattutto per la scarsa affidabilità del Pd. Se si pensa all’opposizione da loro condotta contro il governo M5S- Lega e poi al profilo che esibiscono ora, viene in mente la maschera bifronte del teatro greco: pianto da un verso, riso dall’altro. La giustizia dem è per noi indigeribile, al punto da non poter ipotizzare neppure sinergie occasionali. Loro la declinano secondo l’ottica di una parte della magistratura, noi con lo sguardo rivolto ai diritti dei cittadini. Il detenuto al 41bis ha diritto ad abbonarsi ai quotidiani di Antonio Amorosi affaritaliani.it, 29 luglio 2020 Lo conferma anche la Corte di Cassazione. È finito in Cassazione il ricorso di un boss al 41bis, il regime duro che si applica ad alcuni detenuti particolarmente pericolosi per ostacolare le loro comunicazioni con le organizzazioni criminali. Il boss si chiama Salvatore Madonia è nato il 1956 ed è figlio di Francesco, storico capo mafia condannato all’ergastolo nel processo “Borsellino-ter”. Il boss voleva far valere il suo diritto a informarsi tramite un quotidiano e ad elevarsi culturalmente. Accede tutto a Sassari, alla Casa circondariale nel nord ovest della Sardegna, dove un blocco del penitenziario è dedicato ai detenuti in regime di 41bis. Questo detenuto “speciale” presenta un reclamo al Magistrato di Sorveglianza contestando la decisione della Casa Circondariale che gli ha negato il diritto di sottoscrivere un abbonamento gratuito a un quotidiano, a Il Manifesto, e di poter avere una copia gratuita di un secondo giornale, L’Avvenire. I due quotidiano sono testate di cui il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, consente la lettura. Il Magistrato però respinge il reclamo, bollandolo come generico e poi considera il rifiuto come un atto che non viola alcun diritto del detenuto. Contro questa decisione il boss ricorre al Tribunale di Sorveglianza che con ordinanza dichiara il “non luogo a deliberare”. Anche perché si scopre che la Curia vescovile non consente più la consegna della copia gratuita del suo giornale, l’abbonamento non è gratuito ma a pagamento. Ma rispetto a questo la Direzione del carcere non ha apposto impedimenti. In sostanza il detenuto dovrebbe capire come pagarselo ma intanto non può accede a quel giornale. Il boss, convinto del fatto suo (spesso avrebbe presentato ricorsi simili), ricorre in Cassazione contestando la violazione degli articoli 21 e 24 della Costituzione “nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione”. Nella contestazione il detenuto fa presente che un’altra Casa Circondariale ha invece accolto la richiesta di un altro detenuto che si è trovato nelle sue medesime condizioni. In più in quel caso la Direzione del giornale, a cui il detenuto era interessato, aveva istituito un fondo per consentire la sottoscrizione gratuita dell’abbonamento alla testata. La Cassazione con la sentenza n. 21803/2020 ha annullato l’ordinanza del Magistrato e rinviato ad un’altra toga la decisione sul caso ma riconoscendo che il ricorso presentato dal boss è fondato. “In materia di quotidiani nazionali è stato condivisibilmente affermato che il diritto a ricevere pubblicazioni della stampa periodica costituisce declinazione del più generale diritto a essere informati, a sua volta riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero, di cui costituisce una sorta di precondizione; sicché esso trova una diretta copertura costituzionale negli artt. 2 e 21 Cost. e, a livello convenzionale, nell’art. 10 Cedu”. Per gli Ermellini della Corte di Cassazione negare il diritto a informarsi e alla cultura si pone in contrasto con gli articoli 2 e 21 della Costituzione italiana che riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e parte della collettività e il diritto all’informazione. Il magistrato di Sorveglianza avrebbe dovuto capire se i giornali richiesti erano accessibili tramite fondi e altre strade o se il quotidiano in oggetto si fosse reso disponibile a distribuire gratuitamente il giornale. La Corte di Cassazione, che nel nostro ordinamento giudiziario svolge funzione di Corte Suprema, ha spiegato che il diritto all’informazione è un principio fondamentale della persona, riconoscendo al detenuto, per quanto boss e al 41bis, il diritto ad abbonarsi a un quotidiano e ad avere diritto alla copia gratuita di un altro giornale, capovolgendo sia la decisione del magistrato di Sorveglianza sia quella del Tribunale che ne avevano impedito la possibilità. Ora il magistrato di Sorveglianza dovrà nuovamente rivalutare il reclamo, motivandolo come ordinato dalla Cassazione. Salerno. Giovanni “Jhonny” Cirillo era un rapper, si è ucciso nel carcere di Fuorni di Cesare Damiano Il Dubbio, 29 luglio 2020 Aveva 25 anni Giovanni Cirillo, in arte Jhonny, rapper di origini somale che domenica scorsa si è tolto la vita nel carcere campano di Fuorni. Con il suo, sono sette i suicidi dall’inizio dell’anno, solo in quell’istituto. Dai domiciliari per una rapina in farmacia era finito in carcere in seguito a un aggravamento della misura cautelare chiesto dalla Procura dopo quattro evasioni dall’abitazione. Non ha resistito e ha deciso di togliersi la vita. Grazie a Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania, si viene a sapere che il giovane rapper richiedeva con forza il trasferimento in una struttura sanitaria destinata al trattamento di patologie psichiche. Il carcere, quindi, si rivela un fallimento. O meglio, una opzione mortale per quei ragazzi difficili.Giovanni, si viene a sapere proprio da un articolo dell’anno scorso pubblicato su La Città, quotidiano di Salerno e provincia, ha trovato nella musica una nuova vita, dopo un trascorso tra coca e criminalità. “Feci una rapina in gioielleria, ma fui arrestato poco dopo e portato in carcere, ebbi problemi di salute in successione, gravi problemi renali, ma riuscii a sconfiggerli”, ha raccontato all’epoca, aggiungendo: “Fortunatamente mi concessero i domiciliari e poi l’ingresso in comunità di recupero. Fu dura all’inizio ma poi decisi di cogliere la palla al balzo e darmi una possibilità”. Ed è nata lì la nuova vita. Giovanni iniziò così il suo percorso di rinascita e di riscatto che lo ha portato ad incidere il suo primo brano, “Serpe”, girato a Rimini con l’agenzia “Trasmetto.it”. Ma purtroppo non è una storia a lieto fine. Accade che, all’inizio di quest’anno, dopo un litigio familiare in cui lo stesso rapper, esasperato, avrebbe chiesto denaro per il pagamento di una bolletta, decide di rapinare una farmacia. Il suo tentativo, in realtà concluso con la fuga, è poi finito male con l’arrivo dei carabinieri che lo hanno bloccato ancora con i 600 euro rubati: il giovane aveva portato a compimento il suo proposito intascando i soldi al volo, minacciando i titolari con l’ausilio di una pistola giocattolo, prima di essere raggiunto dai militari e condotto in cella, con la successiva scarcerazione e remissione agli arresti domiciliari seguita alla piena confessione delle sue responsabilità. Poi, però, a causa dei suoi tentativi di evasione dai domiciliari, viene rispedito dentro in cella. Lì decide di togliersi la vita. Qualcosa non ha funzionato, forse la società stessa che non è stata in grado di farselo a carico. Eppure, secondo quanto riferito dal Garante, il giovane rapper chiedeva aiuto. Torino. Torture nel carcere, rimossi dall’incarico direttore e comandante di Errico Novi Il Dubbio, 29 luglio 2020 Minervini è stato messo a disposizione del provveditorato, mentre Alberotanza è stato distaccato ad Asti. Sono stati rimossi dall’incarico il direttore e il comandante della Polizia penitenziaria del carcere torinese “Lorusso e Cutugno”, Domenico Minervini e Giovanni Battista Alberotanza. La decisione, confermano fonti del Dap, è stata adottata dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria: Minervini e Alberotanza sono tra i 25 indagati dell’inchiesta aperta a Torino su presunte violenze ai danni di detenuti reclusi nel penitenziario. Minervini è stato messo a disposizione del provveditorato, mentre Alberotanza è stato distaccato ad Asti. Entrambi sono accusati di favoreggiamento, il direttore anche di omessa denuncia. Il nuovo direttore dovrebbe essere ora Rosalia Marino, che attualmente ricopre analogo incarico al carcere di Novara. Nell’inchiesta coordinata dal pm Francesco Pelosi sono 25 le persone indagate. I gravi episodi di violenza sarebbero stati commessi all’interno del carcere di Torino nel periodo compreso tra l’aprile del 2017 e il novembre del 2018. Il reato contestato è quello di tortura, in questo caso ai danni di detenuti, previsto dall’articolo 613 bis del Codice penale. “Ti dovrei ammazzare invece devo tutelarti”, sarebbe una delle frasi che gli agenti arrestati con l’accusa di tortura e indagati dalla Procura di Torino rivolgevano ai detenuti. Le minacce si concretizzavano in perquisizioni definite dagli inquirenti “arbitrarie e vessatorie”, devastazioni delle celle e vere e proprie spedizioni punitive con i detenuti che venivano presi a schiaffi, pugni, calci. “Ti renderemo la vita molto dura”, la frase che si è sentito rivolgere uno dei detenuti prima di essere percosso. In un’altra occasione uno dei detenuti a Torino, in attesa di un Tso, sarebbe stato chiuso in uno stanzino e malmenato. E mentre lui urlava per il dolore gli agenti “ridevano”. Parliamo dei sei agenti di Polizia penitenziaria, in servizio presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno del capoluogo piemontese, che sono stati arrestati con l’accusa del reato di tortura ai danni di alcuni detenuti. L’indagine è scattata da una segnalazione di Monica Gallo, la Garante delle persone private della libertà personale del comune di Torino. Lanciano (Ch). Presto attivo uno “Sportello anti-violenza” nel carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 luglio 2020 Venerdì scorso è stato firmato il protocollo d’intesa tra l’istituto penitenziario di Lanciano e Medea onlus. per l’apertura di uno sportello istituzionale antiviolenza. In rappresentanza delle rispettive istituzioni hanno siglato l’accordo Maria Luisa Avantaggiato, direttrice del carcere di Lanciano, e Francesco Longobardi, responsabile nazionale dell’associazione con delega all’apertura di sportelli antiviolenza. L’accordo pone in relazione, con articolate iniziative, la scuola, le famiglie e il carcere, ambienti in cui si educa o “ri-educa” e che, in quanto tali, sono i principali destinatari di percorsi di prevenzione di comportamenti violenti. Nell’ambito del progetto è prevista a breve l’apertura, all’interno del penitenziario, di uno sportello riservato ai detenuti, alle loro famiglie e a tutto il personale, curato dall’associazione Medea onlus, che si avvarrà della consulenza di psicologi, avvocati e altri esperti. Ampio spazio viene riservato dall’accordo a iniziative in collaborazione con le scuole: in questo ambito svolgeranno un ruolo rilevante le testimonianze di detenuti che in carcere sono riusciti a cogliere opportunità di cambiamento. Complementari a queste iniziative, infine, progetti di promozione culturale finalizzati a divulgare nel territorio quanto attuato negli istituti penitenziari per offrire ai condannati occasioni di cambiamento e favorirne il reinserimento nella società. “Il protocollo sottoscritto - si legge in una nota della direttrice del carcere - pone le basi per un ulteriore cammino della già ampiamente e socialmente coinvolta Associazione Medea verso il cambiamento sociale e il contrasto della violenza, un cammino da percorrere in stretta collaborazione con il carcere, ovvero una comunità, un’organizzazione, un’istituzione che, accogliendo il disadattamento, la devianza e la delinquenza, spesso riesce a incidere sostanzialmente sul cambiamento evolutivo del singolo e della comunità”. Piacenza. L’inchiesta si allarga: “Altri carabinieri sapevano” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 29 luglio 2020 Continuano gli interrogatori dei militari per il caso della caserma dei carabinieri Levante di Piacenza. Intanto si è insediato il nuovo comandante provinciale, il colonnello Paolo Abrate: “Il mio obiettivo personale, è di guadagnare la fiducia giorno per giorno”. Carabinieri che a vari livelli sapevano, ma non hanno denunciato nulla né ai loro superiori né tantomeno alla magistratura, come sarebbe stato loro dovere fare. Gli interrogatori dei principali indagati nell’inchiesta sulla caserma Levante allargano lo scenario delle indagini fino ad ora delineato dalla Procura di Piacenza che presto potrebbe estendersi ad altri militari che hanno assistito o sono venuti a conoscenza dei traffici e delle illegalità diffuse che ruotavano intorno all’appuntato Giuseppe Montella. L’interrogatorio - “Nessuno mi ha fatto mai una segnalazione, ma non posso pensare che nessuno si sia reso conto di quello che succedeva nella caserma”, dichiara il maggiore Stefano Bezzeccheri, che ha comandato la compagnia di Piacenza fino a mercoledì scorso, al gip Luca Milani che gli ha notificato il provvedimento di obbligo di dimora, mentre altri sette carabinieri venivano arrestati con ipotesi di reato gravissime che vanno dalla tortura al sequestro di persona, dall’arresto illegale allo spaccio di droga. Per quattro ore l’ufficiale risponde alle domande anche del pm Matteo Centini, titolare dell’inchiesta con il collega Antonio Colonna, ma esclude di aver avallato la mancata segnalazione al Prefetto di uno spacciatore, vicenda che gli è costata l’accusa di abuso d’ufficio. Nell’interrogatorio di garanzia, Bezzeccheri (difeso dall’avvocato Wally Salvagnini) ammette di non aver ostacolato l’abitudine di Montella di arrestare più persone possibili (anche illegalmente secondo l’accusa) in modo da aumentare i numeri a fine anno. Dice anche di non aver mai saputo che Montella e gli altri spesso pestavano gli arrestati, quasi sempre immigrati accusati di spaccio che venivano “convinti” a diventare informatori e ricompensati con la droga sequestrata. Il nuovo comandante - Nella caserma Levante, ma anche nella compagnia, negli anni sono transitati parecchi carabinieri, graduati e ufficiali. È a chi è stato zitto che puntano gli sviluppi dell’inchiesta della Procura diretta da Grazia Pradella. Alcuni indagati, infatti, lavorano a Piacenza da una decina di anni, come Montella e Marco Orlando, che ha comandato la Levate prima di finire ai domiciliari. Dapprima, cioè, dei reati del capo di imputazione che partano solo dal 2017. Ieri è stato anche il giorno dell’insediamento a Piacenza della nuova linea di comando nei carabinieri. “Il mio obiettivo personale, è di guadagnare la fiducia giorno per giorno”, dice il colonnello Paolo Abrate, il nuovo comandante provinciale. Il quale subito mete in chiaro: “Non sono uno che guarda alla statistica”. Catanzaro. Terreno abbandonato diventa un vigneto per aiutare i detenuti Corriere della Calabria, 29 luglio 2020 Sacrificio, fede e buona volontà sono le qualità richieste perché la vite dia frutto, simbolo di rinascita e saggezza. Nell’immagine di un profumato vigneto c’è il richiamo ad una “seconda possibilità”, come quella guadagnata delle persone che si trovano in regime di detenzione ordinario - e/o in regime alternativo alla detenzione - e che possono partecipare a progetti di reinserimento socio-lavorativo per poter apprendere un mestiere da mettere a frutto in un futuro prossimo, per rimettere al centro la persona che ha saputo affrontare i propri errori, superare i limiti ed essere valorizzato come persona libera. E ospiterà un vigneto il terreno individuato in prossimità della Casa Circondariale “Ugo Caridi” che con la collaborazione dell’Azienda “Calabria Verde” sarà recuperato e messo in produzione. Questo grazie al protocollo d’intesa siglato tra il commissario straordinario dell’Ente per la forestazione, Aloisio Mariggiò, e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Casa Circondariale “Ugo Caridi” rappresentata dal direttore, Angela Paravati. L’iniziativa, alla seconda edizione, è promossa dalla Direzione della Casa circondariale e da Calabria Verde proprio nell’ottica di affermare il principio del fine rieducativo della pena e con l’obiettivo di dare una reale “seconda possibilità” alle persone che si trovano momentaneamente privo della libertà personale di acquisire delle abilità che potranno tornare utili per apprendere un mestiere, e trascorrere in modo proficuo il tempo, dando un senso al vivere quotidiano. “Calabria Verde”, infatti, - come si evince dall’articolo 1 del protocollo - consapevole della funzione educativa e del recupero svolta dall’ambito carcerario “in particolare nell’uso equilibrato delle risorse naturali e dell’attività all’aperto ai fini della formazione del carattere dei giovani, rileva l’importanza di offrire all’amministrazione penitenziaria collaborazione per il recupero e a messa in produzione di un appezzamento di terreno, ad oggi abbandonato, nello specifico di offrire un supporto tecnico per l’impianto di un vigneto autoctono”. “Calabria Verde” attuerà forme di collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria fornendo le piante e quanto occorrente, piantumando le specie arboree con mano d’opera dell’istituto, sostenendo l’iniziativa con fondi propri. L’articolo 27 della Costituzione italiana sancisce il principio del finalismo rieducativo della pena, inteso come creazione dei presupposti necessari a favorire il reinserimento del condannato nella comunità, eliminando o riducendo il pericolo che, una volta in libertà possa commettere nuovi reati. Rispetto alla possibilità di formarsi e di lavorare in carcere vi sono ancora elevate possibilità di miglioramento, ma anche ostacoli da superare per poter efficacemente favorire un reinserimento dei detenuti ed evitare un aumento del rischio recidiva. Un minimo di attenzioni a chi soffre in silenzio, per dimostrare che, anche in luoghi di emarginazione, qualcuno pensa a loro. La situazione attuale nelle carceri italiane, per come fotografata dall’Associazione Antigone nel XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione, è ancora lontana dal garantire un efficace percorso di integrazione sociale e lavorativa. Se da un lato il numero dei detenuti lavoratori è leggermente cresciuto - passano dai 10.902 (30,74%) del 1991, ai 18.404 (31,95%) del 2017 - dall’altro oltre l’85% dei lavoratori è alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria svolgendo spesso mansioni che non richiedono competenze specifiche: tale situazione a Sud è ancora più accentuata. “Calabria Verde” ha, altresì, allo studio la possibilità di tenere corsi di formazione finalizzati all’avvio delle attività d’impresa forestale o agricoli, servizi di supporto e accompagnamento psicologico e professionale, laboratori agricoli e forestali. “Liberi dentro - Eduradio Ristretti Orizzonti, 29 luglio 2020 Ultima trasmissione realizzata dalla redazione Ristretti Parma prima della pausa estiva. In questa puntata una memoria autobiografica scritta da Nino e letta da Vincenzo Picone, oltre a un’intervista di Antonella Cortese allo scrittore Adrian Bravi e un dialogo tra Maria Inglese e Ivo Lizzola. Per ascoltare cliccare sul link: https://liberidentrohome.files.wordpress.com/2020/07/puntata-numero-4.mp3 Sul fine vita l’ultima resa della politica di Luigi Manconi La Stampa, 29 luglio 2020 La sentenza della Corte di Assise di Massa che ha assolto Mina Welby e Marco Cappato dall’accusa di “istigazione o aiuto al suicidio”, costituisce, per un verso, un’affermazione dell’umana compassione e del diritto mite e, per l’altro, una sconfitta della politica. Partiamo da quest’ultimo dato. Il 13 settembre del 2013 venne presentata alla Camera una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata a regolamentare il “Rifiuto di trattamenti sanitari e la liceità dell’eutanasia”. Quasi 7 anni sono passati da allora senza che il Parlamento abbia nemmeno avviato l’iter della discussione. Quando si sente parlare di “ritardi della politica”, con aggrottata preoccupazione da parte della politica stessa, ecco a cosa ci si può riferire. Quando, anche - e frequentemente - la politica discetta di “supplenza della magistratura”, si deve constatare che quella funzione vicaria è davvero imposta dalle circostanze. Ossia da un pieno di domande e diritti, di bisogni e interessi che si smarrisce in un vuoto normativo e non ottiene riconoscimento legale; dunque, si rivolge all’unico soggetto che può offrire tutela: il giudice. E sembra proprio la vita, ma la “nuda vita”, con le sue domande, i suoi parimenti e la sua finitezza, a interpellare il Tribunale quando il titolare del potere di legiferare, il Parlamento, abdica al proprio ruolo per ottusità o codardia. Quando lo stesso Cappato venne giudicato dal tribunale di Milano per la medesima accusa a proposito della morte di Fabiano Antoniani, la Consulta venne investita della questione di costituzionalità in merito all’articolo del codice penale (del 1930) sull’aiuto al suicidio. Il 23 ottobre del 2018, la Consulta si esprimeva così: “L’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione”. In assenza di quella “adeguata tutela” la Corte invitava il Parlamento a “intervenire con un’appropriata disciplina”, decidendo di rinviare l’udienza sul giudizio di costituzionalità al 24 settembre 2019. Ebbene, un Parlamento torpido si dispose a lasciar trascorrere neghittosamente quel tempo. E così, 11 mesi dopo, la Consulta precisa le rigorose condizioni che permettono la non punibilità di chi assista il paziente che abbia maturato “autonomamente e liberamente” il proposito di togliersi la vita. Ovvero “una patologia irreversibile” che sia causa di “sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili per il malato”, in grado di sopravvivere solo attraverso “trattamenti di sostegno vitale”, eppure capace di “prendere decisioni libere e consapevoli”. La novità della sentenza della Corte di Massa è che introduce, tra quei “trattamenti di sostegno vitale” che, soli, consentono la sopravvivenza del malato, anche la terapia farmacologica antidolorifica e antispastica (e l’evacuazione artificiale delle feci). Il quadro di riferimento rimane quello delineato dalla sentenza della Consulta del settembre 2019. E le sue parole, come le motivazioni della pronuncia della Corte di Assise di Milano, segnalano il possibile superamento di quella che resta, nella coscienza collettiva, una Grande Rimozione: la cancellazione del dolore. Per antiche ragioni storiche e culturali, la società italiana ha evitato a lungo di pensare e dire il dolore in tutta la sua potenza distruttrice. Superata una concezione penitenziale di esso, è rimasto un residuo di ritrosia a riconoscerlo e a contrastarlo con tutti i mezzi possibili. E nella stessa cultura medica si fatica a considerarlo come una patologia autonoma da diagnosticare e affrontare con adeguate terapie, quasi fosse solo un inevitabile effetto collaterale: mentre prima vittima della sofferenza non lenibile è il bene prezioso della dignità. Che, con la persona, fauna cosa sola. Disagio e disuguaglianze, le nostre periferie rimosse di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 29 luglio 2020 Un conflitto sociale sui generis, lungi dall’esprimersi alla vecchia maniera negli scioperi, nei cortei o nei grandi comizi politici, si manifesta nell’occupazione selvaggia degli spazi pubblici, nel raid violento, nel vandalismo ai danni delle scuole, della segnaletica stradale o dei mezzi di trasporto. Tutti presi come sempre dagli ultimi sondaggi e dall’immancabile polemica di giornata, tutti presi dalla fregola di twittare una dichiarazione alle agenzie ogni venti minuti o di presenziare in tv a tre talk show in una serata, i politici di questo Paese si dimenticano regolarmente di quello che avevano sostenuto con la massima convinzione solo qualche mese prima. E così non meraviglia che tra i vari scopi a cui destinare la pioggia di soldi che dovrebbe arrivarci da Bruxelles, il risanamento delle periferie è virtualmente scomparso. Quella che Renzo Piano aveva invocato come l’urgente necessità di “rammendare” il Paese non è stata degnata della minima considerazione. Solo qualche mese fa invece - complice la protesta politica dei tanti italiani obbligati nei sobborghi delle grandi città a vedersela da vicino con il problema dell’immigrazione o della presenza di un campo rom, dei tanti elettori spinti a diventare sovranisti, populisti e anti-casta per la rabbia di abitare dove i servizi sono assenti, i trasporti paurosamente insufficienti, e la delinquenza fa troppo spesso il bello e il cattivo tempo - complice tutto questo, dicevo, solo qualche mese fa il problema delle periferie dei centri urbani sembrava essere ai primissimi posti nella lista delle urgenze nazionali. Oggi, viceversa, non compare in nessun elenco dei grandi progetti da mettere in cantiere. È completamente scomparso. E dire che se c’è una cosa che l’epidemia di Covid-19 sta mettendo in luce anche nella fase attuale è proprio la crucialità della dimensione urbana e spaziale (si pensi all’obbligo del “distanziamento”!). Tanto dello spazio privato che di quello pubblico, tanto dello spazio abitativo quanto di quello urbano in generale. Ma non solo. L’andamento del contagio - particolarmente virulento nelle grandi metropoli come Wuhan, Milano o New York, con la conseguente manifestazione proprio in queste aree dei maggiori problemi - è stato letto da più d’uno, insieme all’evidente ritorno in auge della dimensione nazional-statale, come la spia di una sorta di storica inversione di tendenza. E cioè da un’epoca in cui il futuro appariva essere tutto affidato alla crescita delle grandi megalopoli mondiali, in cui sembrava che lì ormai battesse il cuore dello sviluppo, a un’epoca, invece, nella quale potrebbe affermarsi la tendenza a una spazialità assai meno dilatata e dirompente. Non vediamo forse già oggi che la diffusione del telelavoro e dell’e-commerce sollecitata dalla pandemia è sul punto di acquisire in molti settori un carattere stabile, con l’effetto di mettere in crisi l’esistenza dei grandi agglomerati di uffici, dei grandi centri e delle grandi arterie commerciali, tipici del recente avvenirismo metropolitano? Ma con ancora maggiore urgenza la pandemia ripropone il tema delle periferie. Infatti, da dove pensiamo mai che provengano in larga maggioranza le turbe di giovani che dappertutto stanno agitando le notti italiane di questa estate? Da dove, se non dalle invivibili periferie, dagli sperduti quartieri dormitori, dalle strade male illuminate che finiscono nel nulla? Ormai è diventato un rito. Al calar d’ogni sera, specie nel fine settimana, quei giovani si rovesciano nelle piazze, nei centri storici delle città, e sembrano farlo come posseduti da un desiderio di rivalsa che oggi si manifesta nella volontà d’infrangere tutti gli obblighi e le precauzioni sanitarie, di farsi beffa in tal modo di ogni regola di civile convivenza. Li muove, si direbbe, quasi il torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società “per bene” insieme ai posti che essa abita. Di distruggere quanto non possono avere. Da tempo un gran numero di periferie italiane sono diventate il luogo dove si addensa il potenziale di un inedito conflitto sociale. Che non assomiglia più in nulla alla vecchia lotta di classe con al centro il protagonismo degli operai - ormai dappertutto ultra-minoritari anche nei quartieri che un tempo furono i loro - ma ha la sua avanguardia nei “giovani” (oggi fino a 35-40 anni) appartenenti a una vasta zona sociale che va dal sotto proletariato alla piccola borghesia. Un conflitto sociale sui generis che lungi dall’esprimersi alla vecchia maniera negli scioperi, nei cortei o nei grandi comizi politici, si manifesta nell’occupazione selvaggia degli spazi pubblici, nel raid violento, nel vandalismo ai danni delle scuole, della segnaletica stradale o dei mezzi di trasporto. Un conflitto il quale, essendogli estranea qualunque dimensione organizzata e di massa si riconosce piuttosto in quella del piccolo gruppo guidato da un’erratica spontaneità, e non possedendo alcun retroterra, alcun progetto, alcuna strategia rivendicativa non può che esprimersi in azioni puramente distruttive. Dietro tale conflitto c’è la drammatica condizione di disagio, di diseguaglianza di standard socio-culturali, che colpisce chi vive nelle periferie. Una diseguaglianza che produce non solo un senso di sconforto e di deprivazione nel vedere i propri giorni trascorrere in un ambiente dominato dallo squallore e con i servizi più scadenti, dove non esiste un parco, un asilo o una fontana, lontano da ogni evento, privo di occasioni sociali di qualche valore, dove a volte la vita sembra quasi ridursi a semplice sopravvivenza. Ma che soprattutto si traduce nella sensazione di essere abbandonati, di essere esclusi dal circuito della cittadinanza ad opera di un potere estraneo ed ostile. Contro il quale, dunque, non resta che l’arma della rivolta, del voto dato in odio alla casta, ai migranti, ai rom, a tutti, ovvero l’arma della rappresaglia, quella delle spedizioni punitive notturne senza mascherine e sputando sui citofoni dei fortunati che abitano in centro. “Tratta di esseri umani, con Covid più violenza e sfruttamento” Avvenire, 29 luglio 2020 In occasione della Giornata mondiale contro la tratta di persone, Caritas Internationalis e Coatnet (rete di 46 organizzazioni cristiane impegnate nella lotta alla tratta di esseri umani) sollecitano i governi a intensificare gli sforzi per identificare le vittime della tratta e dello sfruttamento, il cui numero cresce in maniera preoccupante a causa della pandemia di Covid-19.? “In questo momento di diffusione del Covid-19, denunciamo una realtà preoccupante per le persone vulnerabili che sono maggiormente a rischio di divenire vittime della tratta”, afferma il segretario generale di Caritas Internationalis, Aloysius John. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), oggi nel mondo vi sono più di 40 milioni di vittime della tratta di esseri umani e dello sfruttamento. Una situazione già critica, che l’attuale crisi sanitaria ha aggravato, a causa della mancanza della massiccia perdita di lavoro derivante dalle misure governative poste in essere per prevenire la diffusione del Covid-19. La mancanza di libertà di movimento causata dal confinamento e dalle restrizioni di viaggio adottati in molti Paesi si è tradotta in una minore possibilità di fuggire e di trovare aiuto per le vittime della tratta di esseri umani. Ciò è vero in particolar modo per le molte vittime della tratta a scopo di sfruttamento sessuale. I lavoratori domestici affrontano maggiori rischi economici, ma anche fisici e psicologici, poiché durante questa pandemia sono ancora più esclusi dalla società. Gabriel Hatti, presidente dell’ufficio Medio Oriente e Nord Africa di Caritas, denuncia anche la difficile situazione vissuta in Libano e in altri Paesi del Medio Oriente da “molti filippini e altri lavoratori stranieri, che stanno lottando per tornare a casa dopo aver perso il lavoro a causa del Covid-19 e dell’attuale crisi economica. Ora sono in fila di fronte alle loro ambasciate, senza alcun supporto sociale o protezione psicologica e molti di loro sono perfino privi di un qualunque status legale”. A causa delle misure restrittive è inoltre più difficile per le associazioni e le autorità identificare le vittime di tratta e sfruttamento, molti dei quali sono bambini. Durante la pandemia sono infatti aumentati i casi di violenza ai danni dei minori e il numero di bambini vittime dello sfruttamento online, al quale sono esposti soprattutto quando seguono lezioni a distanza con scarsa supervisione da parte dei genitori. Durante il lockdown in India, ad esempio, sono stati segnalati alle autorità 92.000 casi di abusi su minori nell’arco di soli 11 giorni. Anche i bambini di famiglie economicamente disagiate potrebbero essere costretti a chiedere l’elemosina per le strade, essendo così esposti a un alto rischio di sfruttamento. “Le vittime della tratta di esseri umani necessitano un’attenzione immediata”, ha aggiunto John. Durante questa pandemia di Covid-19, Caritas Internationalis e Coatnet esortano i governi a fornire queste persone accesso alla giustizia e ai servizi di base, in particolare centri di accoglienza e linee di supporto dedicate, e a mettere al tempo stesso in atto misure urgenti e mirate per sostenere i lavoratori nei settori informali. “Chiediamo inoltre alle istituzioni e alle organizzazioni della società civile di proteggere i bambini dagli abusi e dallo sfruttamento, che avviene anche attraverso Internet e i nuovi media, e chiediamo a tutte le persone di buona volontà di essere vigili e di denunciare i casi di sfruttamento e di tratta di esseri umani”, ha concluso il segretario generale di Caritas Internationalis. La Guardia costiera libica spara: uccisi tre migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 29 luglio 2020 È accaduto lunedì a Khums. Ferite altre due persone. Fuggivano per non essere rinchiusi in uno dei centri di detenzione di Tripoli. Nella Libia che l’Europa si ostina a considerare un porto sicuro, i migranti muoiono uccisi dai colpi della Guardia costiera finanziata ed equipaggiata dall’Italia. È accaduto lunedì sera verso le undici a Khums, città costiera della Tripolitania, dove un gruppo di 73 migranti - tutti sudanesi a eccezione di 8 marocchini - partito qualche ora prima a bordo di un gommone, è stato prima intercettato in mare e poi riportato indietro da una motovedetta libica. Al momento dello sbarco, consapevoli di cosa li aspettava, i migranti hanno tentato la fuga pur di non essere internati in uno dei famigerati centri di detenzione gestiti dal governo di Tripoli. La reazione della Guardia costiera è stata immediata ed è consistita nell’aprire il fuoco sui fuggitivi. Tre migranti morti e due feriti, tutti cittadini sudanesi, è il bilancio dell’operazione condotta dalle milizie alle quali l’Unione europea, e in particolare il governo italiano, ha affidato il Mediterraneo centrale con il compito di fermare i barconi. Non è la prima volta che drammi simili accadono. Il 19 settembre scorso sempre la Guardia costiera aprì il fuoco nel centro di Abusitta, a Tripoli, contro 103 migranti che facevano resistenza al loro trasferimento in un centro di detenzione. Un migrante, colpito allo stomaco, morì mentre lo stavano portando in ospedale. “La consapevolezza di finire in quei centri alimenta il desiderio di fuga dalla Libia”, spiega al manifesto Federico Soda, responsabile nel Paese nordafricano dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che ieri ha denunciato quanto accaduto a Khums. “Il lavoro della Guardia costiera libica rallenta le partenze - prosegue Soda -, ma tutto quello che accade sul territorio, compresa la detenzione usata come strumento di deterrenza, ha l’effetto opposto”. Per Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo, “questo incidente sottolinea chiaramente che la Libia non è un porto sicuro”. Cochetel ha poi chiesto l’avvio di un’inchiesta. Sono passati solo pochi giorni da quando il parlamento italiano ha votato il decreto missioni che comprende anche nuovi interventi a favore della Guardia costiera di Tripoli, ed è in corso la revisione del Memorandum italo-libico sull’immigrazione dove i libici si sarebbero impegnati a rispettare i diritti umani dei migranti. Libia che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra ma che nonostante questo continua ad avere credito dai governi occidentali. Utilizzando accanto ai centri ufficiali anche altri non ancora ufficialmente autorizzati dal ministero dell’Interno di Tripoli e dove le agenzie Onu non mettono piede. Come quello di Mabani, nella parte sud est di Tripoli, dove da almeno quattro mesi verrebbero richiusi i migranti nonostante l’apertura ufficiale sia prevista, insieme a un altro centro sempre a Tripoli, solo nei prossimi giorni. “È un sistema sbagliato che parte dall’Europa”, prosegue Soda riferendosi a quelle che sono solo prigioni per uomini, donne e bambini. La tragedia di Khums non poteva non avere ripercussioni anche sulla politica italiana. “Al netto di tutte le ipocrisie di circostanza, quanto accaduto è esattamente quello per cui finanziamo la Guardia costiera libica: fermare i migranti con ogni mezzo. Un orrore di cui il nostro Paese è consapevolmente responsabile”, attacca il dem Matteo Orfini. Gli fa eco Riccardo Magi (+Europa) per il quale “continuare a far finta di nulla finanziando un corpo militare che fa affari con il commercio di vite umane vuol dire rendersi complici di gravi crimini e violazioni sistematiche dei diritti umani”. Erasmo Palazzotto (LeU) e Laura Boldrini (Pd) hanno entrambi chiesto al governo di riferire in aula mentre Emergency ha chiesto all’Italia di cessare al più presto ogni collaborazione con la Guardia costiera libica. “Siamo sconvolti e indignati per quanto successo”, ha invece scritto su Twitter la ong Sos Mediterranée. “Nell’ultima settimana barche in difficoltà sono state lasciate senza assistenza nel Mediterraneo. Altre sono state respinte dalle zone Sar europee verso la Libia”. Gli immigrati, vivi o morti, giocati al tavolo politico-elettorale di Filippo Miraglia Il Manifesto, 29 luglio 2020 Da gennaio sono oltre 6.500 le persone riportate in una zona di guerra con il sostegno del Parlamento italiano. Tra queste, è bene ricordarlo, 340 minori, di cui 84 bambine. L’Italia ha costituito nel tempo una vera e propria flotta libica: 6 motovedette nel 2007, poi altre 12 più 20 battelli di nuova costruzione, di cui almeno 7 motovedette. Un respingimento illegittimo, delegato dall’Italia e dall’Ue ai libici per aggirare le convenzioni internazionali, si conclude in tragedia, davanti agli occhi del mondo. Tre sudanesi sono stati uccisi, e altri quattro feriti durante un’operazione di sbarco operato dalla cosiddetta guardia costiera libica. La morte di queste persone, catturate in alto mare con mezzi e strumenti finanziati dall’Italia e dall’Ue, non è un incidente. È una conseguenza prevista e prevedibile di scelte politiche che il nostro Paese ha fatto e continua a fare. Prima con il governo Conte 1, a trazione leghista; poi con il Conte 2, sostenuto da forze di sinistra. Tutto per ragioni essenzialmente politico elettorali mascherate da necessità securitarie, considerato anche il numero di persone, poche migliaia, in fuga dalla Libia, detenute nei lager ufficiali e in quelli informali. Dall’inizio dell’anno sono oltre 6.500 le persone riportate indietro in una zona di guerra con il sostegno, confermato dal Parlamento il 16 luglio, del nostro Paese. Tra queste, è bene ricordarlo, erano presenti 340 minorenni, di cui 84 bambine. Nel giorno in cui la Camera votava il rifinanziamento della missione e, dunque, del sostegno ai guardacoste libici, la ministra degli Interni era a Tripoli a rafforzare la collaborazione per il contrasto all’immigrazione: sul piatto altri 30 mezzi per il controllo delle frontiere terrestri. Dal 2017, anno in cui è stato firmato il Memorandum della vergogna, più di 46 mila persone sono state riportate in quelli che internazionalmente vengono considerati dei lager. Una vera e propria deportazione che l’Ue ha, orgogliosamente, affidato alle milizie libiche, trafficanti che cambiano costume secondo la parte che devono interpretare e che a parole tutti sostengono di voler combattere. Che fine facciano queste persone lo sappiamo: troppe ormai le testimonianze e le denunce raccolte dalle Agenzie delle Nazioni Unite presenti sul terreno per far finta di non conoscere. Ma gli omicidi, gli stupri, la violenza, la tortura, la riduzione in schiavitù e l’uso delle persone come soldati forzati, evidentemente non hanno impressionato finora governi e parlamenti: tutti, a prescindere dall’orientamento politico, continuano a sostenere e finanziare le milizie responsabili di crimini contro l’umanità, rinforzandone il senso di impunità. L’entità dei finanziamenti, risorse spesso sottratte all’aiuto allo sviluppo, è intuibile ma difficilissima da verificare. Si tratta di un grande gioco di scatole cinesi in cui le linee di finanziamento si intrecciano e si mischiano, senza trasparenza e criteri che assicurino il rispetto dei diritti umani. Impossibile avere risposte dettagliate su come sono stati e come verranno spesi i 57 milioni del Fondo Fiduciario europeo per il programma di supporto alla guardia costiera libica, attuato e cofinanziato dall’Italia con almeno altri 2,5 milioni provenienti dal Fondo per l’Africa. Senza contare gli oltre 450 milioni di euro in missioni militari impiegati in Libia dalla firma del Memorandum del 2017, di cui almeno 22 milioni stanziati per supportare direttamente la costituzione e la sopravvivenza di una guardia costiera che pattugliasse il versante libico del Mediterraneo. Risorse con cui l’Italia dal 2017 è arrivata a costituire una vera e propria flotta libica: 6 motovedette di proprietà italiana cedute all’indomani degli accordi del 2007; altre 12, prima in dotazione a capitaneria, guardia costiera e guardia di finanza italiane, cedute gratuitamente; 20 battelli di nuova costruzione, di cui 6 in questo momento in fase di realizzazione; almeno 7 motovedette di proprietà libica per cui sono state effettuate manutenzioni e spostamenti da e per la Tunisia, dal 2017 ad oggi. Nel frattempo, invece di favorire canali di accesso sicuri e legali, sia per chi scappa dalla guerra che per chi fugge da una dolorosa crisi economica, la ministra dell’Interno Lamorgese, sostenuta dalla Commissione europea e dalla presidenza tedesca nel vertice euroafricano del 13 luglio a Trieste sulla migrazione irregolare, sembra voler replicare lo stesso meccanismo in Tunisia, rischiando anche qui di sostenere interessi di parte invece di supportare il delicato processo democratico in corso dal 2011 non senza difficoltà. Le Agenzie delle Nazioni Unite e tutti gli organismi internazionali continuano a ripetere che la Libia non è un porto sicuro: non si possono favorire o alimentare rinvii verso un Paese dove continua la guerra e le persone, in particolare gli stranieri, vengono utilizzate da anni come strumenti impropri del conflitto in corso. Per questo, come da tempo chiediamo con la campagna “Io Accolgo”, da ultimo con il mailbombing a sostegno dell’iniziativa lanciata da Manconi, Saviano e altri, sostenuta anche dal manifesto, il governo sospenda subito il Memorandum con la Libia e i respingimenti delegati alle milizie che controllano la guardia costiera. Italia, Malta e Libia denunciate al Comitato diritti umani dell’Onu di Adriana Pollice Il Manifesto, 29 luglio 2020 L’Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione e il Cairo institute for Human rights studies hanno presentato una denuncia contro Italia, Malta e Libia presso il Comitato per i diritti umani dell’Onu. La denuncia è stata depositata per conto di due migranti il cui diritto di fuggire dalla Libia è stato violato dall’intercettazione e dal respingimento effettuati dalla cosiddetta Guardia costiera libica sotto la responsabilità delle autorità italiane e maltesi. Una pratica ormai diffusa che si sta ripetendo anche in queste settimane. A sostegno della causa si sono schierate le ong Alarm phone, Sea Watch e Mediterranea saving humans. I fatti risalgono al 18 ottobre 2019, quando un barcone in difficoltà, che trasportava circa 50 persone, ha contattato Alarm phone. Erano in zona Sar maltese ma vicini a Lampedusa. I volontari hanno informato via mail il Centro di coordinamento maltese: “Abbiamo cercato di chiamare le autorità maltesi per tutto il pomeriggio - raccontano nella denuncia -. Quando siamo riusciti a contattare il Centro di coordinamento alle 21.30, sette ore dopo la prima chiamata di soccorso, ci hanno informato che i libici aveva intercettato la barca. Più tardi divenne chiaro che le autorità maltesi stavano monitorando la barca dall’aria senza effettuare il salvataggio”. I naufraghi sono stati trasportati al centro di detenzione di Triq al Sikka, dove numerosi rapporti delle agenzie Onu hanno documentato le ripetute e gravi violazioni dei diritti umani. Turchia. Oggi si vota il bavaglio ai social media di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 29 luglio 2020 Il parlamento turco si prepara a votare, domani 29 luglio, una serie di emendamenti alla Legge su Internet che, se approvati, richiederanno a piattaforme quali Twitter, Facebook e YouTube di attenersi a regole rigorosissime. In caso contrario, potranno vedersi ridurre la banda Internet a disposizione del 90%, subire multe esorbitanti (fino a 1,3 milioni di euro) e persino andare incontro a procedimenti giudiziari. Le norme all’esame del Parlamento prevedono tra l’altro che le piattaforme con sede all’estero e più di un milione di utenti in Turchia dovranno nominare un responsabile di cittadinanza turca che si occuperà delle indagini e dei procedimenti giudiziari relativi a offese online, altri reati sui social network e rimozione dei contenuti sgraditi alle autorità. Da quando è salito al potere Recep Tayyip Erdogan ha sempre mal tollerato i social network. Sono migliaia, infatti, le persone che ogni anno vengono arrestate per un cinguettio o un post troppo critico verso “il Sultano” o il suo governo. È abbastanza nelle cose, quindi, che, una volta incassata la trasformazione di Santa Sofia in moschea, il presidente turco voglia prendere il controllo delle piattaforme digitali più importanti come Facebook, Twitter e YouTube, cioè gli unici luoghi dove ormai è possibile esprimere dissenso e pubblicare notizie indipendenti. In questi 17 anni di governo Erdogan è riuscito a mettere la museruola ai quotidiani tradizionali. I più recalcitranti sono stati costretti a chiudere come è accaduto al popolare Zaman nel 2016. Sul web, però, la censura non ha dato grandi risultati se si pensa che nei primi sei mesi del 2019 il governo turco ha chiesto 6.073 volte a Twitter di cancellare dei contenuti ma solo il 5% delle domande sono state esaudite. Una cosa inaccettabile per il presidente. “È immorale che ciò sia permesso - ha detto recentemente - Vanno richiamati all’ordine”. Le organizzazioni umanitarie che difendono i diritti umani sono allarmate. “Siamo in vista dell’ennesimo e forse al più grave attacco alla libertà d’espressione in Turchia. Già oggi i giornalisti passano anni in carcere per le loro inchieste e gli utenti dei social media devono censurarsi per timore di offendere le autorità - ha dichiarato Andrew Gardner, ricercatore di Amnesty International sulla Turchia -. Se approvata, la nuova normativa aumenterà enormemente il potere del governo di censurare contenuti e avviare procedimenti penali contro gli utenti del social media”. Dello stesso avviso Human Rights Watch: “Entriamo nell’era buia della censura online - ha detto il vice direttore Tom Porteous - è evidente che si sta costruendo un’autocrazia che vuole silenziare tutte le voci critiche”. “Le nuove norme - ha detto Liz Throsell, portavoce dell’Alto Commissario ai Diritti Umani - darà allo Stato strumenti ancora più potenti per silenziare i media, impedire la libera espressione delle idee e la possibilità di partecipare alla vita politica pubblica”. Iran. L’accademica Moore-Gilbert trasferita nella famigerata prigione di Qarchak di Gabriella Colarusso La Repubblica, 29 luglio 2020 La studiosa britannico-australiana è prigioniera da quasi due anni, accusata di essere una spia. La Repubblica islamica l’ha condannata a 10 anni di carcere. Il penitenziario nel deserto dove è stata spostata è noto per le condizioni insopportabili, tra cui aggressioni regolari e comportamenti inappropriati delle guardie nei confronti delle donne. Kylie Moore-Gilbert è una studiosa britannico-australiana, prigioniera in Iran da quasi due anni: la Repubblica islamica la accusa di essere una spia e l’ha condannata a 10 anni di carcere. Lei ha sempre respinto le accuse e ha denunciato un trattamento inumano e degradante in prigione. Tre giorni fa è stata trasferita dal carcere di Evin, vicino Teheran, dove sono richiusi molti prigionieri politici, a una remota prigione del deserto, Qarchak, conosciuta per la durezza delle condizioni in cui vivono i detenuti. Moore-Gilbert avrebbe anche contratto il coronavirus. Nell’ultimo mese l’accademica non ha potuto parlare con la famiglia e delle sue condizioni si è saputo qualcosa in più grazie a Reza Khandan, il marito dell’avvocatessa e premio Sakharov Nasrin Sotoudeh, che si è battuta in difesa dei diritti umani in Iran e contro la pena di morte ed è in carcere da 2 anni. “Non riesco a mangiare nulla. Mi sento così senza speranza”, avrebbe detto Moore-Gilbert a Khandan, che ha raccontato del colloquio avuto con lei sulla sua pagina Facebook. “Sono così depressa. Ho chiesto agli ufficiali della prigione una scheda per chiamare ma non me l’hanno data. Sono riuscita a chiamare i miei genitori per l’ultima volta circa un mese fa”. In un memo per il dipartimento di Stato americano, il rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Iran, Brian Hook, ha descritto la prigione di Qarchak in cui è stata trasferita Moore-Gilbert come uno dei due penitenziari in Iran dove si commettono violazioni di diritti umani. “È la più grande prigione femminile dell’Iran e al suo interno ci sono anche molti membri di minoranze religiose. Anche questo penitenziario è noto per le condizioni insopportabili, tra cui aggressioni regolari e comportamenti inappropriati delle guardie carcerarie nei confronti delle donne, mancanza cronica di acqua, spazi di vita non salutari e un ambiente che consente lo stupro e l’omicidio”. Violenze e stupri sono stati denunciati anche da organizzazioni dei diritti umani, e secondo notizie non confermate anche il coronavirus si è diffuso nel penitenziario. Moore-Gilbert ha sempre negato le accuse contro di lei e anche il governo australiano le ha definite prive di fondamento. All’inizio di quest’anno, una serie di sue lettere dal carcere in cui descrive l’isolamento, la mancanza di cibo o medicine, pubblicate da alcuni quotidiani, hanno suscitato indignazione nell’opinione pubblica australiana e britannica. “Mi sento abbandonata e dimenticata, sono una vittima innocente”, aveva scritto la studiosa. “Non sono una spia. Non sono mai stata una spia e non ho alcun interesse a lavorare per un’organizzazione di spionaggio in nessun Paese”. Brasile. La vera pandemia è l’indifferenza di Francesco Ricupero L’Osservatore Romano, 29 luglio 2020 A colloquio con padre Gianfranco Graziola, missionario nelle carceri del Brasile. “È un grosso sbaglio pensare che rinchiudendo in carcere un individuo si possano risolvere i problemi della società. All’interno delle prigioni l’essere umano non è più padrone di se stesso; i penitenziari svuotano le persone riducendole a nullità, diventando solo luoghi di punizione e di controllo, soprattutto dei più poveri e dei giovani delle periferie”: ne è fermamente convinto padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata da vent’anni in Brasile, direttore-presidente dell’Associação de Apoio e Acompanhamento (Asaac) in seno alla pastorale carceraria nazionale brasiliana che, all’”Osservatore Romano”, racconta le difficili condizioni dei detenuti e delle detenute in questo particolare momento di emergenza sanitaria caratterizzata dalla pandemia da covid-19, la quale ha provocato oltre 2.442.000 contagi e più di 87.600 morti. “Dobbiamo far fronte comune - spiega - per impedire che si crei malcontento tra la popolazione che, oltre ad avere paura del coronavirus, rischia di morire di fame. La Chiesa sta facendo tutto il possibile per aiutare, ma da sola non basta. Occorre coinvolgere le istituzioni”. Qual è il vostro impegno per un carcere dal volto umano? La pastorale carceraria in Brasile è totalmente differente da altre esperienze nel mondo, in particolare rispetto a Europa, Stati Uniti d’America, Asia e Oceania e alla stessa America latina dove opera il cappellano penitenziario, figura inesistente da noi. Qui, la pastorale carceraria è realizzata dal Popolo di Dio, laici e laiche, consacrati e consacrate, religiosi e religiose, sacerdoti e vescovi che settimanalmente, quindicinalmente o mensilmente visitano i penitenziari nei ventisette stati del Brasile e nel distretto federale dove si trova la capitale Brasília. Esiste un coordinamento nazionale che a sua volta si ramifica a livello statale, regionale e diocesano. Il grande sviluppo della pastorale carceraria nella sua forma attuale è iniziato con la Campagna di fraternità del 1997 il cui tema era: “Fraternità e i carcerati” e lo slogan “Cristo libera da tutte le prigioni”. Ma c’è un altro evento il “Massacro di Carandiru” nel quale, il 2 ottobre 1992, 111 reclusi nell’allora istituto penitenziario furono crudelmente uccisi dalla polizia militare. Oggi, in questo luogo, bagnato dal sangue di tanti fratelli, sorge il parco della gioventù intitolato al compianto cardinale Paulo Evaristo Arns. La pastorale carceraria in Brasile ha come principio di fondo e sua meta la costruzione di un “Mondo senza carcere” rifacendosi al discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth (Luca 4, 18-19) e alla lettera di San Paolo ai Galati 5, 1. La stessa enciclica Laudato si’ viene a rafforzare ulteriormente questa nostra convinzione quando afferma la necessità di una conversione ecologica integrale. Qual è il vostro rapporto com le famiglie dei detenuti? La quotidianità della pastorale carceraria è la visita ai nostri fratelli e sorelle in prigione mettendo in pratica il Vangelo: “Ero in carcere e siete venuti a visitarmi” (Matteo 25, 36). Per questo gli agenti della pastorale quando entrano in carcere vanno a incontrare Gesù e si mettono al suo ascolto per cogliere la presenza misericordiosa di Dio. La crescita a dismisura in questi ultimi decenni delle detenute (700 per cento) ha fatto nascere nell’ambito della pastorale il dipartimento della “Donna incarcerata” che oggi ha una coordinatrice nazionale. La celebrazione nel 2017 dei 300 anni del ritrovamento dell’immagine della Madonna nel fiume Paraiba, a nord dello stato di San Paolo, da qui il nome di “Aparecida”, ci ha ispirati a celebrare questo giubileo pensando a “Maria e alle Marie in carcere”, non solamente alle recluse, ma a tutte le madri, spose, figlie, sorelle che settimanalmente si mettono in fila davanti alle prigioni portando con loro lo stigma di una società diseguale e selettiva. Ne è nata una nuova dimensione della pastorale carceraria che è una relazione con le famiglie dei detenuti e delle detenute che contribuisce alla loro organizzazione in associazioni, coinvolgendole e rendendole protagoniste del progetto “Mondo senza carcere”. Cosa fate nello specifico? Le pastorali che si ispirano alla Dottrina sociale della Chiesa, e che nel Brasile sono raggruppate nella Commissione episcopale pastorale per l’azione socio-trasformatrice, devono contribuire, a partire dal Vangelo, a una trasformazione effettiva della società costruendo quella che san Paolo VI chiamava “Civiltà dell’amore”. Coscienti, come diceva Montini, che l’annuncio della Buona novella va di pari passo con la promozione umana, non possiamo non occuparci di politica, di bene comune, l’espressione più alta della carità, combattendo le cause che portano alla detenzione di massa come avviene per gli spacciatori e i consumatori di droga. Per questa ragione dal 2013, assieme a organizzazioni della società civile, abbiamo individuato alcuni punti, definiti “i dieci comandamenti della pastorale carceraria”, che abbiamo inserito nella Agenda pelo desencaramento, “agenda per la scarcerazione”. Quali sono i punti centrali? Il documento abbraccia i temi cruciali del sistema carcerario e avanza alcune richieste come la sospensione di fondi destinati alla costruzione di nuove unità; la riduzione della popolazione carceraria e della violenza prodotta negli istituti di pena; modifiche alla legge per limitare il carcere preventivo; il cambiamento della politica di lotta alla droga; snellimento del sistema penale; apertura a meccanismi di controllo sociale; divieto di privatizzazione del sistema; prevenzione e lotta contro la tortura; smilitarizzazione. Come viene percepita la vostra attività all’interno degli istituti di pena? Oggi la pastorale carceraria gode della fiducia sia dei detenuti sia delle loro famiglie, e ha una credibilità che si è costruita nel tempo anche nel campo strettamente giuridico e tecnico. Ciò fa sì che venga rispettata dalle istituzioni e dalle numerose organizzazioni civili e non governative che seguono le questioni penali. Noi denunciamo costantemente il sovraffollamento, frutto di un processo di carcerazione di massa che vìola la costituzione e la burocrazia del settore. Infatti, nelle prigioni brasiliane abbiamo un buon 40 per cento di detenuti/e, e in alcuni stati come l’Amazonas addirittura il 60 per cento, che sono “provvisori”, cioè non sono stati ancora ascoltati da un giudice o sono in attesa di condanna definitiva. Di recente migliaia di detenuti sono stati liberati per paura che il coronavirus si diffonda ulteriormente. Non pensa che in questo modo possa aumentare la violenza nel Paese? La realtà carceraria in Brasile è pessima: mancano servizi basilari come l’assistenza medica, il rispetto delle norme igieniche, un’alimentazione sana, la manutenzione degli edifici. Per esempio, visitando un istituto la cui capienza era di 140 persone, vi erano 1400 detenuti, molti dei quali avrebbero dovuto essere soltanto oggetto di politiche sociali. Secondo lei, in epoca di pandemia è necessario che intervenga la politica a determinare norme ad hoc, in linea con le attuali circostanze emergenziali? Per sanare questa realtà e rispondere alle gravi questioni sociali i Governi pensano di risolvere i problemi affidando ai privati la gestione del sistema penale. Noi non vogliamo assistere ai massacri all’interno delle prigioni come è avvenuto a Manaus nel 2017 e nel 2019. La pastorale e altre organizzazioni continuano a denunciare lo sfruttamento e la commercializzazione di un sistema carcerario sempre più crudele e inumano. Il Brasile è il secondo Paese più colpito al mondo da covid-19: c’è qualcuno che pensa ai detenuti e alle famiglie? In realtà il sistema carcerario vive costantemente varie forme di pandemia. L’ultimo esempio lo troviamo a Boa Vista, nello stato di Roraima, dove nella Penitenziaria agricola di Monte Cristo dal 2019 si registra un’epidemia di scabbia. Solo la denuncia dei familiari, sostenuti dalla pastorale carceraria, è riuscita ad evitare un numero elevato di morti che purtroppo anche in questa occasione non sono mancati. In questi mesi, oltre alla preoccupazione per l’arrivo del covid-19 nelle carceri brasiliane e l’elevato numero di contagi e di vittime, quello che preoccupa noi e le famiglie dei detenuti è l’ambiente insalubre, le condizioni alimentari e sanitarie e l’impossibilità di fare visita ai detenuti. Da mesi, migliaia di famiglie non hanno notizie dei loro cari. Per questa ragione, il difensore civico, alcune organizzazioni della società civile e la pastorale carceraria hanno chiesto l’installazione di telefoni pubblici all’interno delle unità carcerarie. Papa Francesco in diverse occasioni ha ribadito che quello del sovraffollamento è un problema che riguarda varie parti del mondo. Il Brasile è sicuramente un Paese a rischio? La scarcerazione di alcune centinaia di carcerati e carcerate avvenuta di recente è stata bollata dalla stampa come un serio pericolo. La realtà però è ben diversa. Il virus sta provocando migliaia di vittime. La violenza nella società non è provocata dalla scarcerazione dei detenuti, ma da altri fattori. Questo ci induce a pensare che la vera pandemia non è altro che l’indifferenza denunciata più volte dal Pontefice. Di recente è stato inviato a tutti gli operatori carcerari un sondaggio on- line anonimo sulla situazione delle donne e in particolare delle mamme detenute con i loro figli. Cosa pensa al riguardo? Un capitolo importante della situazione attuale è la realtà del mondo femminile in carcere che soffre doppiamente. Visito settimanalmente il più grande penitenziario femminile del Brasile con oltre 2.000 detenute, a San Paolo, e dai dialoghi e dall’ascolto avverto sempre una grande preoccupazione per i figli. A moltissime madri, rinchiuse in cella, viene impedito di abbracciare il proprio bambino. Al momento, le leggi permettono gli arresti domiciliari solo alle gestanti e alle madri con figli fino a 12 anni. Riteniamo che la scarcerazione sia la strada giusta per creare una nuova società perché, chi meglio di una madre può educare i propri figli? Forse, più che giudicare e condannare siamo chiamati a lavorare per creare politiche pubbliche che diano alle donne l’opportunità di rifarsi una nuova vita. Parlando di detenzione lei fa riferimento alla Laudato sii. Perché? La questione carceraria è una pandemia anteriore al covid-19 che la rende ancora più attuale e richiama la nostra attenzione. Occorrono politiche pubbliche serie per poter superare e curare la pandemia che è rappresentata dal carcere. Dobbiamo lavorare per un “Mondo senza carcere”. Come ricorda il Papa nella sua enciclica dobbiamo impegnarci per un’ecologia integrale, custodendo la casa comune per il “buon vivere” di tutti.