Vite di scarto, silenzi di stato di Sergio Segio vita.it, 28 luglio 2020 13 persone morte in stato di detenzione nell’arco di poche ore, un evento senza precedenti nella storia delle carceri italiane. Dopo quasi cinque mesi poco o nulla si conosce pubblicamente sulle cause e circostanze di quella vera e propria strage. Fors’anche perché a essa ha fatto immediatamente seguito una campagna, a reti unificate, di certa antimafia che indicava una regia nelle proteste in quel momento in corso nelle carceri, dove crescevano, sino ad esplodere, i timori per la pandemia allora nel momento più espansivo. Complici la scarsa informazione, il blocco dei colloqui e di ogni attività, il sovraffollamento che rende vana qualsiasi prevenzione dal contagio, un’assistenza sanitaria a dir poco tradizionalmente carente. I media hanno prontamente raccolto e rilanciato quell’allarme, al solito senza verifiche e senza contradditorio; certa politica, altrettanto per solito, ha cavalcato e strumentalizzato, al fine di scongiurare scarcerazioni (e limitazione di nuovi ingressi) che in quel momento avvenivano in tutto il mondo, sollecitate dagli organismi sanitari e da quelli sovranazionali. Negli Stati Uniti, per dire, tra marzo e giugno 2020, è stato rilasciato circa l’8% - oltre 100.000 persone - della popolazione detenuta nelle carceri statali e federali statunitensi. Eppure, come noto, si tratta del Paese che ha “inventato” il populismo penale e la “tolleranza zero”, tanto da aver raggiunto il tasso di detenzione più elevato a livello mondiale. Ma i prigionieri sono stati rilasciati a decine di migliaia persino in nazioni prive di condizioni e tradizioni democratiche, come la Turchia o l’Iran. Nei Paesi membri del Consiglio d’Europa, già a metà dello scorso aprile, 128.000 detenuti erano stati rilasciati come misura per prevenire la pandemia. In nessuno l’argomento è però diventato materia di speculazioni politiche come da noi. Forse grazie anche al fatto che il ministro e il capo delle carceri competenti ben poco hanno fatto per evitare le strumentalizzazioni. Offensiva mediatica e politica che ha altresì posto sulla difensiva e spesso costretto al silenzio molte delle associazioni, dei Garanti, del volontariato che in carcere sono impegnati o che comunque i veri problemi del carcere conoscono. Per chiedere verità e giustizia su quelle morti si è comunque subito costituito dal basso un comitato, che, pur negli ostracismi e nel totale silenzio stampa, ha presto raccolto centinaia di adesioni e che da allora cerca di non fare scendere del tutto il silenzio sulla tragica e inedita vicenda, diffondendo informazioni, denunce, sollecitazioni. I fatti, messi in fila - Riassumiamo i fatti, per i distratti. Tra l’8 e il 9 marzo, in contemporanea con l’annuncio del lockdown da parte del governo, si innescano proteste in diverse carceri, in alcune delle quali assumono caratteristiche violente, con danneggiamenti delle strutture. Il bilancio vede 13 detenuti morti, quattro addirittura deceduti il giorno seguente dopo essere stati sfollati o durante il trasferimento ad altro istituto. Da subito, viene diffusa dalle autorità, e ripresa senza controllo dai media, la notizia che la causa di morte è da attribuirsi all’abuso di medicinali sottratti durante la sommossa. La versione assume ufficialità poco dopo con l’intervento del ministro della Giustizia, chiamato a riferire alle Camere l’11 marzo; nelle pochissime parole dedicate alla strage, il Guardasigilli afferma che le morti tra i detenuti sono dipese da “cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”. Nessun’altra informazione o dettaglio, neppure i nomi dei defunti, che saranno resi noti da un giornalista soltanto parecchi giorni dopo. Dopo di che è calato un integrale silenzio da parte delle istituzioni, a parte qualche indiscrezione fatta trapelare dai magistrati, interrotto solo il 9 aprile, allorché un sottosegretario - neppure alla Giustizia bensì all’Istruzione - viene delegato a rispondere all’interpellanza che un unico deputato, sollecitato dal Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere, aveva depositato. Questa volta, alla genericità e omissività precedente, subentra il tradizionale e comodo rifugio del segreto: “Tutti i dettagli e le informazioni contenute negli atti trasmessi alle procure della Repubblica costituiscono fatti coperti dal segreto investigativo e ovviamente non possono essere disvelati. Allo stesso modo, non sono disponibili gli esiti delle autopsie, effettuate su disposizione dell’autorità giudiziaria, che, all’esito dei percorsi di indagine, potrà valutare la desecretazione degli atti che sono stati compiuti”. Nessuno eccepisce. Né in Parlamento né nella libera informazione che, peraltro, neppure pare accorgersi del discutibile pronunciamento. Essendo ormai troppo abituati i media a dare notizie del carcere, e di ciò che vi avviene, solo a seguito e sulla scorta di comunicati e delle dichiarazioni di uno o l’altro dei sindacati della polizia penitenziaria. Di modo che anche quando si tratti di suicidi di detenuti, come da ultimo nel carcere di Como, dove sabato 25 luglio si è ucciso in recluso, la notizia diventa quella della carenza e dell’abnegazione del personale, mentre al tragico evento vengono dedicate quattro righe quattro a fronte delle 40 e più invece riservate alle dichiarazioni dei segretari dello stesso sindacato e ai loro attacchi nei confronti dei Garanti dei detenuti e delle associazioni. Non può dunque stupire che, a quasi 150 giorni di distanza dai fatti, le spiegazioni di fronte a una strage di detenuti senza precedenti che il governo e l’istituzione penitenziaria ritengono di dover fornire ai cittadini, oltre che ai famigliari delle vittime, siano l’appello al segreto. In fondo c’è una pandemia in corso, e qui si tratta nient’altro che di vite di scarto. Valgono ancor meno di quelle altre che, nel tempo del Covid, si sono lasciate spegnere a migliaia in solitudine in qualche ospizio per vecchi, ormai improduttivi e dunque ritenuti inutili, privi di valore ancorché innocenti. A differenza di quelli che sono morti nelle celle. Uccisi perlopiù dal virus del pregiudizio, dell’odio e del rancore sociale lasciati distrattamente crescere - quando non artatamente fomentati - contro i “delinquenti”. Le carceri, ripetono da anni i cinici inventori e utilizzatori di questo rodato e antico meccanismo di distrazione di massa, sono alberghi (a cinque stelle aggiungono i più temerari), da cui è più facile uscire che entrare. Peccato che siano diventati alberghi della paura e della disperazione e che spesso se ne esca con i piedi in avanti. Isolamento cautelare, trasferimenti e sorveglianza: giro di vite del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 luglio 2020 La Circolare del Dipartimento del 23 luglio. Isolamento cautelare, trasferimenti e applicazione del 14 bis, ovvero il regime di sorveglianza particolare che rende la detenzione ancora più dura. Sono queste le soluzioni, non nuove tra l’altro, poste dal Dap tramite la circolare del 23 luglio a firma del vicecapo Roberto Tartaglia e il capo del dipartimento Bernardo Petralia. “Pur non potendo escludere la possibilità di una parziale sottostima di alcune aree di criticità negli anni precedenti - si legge come premessa nella circolare - l’analisi dei dati statistici relativi agli ultimi anni fa emergere un sensibile aumento del tasso di comportamenti violenti ed antidoverosi da parte della popolazione detenuta, spesso indirizzati contro il personale del Corpo di Polizia penitenziaria, dell’Amministrazione penitenziaria e del personale medico o infermieristico nell’esercizio delle funzioni”. Per questo il Dap chiede di agire rapidamente nell’espletare le procedure disciplinari. Potrebbe far discutere l’idea di un isolamento preventivo. Si legge infatti che “nei casi di particolare gravità e urgenza - determinata dalla necessità di prevenire danni a persone o a cose, nonché l’insorgenza o la diffusione di disordini o in presenza di fatti di particolare gravità per la sicurezza e l’ordine dell’istituto - dovrà essere valutata la possibilità di disporre, d’urgenza e in via cautelare, che il detenuto che abbia commesso una infrazione sanzionabile con la esclusione dalle attività in comune permanga in una camera individuale in attesa della convocazione del consiglio di disciplina”. Ma è proprio il ricorso all’isolamento quello stigmatizzato ad esempio dall’associazione Antigone ricordando che spesso i suicidi avvengono in quei casi, soprattutto quando si tratta di detenuti con patologie psichiatriche. L’altro punto di intervento è il trasferimento. Il Dap si raccomanda di farlo in maniera celere, onde evitare pericolosi strascichi e “di alimentare nuove criticità”. In realtà i trasferimenti sono molto usati e non fanno altro che rimandare il problema altrove. Per ora solo linee di intervento repressivo. Nella stessa circolare, il Dap preannuncia che tratterà anche il discorso del profilo della prevenzione, incidendo in particolare su tutti quei fattori che possono contribuire ad incrementare il numero delle aggressioni. Scarcerazioni. Basentini: “Senza senso revocare la circolare del 21 marzo” ansa.it, 28 luglio 2020 Ex capo Dap: “Trattativa con i boss? Le rivolte, a seguito dell’emergenza sanitaria, si sono verificate in quasi tutti gli stati del mondo”. “Riguardo alle mie dimissioni da capo del Dap, ho preso la decisione che era giusto adottare. La Circolare che ha generato polemiche? Revocarla o sospenderla non ha senso, come pure è stato suggerito da qualcuno, visto che sia la norma che il correlato obbligo di segnalazione per i direttori - quello sulle patologie o gravi condizioni sanitarie dei detenuti - rimarrebbero comunque in vigore”. Così Francesco Basentini, ex capo del Dap, dimessosi a maggio dopo le polemiche sulla circolare del Dap del 21 marzo che portò alla scarcerazione temporanea di alcuni detenuti al 41 bis durante l’emergenza sanitaria. Basentini sarà presto effettivo alla Procura di Roma come sostituto procuratore. “Le rivolte, a seguito dell’emergenza sanitaria, si sono verificate in quasi tutti gli Stati del mondo. In tutti i Paesi sono stati adottati gli stessi provvedimenti, peraltro imitando l’esperienza italiana. A questo punto dovremmo credere che c’è stata una trattativa con tutti i detenuti del mondo?”, ha detto inoltre Basentini commentando la vicenda della circolare e delle misure alternative alla detenzione durante l’emergenza Covid, respingendo le polemiche su alcune ipotesi emerse tempo fa su fonti di stampa, secondo cui la circolare sarebbe stata frutto di una “trattativa con i boss” come conseguenza delle pressioni causate dalle rivolte di inizio marzo nelle carceri. Ecco come riformare il 41bis (senza falsi garantismi) di Catello Maresca ilsussidiario.net, 28 luglio 2020 Il regime del carcere duro, il 41bis dell’ordinamento penitenziario, sembra ormai diventato improvvisamente il male assoluto. Addirittura più della stessa mafia che tende a contrastare. Ma in genere, se ne parla senza conoscerne né la storia, né la funzione, dalle quali nessun corretto approccio critico può prescindere. Come dicono gli oratori eruditi, quindi, vale la pena di ricordare prima di tutto a me stesso di cosa stiamo parlando. Il 41bis è un istituto che consente di sospendere l’applicazione delle normali regole dell’ordinamento penitenziario all’interno degli istituti di detenzione in casi eccezionali. Secondo il testo originariamente introdotto nel 1986 dalla legge Gozzini: “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”. Solo nel 1992, dopo la tragica uccisione del giudice Giovanni Falcone, all’articolo si aggiunse un secondo comma disposto con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356. Con la nuova disposizione, in presenza di “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”, si consentiva al ministro della Giustizia di sospendere le garanzie e gli istituti dell’ordinamento penitenziario, per applicare “le restrizioni necessarie” nei confronti dei detenuti per mafia, con l’obiettivo di impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio. La misura aveva carattere temporaneo, infatti la sua efficacia era limitata a un periodo di tre anni dall’entrata in vigore della legge di conversione. Tuttavia, fu prorogata una prima volta fino al 31 dicembre 1999, una seconda volta fino al 31 dicembre 2000 e una terza volta fino al 31 dicembre 2002. Il 24 maggio 2002 il governo Berlusconi emanò un disegno di legge di modifica degli articoli 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario, poi approvato dal Parlamento con la legge del 23 dicembre 2002, n. 279, abrogando la norma che sanciva il carattere temporaneo di tale disciplina e prevedendo che il provvedimento ministeriale non potesse essere inferiore a un anno né superare i due anni, con eventuali proroghe successive di un anno ciascuna. Inoltre, il regime di carcere duro venne esteso anche ai condannati per terrorismo ed eversione. La legge n. 94/2009, tuttora in vigore, ne ha modificato di nuovo i limiti temporali, portandoli a quattro anni e prevedendo proroghe di due anni ciascuna. Secondo le nuove regole i detenuti possono incontrare senza vetro divisore i parenti di primo grado inferiori a 12 anni di età, ma resta il divieto alla detenzione di libri e giornali, tranne particolari autorizzazioni. Si tratta sostanzialmente di uno dei capisaldi della lotta senza frontiere alle mafie, con lo scopo di recidere definitivamente i contatti dei capiclan con l’esterno del carcere, i canali coi quali costoro continuavano a dare ordini ai picciotti. Da qualche tempo, l’istituto è oggetto di una ormai dichiarata ostilità ideologica che, se assecondata, porterà in breve tempo inesorabilmente alla sua abrogazione. O almeno ad un suo ulteriore forte ridimensionamento. Si stanno muovendo le truppe cammellate degli ideologi iper-garantisti. Si stanno invocando principi supremi e valori riprendendoli dal cassetto dei ricordi di un tempo in cui si era convinti che le mafie non esistessero. Approfittando delle nuove strategie delle mafie silenti, che ormai non sparano quasi più, ma investono nei mercati legali i proventi delle attività illecite, i soloni del carcere morbido tessono la loro tela. Una strategia fin troppo chiara, tesa ad approfittare delle pieghe e delle lacune della normativa europea, che porterà ben presto a costringere lo Stato italiano ad intervenire fortemente sul cosiddetto carcere duro. La sensibilità istituzionale europea, salvo risvegliarsi di soprassalto per qualche caso sporadico, come la strage di Duisburg, o l’uccisione dei giornalisti Gaphne Caruana Galizia a Malta o Jan Kuciak in Slovacchia, è lontanissima dalle esigenze di prevenzione antimafia. Ed in verità anche da quelle di repressione, come dimostrano i recenti interventi sull’ergastolo ostativo. O ancor prima la crociata sul concorso esterno in associazione mafiosa. La linea sembra tracciata. Ormai è partito il fuoco “amico”. Uno dei baluardi della lotta alle mafie nel nostro paese è sotto l’attacco incrociato dei Garanti dei detenuti, spalleggiati da una parte della classe politica, e di un’intellighenzia sinistrorsa molto sensibile al tema delle garanzie, incoraggiata dalla sempre più numerosa stampa compassionevole. Dall’altro lato, come spesso accade su questi temi, quasi nulla. Un contraddittorio praticamente inesistente. Qualche isolato magistrato antimafia, che crede di intravedere e prova a segnalare le conseguenze nefaste di questa tendenza negazionista e poco altro. E allora il rischio che una dirigenza politica, distratta e poco preparata sull’argomento, acceda con troppa superficialità a soluzioni abrogatrici, si fa sempre più concreto. Da molti giorni allora mi chiedo: che si può fare senza rischiare di restare di nuovo facile ed isolato obiettivo delle invettive mafiosoidi? Denunciare, denunciare, denunciare. Nel tentativo almeno di sollecitare una discussione. Sicuramente, ma forse si può provare a fare altro. Questa volta, a differenza della battaglia sulle scarcerazioni che ha avuto sì frutti, ma con tante ulteriori personali sofferenze, scoperto il giochetto, mi sentirei di “sparigliare”. È una mossa del gioco dello scopone scientifico che tende a disfare le coppie di carte. Una mossa rischiosa che va gestita dalla squadra di giocatori con sapienza e competenza. Ma che, se usata bene, spesso conduce alla vittoria. Ragioniamo allora di umanità della pena, di condizioni detentive e di sicurezza pubblica. Se le mafie sono ancora pericolose ed infiltrano le economie legali con conseguenze devastanti, un regime differenziato di espiazione della pena è addirittura obbligatorio. Sarebbe impensabile il contrario. Le recenti simultanee rivolte in molti istituti di pena ne rappresentano la ultima tragica conferma. Ma non è detto che questo regime debba continuare ad essere quello previsto dall’art. 41bis. A distanza di oltre trent’anni forse è arrivato il momento di rivedere l’ordinamento penitenziario. Rigore e flessibilità dovrebbero essere i nuovi cardini ideologici. Lavoro obbligatorio per tutti i detenuti in un percorso di profonda rieducazione che si inserisce nella cornice costituzionale di carceri moderne ed attrezzate. I mafiosi, come tutti i detenuti, devono lavorare nel carcere, sono uguali agli altri. La premialità così va legata all’effettività dell’impegno del detenuto. Accanto a questo vanno previste sanzioni serie ed incisive in caso di trasgressione e di violazioni reiterate. Il regime di rigore differenziato, allora, può diventare l’ultimo stadio di una progressione sanzionatoria dei detenuti più riottosi. È arrivato il momento di prendere atto del fallimento del sistema penitenziario, di constatare l’estrema difficoltà della gestione degli istituti di pena sul fronte rieducativo. Bisogna riappropriarsi del valore costituzionale del recupero e della risocializzazione dei detenuti, perché così com’è non funziona. La storia carceraria - la cosiddetta fedina penale - dei mafiosi è fatta di continue ricadute nel crimine, segno evidente che, almeno per loro, ma il discorso purtroppo è più ampio, il programma di recupero non serve a nulla. Solo riaprendo al più presto una nuova stagione costituente antimafia nell’ottica della rieducazione costituzionalmente orientata possiamo avere una qualche speranza di vincere la battaglia. “No alle carriere separate”, Pd e 5S riportano la legge in commissione di Errico Novi Il Dubbio, 28 luglio 2020 Alla fine l’unico voto sarà sulla seguente richiesta: “Volete o no, voi deputati, rimettere la separazione delle carriere in freezer?”. Finale già scritto, anticipato ieri in aula da tre autorevoli esponenti della maggioranza, nel giorno in cui finalmente la legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dall’Unione Camere penali atterra in aula a Montecitorio. Il primo è Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari costituzionali, dove la riforma è rimasta a galleggiare per quasi un anno e mezzo, unico rappresentante 5 stelle a intervenire nella discussione generale. Il secondo è Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato pd, autore di una battuta rivelatrice: “La Corte costituzionale ha già chiarito nel 2000, quando ha dichiarato ammissibile il referendum dei radicali, che quasi tutte le norme contenute nel ddl vanno discusse come leggi ordinarie, tranne lo sdoppiamento del Csm”. Il terzo indizio che fa la prova viene da Alfredo Bazoli, capogruppo dem in commissione Giustizia, il quale dice che la terzietà del giudice “è principio impossibile da elidere” ma anche che per ripristinarlo ci si dovrà affidare a interventi meno strutturali rispetto alla separazione delle carriere, contenuti nella riforma penale e in quella del Csm (che arriva da qui a poche ore in Consiglio dei ministri). Tutti e tre danno per scontato che il “rinvio in commissione”, in arrivo giovedì, sia una scelta saggia, declinata anzi da Brescia come male minore: “Altrimenti in Aula verrebbero messi in votazione emendamenti soppressivi dell’intero testo”. Pare la barzelletta del bunga bunga: “Come volere morire, mediante turmiento o, appunto, con quell’altra roba lì?”. L’alternativa è tra essere ammazzati subito, ma almeno togliersi lo sfizio di un minimo di confronto vero nel sacro emiciclo di Montecitorio, o essere invece riportati in corsia, cioè in commissione, in attesa di un “accordo in maggioranza”, auspicato anche Federico Fornaro di Leu, che in realtà non arriverà mai. A capire che in ogni caso la riforma sta per essere giustiziata è Francesco Paolo Sisto, penalista finissimo ed esponente di FI, partito che più di tutti ha difeso la riforma degli avvocati: “Tornare in commissione per uccidere l’articolo 111 della Costituzione sarà un omicidio costituzionale gravissimo”. Aggiunge una stilettata al curaro tutta per i dem: “Voi col Movimento 5 Stelle ci andate a braccetto per non perdere il governo”. Ma forse la verità è nelle parole di Bazoli: “Le grandi riforme di sistema devono essere accompagnate da un largo consenso anche tra i protagonisti della giurisdizione: dobbiamo chiederci se abbia senso innescare una reazione da parte della magistratura, compattamente contraria a questa riforma”. Sempre il capogruppo dem in seconda commissione evoca tre subordinate (ma verrebbe da dire palliativi) alla legge promossa dall’Ucpi: “Più finestre di controllo del giudice in fase di indagini, soprattutto sulla data di iscrizione a registro degli indagati”, e questa è inserita nel ddl penale; poi una più rigida “separazione delle funzioni”, che invece è nella delega in arrivo sul Csm, dove i passaggi massimi consentiti da pm a giudice e viceversa dovrebbero ridursi a due (sic!), e infine i “filtri alla obbligatorietà dell’azione penale, necessari per una maggiore trasparenza”. Note che fanno il paio con quella di Ceccanti sulla sentenza costituzionale del 2000. Ceccanti stesso riconosce “il diritto dei promotori e delle opposizioni a discutere il testo nella forma che loro hanno voluto”. Chissà se giovedì verrà almeno consentito un simile onore delle armi. Il Pd: “Via la sezione disciplinare dal Csm, diventi un’Alta corte indipendente” di Liana Milella La Repubblica, 28 luglio 2020 Lettera del Pd ai partiti. La mossa del vice segretario dei dem Orlando (con Pinotti e Verini) alla vigilia della riforma del Guardasigilli Bonafede. La Camera rinvia alla commissione Affari costituzionali la questione della separazione delle carriere. La magistratura alla prova della Costituzione. Che oggi non consente di separare le carriere, come vorrebbero gli avvocati e il centrodestra. E non permette neppure di mettere fuori dal Csm la sezione disciplinare. Ma, giusto nelle stesse ore, ecco che qualcosa si muove su entrambi i fronti. Perché, per la prima volta, approda in aula alla Camera, anche se destinata subito al rinvio in commissione, proprio la separazione delle carriere. Chiesta a gran voce dagli avvocati con una legge di iniziativa popolare che ha raccolto quasi 10mila firme. Sollecitata dal centrodestra come essenziale per garantire un giusto processo e il rispetto dell’articolo 111 della Carta. Con una maggioranza però che ne chiede il ritorno in commissione Affari costituzionali, come fa il presidente della prima Giuseppe Brescia (M5S) prima ancora che cominci il dibattito nella solita aula deserta di un lunedì pre-ferie. Ma ecco un’altra novità, che invece arriva dalla maggioranza: la lettera che tre Dem - Andrea Orlando, il vice segretario del partito, Roberta Pinotti, la responsabile per la Riforma dello Stato, Walter Verini, il responsabile Giustizia - hanno indirizzato il 24 luglio ai responsabili Giustizia di tutti i partiti. Con la quale chiedono di mettere fuori dal Csm la sezione disciplinare, per farne un’Alta corte indipendente che giudichi tutte le magistrature. Un segnale che certo pesa proprio mentre al Csm parte il giudizio su Luca Palamara, Cosimo Maria Ferri e i 5 consiglieri che si sono dimessi dal Csm stesso a seguito delle rivelazioni di Perugia. Giusto alla vigilia del consiglio dei ministri, in cui il Guardasigilli Alfonso Bonafede porterà la legge delega per la riforma del Csm - questa o la prima settimana di agosto - ecco che i Dem chiedono per lettera “il vero superamento della permanenza della funzione disciplinare all’interno dello stesso Csm, evitando commistioni tra l’esercizio della giurisdizione disciplinare e la partecipazione alle attività di vera e propria gestione della magistratura”. Secondo Orlando, Pinotti e Verini è necessario invece “superare con serietà un cortocircuito che corre il rischio di incrinare profondamente il rapporto di fiducia tra la magistratura e i cittadini”. Per questo, scrivono i tre, “è necessario assicurare alcuni elementari pre-requisiti di imparzialità e terzietà dell’organo disciplinare, che l’attuale assetto delle articolazioni interne del Consiglio Superiore della Magistratura sicuramente rende più difficili, a fronte di una sostanziale coincidenza personale tra coloro che svolgono funzioni disciplinari e coloro che attendono alle funzioni amministrative proprie delle diverse commissioni del Consiglio”. Insomma, in parole semplici, fuori la disciplinare dal Csm. Con l’idea di farne quell’Alta corte che molte volte, in questi anni, ha sollecitato l’ex presidente della Camera Luciano Violante, ma che si è sempre a livello di dibattito sulla giustizia. Ma stavolta il Pd sembra fare sul serio con una riforma che - se davvero dovesse arrivare in Parlamento - vedrebbe sicuramente il consenso di tutto il centrodestra. Csm, la riforma elettorale resta un proclama. Una buona idea: sorteggio e poi una votazione di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 28 luglio 2020 La “riforma” del Csm: ancora una occasione mancata? A parole, tutti (o quasi) sembrano essere della medesima opinione: occorre impedire che le “correnti” dei magistrati, da libere formazioni di pensiero e da organismi eminentemente “culturali”, magari in grado di contarsi ai fini delle elezioni all’Associazione Nazionale Magistrati (libera di organizzarsi come crede), diventino macchine elettorali per l’elezione al Consiglio Superiore della Magistratura, che invece è organo di rilevanza costituzionale. Dunque, bisognerebbe evitare che il meccanismo di rappresentanza finisca per trasformare le correnti, pur con il nome nobile di “gruppi” (al Csm), in luoghi di gestione del potere, di carrierismo e di autoreferenzialità. Ciò è, in gran parte, dovuto alla circostanza che i consiglieri togati (che rappresentano i due terzi dei componenti il Csm) devono la loro elezione, salvo eccezioni rarissime, proprio alla corrente della quale, quasi inevitabilmente, finiscono per essere poi portavoce. Dunque, al netto della onestà e della buona fede di tutti, tale meccanismo elettorale - come mi resi conto quando, nel 2010, iniziai il mio percorso quale componente “laico” (meglio: “diversamente togato”) del Csm nella Quinta Commissione, che si occupa degli incarichi direttivi e semi-direttivi, sia dei pubblici ministeri che dei giudici - finisce con il premiare i “soliti noti”, con il non consentire (absit iniuria verbis) ai “cani sciolti” di essere nominati (e persino di essere proposti al Plenum), con il determinare nomine “a pacchetto”, pur se i posti sono banditi in tempi diversi, in modo da mettere in pratica il manuale Cencelli delle nomine, in perfetta proporzione con la forza delle correnti in seno al Consiglio. Le recenti vicende che hanno coinvolto il Dott. Palamara - nelle quali non entro, dovendo essere approfondite in sede penale e disciplinare - avrebbero dovuto suggerire serie ed ampie riforme. Non riforme contro, ma riforme a favore: a favore di tutti i cittadini e, in senso più ampio (molti non sono neppure nostri concittadini…), a favore di tutti coloro i quali hanno la ventura (o la sventura) di incrociare la giustizia italiana. Ed a favore della stessa magistratura, la quale vive anche di immagine (la magistratura deve essere ed apparire imparziale, dicono gli stessi atti, interni ed internazionali, che se ne occupano…): e, oggi, siamo, purtroppo, ai minimi termini. Invece, dopo proclami solenni ed annunci altisonanti, sembra proprio che la ipotizzata riforma della legge elettorale del CSM - limitandosi ad abbandonare l’attuale collegio unico nazionale e a sostituirlo con dei collegi uninominali con possibilità di preferenza multipla, in cui sarà eletto solo chi raggiunge una determinata soglia (altrimenti si andrà al riparto proporzionale) - abbia partorito un topolino: tutto sembrerà mutare, ma non cambierà nulla. Forse non è un caso, come ricordai ai miei Colleghi durante una seduta del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, che a Roma, a pochi metri dal Palazzo dei Marescialli, sia morto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, mio illustre concittadino (singolarmente, proprio in questi giorni corre l’anniversario: 23 luglio 1957). Naturalmente, nessun sistema elettorale è perfetto, ma alcuni sono migliori di altri. Ed io ho sempre pensato che un sistema misto, con un ampio sorteggio (che preveda un multiplo dei posti da eleggere al CSM) e poi una votazione tra i sorteggiati, sia in grado di bilanciare esigenze di autonomia e libertà e necessaria rappresentanza degli eletti. Pochi giorni fa tale proposta sembra sia stata fatta propria da una delle correnti dei magistrati, Magistratura Indipendente, nel rispetto della rappresentanza di genere. Forse, lentamente, qualcosa di muove… Certo, neppure questa sarebbe una riforma radicale, poiché toccherebbe il solo sistema elettorale; ma qualcosa è meglio di niente. Per essere chiari, a mio modo di vedere, una seria riforma dovrebbe attuare l’art. 111 della Costituzione, con l’ovvia e naturale separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici (ma evitando che i p. m. possano dipendere dall’esecutivo). Di qui, ovviamente, la presenza di due diversi Consigli Superiori della Magistratura: uno per i pubblici ministeri ed uno per i giudici. Ma la proposta di separazione delle carriere, giunta in Parlamento per iniziativa delle Camere Penali, che hanno raccolto più di 70 mila firme in calce a un disegno di legge popolare, non sembra essere all’ordine del giorno. Analogamente, occorrerebbe affrontare anche le diverse, ma connesse, questioni delle c. d. porte girevoli (magistrati che entrano in politica e poi tornano a fare i magistrati) e del numero troppo elevato di “fuori ruolo” (magistrati autorizzati dal Csm, su richiesta della politica o di vari organi, e di loro stessi, a occuparsi di altro, rispetto alle questioni di giustizia). Ed anche sotto tale profilo le riforme sembrano lontane. Ma se non saremo capaci di comprendere cosa è accaduto, e perché è accaduto, ci limiteremo - al massimo - a colpire la punta dell’iceberg. E la nave della giustizia tenderà sempre a galleggiare, riuscendoci solo a volte. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo Fondi europei per la Giustizia, per l’Unione camere civili una irripetibile occasione di riforma Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2020 L’Europa ha stanziato “una cifra molto importante, e ci ha indicato come prioritari quattro obiettivi. Tra questi, la giustizia”. “Si tratta di un’occasione irripetibile, che comporta una responsabilità enorme: quella di non sprecarla”. Lo scrive il presidente dell’Unione Camere civili, Antonio de Notaristefani, in un accorato intervento su Facebook, in cui si richiama anche il documento della Commissione “the 2020 Justice Scoreboard” che contiene diversi “suggerimenti”. La prima emergenza per de Notaristefani è il “crollo della fiducia dei cittadini nella indipendenza dei giudici”, percepiti come troppo vicini alla politica. E siccome, argomenta, la giustizia si regge sulla fiducia conta poco se ciò sia vero o meno, quello che è certo infatti è che “impugnerò qualunque sentenza che mi dia torto, se ritengo che il giudice che la ha emessa non è imparziale”. Rvolgendosi poi direttamente al Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, di cui pure riconosce la “capacità di ascolto”, chiede “ma davvero Lei vuole passare alla storia come chi ha buttato via il biglietto vincente della lotteria?” L’Europa, prosegue, ci ha chiesto di interpellare tramite questionari avvocati e cittadini sul gradimento dell’operato dei giudici. Una soluzione apparentemente banale ma in realtà “rivoluzionaria” perché ci ricorda che nei sistemi democratici “la giustizia è amministrata - o dovrebbe esserlo - in nome del popolo”. Un tema, quest’ultimo, che si sposa con quello del sistema di valutazione dei magistrati che ha raggiunto un livello “imbarazzante”. “Rifiutarsi di rendere conto del proprio operato a quel popolo in nome del quale si pronunciano le sentenze - attacca de Notaristefani - significa essere autoreferenziali, non indipendenti. Per questo, la responsabilità della riuscita di questo progetto straordinario di riforma non è solo del Ministro, ma anche dei giudici: se non vogliono farlo fallire, devono smetterla di essere autoreferenziali, e diventare davvero indipendenti”. “Ce la farà - conclude - la politica, a convincere i giudici a rendere conto al popolo dei propri comportamenti? Non lo so: a volte, mi viene da pensare che forse il problema non è la indipendenza dei giudici dalla politica, ma la indipendenza della politica dai giudici. Ma spero vivamente di sì: io nei giudici ho molta fiducia, e confido che quelli che stanno in Tribunale chiederanno anche loro che le carriere siano decise dal merito, e non dai vincoli di affiliazione. Se non andrà così, saranno loro ad avere gettato via il biglietto vincente della lotteria, e dovranno assumersene la responsabilità”. Quale giustizia nella caserma di Piacenza? di Alberto Pellai Famiglia Cristiana, 28 luglio 2020 Una vicenda che fa vacillare ogni certezza. Se un’intera stazione dei carabinieri è marcia, è la giustizia stessa, nel suo significato più profondo, a vacillare. Nel prossimo anno scolastico l’educazione civica entrerà per legge nelle scuole. Penso che ci siano molto altri ambiti in cui tale materia risulti necessaria. E chiedo ai politici di esserne i primi evidenti esempi e testimoni. Le vicende avvenute nella caserma di Piacenza e di cui la cronaca ci parla da giorni sono il simbolo di un degrado che ci deve far riflettere: come adulti, come cittadini, come genitori, come educatori. Una caserma che è interamente dedita al crimine che dovrebbe sconfiggere, apparentemente al di fuori di ogni controllo e supervisione. Una caserma che addirittura pochi mesi prima viene premiata con riconoscimento pubblico per il numero di arresti compiuti (ed ora abbiamo intuito perché e come ciò sia successo). Una caserma che infanga il lavoro onesto e dedicato di migliaia di uomini che alla Giustizia ogni giorno dedicano tutto, fino a rischiare la vita. Ecco, come può esistere una caserma così? Siamo tutti concordi nel ritenere che sia possibile che in ogni ambiente si possa infilare una mela marcia. Ma ci sono ambienti in cui le mele marce, quando vi si infiltrano, vengono immediatamente isolate e rimosse. E le caserme dovrebbero essere tra questi. Al 100%, nessuna esclusa. La storia di Piacenza fa vacillare ogni certezza, mette lo Stato in una situazione di tale imbarazzo da rendere necessaria una verifica istantanea di chi ha la responsabilità non solo sui singoli, ma anche sul sistema in generale. Se un’intera caserma è marcia, lo è per anni e se nessuno dice niente e nessuno se ne accorge, è la giustizia stessa, nel suo significato più profondo, a vacillare. Quella Giustizia che dovremmo scrivere con la G maiuscola e che per colpa di quella caserma oggi scriviamo con la lettera minuscola. Sperando di poter correggere quella lettera minuscola al più presto. Nel prossimo anno scolastico si porterà l’educazione civica nelle scuole, per obbligo di legge. Penso che ci siano molto altri ambiti in cui tale materia risulti necessaria. E chiedo ai politici che reclamano l’educazione civica per i nostri figli a scuola (iniziativa di cui, sia chiaro, sono un sostenitore purché si sappia bene chi la insegna, come e con quali contenuti) di esserne i primi evidenti esempi e testimoni. E anche su questo ci sarebbe molto, ma proprio molto da dire. No alla bancarotta fraudolenta per i carpentieri che siedono nel Cda di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 21 luglio 2020 n. 21796. Il giudice non può condannare per bancarotta fraudolenta, per l’omesso deposito dei bilanci societari, i dipendenti inseriti nel consiglio di amministrazione che, di fatto, svolgono il ruolo di carpentieri. La Corte di cassazione, con la sentenza 21796, accoglie sul punto il ricorso, contro la condanna, confermata dal giudice di appello anche dopo il rinvio. Nella sentenza rescindente i giudici di secondo grado avevano dato atto che i due ricorrenti, nonostante sedessero nel board della società fallita, svolgevano nel cantiere un’attività manuale, negando così che potesse essere addebitata a loro la condotta preordinata di sottrazione della contabilità, addebitabile piuttosto all’amministratore. Malgrado questo la corte d’appello aveva affermato l’esistenza dell’elemento psicologico utile a configurare l’addebito di bancarotta fraudolenta, per l’omesso deposito dei bilanci. Ad avviso dei giudici di seconda istanza, infatti, i ricorrenti erano consapevoli della violazione che aveva impedito alla curatela di ricostruire le cause del dissesto e l’eventuale recupero dei beni distratti. I giudici hanno considerato irrilevante la mancata conduzione dell’attività di gestione economica e contabile: con l’assunzione del ruolo di amministratori nel Cda, sorgeva l’obbligo di vigilanza e controllo nei confronti di chi aveva condotto l’impresa. Il compito non svolto dimostrava la volontà di non consentire l’accertamento delle cause del dissesto, eludere le responsabilità e conseguire un ingiusto profitto. Per la Suprema corte si tratta di una conclusione non in linea con il dato normativo che pretende dal soggetto che compie le azioni incriminate, condotte di natura attiva, di sottrazione o distruzione delle scritture contabile, con lo scopo di ottenere un ingiusto vantaggio o danneggiare i creditori. La cassazione annulla senza rinvio perché il fatto non costituisce reato. Mantenimento figli: no alla particolare tenuità se la condotta non è isolata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2020 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 27 luglio 2020 n. 22523. Non può essere applicata la norma sulla particolare tenuità del fatto, al padre che non versa il mantenimento per il figlio, nella misura e nei tempi stabiliti dal tribunale, per più mensilità. La Corte di cassazione (sentenza 22523) esclude, infatti, l’applicazione della norma che consente la non punibilità, prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale, in caso di condotte reiterate. I giudici della sesta sezione penale, accolgono così il ricorso della pubblica accusa e della madre del ragazzo, parte civile, contro la decisione del tribunale di riconoscere la causa di non punibilità, malgrado l’omesso versamento avesse riguardato quattro mensilità, mentre in altre occasioni era stata versata una somma minore. Per il Pm come per la parte civile, l’articolo 131-bis era stato applicato, nonostante l’abitualità del comportamento, incorrendo così nella violazione della legge penale, che ammette il beneficio solo in caso di azioni isolate. La Suprema corte accoglie i ricorsi ricordando che è irrilevante la particolare tenuità di ogni singola omissione, valorizzata invece dal tribunale. L’omesso versamento dell’assegno - precisano i giudici di legittimità - integra un reato a consumazione prolungata “caratterizzato da fatto che ogni singolo inadempimento aggrava l’offesa al bene giuridico tutelato”. Campania. Il Garante Ciambriello: “Suicidi in carcere? Una strage silenziosa” istituzioni24.it, 28 luglio 2020 Quella dei suicidi nelle carceri in Campania è una strage silente. Ieri, domenica 26 luglio, nel carcere di Fuorni c’è stata la settima vittima da inizio dell’anno. Si tratta del giovane 25enne Giovanni Cirillo di origini senegalese, rientrato in carcere da un paio di settimane in seguito alla revoca degli arresti domiciliari. La vittima richiedeva con forza il trasferimento in una struttura sanitaria destinata al trattamento di patologie psichiche. Dopo un calo dei suicidi negli istituti penitenziari della regione nel 2019 rispetto all’anno precedente, i dati di questo primo semestre tornano ad essere allarmanti. Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania, dichiara, denuncia e propone: “Delle 7 persone che hanno deciso di porre fine alla loro vita, in questi primi mesi dell’anno, in Campania, molti hanno sono stati denunciati dai loro familiari per violenze, in molti altri casi di tentativi di suicidio e atti di autolesionismo, ci troviamo di fronte a persone con gravi disturbi della relazione con i propri cari. A mio parere le famiglie, estenuate dalla lotta interna, ricorrono alla “risposta carcere” consegnando una delega in bianco a tale sistema. Né la famiglia né la società possono fornire una risposta all’altezza slegandola da altri interventi che devono essere garantiti fuori dagli istituti penitenziari, e cioè sul territorio. Il tema della prevenzione dei suicidi non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire il carcere. Ciò è pericoloso perché in seguito a tali estremi gesti siamo portati erroneamente a individuare dei colpevoli a tutti i costi e a ricercare responsabilità che molto spesso sono “allargate”. Bisogna integrare i protocolli di prevenzione del rischio suicidario, adeguandoli ai bisogni delle nuove utenze. Per questi motivi il prossimo 5 agosto si terrà al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria un incontro a più voci sul tema dei suicidi, da me fortemente voluto e proposto, affinché si riflettano sulle possibili azioni da intraprendere in contrasto a questa piaga che affligge il sistema carcerario e che tristemente torna alla ribalta della cronaca. Como. Al carcere del Bassone ancora un suicidio, è il secondo caso in un mese La Provincia di Como, 28 luglio 2020 Un giovane detenuto straniero si è tolto la vita, nel fine settimana, nel carcere del Bassone. In meno di un mese salgono a due le persone che si sono suicidate all’interno della casa circondariale comasca. Dati allarmanti se si pensa che, questa estate, tra le mura del carcere cittadino si sono registrati altri due tentativi di suicidio, fortunatamente sventati dal personale in servizio alla polizia penitenziaria. L’ultimo episodio, come detto, nel fine settimana. Un ventenne detenuto marocchino, trasferito al Bassone da un altro carcere nelle scorse settimane, è stato trovato morto nella sua cella nell’infermeria al pian terreno della casa circondariale. Il giovane si è impiccato. Quando gli agenti lo hanno trovato, era ormai troppo tardi per lui. Stessa dinamica un mese fa, quando in una cella di un’altra sezione del carcere si è tolto la vita, impiccandosi con la coda della tuta da ginnastica, un detenuto tunisino di 33 anni. In quell’occasione erano stati i compagni di cella, di ritorno dopo il periodo trascorso all’aria, a trovare il corpo senza vita del loro concellino. Negli ultimi mesi, come detto, oltre ai due suicidi all’interno del Bassone sono stati registrati anche altri due tentativi. Secondo Antigone, l’osservatorio sulle condizioni della detenzione e per i diritti e le garanzie nel sistema penale, lo scorso anno i casi di autolesionismo denunciati all’interno del Bassone sono stati 104 e i suicidi uno. Gli ultimi dati dell’Osservatorio - riferiti a un mese fa - indicano in 375 i detenuti presenti a Como a fronte di una capienza massima di 240. Dai in diminuzione rispetto allo scorso anno, quando le persone all’interno del carcere comasco erano 450. Dei 375 detenuti presenti le donne sono quaranta e i cittadini stranieri rappresentano poco più della metà della popolazione carceraria comasca. Torino. “Andiamo a divertirci”, le intercettazioni delle guardie penitenziarie accusate di tortura di Ottavia Giustetti La Repubblica, 28 luglio 2020 Il comandante aveva invitato i suoi a non parlare al telefono: “Credono più ai detenuti che a voi”. Anche se il comandante aveva avvisato i suoi uomini di non parlare al telefono, ogni tanto, nelle chiacchiere con i familiari, qualche allusione a come ci si divertiva dietro le sbarre del Padiglione dei sex-offender, alle guardie continuava a sfuggire. “Andiamo a dare i cambi che oggi mi sto divertendo”, diceva per esempio Simone Battisti alla fidanzata a metà mattina del 16 ottobre 2019. “A menà?”, ribatteva lei, come se quella fosse l’abitudine. Eppure il collega Vincenzo Di Marco, parlando con la madre all’indomani degli arresti, aveva spiegato che “il comandante dice ‘al telefono non dite niente, non fate niente, perché credono più ai detenuti che a voi’“. E aveva tagliato corto la conversazione nella quale lei gli chiedeva (“non farmi preoccupare”) se fosse coinvolto nell’inchiesta che aveva portato all’arresto di sei agenti della polizia penitenziaria con l’accusa di tortura. L’intero carcere tremava. Per la prima volta venivano svelati all’esterno i metodi punitivi con cui erano trattati alcuni detenuti. E, da un lato gli agenti si interrogavano, freneticamente, su dove sarebbe arrivata la procura di Torino (l’inchiesta è coordinata dal pm Francesco Pelosi), dall’altro cercavano di correre ai ripari come potevano. “Bisogna dire ai ragazzi - diceva il comandante a un suo sottoposto il 4 novembre - di mettere d’accordo gli avvocati in modo da tenere la stessa linea”. Il fatto è che gli uomini detenuti nel padiglione C delle Vallette erano colpevoli di aver commesso reati sessuali. Perciò i custodi della loro carcerazione si trasformavano quotidianamente in “giustizieri”. “Ti ammazzerei e invece devo tutelarti”, era la frase tipica che si sentivano dire, come ha raccontato nella sua denuncia Daniele Caruso, così apostrofato dal commissario Maurizio Gebbia, il capo della “squadretta punitiva”. Era in corso un trattamento sanitario obbligatorio ma gli agenti di Gebbia gli sputavano addosso e lo colpivano con violenti pugni al volto. Caruso, dopo quell’episodio, fu costretto a dichiarare che era stato un compagno di cella a picchiarlo, altrimenti sarebbero ritornati. Sempre a minacciarlo delle stesse umiliazioni e vessazioni. Sempre sotto la scure di un pestaggio. E quello di Caruso è solo un esempio, perché i trattamenti disumani erano all’ordine del giorno in quella sezione. “Si tratta di una gestione basata su una sistematica attività volta a instaurare un clima di intimidazione”, spiegano gli agenti del Nucleo investigativo della Polizia penitenziaria, che nelle indagini hanno ricostruito almeno undici casi come quello di Caruso. E, alla fine, hanno notificato 23 avvisi di garanzia agli agenti e, con accuse più lievi, al direttore del Lorusso e Cutugno, Domenico Minervini (favoreggiamento e omissione di denunce di reato) e al comandante Giovan Battista Alberotanza (favoreggiamento) per aver ostacolato le indagini. Nulla di particolare era accaduto, in realtà. “Come avete fatto fino a ieri continuate a fare, adesso tutto è diventato coercitivo”, commentava infatti il dirigente sanitario, Antonio Pellegrino, in una telefonata di ottobre 2019 con Minervini. Però pian piano, a partire dal 2017, le vittime avevano trovato la forza per parlare. E gli interlocutori, soprattutto donne che venivano dall’esterno, hanno cominciato a segnalare quel che registravano. Fino anche a farsi revocare l’incarico, come è successo a due psicologhe. O a farsi indicare con frasi del tipo “quella grande p... della garante... spero che crepi” quando arrivava per i colloqui. Ma Monica Gallo non si è lasciata intimidire e, avendo capito che il direttore non interveniva, ha fatto emergere i fatti in procura. Qualche tempo dopo i primi sei arresti, si era suicidato in cella un detenuto con problemi psichici. Doveva essere sottoposto a sorveglianza continua Roberto Del Gaudio, che era stato arrestato dopo aver ucciso la moglie con 30 coltellate. Ma quando gli agenti erano arrivati alla sua cella era già morto, impiccato al letto con un lenzuolo. Parlando tra loro al telefono gli agenti commentavano che quel suicidio non sarebbe dovuto accadere, data la presenza di tre agenti in servizio. Ma nella VII sezione, dove stanno i detenuti con problemi psichici sottoposti a sorveglianza continua con telecamere, “era consuetudine - spiegavano - che gli agenti portassero le tessere della pay-tv da collegare ai monitor di sorveglianza per guardare la partita di calcio”. Ebbene, la sera del suicidio si stava giocando la partita di serie A tra Juventus e Milan. Ma anche in quel caso la decisione fu di non denunciare nulla. Milano. Carcere e imprese sostenibili di Ruben Razzante Il Giorno, 28 luglio 2020 La filosofia ispiratrice è quella dell’economia circolare, pensata per potersi rigenerare da sola, garantendo ecosostenibilità. La filosofia ispiratrice è quella dell’economia circolare, pensata per potersi rigenerare da sola, garantendo ecosostenibilità. I detenuti del carcere di Bollate ripareranno oltre 8mila computer, monitor, stampanti e altro materiale elettronico non più in uso, al fine di renderli riutilizzabili da parte della collettività. I dispositivi sono stati donati da Snam, nell’ambito di un’iniziativa sociale promossa insieme a Fondazione Snam e realizzata in collaborazione con l’impresa sociale Fenixs. Obiettivo del progetto è offrire ai detenuti un’opportunità di riqualificazione professionale. Le apparecchiature verranno in gran parte aggiornate e messe a disposizione delle scuole per attività educative. Quelle non riutilizzabili verranno gestite da Fenixs con LaboRAEE, controllata di Amsa (gruppo A2A), che porta avanti l’attività dell’impianto di trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici inaugurato un anno fa nel carcere di Bollate. L’iniziativa è in linea con i valori di Snam, che di qui al 2023 investirà 1.5 miliardi di euro nel progetto SnamTec, dedicato all’innovazione tecnologica e ai nuovi business della transizione energetica, e che da anni è fortemente attiva nella sostenibilità ambientale e sociale, con particolare attenzione alle aree vulnerabili. Nel perseguire questi scopi, l’azienda fa leva anche sulla capacità di Fondazione Snam di costruire reti e collaborazioni con il mondo non profit. Ancor più durante questa pandemia, Fondazione Snam ha affiancato e supportato oltre 50 enti non profit impegnati nel sostegno alla popolazione più fragile e particolarmente colpita dall’emergenza Covid-19. Le tecnologie si sono rivelate un prezioso facilitatore nell’erogazione dei servizi essenziali, anche energetici, e l’attivazione di sforzi congiunti tra pubblico e privato ha prodotto una forte spinta all’innovazione e una robusta crescita dell’economia digitale. Catanzaro. Anziano, malato e in attesa di giudizio. Ma per i giudici può rimanere in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 luglio 2020 Antonio Vaccarino si è sentito molto male nel carcere di Catanzaro, un fortissimo dolore toracico, tanto da essere ricoverato urgentemente in ospedale. I medici hanno riscontrato delle patologie cardiache, motivo per cui gli avvocati difensori Giovanna Angelo e Baldassare Lauria hanno fatto istanza chiedendo gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute e per la sua età avanzata. Istanza, però, rigettata: secondo il Tribunale di Marsala la sua condizione di salute è compatibile con il carcere. Antonio Vaccarino si è sentito molto male nel carcere di Catanzaro, un fortissimo dolore toracico, tanto da essere ricoverato urgentemente in ospedale. I medici hanno riscontrato delle patologie cardiache, motivo per cui gli avvocati difensori Giovanna Angelo e Baldassare Lauria hanno fatto istanza chiedendo gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute e per la sua età avanzata. Istanza, però, rigettata: secondo il Tribunale di Marsala la sua condizione di salute è compatibile con il carcere. Vaccarino, 75 anni, è l’ex sindaco di Castelvetrano, condannato in primo grado il 2 luglio scorso a sei anni di carcere. Secondo l’accusa avrebbe favorito la latitanza di Matteo Messina Denaro. Le prove? Aver fatto conoscere il contenuto di alcune intercettazioni tra due personaggi che non solo non facevano alcun riferimento al super latitante, ma che - secondo gli avvocati difensori - non avrebbero alcun contenuto rilevante. Infatti i due intercettati non risultano esser stati raggiunti da nessun avviso di garanzia. Il fatto è che Vaccarino collaborava con la procura di Caltanissetta proprio per avere informazioni riguardanti Matteo Messina Denaro. Informazioni che sono servite per l’attuale processo contro il latitante accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Una collaborazione, la sua, portata avanti rapportandosi con il colonnello Marco Alfio Zappalà che ha lavorato per conto della procura di Caltanissetta. Anche quest’ultimo è stato accusato di favoreggiamento dalla procura di Palermo. Vaccarino già in passato ha subito una ingiusta detenzione per essere stato accusato di mafia. Accusa basata sulle parole del pentito Vincenzo Calcara, ultimamente citato dal procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci durante la requisitoria al processo contro Matteo Denaro, rilevando alcune sue omissioni nel 1992. Al processo Vaccarino, ascoltato come teste, il pm Paci ha anche avanzato l’ipotesi che fosse un pentito etero diretto. Ricordiamo che Vaccarino subì le torture a Pianosa, tanto da essere citato dal documento di Amnesty International che denunciò gli abusi avvenuti in quel carcere. Ora è nuovamente in carcere. Ma è anziano, ha gravi patologie cardiache che, aggiunte con l’inevitabile stress psicologico, potrebbero essere fatali. Tutto ciò, oltre i suoi familiari, ha preoccupato i suoi avvocati Angelo e Lauria. Nella richiesta di sostituzione della misura cautelare si legge che Vaccarino - all’indomani della sentenza di condanna -, affetto da gravi patologie cardiache, è stato ricoverato nel reparto di cardiologia del nosocomio “Pugliese Ciaccio” di Catanzaro, all’esito dei controlli, in urgenza, espletati dal locale pronto soccorso, ove il paziente è giunto per un forte dolore toracico. “Ora, pur esulando dalla presente ogni questione afferente la gravità indiziaria in ragione della condanna pronunciata da questo Tribunale il 2.7.2020 - scrivono i legali - va rilevato come la compiuta dinamica processuale e il periodo già sofferto dall’imputato in regime inframurario, impongano la rivisitazione della vicenda cautelare sotto il profilo dell’adeguatezza della misura in atto con le effettive esigenze cautelari”. Sul punto, gli avvocati osservano come il pericolo di reiterazione di reati non sia più esistente, avuto riguardo alla forte esposizione mediatica dell’attività di collaborazione di Vaccarino con la polizia giudiziaria. Per questo motivo ritengono “francamente improbabile che lo stesso possa entrare, in ipotesi, in possesso di notizie riservate”. Ma ciò che preoccupa è il fatto che sia anziano e che la complessità delle sue patologie cardiache “vissute nell’ambiente carcerario, notoriamente difficile, espongono lo stesso ad un elevatissimo rischio di ingravescenza, con serio di pericolo di morte”. I diari clinici, d’altronde, evidenziano i problemi cardiaci di Vaccarino. I periti nominati dal tribunale di Marsala, però, hanno stabilito che è compatibile con il regime detentivo. Eppure, fanno notare i medici nominati dai difensori di Vaccarino, il caso particolare rappresentato dalla patologia coronarica e delle sue conseguenze per il miocardio è una grave condizione di rischio per morte improvvisa o comunque per l’insorgere di gravi stenocardiche o di nuovi infarti. Per questo ne dovrebbe derivare la concessione dei benefici di legge. Ovvero i domiciliari. Si perché, sempre secondo i medici, la condizione di grave rischio è rappresentato dalle frequenti crisi stenocardiche complicanti l’aterosclerosi generalizzata. In sostanza, a differenza di quanto scritto dai periti nominati dal tribunale, i medici di parte sono convinti dell’incompatibilità carceraria che “date le sue situazioni di criticità, se non adeguatamente controllate in autorevoli centri cardiologici di eccellenza, possono lentamente progredire verso situazioni non più reversibili”. Ma nulla da fare. Il tribunale di Marsala ha rigettato l’istanza, accogliendo ciò che hanno relazionato i periti nominati dal giudice. Non solo. Secondo i magistrati, l’età avanzata di Vaccarino deve ritenersi “subvalente rispetto alle pressanti esigenze cautelari”. Quest’ultimo è anziano, malato e in attesa di giudizio. Ma può rimanere in carcere. I familiari sono preoccupati, soprattutto dall’ulteriore stress psicologico che può derivare da questa decisione. Trapani. Detenzione e malattia. L’amministrazione penitenziaria si dice attenta telesudweb.it, 28 luglio 2020 Sulla vicenda del detenuto nel carcere di Trapani, affetto dalla malattia di Crohn ci scrive l’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato Regionale della amministrazione penitenziaria della Sicilia. Alfio, è un “ristretto” nel carcere Pietro Cerulli di Trapani, affetto dalla malattia di Crohn, una malattia degenerativa del tubo digerente, di cui questa redazione si è ripetutamente occupata, come caso simbolo della difficile condizione di ammalato e detenuto, con le complicazioni e le implicazioni di tipo etico che ne conseguono per l’amministrazione penitenziaria. Il nostro servizio è stato evidentemente ascoltato da chi si occupa della condizione dei detenuti e ci ha quindi scritto una nota ufficiale l’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato Regionale. Una precisazione di cui diamo atto, per dovere di cronaca e perché mostra una amministrazione che, almeno, non è distratta sul tema. “Il detenuto - ci scrive l’Ufficio detenuti e trattamento - è in carico alla Asp di Trapani, la quale, nonostante le limitazioni nel funzionamento dei servizi ambulatoriali degli ultimi mesi a causa della criticità epidemiologica, ha programmato gli esami e le cure del caso. Nessun procedimento per l’eventuale ricovero ospedaliero o per esami ambulatoriali in strutture esterne all’istituto risulta abbia subito ritardi. La Magistratura di sorveglianza di Trapani è periodicamente informata sulle condizioni di salute del detenuto. L’Amministrazione Penitenziaria regionale assicurerà l’accesso del detenuto, come doveroso, a tutte le opportunità di cura o diagnostiche che i sanitari della Asp prescriveranno. L’Amministrazione Penitenziaria e quella Sanitaria collaborano per garantire l’accesso alle cure ai detenuti anche in un momento del Paese così difficile per le severe misure preventive adottate in ogni ambito al fine di prevenire la diffusione del Coronavirus. Si apprezza la sensibilità di codesta Emittente per un tema sociale così delicato”. Sensibilità che, assicuriamo, non verrà mai meno alla redazione di TgSud. Torino. Il Sottosegretario Giorgis e Petralia visitano il carcere Lorusso e Cutugno di Marco Belli gnewsonline.it, 28 luglio 2020 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia come già annunciato nei giorni scorsi, cercherà di visitare tutti gli istituti della Penisola, incontrare provveditori, direttori, comandanti, personale di Polizia Penitenziaria e amministrativo, programmando le visite e talvolta giungendo a sorpresa, per conoscere dal vivo la situazione delle carceri italiane. È dunque in quest’ottica che, come già previsto da alcune settimane, Petralia giovedì scorso è stato nella Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, accolto dal Provveditore regionale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Pierpaolo D’Andria, dal Direttore Domenico Minervini e dal Vice Comandante Mara Lupi. Con lui, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis e il direttore generale del Personale e delle risorse del Dap Massimo Parisi, per una verifica diretta, da parte di tutti i livelli ministeriali e senza mediazioni burocratiche, dello stato della struttura e della situazione del personale. L’obiettivo della visita di Giorgis, Petralia e Parisi è stato duplice: da una parte, visitare personalmente quei padiglioni detentivi maggiormente meritevoli di interventi e attenzione; dall’altra, avere un lungo e approfondito incontro con il personale di Polizia Penitenziaria e del comparto Funzioni Centrali, nel quale sono emerse problematiche e disagi esistenti. È proprio su questi punti ci si è confrontati su proposte e possibili interventi dell’Amministrazione, per migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’istituto. Il capo Dap, assieme al responsabile logistico dell’azienda italiana specializzata nell’e-commerce, Alessandro Gugliada, ha anche visitato il capannone dedicato al progetto avviato in collaborazione con ePrice: un progetto che discende direttamente dal protocollo d’intesa del maggio 2019 che ha coinvolto gli istituti penitenziari di Torino e Roma Rebibbia, e nel quale sono impegnati alcuni detenuti. Successivamente Giorgis e Petralia hanno visitato la foresteria per il personale dell’istituto torinese e per i loro familiari: sono quattro alloggi che, come previsto da un provvedimento del Direttore generale del Personale e delle Risorse del Dap dello scorso gennaio, “potranno essere assegnati ammobiliati e a titolo oneroso al personale dell’Amministrazione Penitenziaria accompagnati eventualmente dalle loro famiglie, per esigenze di carattere personale, per brevi periodi, o a personale dell’Amministrazione statale o degli enti pubblici impegnato in attività istituzionali o di ricerca, sempre per brevi periodi”. Le attività di pulizia degli alloggi, nonché il lavaggio e la stiratura delle lenzuola in un apposito locale lavanderia, sono effettuate da tre detenute del reparto femminile dell’istituto, regolarmente impiegate e retribuite. Firenze. Rapporto genitori-figli: riflessione e spettacolo nell’Ipm gnewsonline.it, 28 luglio 2020 Diventa un palcoscenico il giardino dell’Istituto Penale per i minorenni di Firenze. Il 28 e 29 luglio in cartellone ci sarà lo spettacolo che i ragazzi manderanno in scena sul tema del rapporto genitori-figli, insieme alla Compagnia del Teatro del Pratello, cooperativa sociale di Bologna. A conclusione del ciclo di laboratori svolti all’interno della struttura fiorentina, l’iniziativa è nata in un contesto, quello della pandemia, con tutte le difficoltà e le limitazioni imposte dall’emergenza coronavirus. Grazie alla volontà e all’impegno dei ragazzi, con il supporto professionale degli operatori teatrali Paolo Billi e Maddalena Pasini, i promotori sono riusciti a portare a termine questa piccola/grande impresa teatrale. Il progetto, articolato in varie attività culturali con precise implicazioni educative e formative, ha l’obiettivo di concorrere alla costruzione di una cultura alla legalità e di contribuire ai percorsi di reinserimento sociale dei minori, in alcuni casi giovani adulti, dell’area penale interna: finalità perseguita dal Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, che cura i servizi destinati ai minori che si trovano all’interno dell’IPM “Meucci” di Firenze. La rappresentazione teatrale offre al pubblico giovanile - anche ai non reclusi - importanti spunti di riflessione: i temi affrontati sono quelli del difficile rapporto genitori-figli, il dilemma padri-figli, le solitudini, gli abbandoni, i conflitti, gli abusi e gli smarrimenti di chi ha alle spalle famiglie spesso assenti o disfunzionali. L’esperienza della drammaturgia permette ai giovani attori di rafforzare il senso di autostima, di mettersi in gioco testando le proprie attitudini, di confrontarsi con i coetanei: acquisendo crescenti livelli di consapevolezza, di autodisciplina e di auto-responsabilizzazione, un percorso attraverso cui costruire “un’impresa comune”. Sassari. L’ex carcere dell’Asinara diventa hotel di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2020 Albergo diffuso con piccoli alloggi che rispettano l’architettura esistente. Il primo intervento a Cala d’Oliva con 800mila euro. Un albergo diffuso nell’ex supercarcere dell’Asinara, in uno scenario incantato tra mare e natura protetta. Con piccoli alloggi funzionali e confortevoli ma fedeli all’architettura originaria. Caratterizzata da casette bianche con tetto in tegole rosse e vista sul mare. La nuova vita dell’isola dell’Asinara, celebre per il suo passato da super carcere di massima sicurezza, passa per il turismo, attraverso la trasformazione e riutilizzo dei suoi edifici. Nessuno stravolgimento delle costruzioni attuali e neppure aumenti di volumetria, giacché tutto è protetto, ma trasformazione e valorizzazione delle strutture esistenti. Il tutto, in attesa che l’isola diventi il primo parco in Sardegna certificato dalla Carta europea del turismo sostenibile di Europarc. L’idea, nei piani dell’Ente parco da parecchio tempo, comincia a concretizzarsi. Primo passo un intervento a Cala d’Oliva, il borgo dove già sono presenti strutture ricettive e qualche servizio, con la realizzazione di 38 alloggi nell’ex direzione carceraria. Per portare avanti il programma è già disponibile un primo finanziamento di 800mila euro. Il piano vede partecipare l’Ente Parco, la Regione attraverso al Conservatoria delle Coste, e il comune di Porto Torres. “Come parco ci occupiamo degli aspetti pianificatori e dei regolamenti - dice il direttore Vincenzo Gazale. Dentro le prerogative pianificatorie, nel piano del parco, c’è proprio l’intervento nel borgo di Cala d’oliva, il centro più organizzato e per cui era stata previsto la possibilità di utilizzare le strutture per farne residenzialità”. A sostenere il progetto la Regione, proprietaria del compendio e intenzionata a portare avanti il programma di valorizzazione dell’intera isola. “Sia chiaro, tutti gli interventi saranno portati avanti salvaguardando tutto quello che è presente - dice Umberto Oppus, direttore generale dell’assessorato regionale agli Enti Locali e patrimonio - l’obiettivo è quello di rendere l’Asinara un fiore all’occhiello della Regione”. Quanto alle risorse messe in campo, Oppus chiarisce che “si tratta di una prima parte di un finanziamento che servirà per migliorare l’insieme conservando le caratteristiche originarie”. In programma anche la realizzazione di una sorta di polo logistico della Regione: “Il programma che stiamo portando avanti e che vede la presenza del corpo forestale nell’isola è quello di creare un polo logistico funzionale alla ricettività e ai servizi”. L’intenzione della Regione è quella di far sì che la stagione turistica possa andare oltre il canonico periodo estivo sfruttando quindi le strutture anche in periodi differenti. Suicidio assistito, assolti Welby e Cappato: “Saremo ancora disobbedienti” di Simona Musco Il Dubbio, 28 luglio 2020 Il pm aveva chiesto 3 anni e 4 mesi, evidenziando però “i nobili intenti” degli imputati, che avevano aiutato il 53enne affetto di Sla a morire in Svizzera. Il radicale: “Ora il Parlamento legiferi sul fine vita”. Marco Cappato e Mina Welby non sono colpevoli per aver aiutato Davide Trentini a morire. Lo ha stabilito questa sera la Corte d’Assise di Massa Carrara, che ha accolto le richieste della difesa assolvendo i due imputati, perché “il fatto non sussiste”, dall’accusa di aiuto al suicidio per la morte del 53enne malato di Sla deceduto il 13 luglio 2017 in una clinica Svizzera. I due sono stati accolti da un applauso davanti al Tribunale, dove Welby ha ricordato che la sua battaglia per una legge sul fine vita, anche in virtù della promessa fatta a suo marito Piergiorgio poco prima della sua morte, non si ferma. “Oggi sono molto felice. Ricordo quando quel 20 dicembre del 2006 prima di morire Piergiorgio mi disse: promettimi che andrai avanti e che non ti fermerai. E oggi posso dirgli che sono andata avanti e che non mi fermerò mai. Dobbiamo ancora ottenere la legge e nel frattempo sarò pronta ad accompagnare in Svizzera tutte quelle persone che me lo chiederanno e che si rivolgeranno a noi. Sarò ancora una disobbediente”, ha detto tra gli applausi dei manifestanti. E così ha fatto anche Cappato, che ha parlato di “un precedente importante che allarga il margine di applicazione della sentenza della Corte costituzionale anche a coloro che non sono attaccati alle macchine”. La differenza tra il caso di dj Fabo e quella di Trentini, infatti, stava tutta qui: il 53enne non era costretto a subire trattamento di sostegno vitale. Ma il problema, ha evidenziato il Radicale, rimane: “per avere giustizia tocca continuare a passare per i tribunali e i comitati etici o comunque attraverso procedure che per molti malati non sono percorribili, perché non ci sono i tempi e le garanzie. E questi può fornirli solo il Parlamento, che non solo da 7 anni non risponde alla sollecitazione di una legge di iniziativa popolare, ma anche a due sollecitazioni della Consulta”. Una legge che servirebbe a garantire “un diritto immediatamente accessibile a tutti i cittadini” e anche ad eliminare una potenziale discriminazione, ha evidenziato ancora: “la situazione di Davide era equiparabile a quella di Fabiano, ma se non lo fosse stato avremmo potuto accettare una discriminazione sulla base della tecnica che lo ha tenuto in vita e non sulla base della sua volontà? Per questo continueremo la nostra azione di disobbedienza civile, fino a quando il Parlamento non si sarà assunto la responsabilità che non si è ancora assunto”. I giudici hanno assolto Welby e Cappato perché il fatto non sussiste riguardo all’istigazione al suicidio e perché il fatto non costituisce reato riguardo all’aiuto al suicidio. Il pubblico ministero Marco Mansi non si era spinto a chiedere l’assoluzione, ma aveva comunque evidenziato le motivazioni alla base della scelta di Welby e Cappato di aiutare Trentini: porre fine alle sue sofferenze. Una scelta che “rifarei per aiutare Davide a morire senza soffrire”, aveva spiegato Cappato poco dopo la requisitoria con la quale Mansi aveva chiesto una condanna a 3 anni e 4 mesi, il minimo della pena. Perché sebbene, per il magistrato, il reato sussista, “credo ai loro nobili intenti”. Gli stessi alla base dell’aiuto concesso a dj Fabo, per il quale, a dicembre scorso, il tribunale di Milano ha assolto l’esponente Radicale e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, sottolineando che la sua condotta “esclude” il reato di “agevolazione al suicidio”. Quella sentenza arrivò dopo l’intervento della Consulta, che ridusse l’area di punibilità per quanto previsto all’articolo 580 del codice penale, stabilendo come paletti la presenza di una patologia irreversibile, la volontà del soggetto espressa in modo “chiaro e univoco”, indice di una capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, e che al paziente venga “prospettata la possibilità di porre fine alla propria vita mediante la sedazione profonda e l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale”. Condizioni che nel caso di dj Fabo si sono tutte verificate. Nel caso Trentini, invece, proprio quest’ultimo parametro sembrava venir meno. Mansi, per ovviare la questione, aveva chiesto il rinvio dell’udienza per un’ulteriore perizia, utile a dimostrare che Trentini riceveva quotidianamente trattamenti di sostegno vitale, equiparabili all’attaccamento alle macchine per la respirazione. Richiesta respinta dalla Corte, secondo cui le prove erano sufficienti. Così il pm ha dovuto procedere alla richiesta di condanna di Welby e Cappato, definendoli “sì colpevoli, ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di dover negare”. Aiutare Trentini a morire, secondo il pm, fu un atto compiuto “nel suo interesse”. Sarebbero mancati, solo, “i presupposti che lo rendano lecito”. Ovvero quella norma dimenticata dalla politica. Ma la battaglia, hanno assicurato Welby e Cappato, “continua”. Migranti. Lamorgese: “Pericolo sanitario. Dobbiamo fermare i flussi dalla Tunisia” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 28 luglio 2020 La ministra dell’Interno a Tunisi: “La crisi economica qui ha conseguenze per tutti”. Sui 12.228 arrivi degli ultimi giorni circa 9.500 sono “sbarchi autonomi”. “Una nave da mille posti” per la quarantena a largo di Porto Empedocle. Arrivano a bordo di gommoni, barche di legno, alcuni addirittura in motoscafo. Arrivano senza attendere l’aiuto delle navi delle Ong, puntando direttamente verso le spiagge e i porti italiani. Su 12.228 migranti approdati sulle nostre coste fino a ieri, circa 9.500 sono giunti grazie agli “sbarchi autonomi” e molti di loro sono poi riusciti a far perdere le proprie tracce, eludendo i controlli e dunque anche l’isolamento imposto dal pericolo di contagio da coronavirus. È questo l’aspetto più grave che sta causando una vera e propria emergenza. Preoccupa la Tunisia - Come riconosce la stessa ministra Luciana Lamorgese “si tratta di flussi incontrollati che creano seri problemi legati alla sicurezza sanitaria nazionale che si riverberano inevitabilmente sulle comunità locali interessate dai centri di accoglienza, dai quali, tra l’altro, i migranti tunisini in particolare cercano di allontanarsi in ogni modo prima del termine del periodo di quarantena obbligatorio”. Partono dalla Libia, ma moltissimi arrivano anche dalla Tunisia: ben 5.237, tra loro 4.354 tunisini. Una situazione che rischia di trasformarsi in emergenza nel giro di qualche settimana. Le analisi dell’intelligence confermano che sono almeno 10 mila le persone pronte a lasciare il Nordafrica per raggiungere l’Europa, passando per l’Italia. Proprio in Tunisia è volata ieri la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. La preoccupazione è forte e lei non la nasconde. La nuova ondata - “In Tunisia assistiamo a una crisi economica molto grave, senza precedenti. Una crisi che riguarda da vicino anche l’Italia perché ha effetti di ricaduta immediata con flussi eccezionali di sbarchi di migranti. La situazione va tenuta costantemente sotto controllo”. Raggiungere l’obiettivo non è facile, la titolare del Viminale lo sa bene: “Gestire i flussi migratori di questa entità è difficile in tempi normali, ma ora con le problematiche legate alla diffusione del Covid-19 la situazione è diventata davvero molto complessa”. Ecco perché ha rinnovato alle autorità tunisine la volontà di collaborare sia per quanto riguarda i controlli sul territorio, sia alle frontiere marittime. Il personale sarà tunisino, ma l’Italia garantirà il rispetto dell’accordo che prevede l’addestramento delle forze dell’ordine, la manutenzione delle motovedette - comprese quelle non donate dall’Italia - i radar per il pattugliamento delle coste e i motori fuoribordo. Gli aiuti economici - Questo almeno per quanto riguarda la parte del Viminale. Governo e Unione Europea dovranno occuparsi degli aiuti economici perché, come ribadisce Lamorgese “la crisi tunisina rischia di avere conseguenze gravissime per tutti. Ho potuto incontrare il presidente tunisino Kais Said e il ministro dell’Interno, Hichem Mechichi e ho ricevuto rassicurazioni sulla volontà di affrontarla insieme”. Il messaggio di Lamorgese è stato esplicito: “La Tunisia potrà sempre contare con fiducia sul nostro Paese, anche in un contesto economico reso difficile a causa della diffusione del virus Covid-19”. La nave da mille posti - Tornata in Italia Lamorgese ha subito contattato il governatore della Sicilia Nello Musumeci. “L’ho rassicurato sul fatto chela maggior parte dei migranti fuggiti dal centro di Porto Empedocle è stata rintracciata, ma si tratta di un episodio inaccettabile e per questo stiamo prendendo provvedimenti”. L’esito dei primi tamponi è negativo, ma questo non basta a rassicurare perché sono comunque moltissimi gli stranieri sfuggiti ai controlli e scappati nei giorni scorsi. Ecco perché Lamorgese ha assicurato che chi arriva sarà messo in isolamento in mare. La gara per reperire un traghetto dove ospitare gli stranieri che devono rimanere in quarantena è andata deserta per tre volte visto che tutte le compagnie sono impegnate nei trasferimenti con le isole dopo la ripresa del turismo. Per questo si è deciso, oltre all’invio dell’esercito, di affittare una nave da 1.000 posti che sarà ancorata al largo di Porto Empedocle proprio per avere la certezza che nessuno possa fuggire. “Entro domani svuoteremo il centro di Porto Empedocle e quello di Lampedusa”, assicura Lamorgese. “Ho assicurato al governatore Musumeci che siamo impegnati a sostenere la Sicilia in questo momento difficile in ogni modo possibile”. Militari a Gorizia - Ai 300 militari dell’operazione Strade sicure che già oggi saranno destinati ai servizi di pattugliamento e controllo di fronte ai centri che ospitano i migranti in Sicilia, se ne aggiungono altri 100 che andranno a presidiare la frontiera terrestre a Gorizia. I dati degli ultimi giorni sui contagi da Covid-19 confermano che molti focolai sono nati tra le comunità straniere e per questo si è deciso di intensificare la vigilanza in modo da garantire che chi entra nel nostro Paese rispetti i 14 giorni di isolamento obbligatorio. Un potenziamento della vigilanza è stato deciso anche negli aeroporti. Senza escludere che nei prossimi giorni possa essere ulteriormente allungata la lista dei Paesi da cui sarà obbligatorio mettersi in quarantena. Una scelta che il ministro della Salute Roberto Speranza potrebbe effettuare già nelle prossime ore. Missione italiana di polizia in Tunisia, che promette di fermare i migranti di Adriana Pollice Il Manifesto, 28 luglio 2020 La ministra Lamorgese ricevuta dal presidente Saied. Focus sugli aiuti economici: l’Italia chiederà all’Ue investimenti nel paese per fermare la crisi economica innescata dalla pandemia. Missione tunisina per la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, la seconda in meno di un mese. Dopo la visita del 16 luglio, ieri è volata di nuovo a Tunisi dove è stata ricevuta dal presidente Kais Saied e dal premier incaricato, Hichem Mechichi. Al centro degli incontri il tema migranti e aiuti economici: lo stato nordafricano è il primo paese di provenienza degli sbarchi illegali in Italia, superando il 35% del totale. Da gennaio 2020 al 26 luglio sono stati 12.228 i migranti approdati, in 4.354 hanno dichiarato di essere tunisini e ulteriori 883 sono partiti da quelle coste. La Tunisia è uno dei pochi stati con cui l’Italia ha un accordo di rimpatrio che, tuttavia, funziona a rilento e l’accelerazione non è dietro l’angolo, vista la situazione altamente instabile che sta vivendo il paese. Saied, appena due giorni prima dell’incontro con Lamorgese, ha nominato premier Mechichi, dopo le dimissioni del predecessore Elyes Fakhfakh. Entro un mese la formazione del nuovo governo che dovrà avere la fiducia del parlamento, altrimenti ci saranno le elezioni. La fuga dalla Tunisia si intreccia con l’instabilità politica e la crisi economica, con la recessione aggravata dall’emergenza Covid-19 (si stima un calo del Pil di circa 7 punti) e il timore che in autunno potrebbero esserci 200mila disoccupati in più. Ma a destabilizzare il quadro c’è anche il conflitto in corso nella vicina Libia: Saied ha accusato “alcuni partiti politici” di ordire un “complotto straniero”, un messaggio che sembra riferirsi alla formazione islamica Ennahda, vicina ai Fratelli musulmani al potere in Turchia, grandi protettori del Governo di accordo nazionale di Fayez al Serraj. Al termine dell’incontro, ieri, Saied ha detto chiaramente che i flussi si fermano solo con il sostegno economico: “È necessario unire gli sforzi della comunità internazionale per individuare un nuovo approccio contro l’immigrazione illegale - la dichiarazione ufficiale -. Le soluzioni della sicurezza non sono sufficienti a contrastare il traffico di esseri umani. È innanzitutto una questione umanitaria. Consentire la sopravvivenza dei migranti nei loro paesi è una responsabilità collettiva e la soluzione risiede nella cooperazione”. Dal lato italiano delle dichiarazioni ufficiali, sono state ribadite “le solide relazioni bilaterali” e “l’intenzione di sostenere investimenti per accelerare la ripresa economica in Tunisia”. Ma, è il messaggio, bisogna che il paese fermi le partenze: “Specialmente con il Covid-19 - prosegue la nota - questi flussi incontrollati creano problemi di sicurezza sanitaria che si riverberano sulle comunità locali interessate dai centri di accoglienza, dai quali i migranti tunisini cercano di allontanarsi in ogni modo prima del termine della quarantena”. Per bloccare gli arrivi l’Italia offre pieno supporto “nell’attività di sorveglianza delle imbarcazioni dei trafficanti”. Saied avrebbe offerto rassicurazioni sui controlli alle frontiere marittime e “lo svolgimento regolare delle operazioni settimanali di rimpatrio dall’Italia”, riprese dopo il lockdown. Strette di mano e sorrisi ma l’instabilità della regione e la crisi economica restano nodi irrisolti. La pandemia ha provocato la chiusura delle infrastrutture turistiche: Hammamet, Sfax, Cartagine, Djerba, Tunisi, gli europei in vacanza sono spariti. Tutti quelli che lavoravano nel comparto sono senza impiego e vanno via. L’Italia ha promesso di accelerare i progetti avviati da Farnesina, Viminale, Mise, Mit e si è impegnata a fare la voce grossa in Ue per spingere nuovi programmi di sviluppo. D’altro canto, in Italia pure non c’è lavoro. Sui rimpatri, tema a cui il Viminale tiene molto, c’è l’impegno a intensificarli ma sarà tema per il prossimo governo tunisino. Intere famiglie approdano in Italia, portandosi dietro anche gli animali di casa. Ieri a Lampedusa sono arrivati due gruppi dalla Tunisia: il primo, di 11 persone, era su un barchino intercettato al largo, il secondo di 7 è arrivato sulla costa. Sul primo c’erano tre donne, una aveva il bagaglio e il suo barboncino. “Sono già stata in Italia per 15 anni in Italia - ha spiegato -. Abbiamo comprato una barca. Ognuno ha dato un poco di soldi e abbiamo guidato fin qui”. Dal lato tunisino, invece, si recuperavano i cadaveri. Il corpo di un uomo di 54 anni è stato portato a terra dalle autorità ieri: la barca su cui viaggiava è affondata a 7 miglia della costa di Hassi El Jerbi a Zarzis. A bordo erano in 12, solo in 7 sono stati salvati. Lamorgese ha poi chiamato il governatore siciliano Musumeci. Dopo la fuga dal Cara di Caltanissetta (139 i migranti rintracciati su 184), altro esodo di massa ieri a Porto Empedocle: nella tensostruttura della Protezione civile nel porto dell’agrigentino c’erano circa 520 migranti, contro i 100 previsti. Nelle immagini diffuse sui social si vedono decine di persone scappare verso la statale 640. Nel pomeriggio li hanno rintracciati quasi tutti. “La struttura è senza finestre - aveva avvisato la sindaca Ida Carmina -. È un forno, rischiano il soffocamento. Non ci sono le condizioni igienico-sanitarie”. Lamorgese si è impegnata a trasferire 520 migranti da Lampedusa e Porto Empedocle, a inviare l’esercito per sorvegliare i centri e una nave per la quarantena. Migranti. La retorica sui “negri” per non perdere consenso di Iuri Maria Prado Il Riformista, 28 luglio 2020 C’è stato un periodo in cui ne arrivavano pochi. Anziché chiudere i porti (questo lo avremmo fatto dopo) aiutavamo i libici a riempire e sigillare i campi di concentramento allestiti laggiù, e se ne scappavano alcuni non c’era problema perché finivano affogati davanti alle nostre spiagge. I pochi che sopravvivevano a questa civile selezione erano distribuiti secondo il protocollo messo a garanzia della tenuta democratica del Paese: un po’, stagione richiedendo, nelle piantagioni schiaviste, e gli altri nei lager domestici. Questo bel programma cominciò a fare acqua perché gli aguzzini libici, per quanto noi li aiutassimo a mantenere in efficienza l’organizzazione dei carnai, più di tanto non potevano fare: diciamo che l’accuratezza delle operazioni di stupro e tortura non garantiva alla perfezione il contenimento (dopotutto parliamo di negri, notoriamente indisciplinati). Il dispositivo mostrava dunque qualche segno di inefficacia, ma per fortuna è arrivato Salvini ad affinarlo e pace se poi gli hanno uccellato il governo: perché il suo bel lascito, vale a dire il bis dei decreti sicurezza, i successori progressisti se lo sono tenuto ben stretto. Adesso si tratta, come si dice, di tesaurizzare. Innanzitutto occorre, come spiega Marco Minniti al Foglio che la Lega non sia lasciata sola a strillare che i negri portano le malattie: la sinistra deve mostrare che non è da meno, ça va sans dire con linguaggio opportuno, e dunque non deve negare e anzi deve dire con la dovuta chiarezza che - c’è un’evidente correlazione tra immigrazione e Covid. Così si compete congruamente sul campo xenofobo, che non vorrai mica abbandonarlo all’esclusiva del Truce: per un elettore leghista che li vorrà ributtati in mare perché sono sporchi negri, c’è un elettore progressista che reclamerà la stessa cosa ma in base alla democratica causa del nesso eziologico. L’idea che l’evidente correlazione dovrebbe indurre a una tutela supplementare, cioè farli scendere e curarli, anziché istigare a una discriminazione aggiuntiva, pare identicamente estranea a destra e a manca. Idem sul sacrosanto diritto degli italiani di scegliersi semmai gli immigrati giusti. Non sia mai che soltanto Matteo Salvini possa fare comizio in argomento. Quello dice che dobbiamo prendere solo i migranti con conto in banca e catechizzati? E noi diciamo che d’ora in poi mandiamo alle nostre ambasciate una lista con gli immigrati di cui abbiamo bisogno, così facciamo entrare solo quelli che servono (è sempre Minniti). E anche qui: l’idea che questi scappano dalla fame, e dunque non sono manager in cerca di consulenze meglio pagate, appare abbastanza trascurata da una parte e dall’altra visto che ragionano come se si trattasse di organizzare delle visite aziendali. Cosa fai con quella che ti arriva con due bambini in braccio e uno nel ventre, dopo che le hanno sgozzato il marito? La rispedisci laggiù perché non he hai bisogno? Eppure si va avanti così, ciascuno con la propria retorica fuorviante e vigliacca e tutti uniti nell’identico desiderio di cavarne consenso: o di non perderne, che riesce a essere anche peggio. Migranti. Christou (Msf): “La crisi precipiterà, solo in Libia ci sono 650mila rifugiati” di Pietro Del Re La Repubblica, 28 luglio 2020 “La crisi dei migranti nel Mediterraneo non farà che peggiorare per via delle insensate politiche dei Paesi europei, nordafricani e mediorientali che vedono in chi fugge solo un problema e non un fenomeno storico che va affrontato e risolto con competenza e umanità”. Christos Christou, nato 46 armi fa nella cittadina greca di Trikala, è dallo scorso settembre presidente di Médecins sans Frontières International, l’Ong che nel 1999 vinse il Nobel per la Pace e che è da allora radicata in ogni luogo del pianeta colpito da una guerra, una pestilenza o una carestia. “Abbiamo osservato che sono sempre più numerosi i Paesi che strumentalizzano il Covid-19 usandolo sia per stigmatizzare i migranti sia per impedire gli sbarchi”, aggiunge Christou, che dirige un “esercito” di 65 mila operatori umanitari con un budget di 1,5 miliardi di euro provenienti per lo più da donatori privati, anche perché Msf ha rifiutato gli aiuti dell’Unione europea. “Non abbiamo voluto accettare neanche un centesimo da chi ha incentrato la sua politica sulla propria sicurezza”. Ma a Lampedusa continuano ad arrivare migranti, e gli abitanti hanno bloccato il porto. In Sicilia, altri migranti fuggono dalle strutture di accoglienza. Come gestire una situazione così complicata? “Nel Mediterraneo è indispensabile salvare ogni singola vita, e la sola regola da osservare deve essere il rispetto della dignità umana. È soprattutto necessaria una politica europea di ampio respiro che, di comune accordo con i Paesi da dove provengono i migranti, adotti ben altre misure ricettive rispetto a quelle attuali e preveda efficienti programmi d’integrazione. I leader europei dovrebbero anche intervenire là dove i diritti umani sono calpestati”. Dove, in particolare? “È preoccupante quanto accade in Libia, un Paese in guerra dove sono bloccati e in pericolo di vita circa 650 mila migranti, rifugiati e richiedenti asilo. È gente che vive in condizioni precarie con accesso limitato a cure mediche e assistenza umanitaria, vittima di violenze da parte di chi dovrebbe accudirla e che si comporta molto più spesso come uno spietato carceriere. E che dire di quanto accade sulle isole greche, dove nonostante la vita sia tornata alla normalità sia per la popolazione locale sia per i turisti, ai migranti che vivono in condizioni spaventose nei centri di accoglienza è ancora imposto il lockdown. Una misura ingiustificata e discriminatoria che continua a deteriorare le condizioni fisiche e mentali di persone che non hanno né l’acqua per lavarsi le mani né lo spazio necessario per rispettare il distanziamento sociale”. Se possibile, il Covid-19 peggiora le condizioni dei migranti… “Prima che cominciasse la pandemia, nella provincia nord-occidentale siriana di Idlib, l’ultima rimasta nelle mani della rivolta, c’era già una grave crisi umanitaria scatenata dai bombardamenti a tappeto dell’aviazione di Damasco e di Mosca. Ma dai primi di luglio nei campi profughi sono aumentati vertiginosamente i contagi di coronavirus anche tra il personale umanitario, che è adesso costretto a tornare a casa per la quarantena, il che mette a repentaglio l’intero sistema di assistenza. E spaventoso anche quanto accade in Yemen dove i danni della pandemia s’aggiungono alla guerra, alla malnutrizione e ad altre malattie mortali, quali il morbillo e la malaria. Come se non bastasse, per colpa della disinformazione, la gente ha paura dei medici e quando s’ammala non va in ospedale”. L’accesso al vaccino anti-coronavirus sarà probabilmente contingentato. Come rendere più universale la sua distribuzione? “Chiediamo fin da ora che ogni nuovo trattamento contro il virus sia a tutti economicamente accessibile. Per questo ci rivolgiamo ai governi affinché non depositino brevetti su farmaci, test diagnostici e vaccini, e prevedano una produzione su larga scala per soddisfare la domanda globale. Insomma, dobbiamo evitare che sia prodotto ciò che chiamiamo il “vaccino nazionalista”, destinato a pochi Paesi eletti ma precluso a quelli più poveri”. In Congo, Msf ha recentemente sconfitto la seconda più mortifera epidemia di Ebola di sempre. Che vi ha insegnato quell’esperienza? “Ci sono voluti 22 mesi per vincere Ebola anche perché, per via dell’annoso conflitto che funesta il Congo orientale, la popolazione ha perso ogni fiducia nelle istituzioni. Abbiamo imparato che non bastava combattere contro il virus, e che dovevamo interagire con le comunità, perché eravamo lì non per il morbo ma per i pazienti”. Egitto. Il Covid-19 è nelle carceri e nelle stazioni di polizia di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 28 luglio 2020 Distanziamento fisico impossibile a causa del sovraffollamento, nessuna misura di tracciamento, celle isolate per chi ha i sintomi del coronavirus, nessuna protezione per i detenuti anziani e per quelli con malattie pregresse, divieto di procurarsi e indossare mascherine, medicine e disinfettanti disponibili solo quando viene autorizzata la consegna tramite i familiari. Secondo un rapporto di Human Rights Watch, che fa seguito alle denunce di altre organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali, la pandemia da Covid-19 è entrata nelle carceri e nelle stazioni di polizia dell’Egitto. Il Committee for Justice, citato nel rapporto di Human Rights Watch, parla di 190 sospetti positivi (tra cui una trentina di impiegati e soldati in servizio di vigilanza) in 12 prigioni e 29 stazioni di polizia e di 14 detenuti contagiati in cinque carceri e altrettante stazioni di polizia e poi morti, nella maggior parte dei casi dopo il ricovero in ospedale: due a maggio, 11 a giugno e finora uno a luglio. Il sistema carcerario egiziano è avvolto dal silenzio. Le visite di familiari e avvocati sono sospese dal 10 marzo, i detenuti che prima svolgevano professioni sanitarie devono occuparsi dei compagni di prigionia ammalati e sono state minacciate azioni legali nei confronti dei giornalisti che parlino o scrivano a proposito della pandemia in modo difforme dalle dichiarazioni ufficiali. Per contrastare la diffusione della pandemia da Covid-19 nelle carceri, il governo egiziano ha finora disposto il rilascio di 13.000 prigionieri. Troppo pochi, considerando che secondo le Nazioni Unite la popolazione carceraria in tutto il paese è di oltre 114.000 persone. Salvo pochissime eccezioni, neanche una ventina, i provvedimenti di decongestionamento hanno riguardato solo prigionieri che avevano iniziato a scontare la condanna. Non hanno compreso i detenuti in attesa di giudizio: oppositori, giornalisti, avvocati, attivisti come Patrick Zaky, che ieri a sorpresa ha avuto un’udienza del cui esito si saprà nel corso della giornata, detenuto nel penitenziario di Tora. Che è tra quelli dove il Covid-19 è entrato. *Portavoce di Amnesty International Italia Egitto. Zaki ancora in carcere, un caso che va oltre il tollerabile di Francesco Battistini Corriere della Sera, 28 luglio 2020 Ieri, i giudici egiziani hanno stabilito che il giovane ricercatore dell’università di Bologna resterà dentro fino a settembre: così, in via preventiva, e solo per qualche post critico su un account Facebook nemmeno suo. A seconda di chi li conti e di chi li sconti, 178 giorni di galera sono pochi e sono tanti. In Egitto un nonnulla, se comparati ai 65mila detenuti politici che il generale Al Sisi incarcera dal 2016. O ai 700 morti di botte. O alle migliaia d’elettrificati nelle “gabbie dell’inferno” e surgelati vivi nelle celle frigorifere. Nel caso di Patrick George Zaki, si va oltre il tollerabile con questi sei mesi passati nel braccio di massima sicurezza di Tora, specie per un ragazzo che ai tempi del Covid soffre d’asma. Ieri, i giudici egiziani hanno stabilito che il giovane ricercatore dell’università di Bologna resterà dentro fino a settembre: così, in via preventiva, e solo per qualche post critico su un account Facebook nemmeno suo. Tutto previsto. Zaki potrebbe restare in attesa di giudizio fino al 2023, prevede l’avvocato, e non è detto che vi arrivi. Il suo handicap, inutile nasconderlo, è l’essere un egiziano, sia pure ben integrato da noi: per il regime, ogni appello dall’Italia è considerato un’indebita ingerenza; per il nostro governo, la faccenda è poco meno d’una seccatura; per tutt’e due, si vorrebbe soprassedere. Perché in ballo con l’Egitto ci sono questioni complesse, basti citare la strategia in Libia e il business energia. E perché un po’ d’errori sono stati fatti: i paralleli col caso Regeni, per esempio, non hanno certo aiutato Zaki. A questo punto il collegamento Giulio-Patrick è obbligatorio, però, e due sono gli interessi politici prevalenti: la verità sulla morte d’un italiano, la libertà d’un egiziano italianizzato. Senza questi minimi sindacali, è viziato ogni altro negoziato su soldi o armi, aiuti o gas. È in grado Roma d’esigere rispetto per la sua gente? “L’Egitto ci prende in giro! - tuonava battagliero il deputato Di Maio nel 2016, dopo l’assassinio Regeni - E se Al Sisi s’ostinerà a nascondere la verità, il governo Renzi dovrebbe avviare ritorsioni economiche!”. “È fuorviante - ha spiegato il pacificato ministro Di Maio un mese fa - pensare che ritirare il nostro ambasciatore al Cairo sia necessario per raggiungere la verità…”. Diceva un vecchio re arabo, Faysal il saudita, che non servono due bocche a fare una voce. Yemen. Parla il Nobel Tawakkol Karman: “Il mondo ignora la guerra nel mio Paese” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 28 luglio 2020 Lo Yemen, dopo oltre cinque anni di guerra, “è vittima del silenzio internazionale”. A denunciarlo, in questa intervista a Il Riformista è la premio Nobel per la Pace, Tawakkol Karman. L’attivista yemenita racconta una tragedia senza fine ma con tanti colpevoli. Racconta anche, con orgoglio, il ruolo delle donne in una rivoluzione che non si è arresa. “Non è un caso - rimarca con forza la Nobel per la Pace 2011 - che siano state proprio le donne e i giovani in prima fila in quelle rivoluzioni che hanno segnato tanti Paesi arabi, tra cui il mio, lo Yemen. Vecchi regimi corrotti e dispotici, così come un integralismo retrivo e oscurantista, temono e combattono le donne perché sanno che esse si battono contro una doppia oppressione, facendosi interpreti di una volontà di cambiamento che all’idealità sa unire una straordinaria concretezza”. Per il suo attivismo politico e in difesa dei diritti umani, Tawakkol Karman ha conosciuto le prigioni dell’allora padre-padrone dello Yemen, il presidente Ali Abdallah Saleh. Era il 2011, Tawakkol era presidente dell’associazione “Donne giornaliste senza catene”. La Comunità internazionale appare impotente di fronte ai massacri che segnano ormai da anni la quotidianità in Yemen. Un recente rapporto di Oxfam dà conto di una guerra devastante, con bombardamenti pesantissimi dei quali fanno le spese soprattutto donne e bambini. 12.366 vittime civili, tra il 26 marzo 2015 e il 7 marzo di quest’anno e oltre 100 mila vittime totali. Oltre 4 milioni di sfollati interni, più di 10 milioni di persone sull’orlo della carestia. I prezzi dei beni alimentari sono saliti in media del 47%. Quasi 18 milioni di persone non hanno accesso a fonti di acqua pulita e all’assistenza sanitaria di base. Le scorte di medicine e materiali sanitari si stanno esaurendo e questo in piena pandemia Covid… È una situazione terribile, un’apocalisse umanitaria. Stiamo parlando di esseri umani, non di numeri. Lei parla di “impotenza”. Io aggiungerei: colpevole. Perché la comunità internazionale, a cominciare da quanti siedono permanentemente al tavolo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno gli strumenti per fermare la mano di tutti i dittatori-carnefici della regione. Ciò che manca, colpevolmente è la volontà politica di intervenire. Nessuno può dire: non sapevo, non avevo contezza di questa apocalisse umanitaria. Non fermare questa mattanza, è un crimine contro l’umanità. Lei ha recentemente accusato il governo yemenita riconosciuto dall’Onu di aver esiliato il presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi e di essere uno strumento che legittima l’occupazione saudita del Paese. Al tempo stesso, ha usato parole durissime contro il tentativo di colpo di stato messo in atto dalla minoranza Houthi, sostenuta dall’Iran… Qualsiasi tentativo di pace che non tenga conto di questo non è altro che un tentativo di soggiogare gli yemeniti allo status quo dettato dal brutale colpo di stato degli Houthi e degli occupanti sauditi ed emiratini. Nel mio martoriato Paese c’è un vuoto di potere, le decisioni sono scritte dall’ambasciatore saudita, la firma di Hadi e del suo primo ministro non ci rappresentano, non hanno alcuna legittimità. Hadi e i suoi sodali sono soddisfatti di essere semplici strumenti in questa guerra, agenti, non leader; seguaci, non partner alla pari. Dall’inizio della guerra scatenata dalla coalizione a guida saudita, tutti questi componenti, compreso l’Islah Party, sono solo strumenti nelle mani dell’Arabia Saudita, proprio come l’STC, le truppe di Tariq [Saleh] e le Forze d’Elite. A proposito di Arabia Saudita. Lei ha usato parole durissime nel condannare il brutale assassinio del giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nel consolato saudita a Istanbul nel 2018. Teme di fare la sua stessa fine? Sono soggetta a una diffusa campagna d’odio e a terribili incitazioni alla violenza contro di me da parte dei media sauditi e dei loro alleati. La cosa più importante è che sarò al sicuro dalla sega con cui è stato tagliato il corpo del defunto Jamal Khashoggi. Andrò in Turchia e lo considererò un messaggio all’opinione pubblica mondiale: questi seminatori di odio e di morte non l’avranno vinta. Mi lasci aggiungere una cosa: la comunità internazionale non è solo silente verso i crimini perpetrati in Yemen, ma una parte di essa è anche complice attiva in questa mattanza senza fine. E questa complicità riguarda anche l’Europa e quei Paesi che continuano a vendere armi all’Arabia Saudita. Nei suoi discorsi, lei insiste molto sulla “lezione” che i giovani protagonisti delle Primavere arabe hanno fatto propria e come su questa base abbiano condotto la loro battaglia di libertà. Qual è questa lezione che lei proietta anche nei rapporti tra Oriente e Occidente? Vede, noi giovani della Primavera araba abbiamo capito che quello che impedisce di realizzare la fratellanza fra Oriente e Occidente sono i governanti dispotici, corrotti e fallimentari. Questi governanti sono causa di una guerra interna ai nostri popoli e rappresentano una minaccia per la stabilità internazionale. Lei ha più volte fatto riferimento ad una “fase due” della rivoluzione yemenita. Di cosa si tratta? La nostra rivoluzione comincia con la caduta del dittatore. Ora siamo entrati nella seconda fase, una fase di transizione. Occorre cambiare i vertici delle forze di sicurezza ed eliminare la corruzione. Non sarà facile, ma non ci interessa liberarci solo di un despota. Vogliamo giustizia e democrazia e la otterremo attraverso una rivoluzione pacifica. In questa rivoluzione le donne hanno avuto un ruolo da protagoniste… Ne sono profondamente orgogliosa. In questa rivoluzione la donna ha assunto ruoli di guida. Donne sono state uccise per la strada… assassinate perché erano guide. Saleh diceva che dovevamo restare a casa. Ma la nostra risposta è stata: prepara la tua valigia perché le donne faranno cadere il tuo trono. Inizialmente eravamo solo tre donne giovani. Siamo state derise e arrestate. Temute. Gli uomini erano stupiti della nostra presenza e noi stesse della nostra forza. Le donne sono coraggiose e generose: non combattono mai solo per sé, lo fanno per tutta la comunità. Quale ruolo gioca, nelle vicende yemenite, la religione? Nel mio Paese le tradizioni mettono in pericolo la libertà delle donne. Molti religiosi danno interpretazioni personali e sbagliate dell’Islam. I governi non fanno niente perché questo serve loro a mantenere lo status quo. Come giornalista e attivista, nelle conferenze che tiene in tutto il mondo, lei si concentra principalmente sulla difesa dei diritti umani. Il mio obiettivo è molto chiaro: contribuire alla creazione di Stati democratici che rispettino le libertà e i diritti umani. Ciò può essere ottenuto solo combattendo contro le tirannie che violano tali diritti e a favore della costruzione di Stati le cui fondamenta sono la civiltà, lo stato di diritto e l’integrità delle istituzioni. Porto avanti questa lotta in diversi modi all’interno della società civile e per diffondere il mio messaggio approfitto di tutte le posizioni a mia disposizione: mezzi di informazione, forum sui diritti umani, dibattiti politici, ecc. Ovunque io vada, cerco di spiegare che le tirannie privano le società di pace e sviluppo. Ogni società privata delle libertà e dei diritti umani può solo vivere una pace apparente e precaria fatalmente destinata a crollare Per tornare al suo paese. Lo Yemen può sperare in un futuro migliore? Non puoi pensare al futuro di un paese fino a quando la pace non verrà ripristinata. Ma la pace non sta solo nel mettere fine alla guerra, ma anche all’oppressione e all’ingiustizia. La pace senza giustizia è precaria, come un cessate il fuoco o una tregua provvisoria che è solo il preludio a eventi ancora più terrificanti successivi. La peggiore di tutte le guerre è quella che le dittature tiranniche hanno dichiarato ai propri popoli. Pertanto, rimango convinta che sia necessario lottare contro i regimi politici che non sono in grado di garantire i diritti fondamentali delle persone e delle istituzioni e di minacciarli. Dobbiamo sostituirli con sistemi democratici. Oggi come ieri, combatto per la democrazia. Ciò, nel caso dello Yemen, significa porre fine alla situazione creata dal colpo di stato e organizzare il referendum sul progetto di Costituzione che era già stato concordato nel dialogo nazionale avviato durante il periodo di transizione. Quindi, le elezioni possono essere chiamate naturalmente. Quando la vita politica tornerà al suo corso normale, ho intenzione di fondare un partito che riunisca essenzialmente donne e giovani per realizzare il progetto civico promosso dalla rivoluzione del 2011. Lo Yemen, la Siria, la Libia, la Palestina: il Vicino Oriente sembra un immenso campo di battaglia, le cui prime vittime sono le popolazioni civili. Quelle a cui lei fa riferimento, e se ne potrebbero aggiungere anche altre, sono guerre per procura, condotte da potenze regionali che hanno in spregio la libertà dei popoli, a cui non interessa nulla infliggere sofferenze indicibili, privare milioni di esseri umani, in maggioranza giovani, di un futuro degno di essere vissuto. Lo Yemen, per la sua posizione geografica, è un vaso di coccio tra due grandi vasi di ferro, l’Iran e l’Arabia Saudita, che si contendono la supremazia nel Golfo Persico e in tutto il Medio Oriente. Ma alla fine, ne sono convinta, il bisogno di pace che anima il mio popolo, al di là di ogni appartenenza etnica, avrà la meglio su quanti hanno tentato di annientarci.