La rivolta delle carceri rivela un’Italia fragile, anche nel sistema penitenziario di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 27 luglio 2020 Considerazioni generali sui principi che sostengono l’identità e l’operato del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Per riprodurre il contesto dell’attuale realtà che amministra le nostre carceri (Dap), in particolare la situazione nella quale si trovano gli Agenti di Polizia Penitenziaria e i Detenuti, mi rifaccio ad un secondo assioma, quello biblico della risposta salomonica, tratto dal primo libro dei Re (1 RE 3,16-28). Nell’articolo precedente ho presentato l’assioma dell’aquila bicipite, che rappresentava negli antichi, il mostrare potere e giustizia che si diramava con convinta autorità al mondo intero. Re Salomone, uomo di saggezza a cui è data la capacità di distinguere il bene dal male, redime la questione di due donne che chiedono il suo giudizio per stabilire la maternità di un bambino. Ordina lo smembramento del bimbo, sapendo che la vera madre non avrebbe permesso che il figlio morisse, a costo di non vederlo mai più. Nel Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, lo smembramento di competenze è un fatto, esclusi alcuni momenti, consolidato nel tempo. Da una parte i promotion sono i detenuti, nell’altra la Polizia Penitenziaria; le parti indotte a discordia non fanno che rafforzarsi e sbilanciandosi tra opposti sostenitori, non trovano pace tra loro. Così facendo indeboliscono la politica che deve decidere sul chi, sul come e sul perché, lasciando sul terreno richieste costantemente insolute e pretese in aumento, il tutto fuori dalla logica del buon governo. Oggi in Italia, non c’è Re Salomone e manca un potere di riferimento e di prestigio: la decisione più saggia e giusta viene vissuta come azione di parte, ingiusta, e non accettabile…. e il malumore aumenta e la legge del tornaconto e dell’egocentrico interesse, annulla anche i benefici della parte che è stata premiata. Le due parti, sanno a priori che il giudizio salomonico non si attuerà mai, perché sanno di non essere parti contraenti ma vincenti, comunque. Polizia Penitenziaria e detenuti sanno che il giudizio non si attua, quindi conviene comunque richiedere: ecco che il Coronavirus giustifica le scarcerazioni e l’uso della forza giustifica la repressione. Una organizzazione deve essere cosciente dei suoi poteri, univoca nell’affermarli e di come intende esercitarli, con quali finalità. Non può uniformarsi alle pressioni ma, viceversa, una volta ascoltate le parti, essere giusta e saggia, lungimirante, univoca, coerente con quanto stabilito nelle sacre stanze, aprendosi al nuovo e al non programmato dalle parti in causa. Solo in questo modo riuscirà a convincere che due madri sono migliori di una, e che un figlio tagliato in due non serve a nessuna. Nell’assioma Salomonico, se lo riferiamo a parti o corpi dell’Amministrazione Penitenziaria, verificata la possibilità di una convivenza civile e costruttiva, essa deve cercare in se stessa la forza e l’energia del fare e del decidere politicamente, in modo univoco, considerando che decidendo rassicura ed induce la parte a guardarsi e verificare più i punti in contatto che le antinomie. L’emergenza Covid-19 evoca un’emergenza dentro l’altra. Perché oggi, ad allarme rientrato, delle rivolte nelle prigioni italiane non restano focolai. Ma il bilancio è pesante: 12 morti per overdose, 8 detenuti in fuga nel foggiano, 600 posti letto distrutti, 20 milioni di euro di danni. E così quella che sembrava un’emergenza esclusivamente sanitaria ha invaso altri aspetti del sistema, quelli che rivelano un’Italia fragile, come il sistema penitenziario. Direi che le carceri non appartengono alla sola amministrazione penitenziaria e che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) non deve più detenere il monopolio esclusivo della gestione della esecuzione penale ma deve compartirla con gli altri attori, snellendosi nelle funzioni e nei numeri. Serve rinnovarsi con una amministrazione agile, efficiente, che risponda in tempi brevi alle sollecitazioni, nella quale si possa pensare che la tecnica della customer satisfaction sia applicabile al sistema dell’esecuzione penale, dove il “cliente” di tale sistema è il detenuto. Un Dap rinnovato è un Dap che deve avere il coraggio di non essere sempre la fotocopia di se stesso, consapevole che organizzazione complessa più che grandi numeri richiede personale specializzato. Il mondo delle professioni è oggi molto più vario di quello che vediamo all’interno degli Istituti di Pena; ecco che serve una adeguata formazione degli operatori in particolare quelli di reparto, quelli che sono continuamente a contatto col ristretto e nucleo portante di tutto il sistema carceri attualmente in servizio alla differente utenza, con la selezione di nuove professioni che non guardano solo alla idoneità fisica ma anche culturale (agenti di sviluppo locale, mediatori culturali e linguistici, infermieri, gestori dei conflitti), dando vita al nascente nucleo di trattamento gestionale di reparto, ora considerato il lavoro in reparto la cenerentola del corpo. La creazione di questo nuovo nucleo di trattamento gestionale di reparto, sarebbe la novità che tutti si aspettano, in quanto unisce compiti di custodia, riabilitazione, e umanizzazione verso i detenuti che Contemporaneamente va rotta la divisione rigida tra militari e civili, va ripensata la scala gerarchica interna e che, ad esempio, i vertici dell’amministrazione si prodigassero più per far nascere un nucleo operatore di reparto, più che per un corpo sportivo. Speriamo in un Re Salomone, che per la giustizia dedichi molto spazio alla cultura organizzativa che dovrebbe sostenere la riforma dell’amministrazione giudiziaria nel nostro paese. Lo stesso discorso si può e si deve fare anche per quanto riguarda la riforma dell’amministrazione penitenziaria, che non riporti l’assioma dell’aquila bicipite, nella quale le due teste, ognuna urla per sé stessa, e a chi è all’esterno arriva solo un gran stridore di voci o poco più. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria in quiescenza Testimoni pre-istruiti dal pm, sentenze scritte prima dell’udienza: diciamo basta! di Alessando Parrotta* Il Dubbio, 27 luglio 2020 Il caso di Padova, dove un ufficiale di polizia giudiziaria è stato sorpreso dai difensori col foglietto delle domande preparatogli dalla Procura, e il presidente del Tribunale non ha ancora ordinato l’inutilizzabilità della deposizione. O la vicenda delle sentenze scritte prima dell’udienza a Venezia. Come dice il presidente dell’Ucpi Caiazza, i magistrati devono rispettare le leggi, non inventarle E al ceto forense ora tocca ribellarsi con tutta la potenza di cui dispone. Il sistema giudiziario italiano nell’ultimo periodo non sembra trovare pace. Dopo i noti casi di Palamara e delle nomine riguardanti il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un’altra notizia, con meno rilevanza mediatica ma che porta con sé altrettante preoccupazioni suscita nuove polemiche, questa volta in ordine al controverso principio di uguaglianza e di parità dei poteri tra le parti (pubblico ministero da una parte e imputato con il proprio difensore dall’altra) in seno al procedimento penale. La problematica in questo caso trae origine proprio da un’aula giudiziaria ed è legata allo svolgimento di un’udienza dibattimentale: in particolare, dinanzi al Tribunale di Padova, durante l’esame di un testimone della pubblica accusa (un testimone, peraltro, qualificato trattandosi di ufficiale di polizia giudiziaria), veniva notato tra le mani dello stesso una minuta contenente alcune domande scritte direttamente dal pubblico ministero. I difensori degli imputati hanno immediatamente chiesto l’esclusione della testimonianza, e il Tribunale, negando l’eccezione, si è limitato a dire che l’avrebbe valutata. Il caso può sembrare di scarsa importanza, ma occorre rilevare che una procedura del genere innanzitutto lede le principali disposizioni in tema di formazione della prova, finanche di rango costituzionale, e in secondo luogo, se proseguisse priva di censure e ulteriori valutazioni, metterebbe in luce un’evidente disparità di trattamento tra la pubblica accusa e l’imputato, medesimi ingranaggi - di pari importanza - dello stesso procedimento penale. Come detto, le disposizioni violate sono molteplici, a partire dall’articolo 111 della Carta Costituzionale, che in maniera chiara garantisce che “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”. La ratio sottesa ad una simile norma è proprio quella di evitare situazioni del genere: la scelta operata in ordine al tipo di procedimento penale da instaurare nel nostro Paese aveva come base fondamentale la valutazione per cui la prova si avvicina tanto più alla realtà storica quanto più emerge da un esame multiplo delle parti che ne fa scaturire tutti i punti mancanti e lacunosi. È proprio per queste ragioni che in dibattimento, la sede naturale dove si forma la prova - tra l’esame e il controesame delle parti - il testimone deve giungere privo di alterazioni e senza aver dialogato con alcuna delle parti: diversamente, risulta evidente come il meccanismo di formazione della prova subisca un cortocircuito irreparabile. E infatti, in tema l’articolo 149 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale dispone proprio come sopra indicato. La sanzione prevista nel caso di un testimone che ha avuto pregressi contatti con una delle parti (e nel caso giudiziario è evidente come non solo pubblico ministero e ufficiale di polizia giudiziaria si fossero incontrati ma, anzi, è stata anche stilata una lista di domande che gli sarebbero state sottoposte) è disciplinata nell’art. 191 c.p.p., che in tema di prove illegittimamente acquisite, sancisce come le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possano essere utilizzate. Sembrerebbe, dunque, naturale che nel caso di specie, acclarata la violazione dell’articolo 149 disp. Att. C.p.p. ma anche dell’articolo 111 Costituzione in materia di contraddittorio, una simile prova venga dichiarata inutilizzabile e venga fatta uscire dal processo penale. Invece, ad oggi, il Tribunale si è limitato a riservare di valutarla. Un simile caso di cronaca non soltanto offre spunti di riflessione meramente tecnici in materia di formazione della prova e utilizzabilità della stessa ma rimette in luce l’annosa questione in ordine al supposto principio di uguaglianza tra le parti dinanzi al procedimento penale. Gli avvocati penalisti da anni pongono l’attenzione sul rispetto dei principi costituzionali che regolano il processo penale e sull’importanza del ruolo svolto dalla Difesa privata, che dovrebbe rappresentare una parte fondamentale dello stesso processo, al pari della Pubblica Accusa (sulla scorta di queste valutazioni nell’ultimo periodo è stato chiesto l’inserimento in Costituzione del ruolo dell’avvocato, quale parte necessaria del procedimento penale e come garante del rispetto del principio del contraddittorio tra le parti). Tuttavia, questo caso rappresenta ancora una volta come, purtroppo, il ruolo dell’avvocato penalista sia ormai il più delle volte quello di un coprotagonista che assiste - disarmato - alle mosse della pubblica accusa e dell’organo giudicante. E se fosse stato il Difensore della parte privata a munir di foglietto il proprio testimone? Quali conseguenze? Anche quella disciplinare ai sensi del Codice Deontologico Forense, oltre alla pessima figura in aula. Il presidente dell’Unione delle Camere Penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, si è di recente espresso sull’automatismo che si è ormai raggiunto nelle aule giudiziarie, che rende - per l’appunto - il ruolo dell’avvocato penalista pressoché svuotato di ogni contenuto. Lo spunto è stato, anche in quel caso un’analoga vicenda di cronaca: alcuni giorni prima che l’udienza ad hoc venisse celebrata, alcuni avvocati patroni delle Parti hanno ricevuto dalla Corte di Appello di Venezia le motivazioni delle sentenze con le quali i loro atti di impugnazione erano stati giudicati infondati. Le sentenze sono, dunque, state decise e scritte prima del processo, ma il dottor Carlo Citterio, presidente della seconda sezione penale della Corte, ha assicurato che se la successiva discussione del difensore e la conseguente Camera di Consiglio lo persuaderanno della infondatezza della tesi già scritta in motivazione, il relatore sarà ben lieto di riscriverla sostenendo l’esatto contrario. Riscrivere una sentenza? O meglio, una sentenza emessa in assenza del contraddittorio? Anche in questo caso sono state violate le più basilari norme in tema di equo processo e non si possono che condividere le parole del presidente Caiazza: “La sovranità legislativa è del Parlamento, la Magistratura si limiti a rispettare e ad applicare le leggi, anche quelle che non le piacciono e che non condivide”. Forse è il momento che tutti gli avvocati riacquistino, in attesa delle conferme in Costituzione, con tutta la potenza della categoria (di una professione tanto necessaria quanto indispensabile) la consapevolezza di essere l’ultimo baluardo della Giustizia. *Avvocato, direttore dell’Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Peculato, truffa, frodi: dal 30 luglio pene più aspre per i reati contro la Ue di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2020 Si applicheranno ai reati commessi da giovedì 30 luglio le sanzioni più severe contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea. È l’effetto dell’entrata in vigore del decreto legislativo 75/2020, che ha dato attuazione alla direttiva europea 2017/1371 relativa alla lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea (detta direttiva Pif, protezione interessi finanziari). Il decreto 75 contiene interventi in materia penale e di responsabilità delle imprese che si muovono lungo diverse direttrici. Il testo raccoglie infatti modifiche al Codice penale, alle norme tributarie e introduce nuovi reati presupposto per la responsabilità amministrativa d’impresa, prevista dal decreto legislativo 231/2001: tra questi, l’abuso d’ufficio, che, contestualmente, è stato modificato dal decreto legge semplificazioni (76/2020) per circoscriverne l’applicazione. Le modifiche al Codice penale - Il decreto legislativo integra gli articoli 316 e 316-ter del Codice penale e stabilisce pene più elevate per i delitti di peculato mediante profitto dell’errore altrui e indebita percezione di erogazioni pubbliche: il tetto massimo viene alzato a quattro anni se “il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a 100mila euro”. Lo stesso aumento riguarda anche la condotta del privato nel delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità (articolo 319-quater). Il testo modifica inoltre l’articolo 640 del Codice penale disponendo che la truffa in danno dell’Unione europea sia equiparata a quella in danno dello Stato o di altri enti pubblici: in tutti questi casi, la reclusione può arrivare a 5 anni. Inoltre, le norme in materia di corruzione internazionale potranno riguardare anche persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio nell’ambito di Stati non appartenenti all’Unione europea, quando il fatto abbia offeso gli interessi finanziari dell’Ue (articolo 322-bis). Altri inasprimenti di pena riguardano il delitto di indebita percezione di erogazione di fondi europei per l’agricoltura: il tetto massimo viene alzato a 4 anni, se il danno o il profitto sono superiori a 100mila euro (articolo 2 della legge 898/1986). Infine, per i delitti di contrabbando si introduce la pena della reclusione da 3 a 5 anni se l’ammontare dei diritti di confine dovuti è superiore a 100mila euro; la reclusione si ferma a un massimo di 3 anni se i diritti di confine sono inferiori a 100mila euro, ma superiori a 50mila (articolo 295 del Dpr 43/1973). La responsabilità da “231” - Nel contempo, il decreto 75/2020 amplia anche il catalogo dei reati presupposto per la responsabilità delle persone giuridiche prevista dal decreto legislativo 231/2001. Intanto, l’abuso d’ufficio, a condizione che il fatto abbia offeso gli interessi finanziari dell’Unione europea, ma la sanzione irrogata a carico della persona giuridica potrà essere solo pecuniaria e non interdittiva. Dal 30 luglio saranno fonte di responsabilità “corporate” anche i delitti di frode nelle pubbliche forniture, indebita percezione di fondi europei per l’agricoltura, contrabbando, nonché - alla condizione che il fatto abbia offeso un interesse finanziario dell’Unione europea - anche peculato “semplice” e “mediante profitto dell’errore altrui”. Per questi ultimi, come per l’abuso d’ufficio, le sanzioni sono di natura esclusivamente pecuniaria. Per tutti gli altri reati presupposto introdotti dal decreto 75/2020, le sanzioni a carico della persona giuridica possono essere anche quelle interdittive previste dall’articolo 9 lettere c), d) ed e) del decreto 231: il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi. Il nuovo abuso d’ufficio non ferma le indagini a carico dei funzionari di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2020 La riforma dell’abuso d’ufficio, introdotta dal decreto semplificazioni, è stata voluta dal Governo per circoscrivere il perimetro del reato e arginare così il timore dei funzionari pubblici di subire un procedimento penale: alla base, secondo vari osservatori, della “burocrazia difensiva” che frena l’attività della Pa. Ma la nuova formulazione dell’articolo 323 del Codice penale, in vigore dal 17 luglio, rischia di mancare l’obiettivo. Infatti la riforma, anche se restringe il campo della rilevanza penale, non può incidere sulle denunce, che, una volta presentate, impongono di condurre le indagini. I fascicoli aperti potrebbero quindi non ridursi: al più, potrebbero aumentare le richieste di archiviazione, che però erano molte già con la vecchia formulazione e certo non eliminano (almeno non del tutto) la preoccupazione dei funzionari di subire un procedimento penale. D’altra parte, i limiti al raggio d’azione del reato - insieme con i paletti alla responsabilità erariale introdotti sempre dal decreto semplificazioni - rischiano di liberare condotte troppo “disinvolte” degli amministratori. Sono le osservazioni che rimbalzano nelle prime valutazioni sulla riforma tra i procuratori specializzati nel contrasto ai reati contro la Pa. Come cambia il reato - Il nuovo articolo 323 del Codice penale (ma la riforma non è definitiva: il decreto semplificazioni è all’esame del Senato per la conversione in legge) conferma l’abuso d’ufficio come reato “residuale” (ricorre “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”) che colpisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che procura intenzionalmente un vantaggio o un danno ingiusti; ma se finora rilevava la “violazione di norme di legge o di regolamento”, dal 17 luglio va considerata solo la “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Mentre resta l’altra condotta punita, la mancata astensione se ricorre un interesse proprio o di un congiunto. Tante indagini, tante archiviazioni - Già nella formulazione precedente, l’abuso d’ufficio era un reato difficile da provare e con un termine di prescrizione di sette anni e mezzo, tutto sommato non elevato. Questo si traduce in molte denunce e indagini ma poche condanne. L’Istat rileva, nel 2017, 6.582 procedimenti aperti in procura e appena 57 condanne. In realtà, la stragrande maggioranza delle denunce viene bloccata a monte dalle procure: secondo il ministero della Giustizia, nel 2018 l’86% delle indagini si è chiuso con una richiesta di archiviazione. I rinvii a giudizio sono pochi: la procura di Bari dal 2015 a oggi ne conta 27, meno del 4% dei definiti; e alla procura di Torino i rinvii a giudizio si fermano al 2 per cento. “Senza un’accusa solida, già prima del 17 luglio non procedevamo”, osserva Enrica Gabetta, coordinatrice del gruppo specializzato nei reati contro la Pa della procura di Torino. Tanto che, rileva, “abbiamo passato al vaglio i procedimenti aperti in procura e ci siamo resi conto che l’impatto della riforma sulle indagini in corso per ora sarà minimo”. La discrezionalità e i regolamenti - L’abuso d’ufficio è quindi un reato poco contestato, ma che con la nuova formulazione viaggia su binari ancora più stretti. Lo spiega Maurizio Romanelli, coordinatore del dipartimento dei reati contro la Pa alla procura di Milano: “La riforma elimina i regolamenti dalle fonti normative la cui violazione può determinare un abuso penalmente rilevante. Ma i regolamenti sono fonte di grande importanza e luogo abituale di abusi d’ufficio”. Preoccupa anche il riferimento alla discrezionalità: “L’abuso c’è all’interno della discrezionalità”. “Con i regolamenti, si elimina una fetta importante delle condotte incriminate - concorda Alessio Coccioli, coordinatore del gruppo dei reati contro la Pa alla procura di Bari -: ad esempio i bandi e i concorsi si basano spesso sui regolamenti. Ci saranno anche problemi di interpretazione su quali sono le “specifiche regole di condotta”: vi rientra il dovere di imparzialità previsto dall’articolo 97 della Costituzione? Se poi la norma sarà convertita in legge dovremo esaminare le condanne e revocare quelle basate solo sulla violazione di regolamenti”. Ma nel frattempo, osserva, le indagini non diminuiranno: “Se anche fosse presentata una denuncia per violazione di regolamento, prima di archiviare dovremmo verificare che sia davvero così”. Dal delitto di abuso d’ufficio ora può discendere anche la responsabilità d’impresa di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2020 L’abuso d’ufficio diventa un reato presupposto per la responsabilità delle persone giuridiche, disciplinata dal decreto legislativo 231/2001. La condizione perché possa scattare questa responsabilità è che il fatto abbia offeso gli interessi finanziari dell’Unione europea e la sanzione irrogata a carico della persona giuridica potrà essere solo pecuniaria e non interdittiva. È una delle tante novità introdotte nel nostro ordinamento penale dal decreto legislativo 75 del 14 luglio 2020, che entrerà in vigore dal prossimo 30 luglio e che ha dato attuazione alla direttiva europea 2017/1371 relativa alla lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea. Una norma di derivazione europea, quindi, che arriva negli stessi giorni in cui il Governo, all’interno del decreto legge semplificazioni (76/2020 del 16 luglio), ha modificato la struttura del delitto di abuso di ufficio, con la finalità di circoscriverne l’applicazione. Dal 17 luglio scorso, infatti, il reato potrà dirsi integrato solo nei casi in cui il pubblico ufficiale, o l’incaricato di pubblico servizio, abbia intenzionalmente procurato a sé o altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, ovvero abbia arrecato ad altri un danno ingiusto, in “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, e non più, come in passato, se abbia commesso una più generica violazione di “norme di legge o regolamento”. L’applicazione - C’è da chiedersi in che termini, concretamente, si potrà verificare il coinvolgimento di una persona giuridica in conseguenza di un abuso di ufficio commesso da un proprio dipendente. Il reato, infatti, può essere commesso solo dal pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio della propria funzione. Tuttavia, le norme del decreto legislativo 231/2001 non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici, né agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. La risposta è duplice: da una parte, il dipendente di un’azienda privata potrà essere chiamato a rispondere, a titolo di concorso esterno, nel reato di abuso di ufficio commesso dal pubblico ufficiale; dall’altra, il delitto potrà essere commesso dal funzionario di una società di diritto privato che svolge attività economica in un settore di interesse pubblico, come la raccolta dei rifiuti, la gestione di infrastrutture, di trasporto pubblico, oppure il settore bancario in relazione all’attività di gestione di fondi finanziari erogati da un ente pubblico per il perseguimento di un interesse pubblicistico: sono molti i casi in cui dipendenti o amministratori di imprese private sono a tutti gli effetti incaricati di pubblico servizio, in conseguenza dell’interesse pubblico della funzione esercitata. In entrambi i casi, la persona giuridica nel cui interesse o vantaggio sarà stato commesso l’abuso di ufficio potrà essere chiamata a risponderne in base al decreto legislativo 231. Il danno al bilancio - C’è però da fare una riflessione ulteriore, in considerazione del fatto che la responsabilità della persona giuridica scatta solo se l’abuso di ufficio offende gli interessi finanziari dell’Unione europea. Il decreto 75 non contiene una definizione, che va dunque ricavata dalla direttiva 2017/1371. L’articolo 2 stabilisce che per “interessi finanziari dell’Unione si intendono tutte le entrate, le spese e i beni che sono coperti o acquisiti oppure dovuti in virtù: i) del bilancio dell’Unione; ii) dei bilanci di istituzioni, organi e organismi dell’Unione istituiti in virtù dei trattati o dei bilanci da questi direttamente o indirettamente gestiti e controllati”. Si tratta di una nozione molto estesa rispetto alla quale bisognerà prestare particolare attenzione nella fase di aggiornamento dei modelli organizzativi ai nuovi reati presupposto. Antimafia? I (troppi) passi al contrario dell’associazione contro i magistrati di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2020 Lezione a distanza. Parole come anatemi. “Marcire in carcere”, “buttare la chiave”, “società incattivita e incivile”, “società della vendetta che non riesce a essere migliore di loro” (i mafiosi, ndr), assunzione della stessa logica della vendetta della mafia”. Si parla di 41bis nei giorni che vanno verso l’anniversario dell’omicidio di Paolo Borsellino, che notoriamente quell’articolo lo volle. Non per punire più duramente i mafiosi, come sa chiunque, ma per difendere la collettività. Solo che Borsellino è sideralmente assente da quella sala telematica. “Il 41bis è uno stato che fa letteralmente impazzire nel chiuso della tua cella”. “Il vero scandalo non sono state le scarcerazioni, ma il fatto che quei detenuti, quasi tutti alla fine della pena o in attesa di giudizio, fossero ancora in carcere”. Ma chi sarà mai la platea? Forse penalisti palermitani sul piede di guerra per i propri assistiti, un giorno abituati a brindare in carcere alle stragi che essi stessi ordinavano? O gentildonne dell’esercito della salvezza? Per quanto possa sembrare incredibile stiamo ascoltando in diretta un incontro di formazione di una premiata associazione antimafia. In religioso silenzio quando si giura che siamo in una situazione “in cui nessun procuratore può fare dello Stato di diritto la sua battaglia”. Anzi la pressione è ormai tale che “obbliga a buttare la chiave”, “a condannare e a tenere in carcere detenuti in attesa di giudizio, che non ci dovrebbero stare; in una condizione di civiltà al contrario”. I giovani discepoli non obiettano, non chiedono, non contestano. Incamerano in silenzio. Un giorno qualcuno avrebbe educatamente alzato la mano e ricordato che quella tortura disumana l’avevano chiesta Falcone e Borsellino, ossia lo Stato di diritto, prima di saltare re per aria. Ma oggi è tutto cambiato, come si insegna nella giornata di formazione. La mafia non è più quella di una volta (tormentone a suo tempo sbeffeggiato da Falcone). C’è “una problematicità costituzionale”. In realtà anche la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) ha ritenuto il 41bis compatibile con il proprio articolo 3, che condanna le pene disumane e degradanti. Ma l’associazione antimafia si abbevera al sapere giuridico che va da anni all’assalto dell’isolamento carcerario per i mafiosi. Fa più chic, il vento è cambiato. Entra in campo un’altra voce: “C’è stata esagerazione e disinformazione, le scarcerazioni sono state, in realtà, misure di sveltimento delle procedure di uscita dal carcere... non c’è motivo di tenere in carcere le persone, quando rimangono ormai solo 18 mesi per il fine pena’: Purtroppo non se ne può discutere perché “oggi è diventato problematico avere una posizione interlocutoria... oggi non tutti sono d’accordo su che cosa è mafia, ma è difficile dirlo”. Poi l’accusa contro la censura di sistema: “È diventato problematico avere posizioni più interlocutorie, più raziocinanti... fatemi dire...”. “Si può solo essere oltranzisti. Fino alla perla: “Si parla sempre di come nasce la mafia, di come si sviluppa e mai di come finisce... dando per scontato che sia impossibile... questo è un grande mantra dell’antimafia”. Alla fine si capisce una cosa sola: che in quella giornata di “formazione” antimafia al centro dell’accusa stanno i magistrati antimafia e tutti quelli che non discettano di come la mafia potrebbe finire; magari per folgorazione sulla strada di Damasco, o per gratitudine verso l’antimafia che, ormai matura e ragionevole, finisce di combatterla. Poveri di spirito quegli anti-mafiosi che non si librano verso altri più nobili e generosi traguardi. Volete sapere il nome di questa delirante associazione antimafia? Non ve lo dirò. Il peccato ma non il peccatore. Dirò invece i versi di Neruda. “Domanderete perché la sua poesia/ non ci parli del sogno, delle foglie/ dei grandi vulcani del suo paese natale?/ Venite a vedere il sangue per le strade,/ venite a vedere/ il sangue per le strade”. Qualcuno svegli Biancaneve. Rilevanza impegno professionale del difensore nel procedimento camerale di sorveglianza Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2020 Esecuzione - Magistratura di sorveglianza - Procedimento - Udienza - Art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. - Procedimento di sorveglianza - Applicabilità anche in caso di concomitante impegno professionale. La norma di cui all’art. 420 ter, comma 5, cod. proc. pen. deve trovare applicazione anche nella fase di esecuzione del processo e dunque nel procedimento di sorveglianza di cui all’art. 666 c.p.p. La possibilità di un adeguato esercizio del diritto di difesa costituisce infatti condizione indefettibile che deve essere assicurata in qualunque modulo procedimentale, dunque anche nei procedimenti camerali. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 6 luglio 2020 n. 20020. Esecuzione - Magistratura di sorveglianza - Procedimento - Udienza - Art. 420 ter, comma 5, cod. proc. pen. - Procedimento di sorveglianza - Applicabilità - Conseguenze. L’articolo 420-ter, comma 5, cod. proc. pen., si applica anche nel procedimento davanti al giudice di sorveglianza: pertanto il legittimo impedimento del difensore costituisce una causa di rinvio dell’udienza che, se disattesa, dà luogo alla nullità di quest’ultima. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 26 luglio 2019 n. 34100. Atti e provvedimenti del giudice - Camera di consiglio - Procedimento - In genere - Procedimento davanti al tribunale di sorveglianza - Adesione del difensore all’astensione collettiva dalle udienze - Conseguenze - Rinvio dell’udienza - Necessità - Ragioni. Nel procedimento dinanzi al tribunale di sorveglianza, l’adesione del difensore all’astensione collettiva dalle udienze costituisce, qualora tempestivamente comunicata, causa di rinvio dell’udienza, senza pertanto che il tribunale possa provvedere alla nomina di un sostituto del difensore non comparso ai sensi dell’art. 97, comma 4, cod. proc. pen., trattandosi di un’ipotesi di legittimo esercizio della libertà sindacale in ossequio all’art. 4 del vigente codice di autoregolamentazione delle astensioni degli avvocati dalle udienze. (In motivazione la Corte ha aggiunto che a nulla rileva la modalità di trattazione del procedimento in camera di consiglio, posto che anche le udienze camerali costituiscono uno strumento di realizzazione del contraddittorio, nella duplice componente della difesa materiale e tecnica). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 8 agosto 2019 n. 35855. Esecuzione - Magistratura di sorveglianza - Procedimento - Udienza - Udienza camerale partecipata ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen. - Impedimento del difensore per ragioni di salute - Rilevanza - Omesso rinvio - Conseguenze - Fattispecie. Nel procedimento di sorveglianza, in sede di udienza camerale partecipata ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen,è rilevante l’impedimento del difensore tempestivamente comunicato e determinato da serie ragioni di salute debitamente provate, sicché esso costituisce una causa di rinvio dell’udienza che, se disattesa, dà luogo a nullità di quest’ultima. (Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza che, decidendo in assenza del difensore, aveva revocato il beneficio della detenzione domiciliare nei confronti del ricorrente, non tenendo conto del fatto che il difensore aveva fatto tempestivamente pervenire un certificato medico attestante l’impossibilità a partecipare all’udienza per “broncopolmonite acuta febbrile”). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 3 aprile 2019 n. 14622. Salerno. Condannato a 4 anni, torna in carcere: Johnny il rapper si uccide in cella di Viviana De Vita Il Mattino, 27 luglio 2020 Sono stati i compagni di cella a lanciare l’allarme. Quando ieri mattina lo hanno visto immobile con gli occhi vitrei, Giovanni Cirillo, in arte Johnny, il rapper di origini somale appena 23enne, era ancora vivo. E respirava ancora quando gli agenti della polizia penitenziaria, diretti dal dirigente aggiunto Gianluigi Lancellotta, lo hanno trasportato in infermeria. Il suo cuore, però, ha cessato di battere poco dopo e a nulla è valso l’intervento dei rianimatori del 118 allertati subito dalla direzione del carcere. Il suicidio si è consumato intorno alle 11 in una cella della prima sezione del penitenziario cittadino, quella che ospita i detenuti per reati comuni. Giovanni Cirillo era tornato a Fuorni un paio di settimane fa dopo la revoca del regime dei domiciliari che aveva violato quattro volte tanto da spingere la Procura a chiedere e a ottenere un aggravamento della misura cautelare. Il regime detentivo, però, non lo reggeva più. Lo aveva ripetuto più volte dopo la condanna inflittagli lo scorso 20 luglio a quattro anni di reclusione per una rapina messa a segno nel gennaio scorso a pochi passi di distanza da casa sua, a Scafati, con una pistola che poi si scoprì essere un giocattolo. Aveva chiesto di essere trasferito a Villa Chiarugi e voleva parlare con il magistrato. Il suo stato d’animo non era sfuggito al direttore del carcere di Fuorni Rita Romano che per questo motivo aveva autorizzato il 23enne a dei colloqui con lo psicologo. Giovanni Cirillo era crollato dopo l’incontro avuto con il suo legale il giorno dopo la sentenza di condanna infertagli dal Gup. L’idea di trascorrere quattro anni dietro le sbarre, lo terrorizzava. Forse quando ieri ha messo in atto il folle proposito, voleva compiere solo un gesto dimostrativo. Forse non credeva di morire. La dinamica dell’episodio dovrà essere ricostruita dagli agenti della squadra Mobile di Salerno che, insieme alla scientifica, stanno indagando sul fatto. Afflitto dal dramma della tossicodipendenza e con un passato difficile alle spalle, il giovane sembra avesse anche qualche tensione con la famiglia adottiva che comunque ha tentato di stargli vicino anche durante il periodo della detenzione. Torino. Carcere, X sezione. Violenze e silenzi di Susanna Ronconi e Sergio Segio dirittiglobali.it, 27 luglio 2020 Lo sa bene chi interviene in carcere, chi ne ha esperienza: il rischio del doppio binario, in superficie le “belle cose”, sottotraccia la violenza taciuta delle “X sezioni” è un rischio che va sciolto, affrontato. E uscire dal silenzio è la sola scelta possibile. “Celle dedicate alla punizione dei detenuti con scompensi psichici. Venivano obbligati a spogliarsi e a gridare frasi come “Sono un pezzo di m…” mentre gli agenti li malmenavano con schiaffi e pugni, attrezzati di guanti per non lasciare i segni. “Figlio di p…, ti devi impiccare” urlava la guardia carceraria Antonio Ventroni al detenuto Daniele Caruso dopo averlo portato in infermeria. In due gli sputavano addosso e lo colpivano con violenti pugni al volto, provocandogli un ematoma a un occhio, emorragia dal naso e una lesione a un dente incisivo superiore che, dopo qualche tempo, a causa di quel colpo cadeva”. Decine di episodi a partire dalla primavera del 2017, denunciati prima dai detenuti e poi dalla garante di Torino, Monica Gallo, ma sempre ignorati a tutti i livelli. È l’intero “sistema carcere” a essere finito sotto inchiesta da parte del pubblico ministero di Torino Francesco Pelosi: inchiesta che si è chiusa con 25 indagati che vanno dal direttore della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, Domenico Minervini, al capo delle guardie carcerarie, Giovanni Battista Alberotanza, ai rappresentanti del sindacato più attivo della polizia penitenziaria, l’Osapp. Violenze fisiche e vessazioni ai detenuti, denunciate in più occasioni, costano ai principali indagati l’accusa di tortura, per “condotte che comportavano un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona detenuta”, reato mai contestato prima per le violenze all’interno del carcere. Favoreggiamento e omissione di denunce di reati sono invece le accuse per il direttore Domenico Minervini, il quale avrebbe sempre ignorato le lamentele e le segnalazioni della garante, lasciando che gli agenti agissero indisturbati. Erano le celle numero 209, 210, 229, 230 della X Sezione quelle prescelte per isolare i detenuti che davano segno di scompenso psichico, nonostante nel carcere di Torino esista una sezione apposita per quel tipo di problematiche. L’ispettore Maurizio Gebbia e altri agenti penitenziari portavano lì i reclusi per “punirli” nel silenzio generale che consentiva loro di eludere le indagini. E quando i detenuti erano troppo malconci e dovevano farsi visitare li minacciavano dicendo loro che “dovevano dichiarare che era stato un altro detenuto a picchiarlo, altrimenti avrebbero usato nuovamente violenza su di lui, così costringendolo il giorno successivo alle violenze a rendere in infermeria questa falsa versione dei fatti”, come è riepilogato nel documento di chiusura delle indagini”. Così le cronache dei giornali riferiscono della chiusura dell’inchiesta sulle violenze contro reclusi nel carcere di Torino (Ottavia Giustetti, “la Repubblica”, 21 luglio 2020). Ora i giudici dovranno pronunciarsi ed eventualmente confermare le accuse emerse dalle indagini che ieri si sono chiuse e che meritoriamente si erano aperte grazie alle denunce degli stessi detenuti e alla Garante di Torino. Quello che, intanto, si sa per certo è che detenuti e Garante hanno portato sul tavolo dei magistrati materiale sufficiente a non far archiviare il caso e un velo è stato squarciato. Quel velo che da molto tempo, ma negli anni più recenti con più aggressività, è stato tessuto anche mediaticamente a copertura di una realtà profonda del carcere, quella della sua perdurante natura violenta di istituzione totale e dell’impunità di chi quella violenza esercita, che nel buio delle notti delle tante “X sezioni” non ha mai smesso di produrre arbitrio, botte, umiliazioni. Torture. Chi scrive sa - per personale esperienza, avendo vissuto a lungo nelle celle anche del carcere torinese, e per conoscenza, dai tanti anni di impegno, lavoro e attività sul carcere - che per una volta che si fa giustizia per altre cento, o mille, volte cala il silenzio. Il silenzio della paura, della debolezza, della mancata tutela di chi subisce; il silenzio dell’opacità dell’istituzione, del mancato o omesso controllo di chi agisce, della sottovalutazione o, peggio, della copertura. La cultura dell’omertà, in questi casi, non solo lascia condotte gravissime impunite e esseri umani indifesi, picchiati e nudi, in balìa della violenza, ma concorre a legittimare, in silenzio ma nei fatti, una violenza che diventa istituzionale, tollerata, ammessa, anche quando la maggioranza degli agenti non la condivida e non la pratichi, o magari pensi che un carcere “costituzionale” sia più gestibile, anche per loro, di un carcere violento. Il silenzio la permette, la reitera, la consacra, questa violenza. Anche per questo, onore ai detenuti che hanno denunciato, rischiando come solo in carcere si rischia, e alla Garante che ha svolto il suo compito, rispettandone il mandato profondo. Da anni, e nei tempi più recenti soprattutto, i media rilanciano, spesso senza approfondimenti e tanto meno contraddittorio, comunicati stampa e prese di posizione di alcuni tra i sindacati di polizia penitenziaria - incluso quello citato nell’articolo - la cui cifra è quella di rimandare alla pubblica opinione un’idea di carcere in mano ai detenuti, gestito in maniera lassista; i reiterati attacchi portati a chiunque voglia introdurre elementi di riforma e maggior rispetto della norma costituzionale, si ripetono, fino al più recente attacco frontale contro la figura e i compiti del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Figura di cui, ancora ieri, uno di quei sindacati ha chiesto l’abolizione. Così, anche le lotte contro la disperazione indotta da una sciagurata gestione dei provvedimenti anti Covid-19, diventa l’immagine di un carcere dominato da pochi caporioni, immagine ridicola per chi di carcere ne sa, ma seducenti per chi non ne sa (e preferisce non sapere). Una comunicazione che ha presa su una società che del carcere tutto ignora, e che al contempo nutre una - ed è nutrita da una - crescente voglia di forca. Una comunicazione mediatica schizofrenica, che a volte concede qualche piccolo spazio alle “belle cose” che si fanno in carcere, quando il mondo esterno, le associazioni, il volontariato, gli enti locali si danno da fare per costruire ponti tra dentro e fuori, per sostenere percorsi di ritorno alla libertà, per smussare l’isolamento e l’opacità della detenzione. “Belle cose”, progetti culturali e sociali, che anche noi, negli anni, anche a Torino, abbiamo fatto, promosso, sostenuto, nella convinzione che “liberarsi della necessità del carcere” sia un percorso, non possa essere uno slogan. Ma se le “belle cose” non sono - sempre, con forza, con consapevolezza - incardinate in una decisa azione di conoscenza, controllo, presidio dei diritti fondamentali di chi è rinchiuso, rischiano di tradire i loro stessi fini. Lo sa bene chi interviene in carcere, chi ne ha esperienza: il rischio del doppio binario, in superficie le “belle cose”, sottotraccia la violenza taciuta delle “X sezioni” è un rischio che va sciolto, affrontato. E uscire dal silenzio è la sola scelta possibile. Forse è anche per questo che il carcere di Torino ha deciso, proprio nel 2017, che a due persone come noi, nonostante la volontà di dialogo, la propositività, le pregresse esperienze e quelle in corso in altri carceri, fosse vietato di entrare e lavorare con i detenuti e le detenute. Dopo una martellante campagna mediatica, condotta soprattutto dal citato sindacato, accolta e rilanciata dai media locali senza chiedersi se ci fossero altri punti di vista, e persino dall’allora procuratore capo, dopo il veto della polizia penitenziaria dell’istituto, che evidentemente conta più di ogni altro potere, siamo stati espulsi. Non un gesto, non una scorrettezza che ci potesse essere imputata, solo il dato biografico di essere stati a lungo detenuti in quelle celle, di portarne una diretta conoscenza, e di pensare, con molti e molte altri, che i diritti di chi è recluso siano una frontiera che nessuno può oltrepassare. Ciò che oggi ci colpisce, ricordando quei giorni e quei fatti, è che era lo stesso anno, erano gli stessi mesi in cui cominciavano ad accadere le violenze e le torture oggi sul tavolo della magistratura. Gli ultimi nostri ingressi, lo spettacolo teatrale con le donne detenute e un incontro con i detenuti nel teatro del carcere, dedicato al tema dell’ergastolo ostativo, con la proiezione del docu-film “Spes contra Spem”, di Nessuno Tocchi Caino, anch’esso spesso attaccato da quei sindacati. Padova. L’assessore alla sicurezza: “I ragazzi segnalino le baby gang” di Luisa Morbiato Il Gazzettino, 27 luglio 2020 Grande preoccupazione nelle associazioni di categoria: “Episodi sempre più frequenti, bar e ristoranti a rischio”. Molteplici le reazioni dopo la brutale aggressione subita venerdì sera da Giulio Mandara, titolare della pizzeria Marechiaro di via Manin. “Per prima cosa dobbiamo prendere coscienza che il problema esiste: se un cittadino, o come in questo caso un ristoratore, viene colpito in pieno centro si tratta di atto che in una città come Padova non può accadere - commenta Diego Bonavina, neo assessore comunale alla Sicurezza – Le forze dell’ordine fanno un ottimo lavoro ma la città è grande. In ogni caso il problema c’è e va risolto agendo su due fronti: prevenzione e repressione. Sport e sicurezza sono due campi molto affini, si deve cercare di occupare più spazi possibili, soprattutto quelli dove questi giovani si riuniscono”. Per Bonavina serve “rendere la città più viva, ma le forze dell’ordine devono individuare e consegnare alla giustizia questi giovani”. “Non interessa - continua - di che nazionalità siano, i ragazzini vanno fermati e messi sulla buona strada. Se non è possibile bisogna reprimere, i cittadini chiedono sicurezza. Nei miei primi cinque giorni da assessore alla Sicurezza ho già trovato la massima disponibilità in tutte le forze dell’ordine. Mi sembra di aver iniziato bene con il sequestro di 500 grammi di Amnesia, i problemi però ci sono e vanno risolti. Questa baby gang, che sembra conosciuta e che pare avere come unico obbiettivo quello di provocare risse e caos, va fermata”. L’assessore si rivolge infine ai giovani. “Il 99% sono bravi ragazzi, mi appello direttamente a loro - conclude - Vedete situazioni che possono evolvere nella violenza? Chiamate subito la polizia”. Per Patrizio Bertin, presidente dell’Ascom, serve un intervento tempestivo. “Non si può dire che Padova non è una città sicura ma questi gruppi di ragazzi, più pericolosi degli altri, si devono monitorare e condannare considerato che sembra siano conosciuti - dice - Si devono applicare pene esemplari coinvolgendo nel problema anche le famiglie e il Tribunale dei Minori. Sono situazioni che vanno affrontate tempestivamente e non lasciate degenerare sempre più. La polizia sta facendo un ottimo lavoro, ora c’è l’assessore Bonavina, intervenga anche con la Polizia Locale”. Esprime forte preoccupazione Filippo Segato, segretario dell’Appe (Associazione Provinciale Pubblici Esercizi). “Sono episodi che iniziano a farsi sempre più preoccupanti e che iniziano a coinvolgere clienti ed esercenti in orari inconsueti - sottolinea - Abbiamo assistito nelle scorse settimane ad una reazione pesante in alcune aree della città da parte delle forze dell’ordine che ha prodotto risultati. Ora c’è una ripresa di brutti episodi. Nei giorni scorsi abbiamo incontrato il Questore e gli abbiamo chiesto di aumentare la sorveglianza per prevenire teppismo e criminalità ottenendo ampie assicurazioni. I pubblici esercizi purtroppo sono una categoria a rischio”. Duro il commento di Massimiliano Pellizzari, presidente dell’Associazione Commercianti Centro. “Ennesima aggressione da parte di una baby gang in centro, questa volta ai danni del titolare della Pizzeria Marechiaro. Ma dove siamo, nel Bronx? È ora di finirla perché non possiamo più tollerare che accadano episodi del genere ogni giorno - sottolinea - Non possiamo permettere che il cuore pulsante della città sia tenuto sotto scacco da un gruppetto di teppistelli da quattro soldi. È necessario intervenire con la massima determinazione. Il Questore, che ho incontrato venerdì, sta svolgendo un lavoro egregio. Anche noi cittadini faremo la nostra parte, collaborando fattivamente e segnalando tempestivamente qualsiasi episodio che travalichi la legge”. Prato. “Pagine Aperte”, il blog del cappellano del carcere don Enzo Pacini tvprato.it, 27 luglio 2020 L’idea gli è venuta durante l’isolamento per rispondere alle tante richieste di chi desiderava riflettere sulla Bibbia e sul difficile periodo che tutti stavamo vivendo. Così è nato Pagine Aperte, il blog di don Enzo Pacini, cappellano del carcere della Dogaia ed ex parroco di San Pio X. Quando tutta Italia si è chiusa in isolamento e la celebrazione delle messe con il popolo era sospesa, molti sacerdoti hanno cercato vie nuove per arrivare ai fedeli. La scelta di don Enzo è stata quella di inviare, tramite Whatsapp, alcuni file audio contenenti riflessioni a partire da testi biblici non compresi nella liturgia domenicale, ma collegati ad essa per argomenti e temi. Insomma, delle “letture complementari” che sono diventate anche il titolo della prima rubrica ospitata dal blog. Inizialmente don Enzo inviava questi commenti ad un gruppo ristretto composto dai collaboratori che gli danno una mano a gestire la casa di accoglienza per detenuti Jacques Fesch e alcuni amici; poi il numero è cresciuto e così il sacerdote ha pensato bene di aprire un “diario telematico”, ovvero un blog, aperto a tutti gli utenti della rete. “Pagine Aperte ha un doppio significato - spiega don Enzo - da una parte vorrebbe essere uno strumento per tenere aperte, e approfondire se possibile, le pagine della Bibbia, ma anche altre pagine aperte dalla realtà quotidiana, spesso problematiche e ricche di interrogativi. Dall’altra vorrebbe anche utilizzare le risorse della comunicazione telematica per raccogliere interventi, riflessioni di chi voglia condividere un pensiero”. Infatti, anche quello di don Enzo, come ogni blog, è un luogo di confronto e condivisione. L’impegno è quello di scrivere un post a settimana, “perché per formulare un pensiero mi ci vogliono almeno tre giorni, per questo non potrei mai usare social come Facebook dove ci sono commenti estemporanei”, sottolinea il cappellano della Dogaia. E forse questa profondità, frutto di una analisi e di un ragionamento, è la caratteristica che distingue e dà valore al lavoro di don Enzo, che sul blog ha inserito i propri contatti, in modo da essere in collegamento con tutti coloro che volessero iniziare un dialogo con lui. C’è anche un numero di telefono al quale è possibile fare riferimento per ricevere i file audio sopra descritti e che continuano ed essere inviati settimanalmente. Suicidio assistito, il Tribunale di Massa può andare oltre la Consulta di Errico Novi Il Dubbio, 27 luglio 2020 Nelle prossime ore la sentenza di un altro processo che vede imputato Marco Cappato, e con lui Mina Welby: riguarda l’aiuto alla “morte volontaria” prestato nel 2017 a Davide Trentini. Che, diversamente da Dj Fabo, non dipendeva dalle macchine. È un passo oltre la sentenza Dj Fabo. Domani il Tribunale di Massa deciderà se è reato prestare aiuto al suicidio anche a chi, diversamente dal Fabiano Antoniani, non sopravvive grazie alle macchine. I giudici dovranno infatti decidere se Mina Welby e Marco Cappato sono colpevoli del reato previsto all’articolo 580 del codice penale per aver aiutato l’allora 53enne Davide Trentini, che era malato di sclerosi multipla da trent’anni, a porre fine ai suoi giorni, attraverso la cosiddetta morte volontaria, il 13 aprile 2017. Perché la sentenza di Massa è rilevante, visto che la pronuncia 242 della Corte costituzionale, quella relativa appunto a Dj Fabo, ha già parzialmente depenalizzato l’aiuto al suicidio? Lo è perché nella decisione presa il 24 settembre 2019, la Consulta ha stabilito che non può essere punito chi agevola “l’esecuzione del proposito di suicidio” di una persona la cui condizione sia segnata da quattro precise condizioni: sia “affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” - e fin qui si tratta di circostanze in cui si trovava, purtroppo, Davide Trentini - e che sia inoltre “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale”. E il 53enne ammalato di sclerosi che riuscì a interrompere le proprie sofferenze in Svizzera non dipendeva da macchinari, diversamente da Dj Fabo. Naturalmente il valore della pronuncia attesa di qui a poche ore (inizio dell’udienza alle 12, diretta su Radio Radicale) ha un enorme valore politico, che Welby e Cappato non mancano di rivendicare: “Dopo la rivoluzionaria sentenza della Corte costituzionale dello scorso settembre, che legalizza l’accesso al suicidio assistito alla presenza di quattro ‘criteri oggettivi’, la disobbedienza civile punta ora alla effettiva affermazione del diritto all’autodeterminazione”, si legge in una nota dell’Associazione Luca Coscioni, di cui Mina Welby e Marco Cappato sono rispettivamente co-presidente e tesoriere. Entrambi si presentarono il giorno dopo la morte di Trentini presso la stazione dei carabinieri di Massa per autodenunciarsi. Il procedimento che sta ora per giungere alla sentenza di primo grado è nato da lì. E il valore politico di cui sopra è riferibile non solo allo spostamento in avanti del limite etico fissato dal giudice delle leggi con il caso Dj Fabo, ma anche rispetto all’inerzia del Parlamento seguita a quella storica pronuncia. “Nonostante le indicazioni della Consulta, che a seguito della sentenza si rivolse al legislatore sottolineando l’urgenza di una legge sul tema, fino ad ora il Parlamento”, si legge infatti nella nota dell’Associazione Luca Coscioni, “non ha fatto altro che qualche giornata di audizioni degli esperti, senza nemmeno arrivare alla formazione di un testo base su cui incardinare un dibattito sul tema. Questa sentenza”, segnala dunque il comunicato, “giunge in assenza di legge sulla materia e in presenza di una sentenza della Corte costituzionale che àncora il diritto all’autodeterminazione alla Costituzione e a leggi esistenti”. Solo che nello specifico, il Tribunale di Massa dovrà appunto ricongiungere i principi fissati poco meno di un anno fa dalla Consulta con altri principi della Carta, e interpretarli in modo da scrivere una pagina, inedita, di diritto. Migranti. In 130 fuggono dai Centri. Primi trasferimenti da Lampedusa di Laura Anello La Stampa, 27 luglio 2020 L’ira del sindaco M5S di Caltanissetta: “Non li vogliamo più”. E gli sbarchi agitano il Pd. La villa comprata da Silvio Berlusconi a Cala Francese, dopo qualche giorno di vacanza del fratello Paolo, è di nuovo chiusa come quasi sempre: era facile scommetterlo dopo quell’acquisto fatto in tutta fretta nel 2011 dal Cavaliere per farsi perdonare i giorni bui dell’isola diventata bivacco e prigione per 3 mila immigrati, con l’allora ministro Maroni a dimostrare alla base leghista che “l’invasione” si fermava qui. I tempi sono cambiati - i trasferimenti dall’isola si succedono uno dopo l’altro per svuotare il centro di accoglienza che scoppia - ma Lampedusa è ancora una volta simbolo di tutto e del suo contrario. Non è un’estate d’oro ma alberghi e ristoranti lavorano con i turisti, mentre al molo Favarolo è un arrivo costante di barchini e di barconi: uno ogni quarto d’ora negli ultimi due giorni. L’altro ieri, con il Centro di accoglienza che scoppiava con più di mille ospiti (dieci volte la sua capienza), il sindaco Totò Martello ha battuto i pugni sul tavolo e ha dichiarato lo stato di emergenza: “La situazione è insostenibile”. Fatto sta che i trasferimenti ieri si sono succeduti a spron battuto: dai 1.027 immigrati si è passati a 962 e poi ancora a 455, ma in serata ne sono arrivati altri 26: alla fine sarebbero stati 481 a dormire nel centro, che potrebbe però ospitarne solo 95. Sempre troppi. Su un tema sempre incandescente, aleggia l’allarme Covid. Allarme scattato l’altro ieri quando un comunicato del segretario del sindacato di polizia Fsp, Walter Mazzetti, diceva che 25 migranti erano risultati positivi. Allarme poi sfumato, ma con grande strascico di polemiche: “Mi aspetto che le autorità e gli organismi competenti valutino gli estremi di procurato allarme”, dice ora il sindaco. Replica al vetriolo di Mazzetti, il quale ribadisce che i 25 migranti erano sì positivi, ma ai test sierologici, e che il successivo tampone ha dato esito negativo. Stessa cosa accaduta anche per otto dei dodici trasferiti da Lampedusa al Cas abruzzese Ponte d’Arce a Pettorano sul Gizio. Positiva al Covid anche una donna sbarcata qui e ricoverata all’ospedale Cervello di Palermo. Ma quel che preoccupa di più sono le fughe: cento (tutti negativi) sono scappati ieri dal Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Caltanissetta, dieci sono stati ripresi, mentre il sindaco grillino Roberto Gambino dichiarava di non volere più un solo immigrato. Altri trenta erano scappati la notte prima dall’hotspot di Pozzallo, approfittando delle procedure di accoglienza per altri 108, due dei quali positivi al virus. Mentre aleggia ancora il mistero sulla fine dei 140 che ieri hanno mandato un Sos disperato ad Alarm Phone e poi sono spariti nel nulla: 95 su un barcone e 45 su un altro, entrambi in avaria nella zona di soccorso di Malta. “Dicono di non poter rimuovere l’acqua dalla barca perché è sovraffollata, urlano: stiamo morendo - scrive l’organizzazione - il mercantile Maridive230 è a circa venti miglia dalla barca e potrebbe ricevere ordine di soccorrere ma le forze armate maltesi non rispondono alle nostre chiamate”. Mentre le navi delle Ong sono tutte bloccate, per fermi amministrativi o irregolarità tecniche riscontrate dalla Guardia costiera. Ultima è stata la Ocean Viking di Sos Mediterranée, prima era toccato alla tedesca Iuventa, alla Sea Watch 3, alla Alan Kurdi alla Aita Mari, alla Open Arms, alla Astral. Sulla rotta libica non c’è più una nave che soccorra i migranti. E le polemiche rimbalzano sul Pd, il più a disagio nella situazione attuale, con i Decreti Sicurezza di marca leghista rimasti intatti. Ieri a Marco Minniti, ex titolare del Viminale, che sosteneva la correlazione tra migranti e Covid, replicava duro il collega di partito Pietro Bartolo, oggi eurodeputato, per anni in trincea al Poliambulatorio di Lampedusa, accusandolo di “opinioni fantasiose senza riscontri scientifici”: “Appena qualche settimana fa l’assemblea del Pd, all’unanimità, aveva deciso di votare contro il rifinanziamento alla guardia costiera libica. Il voto nel Parlamento italiano purtroppo è andato diversamente”. Migranti. “Qui nessuna emergenza. Dicono che siamo invasi per un vantaggio politico” di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 27 luglio 2020 L’ex sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini critica il ministro dell’Interno: serve un piano di accoglienza, non una nave lebbrosario per i contagiati. Lampedusa è piena di turisti. Qui l’emergenza non c’è. Venite a vedere via Roma o le spiagge, venite a vedere se incontrate un migrante. I problemi di questo Paese non possono essere urlati: nessuno può fare concorrenza a Salvini su questo tema, ma l’immigrazione è una materia che anche altri hanno usato, perché tutte le questioni portate avanti in maniera emergenziale alimentano clientele, affari. Ma l’immigrazione è un fatto sistemico, non emergenziale”. Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa dal 2012 al 2017, premio Unesco per la Pace, una breve esperienza “senza mai delega” nella segreteria del Pd, partito a cui oggi non sente di appartenere, non ha perso la sua passione civile. E accusa la politica, a destra come a sinistra, di strumentalizzare il tema dell’immigrazione. Il sindaco Totò Martello ha lanciato l’allarme. Lei dice che l’emergenza non c’è... “Quando io ero sindaco l’isola era in testa alla classifica degli sbarchi, ma a partire da Mare Nostrum, fino all’intesa con la Libia, alla guerra alle Ong e a Salvini, sono praticamente scomparsi. L’emergenza oggi è in Spagna o in Grecia, con 35-40 mila sbarchi. Che emergenza sono 11 mila persone per un Paese che ne ha gestite 160 mila?”. La paura del contagio complica le cose non crede? “Ma è una emergenza mondiale. Il ministero dell’Interno avrebbe dovuto redigere un piano sbarchi, un piano di prima accoglienza con misure speciali diverse da navi lebbrosario dove se c’è un positivo si rischia il contagio di centinaia di persone, mentre finita la quarantena il problema di dove mettere le persone rimane. I migranti sono una scusa non solo per Salvini ma per tutti coloro che gridano all’emergenza per ottenere altro”. Compreso il sindaco? “Martello sta facendo strumentalizzazione politica esattamente come Salvini. È diventato sindaco facendo la guerra all’accoglienza, chiedendo di chiudere il centro che invece è l’unico modo per mettere in sicurezza la comunità. Ora vuole fiscalità di vantaggio, ristori per i pescatori. Ma oggi sono state trasferite centinaia di persone, l’emergenza è già cessata. Il centro ha 95 posti invece di 400 perché anni fa è stato incendiato: perché non lo rimettono a posto? Perché così possono dire che siamo invasi”. Nessuna invasione invece? “Un turista non si accorge di nulla. Dalla seconda metà di luglio le presenze sono a livello pre-Covid. Lampedusa viene vissuta come una isola senza virus: abbiamo avuto un solo caso di una signora rientrata da una visita alla figlia a Milano. L’isola è appetibile per i turisti, ma se si continua a gridare all’emergenza le cose potrebbero cambiare. Ma certo il governo dovrebbe affinare il sistema dei trasferimenti”. Lamorgese vola a Tunisi, cosa pensa dovrebbe chiedere? “Se metti un tappo alla Libia, le persone troveranno altre vie d’uscita. Italia, Grecia e Spagna soprattutto dovrebbero avere una politica unitaria, non si possono continuare a pagare i governi frontalieri. Quanto può durare?”. La soluzione qual è? “Aprire i flussi, riformare la Bossi-Fini, abolire i decreti Salvini. Chi vuol lavorare deve poterlo fare. Gli industriali dicono che ogni anno servono 180mila persone per i lavori rifiutati dagli italiani. Cosa sono 11mila persone?”. Stati Uniti. Coronavirus, muore un altro detenuto a San Quintino, il 17esimo askanews.it, 27 luglio 2020 Un detenuto di 62 anni nel braccio della morte nel carcere di San Quintino, in California, morto ieri per il Covid-19. Si tratta della 17esima vittima nel penitenziario americano che ha il peggior focolaio di Covid del sistema carcerario della California, con 2.155 detenuti risultati positivi al test. Secondo quanto riferito oggi dalla Cnn, sono stati almeno 90 i positivi registrati nelle ultime due settimane. Lo scorso 10 luglio, il governatore Gavin Newsom ha annunciato il rilascio di circa 8.000 detenuti per riuscire a contenere la diffusione del virus, precisando che la misura riguarda solo quanti hanno 180 giorni o meno da scontare e quanti sono pi a rischio complicazioni per il virus. Nell’ultimo mese c’ stato un netto aumento di casi in California, che oggi conta 458.984 contagi e 8.451 morti, secondo i dati del New York Times. Violenza sulle donne, la Polonia lascia il trattato Corriere della Sera, 27 luglio 2020 Varsavia esce dalla Convenzione di Istanbul per motivi ideologici. Il nodo della identità di genere, l’annuncio del Guardasigilli Zbigniew Ziobro. Domani il governo di Varsavia comincerà il processo di disdetta della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la cosiddetta Convenzione di Istanbul, ratificata da 34 Paesi tra cui l’Italia e bocciata a maggio dall’Ungheria). Lo ha annunciato il ministro della Giustizia polacco Zbigniew Ziobro. Ziobro ha spiegato che la Convenzione, varata nel 2011 e firmata dal suo Paese un anno dopo, contiene “concetti ideologici” non condivisi dall’esecutivo, fra cui quello sul sesso “socio-culturale” in opposizione al sesso “biologico”. Ziobro sostiene che la legge in vigore tuteli già “in modo esemplare” i diritti delle donne. Venerdì si erano svolte a Varsavia e in oltre 20 città le manifestazioni delle donne polacche convinte che la decisione dell’esecutivo inciderà negativamente sulla condizione femminile soprattutto in famiglia. La nuova stretta, che conferma la linea dura contro la comunità Lgbt in Polonia, è anche conseguenza delle elezioni presidenziali di due settimane fa, che hanno visto la riconferma di Andrzej Duda, 48 anni, con oltre il 51% dei voti. È la linea nazional-populista del PiS, “Diritto e Giustizia”, il partito di governo fondato 19 anni fa dai gemelli Kaczynski. Turchia. I 1.000 giorni di Osman Kavala in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 luglio 2020 In occasione dei 1.000 giorni dall’arresto del difensore dei diritti umani turco Osman Kavala, detenuto per accuse fabbricate dal 1° novembre 2017 nella prigione di massima sicurezza di Silivri, la campagna globale “Free Osman Kavala” ha rilanciato le iniziative per mobilitare le opinioni pubbliche e le istituzioni nazionali e internazionali. Nato a Parigi nel 1957, Kavala è il co-fondatore di Iletisim Yayinlari, una delle più grandi case editrici turche e presiede l’istituto Anadolu Kültür, da lui fondato e divenuto un punto di riferimento prezioso per comprendere la società civile turca. Kavala rimane in carcere nonostante la sentenza emessa lo scorso 10 dicembre dalla Corte europea dei diritti umani che ha chiesto il suo rilascio immediato, valutando che la sua detenzione e l’inchiesta ai suoi danni siano mosse dall’obiettivo di ridurre al silenzio lui e la società civile turca. Inizialmente sotto inchiesta per tre accuse infondate relative al “tentativo di rovesciare il governo o l’ordine costituzionale con la violenza o con la forza” e che lo vedono persino coinvolto nel tentato colpo di stato del luglio 2016, nel febbraio di quest’anno Kavala è stato prosciolto da una di esse per essere accusato di “spionaggio” appena un mese dopo, con l’evidente scopo di aggirare la sentenza della Corte europea sull’illegalità della sua detenzione. Gli Uiguri in Cina, e il nostro “mai più” di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 27 luglio 2020 Se fosse vero, non ne sareste un po’ colpiti, e anche un po’ disgustati? Gira un video cinese, preso probabilmente da un drone non intercettato, in cui si vede un grande affollamento di persone con indosso una divisa carceraria, inginocchiate e umiliate nei piazzali di una stazione ferroviaria, tenute a bada dai fucili della polizia di Pechino, nell’attesa di salire sui treni della deportazione. Intervistato dalla Bbc, l’ambasciatore cinese a Londra non ha potuto negare che quei deportati in catene facessero parte della popolazione degli Uiguri, la minoranza musulmana perseguitata in Cina e confinata a milioni nei campi di concentramento, nel silenzio complice delle cancellerie di tutto il mondo e in un’opinione pubblica oramai assuefatta alla violazione dei diritti umani in cambio di stabilità e di soddisfacenti scambi commerciali. Non avevamo detto “mai più” Auschwitz, eccetera eccetera? Ecco, se quel video fosse vero, e solo per prudenza estrema può ancora concedersi il beneficio del dubbio, non dovremmo almeno un po’ vergognarci per quel “mai più” ipocritamente declamato e sistematicamente disatteso? La seconda notizia, tutta da accertare, perché non solo in Rete ma anche sui giornali vidimati con il tesserino girano castronerie colossali, dice che anche le mascherine che indossiamo siano state in parte fabbricate nei campi di lavoro, insomma, detto esplicitamente, nei lager, insomma nei luoghi dello schiavismo cinese dove non si odono le proteste dell’Occidente, in cui sono rinchiusi gli Uiguri perseguitati da Pechino. Dovremmo vergognarci due volte, se è vero che ci proteggiamo dal virus con dispositivi ottenuti tramite il lavoro forzato di milioni di deportati, come quelli ripresi dal drone clandestino prima di salire sui treni della vergogna. Anche in questo caso, dove è andata a finire la grottesca esortazione al virtuoso “mai più”? Come mai, sempre così verbosi, indignati, impettiti nelle nostre corazze democratiche, stavolta, con gli Uiguri martirizzati, rimaniamo così docilmente silenziosi? E i governi della Via della seta, cosa dicono? Mai più smetteremo, piuttosto, di girarci dall’altra parte per non guardare in faccia la nostra ipocrisia e il nostro ridicolo cinismo. E “mai più”, detta da noi, diventa squallidamente una battuta comica. Cina. I campi - prigione per centinaia di migliaia di uiguri di Alessandro Mauceri notiziegeopolitiche.net, 27 luglio 2020 In Cina, nella regione ricchissima di petrolio e gas dello Xjiang vivono più di 10 milioni di uiguri. Parlano un dialetto turco e i loro tratti somatici ricordano molto i popoli dell’Asia centrale. Di loro si parla solitamente poco, li si nomina solo per ricordare le centinaia di migliaia di uiguri e di altre minoranze musulmane detenuti nei campi di “rieducazione” cinesi. Centri che il governo centrale definisce siti per favorire l’apprendimento di utili capacità di carriera, ma sono molti quelli usciti da questi centri che parlano di prigionia e di luoghi dove viene fatto una sorta di lavaggio del cervello di massa e inculcata l’obbedienza al partito comunista. Dal 2001 in Cina è in atto una forma di repressione nei confronti dei movimenti indipendentisti e separatisti, i cui inizi risalgono alla prima metà del Novecento. Col tempo la minoranza musulmana che vive in Cina è stata vittima di forme di repressione sempre maggiori da parte delle autorità. Nel 2009 nello Xinjiang, per fermare una manifestazione di uiguri, morirono centinaia di persone. La prima prova concreta dell’esistenza di questi campi risale al 2018: una fotografia satellitare di un sito appena fuori dalla cittadina di Dabancheng, a circa un’ora di auto dal capoluogo di provincia Urumqi, mostrava una serie di giganteschi edifici grigi, tutti a quattro piani, massicci e circondati da un muro esterno lungo 2 km, punteggiato da 16 torri di guardia. Di strutture simili negli ultimi anni, ne erano sorte tante: simili a prigioni di grandi dimensioni sono tutte nello Xinjiang. A chi ha chiedeva di cosa si trattasse veniva risposto che “È una scuola di rieducazione”, un posto dove “Ci sono decine di migliaia di persone lì. Hanno dei problemi con i loro pensieri”. Lo scorso dicembre la questione è stata oggetto di una discussione al Parlamento europeo. Secondo i documenti presentati agli eurodeputati sarebbero centinaia di migliaia gli uiguri e le persone di etnia kazaka (tra i quali il vincitore del Premio Sacharov di quest’anno, Ilham Tohti) rinchiusi in “campi di rieducazione” politica. Alcuni documenti classificati “China cables”, recentemente resi pubblici, sembrano confermare che i musulmani, soprattutto uiguri, rinchiusi dal governo cinese in “campi di rieducazione” nella regione nord-occidentale dello Xinjiang sarebbero più di un milione. Al termine alcuni europarlamentari hanno chiesto al governo cinese di chiudere immediatamente i “campi di rieducazione” nello Xinjiang. Gli europarlamentari hanno chiesto inoltre al Consiglio europeo di adottare sanzioni mirate e di “congelare i beni, se ritenuto opportuno ed efficace, contro i funzionari cinesi responsabili di una grave repressione dei diritti fondamentali nello Xinjiang”. Dal canto loro, le autorità cinesi hanno dichiarato che i “centri di formazione professionale” sono utilizzati per combattere l’estremismo religioso violento. Smentite che però non sembrano essere confermate dagli innumerevoli documenti presenti negli archivi cinesi. Alcuni, scoperti dall’accademico tedesco Adrian Zenz, mostrano appalti e progetti dettagliati per la costruzione o la conversione di dozzine di strutture con funzioni di sicurezza complete, come torri di guardia, filo spinato, sistemi di sorveglianza e guardie. I centri di “rieducazione”, come vengono chiamati questi centri di detenzione, sono stati oggetto di una gara di appalto del luglio 2017 dove si parlava di un sistema di riscaldamento in una “scuola di trasformazione attraverso l’educazione” nel distretto di Dabancheng. Bastano pochi calcoli per capire che si tratta di strutture in grado ospitare complessivamente centinaia di migliaia, forse anche più di un milione di persone. Secondo Amnesty International nel marzo 2017 in Cina sono stati adottati “Regolamenti sulla de-estremizzazione” altamente restrittivi e discriminatori. “Esternazioni pubbliche o private di affiliazione religiosa e culturale, compresa la crescita di una barba “anormale”, l’uso di un velo o anche solo un foulard, una semplice preghiera, il digiuno o il rifiuto dell’alcol, possedere libri o articoli sull’Islam o sulla cultura uigura possono essere considerati “estremisti” in base a questo nuovo regolamento” riporta il sito di Amnesty International. Una denuncia che non è bastata a richiamare l’attenzione dei media su ciò che sta accadendo in Cina. Nel 2018 un’inchiesta del quotidiano online Bitter Winter parlò di uiguri detenuti in campi di concentramento, venivano mostrati video filmati all’interno di questi campi simili a prigioni. A sostegno dell’esistenza di questi centri di detenzione vennero forniti documenti trafugati di nascosto che avrebbero confermato la più grande incarcerazione di massa di una minoranza etnico-religiosa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Allora come oggi il governo cinese definì queste iniziative “fabbricazione di notizie false”. E tutto venne messo a tacere. In tutto il mondo. Oggi, nella più totale indifferenza internazionale, centinaia di migliaia di uomini e donne vengono arrestati senza accuse di crimini specifici e portati in centri di redenzione dove vengono “rieducati”. Ai loro familiari viene detto che i loro parenti sono stati “infettati” dal virus del radicalismo islamico e che devono essere messi in quarantena e curati. Quelli che finiscono in questi campi sono dei “quasi criminali”: vengono visti come un pericolo per la società non per aver commesso un crimine, ma per avere il potenziale per farlo. Una mezza giustificazione per costringere persone che, una volta identificati come aventi tendenze estremiste, hanno una sola alternativa “scegliere tra un’audizione giudiziaria” o ricevere “un’istruzione nelle strutture di de-estremizzazione”. Inutile dire che la maggior parte delle persone sceglie di “studiare”. Nei campi gli “studenti” vengono sottoposti a un rigoroso sistema di controllo fisico e mentale, sorvegliati 24 ore su 24, costretti a rinnegare le proprie convinzioni e ad elogiare il partito comunista. Chi si comporta “bene” guadagna dei “crediti” per il processo di “formazione” - “trasformazione culturale” al termine del quale viene trasferito in un altro campo dove “deve formarsi in ambito lavorativo”. Un think thank australiano, citando documenti governativi e resoconti dei media locali, parla di trasferimenti in massa di questi detenuti/studenti verso le fabbriche viste come un’estensione dei campi di rieducazione dello Xinjiang. Una tesi che il ministero degli Esteri cinese ha respinto dichiarando il report inattendibile e senza prove. Il governo di Pecchino ha sempre negato le accuse, dicendo che le persone coinvolte frequentano volontariamente speciali “scuole professionali” che combattono il “terrorismo e l’estremismo religioso”.