Le Camere penali ai deputati: carriere separate, solo così il giudice sarà autorevole di Errico Novi Il Dubbio, 26 luglio 2020 Caiazza e Migliucci scrivono ai deputati: “Se il giudice non è strutturalmente distinto rispetto a chi accusa e a chi difende, difficilmente potrà essere e apparire garante della legalità del processo”. Sulla separazione delle carriere pesa una teoria tendenziosa: sottrarrebbe i pm a quella cultura della giurisdizione che, dicono gli oppositori della riforma, solo la natura attualmente ibrida del loro ordinamento potrebbe preservare. Una sentenza inappellabile, ma di fatto priva di motivazioni serie, che ha finora polarizzato il dibattito. Sarà un caso, ma la legge promossa dall’Unione Camere penali ha avuto un percorso parlamentare quasi oscurato: chi è contrario, come una parte dei 5 Stelle, avrebbe preferito non farla neppure approdare in Aula. E invece lunedì la legge sulle carriere separate sarà finalmente esaminata nell’emiciclo di Montecitorio. Cosicchè i penalisti italiani hanno ritenuto ieri di inviare una lettera a tutti i deputati. Un testo firmato dal presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza e dal presidente del Comitato promotore sulla separazione delle carriere Beniamino Migliucci. I quali chiudono con una certezza: “Il dibattito parlamentare che finalmente si celebrerà sul tema, grazie alla iniziativa popolare promossa dalle Camere Penali Italiane, saprà onorare l’importanza della questione, memore del fatto che oltre 70mila persone abbiano sottoscritto la nostra proposta e che nel 2000 oltre 9 milioni di cittadini ebbero a votare sì al referendum dei radicali per la separazione delle carriere”. Nella lettera si ricorda come il vero effetto della riforma non consista nella creazione di un pm- poliziotto, casomai nel rafforzamento della terzietà del giudice come garanzia per il contraddittorio tra le parti e la legalità. A essere limitato sarà solo lo squilibrio che ha dato ai capi delle Procure “un potere incontrollato e incontrollabile”. Basta la logica, scrivono Migliucci e Caiazza, per ricordare che “qualora il giudice non sia strutturalmente distinto rispetto a chi accusa e a chi difende, difficilmente potrà essere e apparire garante della legalità del processo”. Potenziare il ruolo del giudicante, ricorda l’Ucpi, “non indebolirebbe ruolo e funzione del pm, che conserva chiaramente la propria autonomia e indipendenza dal potere politico”. Casomai “un giudice effettivamente terzo e percepito come tale dalla comunità conferirebbe autorevolezza alle decisioni e riaffermerebbe il principio della presunzione di innocenza attribuendo finalmente valore preminente alle sentenze rispetto alle indagini”. Il giudice deve essere “garante dei diritti e delle libertà di tutti”, e non si dovrà più confondere il processo penale con “uno strumento di lotta a questo o quel fenomeno criminale”. Vengono infine citate le parole di Giovanni Falcone: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pm che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudice e pm siano, in realtà, indistinguibili. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo”. Velocizzare la giustizia, tutte le richieste degli avvocati a Bonafede di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 26 luglio 2020 Abbattere i contenziosi civili pendenti davanti ai giudici italiani e rendere l’accesso ai tribunali meno oneroso: ecco i due obiettivi dell’Unione nazionale delle Camere civili (Uncc) che ha presentato al ministro Alfonso Bonafede un piano straordinario per la giustizia. Le rassicurazioni fornite dal guardasigilli sul reclutamento di magistrati e personale amministrativo, oltre che sull’edilizia giudiziaria e la digitalizzazione, non sembrano bastare all’Uncc che, nel suo documento, mette nero su bianco una serie di proposte anticipate dal Riformista nei giorni scorsi. La prima è quella avanzata da Giuseppe De Carolis, presidente della Corte d’Appello di Napoli, davanti all’enorme carico di lavoro che grava sui magistrati partenopei: affiancare ai giudici civili uno staff formato da soggetti qualificati che possano studiare i fascicoli e scrivere le sentenze. “In questo modo - aveva suggerito De Carolis - il magistrato potrebbe concentrarsi sulla decisione ed essere così più produttivo”. Ora, dunque, l’idea del cosiddetto “ufficio del processo”, formulata per la prima volta dall’ex ministro Andrea Orlando, viene rispolverata dall’Uncc che porpone anche l’istituzione di sezioni stralcio in composizione collegiale. L’obiettivo? Ridurre il numero delle cause pendenti. I numeri, d’altra parte, sono drammatici: in Italia sono più di tre milioni e 300mila le liti che attendono di essere risolte dai giudici civili, circa due milioni delle quali in tribunale. Il dato di Napoli è in linea con quello nazionale: sono 124mila i contenziosi pendenti in primo grado e poco meno di 40mila in appello. Se rapportate all’esiguo numero di magistrati in servizio, tutte queste cause determinano un carico di lavoro esorbitante per i magistrati: in Corte d’Appello, a Napoli, un giudice gestisce in media 530 fascicoli l’anno. L’Uncc, ancora, propone di ridurre le materie di competenza dei giudizi di pace. Suggerimento quanto mai opportuno, se si pensa che sono addirittura 835mila le liti pendenti davanti a quegli uffici in tutta Italia. E, ancora una volta, è gravissima la situazione di Napoli, dove sono in servizio 61 giudici sui 250 previsti dalla pianta organica e 116 dipendenti amministrativi su 137. L’Uncc, infine, fa propria una proposta lanciata dal magistrato Eduardo Savarese attraverso le pagine del Riformista: valutare le performance delle toghe per stimolarne l’efficienza e la produttività. In base a quali criteri? Percentuale di cause transatte, tempi della definizione, rispetto del calendario del processo e quota di sentenze confermate nei successivi gradi di giudizio. Determinante, ai fini della valutazione, anche la capacità organizzativa dei magistrati: in questa prospettiva l’Uncc prevede che i capi degli uffici siano affiancati da manager o che seguano un percorso di formazione in materia di gestione e organizzazione del lavoro. Quanto ai costi di accesso alla giustizia, il piano dell’Uncc prevede la soppressione del raddoppio del contributo unificato in caso di rigetto della impugnazione: “Impugnare le sentenze - fanno sapere dall’Unione nazionale delle Camere civili - non deve essere un privilegio per ricchi, che possono permettersi il lusso di correre un rischio del genere, perché tutti hanno il diritto di far valere le proprie ragioni in giudizio”. Processi rapidi e controllo del lavoro dei magistrati: le idee per l’efficienza della giustizia di Roberta Metafora Il Riformista, 26 luglio 2020 Da sempre l’attenzione dei media è concentrata sulla giustizia penale e ciò ben comprensibilmente: le disfunzioni dei procedimenti penali e gli errori commessi in sede giudiziaria sono sentiti come particolarmente odiosi dai cittadini, essendo in grado di ledere beni di primario rango costituzionale, quale la dignità e la libertà degli individui. È del pari vero, però, che l’inefficienza dei processi civili è in grado di colpire aree altrettanto sensibili dell’economia e della società: in un’economia globalizzata che impone il raggiungimento di alti standard in tema di competitività ed efficienza, una giustizia lenta e farraginosa e? inutile o addirittura dannosa. Sennonché, sono almeno trent’anni che si discute di effettività della tutela giurisdizionale, ma nessun concreto passo avanti è stato compiuto, nonostante le numerose riforme che hanno toccato il codice di procedura civile. Vari sono stati i tentativi di accelerare i tempi della definizione delle cause sia all’interno che al di fuori del processo. Quanto alla giustizia amministrata fuori dalle aule dei tribunali, sia consentita una breve riflessione: da circa una decina d’anni il legislatore ha cercato di ridurre il carico di lavoro dei magistrati obbligando i cittadini a ricorrere a forme “alternative” di risoluzione delle liti, affidate a persone (i cosiddetti mediatori) non sempre culturalmente e giuridicamente preparate. Ebbene, mi pare che l’attribuzione a soggetti privi della necessaria preparazione del potere di comporre liti spesso complesse e delicate non sia scelta felice. In altre parole, impedire ai cittadini l’accesso alla giustizia imponendo l’uso obbligatorio di strumenti alternativi di risoluzione della lite, quali la mediazione e la negoziazione assistita, si pone in contrasto con l’idea vera di giustizia. Meglio sarebbe recuperare la (forse antica, ma non per questo sbagliata) concezione del magistrato quale arbitro-conciliatore del contrasto tra le parti, avente il compito di condurre i litiganti verso una decisione condivisa. La conciliazione, insomma, non è una soluzione da scartare, anzi; ma, trattandosi di un’attività delicata, deve essere condotta all’interno del processo dal giudice. So bene che l’opzione di affidare al processo la risoluzione di ogni tipo di controversia si scontra con l’eccessivo carico contenzioso gravante sui tribunali del Paese. Proprio allo scopo di alleggerire il ruolo dei magistrati, negli ultimi anni sono state escogitate numerose misure, tutte a costo zero. Dunque, il problema è sempre lo stesso: la mancanza di risorse adeguate per far fronte al problema dello smaltimento dell’arretrato. Sennonché, occorre prendere atto di questa realtà e cercare di utilizzare in modo efficiente e razionale le risorse attualmente esistenti. Si è tanto parlato di economia processuale: con tale locuzione, diventato un vero e proprio slogan, si vuole soprattutto fare riferimento al tentativo di diminuire il numero di liti derivanti dall’interazione sociale e quelle risolte dalle Corti, a parità di risorse impiegate. Ora, a mio avviso, l’economia processuale può essere realizzata attraverso l’attribuzione ai giudici di poteri discrezionali. Occorre cioè cambiare il modo di concepire il ruolo del magistrato nel processo: non più semplice risolutore delle controversie, ma vero e proprio manager, dotato di ampi poteri nella scelta delle modalità in cui il processo deve svolgersi, in modo da conformarlo alle esigenze concrete della lite, così ottenendo dal sistema la massima efficienza possibile. Affermava Carnelutti che la struttura del processo deve essere in funzione della tipologia della lite; così come il medico prescrive cure diverse a seconda delle differenti patologie che presentano i malati, così il magistrato deve adeguare il processo alla complessità della causa. D’altronde, è ciò che accade negli altri ordinamenti: così, per citarne solo alcuni, accade in Francia e nel Regno Unito, dove è il giudice a scegliere il procedimento in base alle caratteristiche individuali di ciascuna causa civile, foggiando il rito come un abito su misura per la singola lite, secondo una valutazione di economia processuale ed efficienza, senza pregiudizio alcuno del diritto di difesa. In tal modo, si evita lo sperpero della “risorsa giustizia”, oggi quanto mai limitata e preziosa, dedicando al singolo caso tempi e risorse adeguati, sia rispetto alle esigenze di quel caso, ma anche a quelle complessive del carico giudiziario. Nell’attuale sistema, invece, è il legislatore a prevedere in via astratta quale rito applicare alle diverse cause, con due conseguenze: la prima è quella della creazione di un sistema rigido, incapace di adattarsi al singolo caso; la seconda è quella della moltiplicazione dei riti, con notevole disorientamento non solo per il comune cittadino, ma anche per gli operatori del sistema giustizia. Merita però di essere chiarito che, affinché questo modello processuale sia in grado di funzionare, occorre porre mano ad una seria riforma della responsabilità dei magistrati: in tanto è possibile affidare al giudice poteri manageriali in ordine al modo di svolgimento del processo, se e in quanto siano previsti adeguati controlli sul suo operato, così come d’altronde accade in quasi tutti gli ordinamenti europei. Il processo civile deve essere come un Giano bifronte: guardare sia alle ragioni di economia processuale sia alla tutela dei diritti fondamentali delle parti; a tal fine occorrono giudici responsabilizzati e solidamente preparati, messi nelle condizioni di poter studiare la lite prima di presenziare l’udienza, non solo per essere in grado di scegliere il modello processuale più adeguato alle esigenze delle parti, ma anche per tentare la composizione amichevole della lite. Sennonché, perché tali auspici possano davvero tradursi in realtà, occorre ancor prima procedere ad un’ampia riforma del percorso universitario dei giovani che aspirano a divenire giuristi: come già due secoli orsono affermava Emanuele Gianturco, occorre formare il giurista nel suo complesso per renderlo idoneo ad affrontare qualsiasi mestiere. Occorrerebbe in altre parole creare un percorso comune per la specializzazione dei giovani, al pari di quanto accade in altri ordinamenti europei, così evitando che gli attori dei futuri processi abbiano una formazione giuridica troppo diversificata tra loro. Il male che torna tra noi di Antonio Polito Corriere della Sera, 26 luglio 2020 La speranza di un’Italia migliore che si è accesa nei giorni della solidarietà non va abbandonata con un’alzata di spalle, perché tanto il mondo questo è, e sempre così sarà. Il ritorno del male fa notizia. Le vicende della caserma Levante, le torture e le orge, voluttà del crimine in chi avrebbe dovuto combatterlo, si sono svolte in pieno lockdown e in una città martire del Covid, a Piacenza, dove i morti sono stati quasi mille; gli orchi erano in azione proprio mentre noi ci ripetevamo che dalla crisi saremmo usciti migliori, restituiti a una più solidale e profonda umanità. Ovunque il male si sta riappropriando della sua normalità, della sua banalità. A Roma bande di ragazzini travestiti da Arancia meccanica sputano su citofoni e portoni per sfregio alle norme di igiene; oppure bastonano e rapinano un cinquantenne al grido di “ebreo di merda”; o pestano a sangue un custode pachistano per vedere “l’effetto che fa un nero svenuto sul marciapiede”. A Milano un ventenne, clandestino e di origini senegalesi, è accusato dalla prova del Dna di aver violentato una ragazza nel parco. A Vittorio Veneto un gruppo di minorenni, convinti che non avrebbero mai potuto punirli grazie all’età, terrorizzavano i negozianti con estorsioni e minacce. A Verona due padri italiani hanno pestato le mogli e le figlie. In tutta Europa il lockdown ha prodotto un’impennata negli scambi di materiali pedopornografici sul web. Verrebbe da dire: forse era solo ingenuità sperare che un grande trauma producesse un grande cambiamento. Un più fondato pessimismo sulla natura umana avrebbe dovuto ricordarci che il “male radicale” non può esserne estirpato. Da Aristotele in poi la filosofia tenta di spiegarsi perché, e non ci è ancora riuscita; è stata perfino inventata una branca della teologia, la teodicea, per “giustificare” la presenza del male in un mondo creato da un Essere onnipotente e misericordioso. Ma forse c’è dell’altro. Questo risveglio dal Covid - sostiene la rivista Foreign Affairs - sta portando violenza e conflitto anche nei comportamenti collettivi. Il caso americano è emblematico. Nell’esplosione turbolenta di rabbia che è seguita all’uccisione di George Floyd, c’è la misura di quanto l’emergenza virale abbia funzionato da detonatore di ogni accumulo di tensioni sociali e ingiustizie razziali; e lo stesso è avvenuto nelle proteste armate inscenate in alcuni stati contro i parlamenti per ottenere la “riapertura”. Nella reazione del potere, d’altro canto, si è intravista una tentazione dispotica, fino all’idea di usare l’esercito contro i cittadini. L’invocazione di poteri di emergenza, per ora solo virtuale negli States, si è fatta realtà in Ungheria, Serbia, Egitto. Conflitti interni agli Stati sono proseguiti, o peggiorati, un po’ ovunque: “La violenza in Colombia e in Burundi, in Mozambico, Myanmar e Pakistan - scrive la rivista americana - ha prodotto negli ultimi due mesi più di seicentomila sfollati”. Poteri armati non statali stanno approfittando del Covid per rafforzarsi, offrendo aiuti alle comunità più povere: dai cartelli della droga messicani, ai Talebani, a Hezbollah. E la crisi economica indotta dal lockdown ha già provocato violenza politica e instabilità a Beirut, a Baghdad, a Mumbai. È possibile che ciò che altrove si è innestato su antichi e radicati motivi etnici, razziali o sociali, da noi stia invece sobbollendo sotto forma di violenza gratuita, di malvagia euforia da disastro? Può essere che ancora una volta nella storia una grande paura covi l’uovo del serpente, e sprigioni riserve mai esaurite di violenza e sopraffazione? Può succedere, e dobbiamo saperlo. Però è altrettanto possibile che anche il nostro sguardo sia cambiato: avendo smesso di “vedere” il bene, che ci era apparso così evidente e trascinante nei giorni del dolore, oggi il male risalta di più, con il suo pericoloso portato di seduzione e spirito di emulazione. Nella stessa Piacenza dove agiva la banda dei carabinieri infedeli, da mesi centinaia di persone in difficoltà sono aiutate da “Emporio solidale”, un’iniziativa che consente a chi ne ha bisogno di fare la spesa al supermercato senza pagare, grazie al cuore di tanti benefattori e all’impegno dei volontari. Possiamo dimenticarlo ora? Nei giorni precedenti al lockdown il giornale locale, Libertà, ha pubblicato la lettera commossa del figlio di un’anziana signora che vive sola, alla cui porta aveva trovato un carabiniere sconosciuto che alla sera controllava se tutto andava bene. Il male cammina sempre accoppiato al bene. Anzi, Sant’Agostino sosteneva che non è altro che la negazione del bene, la sua mancanza, e quindi in quanto tale non è stato creato, ma bensì prodotto dagli uomini. Di certo non possiamo dimenticare il bene. La speranza di un’Italia migliore che si è accesa nei giorni della solidarietà non va abbandonata con un’alzata di spalle, perché tanto il mondo questo è, e sempre così sarà. Il bene deve continuare a far notizia, anzi, “Buone notizie”, come nel titolo di un fortunato supplemento del Corriere. E deve alimentare costantemente la nostra condanna morale del male, la nostra insofferenza, la nostra sanzione sociale, prima ancora che penale. I mesi che ci aspettano sono pericolosi: richiedono donne e uomini consapevoli che non basterà non fare il male per batterlo, ma solo fare il bene potrà riuscirci. Una polizia inclusiva all’altezza di una società democratica di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 26 luglio 2020 I police studies, sviluppatisi nei paesi anglosassoni, dimostrano che non si tratta di poche mele marce, bisogna andare a vedere il frutteto. Da George Floyd a Piacenza, gli abusi commessi da parte delle forze dell’ordine hanno conquistato la ribalta pubblica. Il dibattito che ne è seguito si articola in due direzioni: alcuni insistono sull’integrità dell’operato di poliziotti e Cc, rifugiandosi nella formula delle poche mele marce. Questa posizione mira a liquidare sbrigativamente un problema che si connota come un fiume carsico della vita pubblica italiana, e, per rimanere nella storia recente, da Carlo Giuliani a Riccardo Magherini, ha rivelato l’inadeguatezza delle forze di polizia italiana a rapportarsi con la complessità sociale contemporanea. Altri, sull’onda di quanto è successo a Minneapolis, propongono di smantellare le forze di polizia. Anche questa posizione, per quanto prospetticamente valida, mostra le sue evidenti lacune. Innanzitutto, perché sorvola sulle specificità del contesto statunitense. In secondo luogo, perché i tagli alla polizia, in UK e negli Usa, sono parte del pacchetto neoliberista. Ad esempio, dal 2010, quando i Tories sono tornati al potere, i tagli alle forze di polizia si attestano al 30%, con la cancellazione di esperienze come le Female Units, vere e proprie unità di supporto per le donne vittime di violenze, composte da poliziotte, assistenti sociali e counsellors. All’interno della cornice neoliberista, privatizzare la polizia significa affidarsi a gruppi equivoci, come è successo in Francia e in UK, con società che facevano capo ai neofascisti a gestire i centri di permanenza e gli hotspot. Come vorrebbe fare la Lega con le ronde padane. La questione di una polizia all’altezza di una società democratica, multiculturale e, possibilmente, inclusiva, rimane in tutta la sua attualità. I police studies, sviluppatisi nei paesi anglosassoni, dimostrano, per dirla col criminologo inglese Maurice Punch, che non si tratta di poche mele marce, bisogna andare a vedere il frutteto. Da un lato, le forze di polizia non sono asettiche rispetto alla società in cui operano, bensì ne riflettono gli umori, le percezioni e le pulsioni. In altre parole, il razzismo, il sessismo e il classismo, in una società che ha fatto della domanda di sicurezza la sua cifra politica, si pone come un elemento strutturale delle forze dell’ordine. Dall’altro lato, lo spirito di corpo, l’identità professionale, l’esercizio di funzioni repressive, rendono i poliziotti più lenti a recepire i mutamenti sociali. È stato così nell’Inghilterra dei primi anni Ottanta, coi bobbies ad agire verso gli afrocaraibici sull’onda del pregiudizio verso i lavoratori ospiti, senza tenere conto che si trovavano di fronte a cittadini britannici di nascita e di cultura. È così nell’Italia di oggi, dove Ps e Cc si ostinano a utilizzare categorie moraliste come “drogato” nei confronti del popolo della notte, fino a provocare tragedie come quella di Federico Aldrovandi e Riccardo Magherini. Nel caso italiano, inoltre, troviamo l’afflato etico delle polizie continentali, che pretendono di esercitare un presidio di tipo morale sui valori fondativi della vita associata, e si credono di conseguenza al di sopra della legge. È proprio questo il nodo da sciogliere, ovvero quello dell’accountability. Lo scarto tra le pratiche di polizia, ad orientamento contenitivo, e il flusso delle relazioni sociali, può essere colmato attraverso l’istituzione di meccanismi e procedure che tutelino i cittadini, e rendano le forze dell’ordine responsabili dei loro comportamenti. Ad esempio, in UK esiste l’Independent Office for Police Conduct, a cui ci si può rivolgere nel caso si ritenga di essere stati vittime di abusi, che dispone del sostegno personale e legale a favore dei ricorrenti, e ogni anno presenta una relazione al Parlamento. Un organismo di questo tipo sostituirebbe le attuali procedure di inchiesta, che al momento, in Italia, sono interne alle singole forze di polizia. L’obbligatorietà del numero di matricola costituirebbe la seconda misura da implementare, in modo da rendere identificabili i poliziotti e di facilitare l’avvio di eventuali inchieste. Altri aspetti riguardano la formazione e il reclutamento. A partire dalla rivolta afrocaraibica di Brixton del 1981, la polizia britannica si è adoperata per reclutare tra le sue fila membri delle minoranze razziali, fino ad espandere il discorso inclusivo verso il reclutamento di poliziotti Lgbtqi. Tali misure vanno di pari passo a una formazione orientata verso il rispetto delle diversità. Ovviamente, se i rapporti di forza rimarranno orientati a destra, queste misure non basteranno a cambiare positivamente l’operato delle forze di polizia. Costituirebbero comunque un passo avanti in un paese in cui nessuno, neppure la Lega, vuole smilitarizzare i Carabinieri. La moglie di Cutolo: sedia elettrica meglio del 41bis Il Tempo, 26 luglio 2020 Appello per far curare l’ex boss, fondatore e capo della nuova camorra organizzata. “Curatelo, la sedia elettrica è meglio del 41bis”. È questo l’appello della moglie di Raffaele Cutolo. “Ho incontrato mio marito in carcere a Parma un mese fa, era previsto un colloquio normale attraverso il vetro, ma mi sono ritrovata davanti una persona 90enne con una bottiglia in mano, non parlava, non dava segni, è stato bruttissimo vederlo in quelle condizioni. Mia figlia non si è sentita bene, non ha voluto restare più di tanto, e siamo andati via perché era inutile parlare con una persona che non alzava gli occhi, non riusciva a portare la bottiglia alla bocca, una persona che non rispondeva quando lo chiamavamo”. Ad affermarlo, a tratti piangendo, è stata Immacolata Iacone, moglie di Raffaele Cutolo, intervenendo al Consiglio Direttivo di “Nessuno tocchi Caino - Spes contra Spem” dal titolo “41bis: monumento speciale della lotta alla mafia, fossa comune di sepolti vivi”. Cutolo, fondatore e capo della Nuova Camorra Organizzata, oggi ha quasi 80 anni ed è sottoposto al carcere duro dal 1992. La mia storia al 41bis, un morto a guardia del proprio cadavere di Carmelo Gallico huffingtonpost.it, 26 luglio 2020 Il racconto dell’esperienza da detenuto per 5 anni in regime di carcere duro in stato di custodia cautelare. “Morendo soffri un attimo. Poi tutto svanisce nella morte. Il 41bis, invece, è l’orribile attimo della morte che si perpetua all’infinito”. Del 41bis ricordo i racconti di chi l’ha patito agli inizi della sua applicazione, simili a quelli già ascoltati durante la detenzione all’altro regime di carcere duro, l’ex art 90, nato per contrastare il terrorismo e poi assurto a modello dello stesso 41bis: violenze fisiche, incursioni notturne nelle celle con pestaggio del detenuto, isolamenti, finte esecuzioni, inscenamento di impiccagioni che tanto se andavano male potevano sempre essere spacciate per suicidio, umiliazioni e pressioni psicologiche capaci di fiaccare anche i più temerari criminali. La ratio era quella di incutere il terrore sia ai sottoposti al 41bis, sia a chi giungeva notizia, e, come nella lotta al terrorismo, il fenomeno del pentitismo travolse anche le più agguerrite organizzazioni criminali. Io allora affrontavo la prima accusa per associazione mafiosa, ma ebbi la fortuna di evitare il 41bis. Lasciato il carcere nel 2007 vissi da subito con l’intensità di chi ha un enorme gap di vita da recuperare: Frequenza e laurea alla Facoltà di giurisprudenza, scrittura di testi teatrali e pubblicazione di libri. Ma non conoscevo quel principio caro a certe Procure, poi tradotto in sentenze di condanna, secondo il quale un condannato per mafia sarà mafioso per sempre e dunque sempre imputabile per il reato associativo senza alcun onere per l’accusa di dimostrare la sua partecipazione al sodalizio criminoso: “dalla ‘ndrangheta si esce per morte o per collaborazione; la mancanza di uno dei due eventi è da sola elemento sufficiente per la condanna”, avrebbe tuonato il Pm nel richiedere una pena a 30 di reclusione. La nuova accusa per 416 bis mi ristrappò alla vita in una notte del giugno 2010. Dalla detenzione dei primi anni 90 molte cose erano cambiate: il 41bis da norma emergenziale e temporanea era passato a misura permanente; le carceri di Pianosa e l’Asinara, teatro delle violenze oggetto delle più terrificanti narrazioni, erano tornate ad essere due isole amene; cimici e trojan avevano reso inutili i pentiti e la partecipazione dell’imputato al processo in videoconferenza relegava la sua figura a quella di inane spettatore. Anche la ratio non è ormai più la stessa: divenuta marginale l’influenza dei pentiti nel processo, il fine è diventato quello di svilire il processo stesso impedendo all’imputato il compiuto esercizio del diritto alla difesa attraverso l’esasperazione della pratica dell’isolamento. Da imputato, in custodia cautelare e a poche settimane dal mio arresto, tutte le cose che ritenevo di conoscere riguardo al 41bis si materializzarono d’improvviso nella mia vita e potei capire che mai nessun racconto, mai nessuna immaginazione, possono davvero trasmettere e rappresentare l’orrore e la sofferenza dell’uomo costretto a subire quella violenza. Fui destinato a Rebibbia, Reparto G13. Era inizio agosto, fuori il sole accecava, ma dentro io stazionavo nel buio e nell’asfissia assoluti: mi era concessa un’ora di luce, una soltanto, nell’arco di un’intera giornata. La trascorrevo in quella scatola di cemento coperta da due fitte reti di metallo chiamato passeggio. Quindici passi per percorrerla in lungo, appena 5 in larghezza. All’inizio li contavo: camminavo in lungo con gli occhi chiusi sui miei pensieri e giravo a memoria. Le rimanenti 23 ore le trascorrevo nel chiuso della cella sotto il freddo pallore di un neon. Un passo dalla branda al lavandino; due per la bilancetta; a tre c’era la turca; a quattro sbattevo già il naso contro la parete. La finestra era una piccola fessura attaccata al soffitto con una rete dalle maglie così strette da trattenere anche l’aria. Chiamavo gli agenti solo in rarissime occasioni: Appuntato! - chi è che chiama? - cella numero 21! Col tempo, il detenuto al 41bis dimentica quasi il proprio nome e diventa il numero della sua cella anche agli occhi di sé stesso. In sezione vigeva il divieto della parola tra compagni e la loro presenza si riduceva ad un ridondante rumore di sottofondo: cella 3 intratteneva esilaranti dialoghi con i personaggi televisivi; cella 4 era il rumore delle gocce di psicofarmaci versati dall’infermiere nel bicchiere di plastica. Non lo vidi che una o due volte: barba e capelli lunghi, sguardo perso nel vuoto, movimenti lenti, braccia abbandonate lungo i fianchi. Il più chiassoso era cella numero 6: la notte ululava, poi si fermava qualche istante come ad origliare e articolava il suo ululato nella cantilena di un richiamo: Luuuuuupiiiiii. Non capivo se fosse uno sberleffo alle guardie o fosse invece una richiesta di aiuto lanciata a degli amici invisibili che popolavano la sua mente. Quando era stremato, la sua voce si trasformava in uno straziante urlo. Forse si era lasciato vincere dalla follia o forse aveva un barlume di lucidità e urlava, urlava contro orrori che non accettava, urlava contro le mura che lo trattenevano, urlava all’inferno da cui si sentiva divorare. Io, senza alcuna possibile via di fuga dalle urla di disperazione che sentivo intorno a me, rimanevo rannicchiato in un angolo della branda. Un foglio e una penna tra le mani, esorcizzavo l’inferno dal quale non potevo fuggire imprigionandolo tra le righe di una pagina, nella cronaca dei suoi momenti, per dare un nome ed una storia a quelle anime disperate cancellate dal mondo e dalla vita. Era il modo per mantenere la mia umanità, il filo di Arianna che mi consentì di non smarrirmi nella disperazione. Innocente per Costituzione ma colpevole per pregiudizio, trascorsi 5 anni al 41bis in stato di custodia cautelare e di detenzione inumana, come riconosciuto dal Tribunale Civile di Brescia. A ragion veduta, ritengo che il 41bis sia la violenza più grave che mai uomo possa subire, persino più grave della morte. Morendo soffri un attimo. Poi tutto svanisce nella morte. Il 41bis, invece, è l’orribile attimo della morte che si perpetua all’infinito. Una violenza che non conosce soluzione di continuità, un dolore che non conosce limite, una sofferenza che annienta l’uomo, un tormento che ammorberà per sempre lo spirito. Ed è la morte l’immagine indelebile impressa nella mia memoria. Quella dei detenuti abbandonatisi all’apatia, morti a guardia del proprio cadavere, e quella vista nell’ombra appesa alle sbarre di una cella, l’ombra del mio compagno di gruppo che nella morte scelse di trovare la sua liberazione dall’orrore del 41bis. Anche chi ha molto sbagliato non è del tutto perduto di Cecco Bellosi La Repubblica, 26 luglio 2020 È morto a Vieste Rossano Cochis. Rossano è stato un grande bandito senza tempo. Incarcerato ingiustamente (in seguito sarebbe stato prosciolto dall’accusa per cui era finito in prigione) era evaso dal carcere di La Spezia, unendosi e diventando uno dei principali protagonisti della banda Vallanzasca. Dopo Pinella, se ne va un pezzo di storia della Milano degli anni Settanta: Rossano era benvoluto e amato dagli amici, temuto e stimato dai nemici come un uomo coraggioso e leale. Autentico, anche nella sua ingenuità. L’ho conosciuto in carcere, a Rebibbia: per uno strano scherzo dei pentiti, era capitato nel processo 7 Aprile. Abbiamo condiviso due anni di cella, anche con Draga, riuscendo persino in certi momenti a divertirci nonostante il regime duro dell’articolo 90 nella sezione di massima sicurezza. Dopo un mese di sciopero della fame contro quelle condizioni di detenzione (uno dei pochi risultati ottenuti dalle lotte in carcere), si era passati a un regime meno restrittivo. Dovevo essere ricoverato all’ospedale San Camillo per lo stato di denutrizione, ma il medico del carcere nicchiava: Rossano lo aveva inseguito per tutta la sezione, finché le guardie erano riuscite a metterlo in salvo. Sarà un caso, ma la stessa sera ero al San Camillo. La nostra era diventata una vera amicizia, fatta ancora di alcuni passaggi in cella comuni e del reincontro fuori. Rossano è venuto a lavorare al Gabbiano, prima in semilibertà e poi in liberazione condizionale, rimanendo quasi quindici anni, fino alla pensione. L’ho visto e abbracciato, l’ultima volta, due settimane fa al funerale di mio fratello Paolo, perché Rossano era molto legato a tutta la mia famiglia e voleva bene a mio fratello. Ciao, vecchio Ros, cuore generoso e animo gentile dalla risata sonora e dal sorriso triste. Risponde Piero Colaprico Diciamo ai nostri lettori più giovani, o comunque non troppo “dentro” le memorie degli anni di piombo che Cecco Bellosi ha 72 anni ed è stato un brigatista rosso e che Cochis, detto Nanu, ne aveva 73. Non due stinchi di santo. Il primo comasco e il secondo bresciano. Bellosi, con la sua comunità Il Gabbiano, ora collabora per “tirare fuori” dal carcere chi deve finire di scontare la pena entrando in un rapporto più sano con la società. Cochis, che in carcere aveva passato 37 anni, voleva solo riposarsi. Ripetiamo, a scanso di equivoci, non due stinchi di santo, eppure quando noi parliamo della rieducazione attraverso la pena e dell’Italia che rifiuta la pena di morte, quando parliamo delle garanzie costituzionali di che cosa parliamo se non anche di chi molto ha sbagliato, ma non per questo è del tutto perduto? Ecco perché questa commemorazione, per quanto discutibile sia, la riportiamo e lo facciamo nel massimo rispetto delle vittime di terrorismo e mala. Corollario: siamo sempre colpiti dal fatto che in Sudafrica siano riusciti a far pace bianchi e neri, dopo l’apartheid e decenni di violenze brutali, mentre da noi ancora divida la lettura di Tangentopoli o delle stragi. Non è che da noi si ascoltino poco le ragioni degli altri? Un figlio in carcere per droga di Franco e Luisa L’Espresso, 26 luglio 2020 Siamo i genitori di un ragazzo detenuto in carcere e crediamo che l’Espresso sia il giornale adatto ad ospitare il nostro sfogo e il nostro invito a fare qualcosa per i ragazzi sfortunati come nostro figlio. Lui ha sbagliato e non saremo noi a negarlo: è tossicodipendente e i suoi reati riguardano questo problema. Ha cominciato a fumare erba che era ancora alle scuole medie e quando è cresciuto è passato a sostanza più pesanti. La nostra non è stata un’odissea come raccontano altri genitori: non ci ha mai trattato male o derubato e ha sempre cercato di nasconderci la verità. Però abbiamo capito, abbiamo cercato di dissuaderlo e ci siamo fatti una cultura a proposito di mentanfetamine e di pasticche con componenti oscure e metadone, del tipo di quelle prese dai due poveri ragazzi morti recentemente a Terni. Solo quando è stato arrestato abbiamo saputo che non faceva più i suoi lavoretti saltuari e che aveva cominciato a spacciare. Ora nostro figlio è disperato, in carcere è esplosa tutta la sua fragilità. Sa di dover stare lì molto tempo perché l’emergenza Covid ha rallentato le procedure giudiziarie. Quando lo vediamo alle visite ci spaventa il suo aspetto allucinato e le allusioni al fatto che vuole suicidarsi. Ci siamo ridotti a sperare che lo salvi il sovraffollamento: nella sua cella di pochi metri quadri sono in quattro su due letti a castello e c’è da augurarsi che si accorgano in tempo di un suo ipotetico gesto. Ci scusiamo se non diamo dettagli e se non ci firmiamo per intero, ma non vorremmo che la nostra denuncia aggravi la situazione del nostro infelice ragazzo. Grazie per quanto potrà fare. Risponde Stefania Rossini Posso fare ben poco, purtroppo, se non pubblicare integralmente la vostra lettera e darvi la solidarietà che meritate. Colpisce come l’amore per vostro figlio abbia saputo misurarsi con la compassione, senza rancori e senza inutili sensi di colpa. Come mi disse una volta un’importante psicoanalista durante un’intervista, è inutile cercare nei genitori una qualche responsabilità, è solo una questione di circostanze e di fortuna, ci sono famiglie pessime con figli a posto e famiglie meravigliose con ragazzi che si perdono nella droga. Ma adesso voi vi trovate ad affrontare una paura ancora più radicale per la disperazione che mette in pericolo la vita del ragazzo. Saprete già che la vostra situazione è simile a quella di centinaia, se non migliaia, di famiglie e che molte di loro si organizzano in gruppi, come c’è la costante attenzione al problema da parte del partito radicale con una rubrica apposita tenuta da Riccardo Arena. Potete anche chiedere una psicoterapia che aiuti vostro figlio a comprendere le sue scelte. Il carcere, nel suo inevitabile orrore, ha fatto qualche passo avanti in questo senso, anche se l’agghiacciante numero dei suicidi (ben 29 nei primi sei mesi dell’anno) e l’assenza di provvedimenti mirati da parte della politica fa somigliare queste morti a una raffica di omicidi colposi. Como. Detenuto di 23 anni muore suicida in carcere Comunicato Sappe, 26 luglio 2020 Nel pomeriggio di ieri un detenuto è morto suicida nel carcere di Como. Alfonso Greco, segretario regionale per la Lombardia del Sappe, spiega che “ieri verso le ore 16.30, dopo il cambio turno, un detenuto di origini marocchine di 23 anni circa, già noto alle Forze dell’ordine per furti e rapine ed arrestato circa 15 giorni fa, ieri è riuscito con un rudimentale laccio costruito con una maglietta ad impiccarsi alla finestra del bagno. I compagni di cella non si sono accorti di nulla. Il collega di turno mentre faceva un giro di controllo si è accorto che qualcosa non andava e ha immediatamente dato l’allarme ma non c’è stato nulla da fare. Questa è un’altra sconfitta per lo Stato: purtroppo la Polizia penitenziaria del Bassone, che nonostante la carenza organica e il sovraffollamento dell’istituto continua a svolgere il proprio servizio con abnegazione e spirito di sacrificio, in questa occasione nulla ha potuto affinché non si consumasse questa ennesima tragedia. L’auspicio è che il carcere di Como venga riportato ad una capienza regolamentare contestualmente all’incremento del Reparto di Polizia Penitenzia, sì da poter lavorare in condizioni di maggior benessere”. Trapani. Se la detenzione diventa “pena” e afflizione di Fabio Pace telesudweb.it, 26 luglio 2020 In carcere, in attesa di un trattamento chirurgico e di una terapia che si dovrebbe avvalere, per avere il massimo della efficacia, di antibiotici, farmaci immunosoppressori e farmaci biologici. Il protagonista di questa storia di burocrazia e di diritti, se non negati certamente troppo lentamente riconosciuti, è un giovane uomo catanese di 37 anni, di cui ci siamo già occupati, e che abbiamo chiamato con un nome di fantasia: Alfio. È detenuto presso la Casa Circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani, ed è affetto dalla malattia di Crohn, una patologia autoimmune che aggredisce l’intero tubo digerente, dalla bocca all’ano passando per i tessuti dell’apparato intestinale. La malattia è stata diagnosticata ad Alfio da una struttura pubblica del Sistema Sanitario Nazionale: il policlinico Vittorio Emanuele di Catania. Le sue condizioni, in stato di detenzione, dalla prima diagnosi, sembra siano peggiorate, ed oggi la malattia si manifesta in forme sempre più aggressive su un fisico già profondamente provato da dimagrimento, diarree, impossibilità di praticare una alimentazione mirata. Seguiamo la sua vicenda attraverso le disperate segnalazioni della madre che teme per la salute e per la vita del figlio. Quando ce ne occupammo la prima volta, l’avvocato di fiducia in prima istanza ne chiese la detenzione ai domiciliari, del resto Alfio deve scontare ancora meno di un anno di prigione per reati legati alla droga. Oggi l’urgenza è un’altra. Alfio ha bisogno di cure più appropriate, compreso un drenaggio chirurgico per delle fistole anali che, leggiamo in un manuale di medicina “si manifestano con dolore, febbre, perdite di sangue e secrezioni maleodoranti ed impattano in maniera fortemente negativa sulla qualità di vita dei pazienti”. Circostanza nota alle autorità penitenziarie e sembra ci sia in corso anche una specifica richiesta al Dap di Palermo per un possibile ricovero presso un reparto specialistico dell’ospedale Civico, avallata dai medici del carcere di Trapani, dove è stato fatto tutto quanto possibile per il paziente / detenuto, nei limiti di una struttura carceraria. Paziente e detenuto, due condizioni confliggenti eppure coesistenti, una dicotomia in cui la burocrazia della amministrazione penitenziaria finisce con il ridurre a terzo escluso la dignità della persona. Come avevamo fatto nel precedente servizio ricordiamo che la convenzione europea dei diritti dell’uomo riconosce ai detenuti, quindi nel caso anche ad Alfio, “maggiore tutela proprio per lo stato di vulnerabilità della sua situazione in cui versa e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato”. Pone a carico dell’Autorità, in questo caso l’amministrazione penitenziaria, un obbligo positivo consistente nell’assicurare ad ogni detenuto che si trovi in condizioni di incompatibilità con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della pena non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto, né ad una prova d’intensità che eccede l’inevitabile livello di sofferenze inerenti la detenzione. Lanciano (Ch). Protocollo d’intesa tra il carcere e l’Associazione Medea Onlus abruzzoinvideo.tv, 26 luglio 2020 Il progetto prevede l’apertura di uno sportello antiviolenza all’interno della casa circondariale, rivolto ai detenuti, ai loro famigliari, ai figli, ma anche al personale dell’Istituto penitenziario. È stato sottoscritto ieri, presso l’ufficio del Direttore del carcere di Lanciano, un importante protocollo d’intesa tra il Direttore dell’amministrazione penitenziaria territoriale D.ssa M. Lucia Avantaggiato e l’Associazione Onlus Medea, nella persona del suo responsabile nazionale con delega all’apertura degli sportelli istituzionali antiviolenza, Francesco Longobardi. Presenti il Dr Tommaso Rossi, Funzionario capo area detenuti e trattamento, il Commissario di Polizia Penitenziaria Michele Ciampolillo, f.f. di Comandnate di reparto con delega alla realizzazione del progetto, l’Ispettore C. Rino Gaeta, con delega ai rapporti con le istituzioni scolastiche e la Sovr. C. Rita Cericola responsabile del reparto detentivo media sicurezza del carcere. La sottoscrizione prevede l’apertura di uno sportello antiviolenza all’interno del carcere ai quali si potranno rivolgere i detenuti, i loro famigliari e il personale dell’istituto penitenziario. “Un progetto che testimonia ancora una volta l’imprescindibile e necessaria sinergia tra mondo esterno e carcere, tra associazioni culturali e istituzione penitenziaria, sinergia senza la quale risulta vano è ogni moto verso il cambiamento culturale e rieducativo della persona - si legge in una nota della direttrice del carcere Avantaggiato. L’ambito di operatività del protocollo è quanto mai essenziale per una società che voglia essere fondata sui saldi principi costituzionali della responsabile libertà e della crescita evolutiva dell’intera comunità, quello dell’anti violenza, del contrasto di ogni forma di aggressività, attraverso azioni di promozione culturale, di formazione, di accompagnamento esperto alle persone ed alle famiglie ; nonché attraverso l’apertura all’interno del carcere di uno sportello anti violenza, rivolto a personale, detenuti e loro famiglie. Il protocollo prevede, inoltre, azioni di promozione culturale e di cambiamento anche in raccordo con le scuole del territorio, attraverso l’organizzazione di percorsi conoscitivi fondati sulle testimonianze concrete di percorsi di vita di detenuti che, pur avendo sperimentato il male estremo, ne sono usciti rinnovati; nonché attraverso progetti divulgativi sul territorio della corretta conoscenza del penitenziario e dei percorsi di consapevolezza, di attivazione di risorse e di cambiamento in esso agiti. In definitiva, - continua la nota della direttrice della casa circondariale di Lanciano - il protocollo oggi sottoscritto pone le basi per un ulteriore cammino della già ampiamente e socialmente coinvolta Associazione Medea verso il cambiamento sociale ed il contrasto della violenza, un cammino da percorrere in stretta collaborazione con il carcere, ovvero una comunità, una organizzazione, una istituzione che, accogliendo il disadattamento, la devianza e la delinquenza, spesso riesce a incidere sostanzialmente sul cambiamento evolutivo del singolo e della comunità. Un sentito ringraziamento - conclude Lucia Avantaggiato - al Dr Francesco Longobardi la cui instancabile motivazione per il sociale produce eccellenti risultati ed un buon lavoro a tutto il gruppo di progetto che con competenza, umanità e tenacia non cessa di coinvolgersi in percorsi così belli e costruttivi”. Grosseto. La dottoressa Maria Teresa Iuliano è il nuovo direttore del carcere grossetonotizie.com, 26 luglio 2020 Con incarico definitivo, proveniente dalla sede centrale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, con lunga e maturata esperienza in molti istituti penitenziari. Il segretario generale regionale della Uilpa Polizia penitenziaria, Eluterio Grieco, nel dare il benvenuto al nuovo direttore, ricorda che “la partecipazione nei processi delle materie contrattuali è un capisaldo nelle relazioni sindacali e crediamo che le posizioni condivise sui temi, come la difesa dei valori democratici, il rispetto dei diritti dei lavoratori, ci debbano incoraggiare a ricercare convergenze e ambiti di cooperazione per il bene comune”. Il coordinatore provinciale Francesco Sansone, per la Uil Polizia penitenziaria, e il segretario generale territoriale Marco Mannelli, per la Uil Pubblica amministrazione, danno il benvenuto al nuovo dirigente Iuliano e sono certi che “il nuovo vertice saprà sostenere il lavoro abilmente compiuto dalla Polizia penitenziaria nell’intento comune e con l’obiettivo istituzionale di perseguire legalità e sicurezza”. Allo stesso tempo, le danno “un grosso in bocca al lupo per l’attenzione alla nuova struttura penitenziaria, in prossima realizzazione presso l’ex caserma Barbetti, in un’ottica di gestione e riorganizzazione della detenzione in un quadro europeo, finalizzato alla rieducazione dei detenuti”. Infine, per Federico Capponi, segretario generale della confederazione Uil, “il cambio di vertice è orientato a promuovere nuovi impulsi a sostegno di una squadra di lavoro già collaudata, che vede in particolare modo la Polizia penitenziaria già da tempo fortemente impegnata in un duro lavoro teso ad assicurare l’ordine e la sicurezza dell’istituto. Ci auguriamo che, collaborando insieme al sapere e all’esperienza del nuovo direttore e del dirigente aggiunto Marco Gabbrini, Comandante della Polizia penitenziaria, insediato anch’esso da qualche mese presso la casa circondariale, si realizzi un’eccellente realtà penitenziaria in Maremma, perché solo in squadra si riescono a risolvere al meglio tutte le difficoltà e il conseguimento di obiettivi istituzionali. Buon lavoro e lunga permanenza presso la città di Grosseto”. I ghetti degli invisibili: lontani da strade e città sono un pugno nell’occhio se li guardi dal cielo di Giuseppe Catozzella L’Espresso, 26 luglio 2020 Tendopoli, baracche, campi coperti da container fatiscenti. Dove immigrati e braccianti vivono ammassati, pronti a essere sfruttati. In Italia come in Europa sono nascosti, rimossi. Ma per smascherare l’ipocrisia basta alzarsi in volo. Ciò che non si vede da terra si vede dal cielo. Se ad altezza-uomo è consentita la menzogna, basta planare sopra la città per vedere la realtà che si dispiega nella sua evidenza. L’altezza riduce al silenzio la faziosità, mostrando la topografia del ghetto. È l’urbanistica dell’osceno: aree lontane dai centri abitati, fuori dalle mura della città, separate, come separati erano i lager nazifascisti, che nascevano al di là dell’ultimo villaggio, nascosti nelle campagne, nelle steppe. Il ghetto è mimetizzato in primo luogo per celare la geografia dell’apartheid. Ma in secondo luogo per nascondere il fatto che la ragione della sua esistenza è in una legislazione europea che si oppone all’inserimento legale dei migranti e dei richiedenti asilo. Chi migra non è mai felice di farlo: di lasciare la famiglia, il paese, la lingua. Se lo fa è perché ne è costretto: fuggire da guerre (spesso create o alimentate dai paesi di approdo dell’Unione europea), da condizioni economiche avverse (spesso create dai lasciti del colonialismo dei paesi di approdo), da carestie (spesso dovute a cambiamenti delle condizioni climatiche generati anche dal capitalismo frenetico dei paesi di approdo), da persecuzioni (spesso dovute a regimi appoggiati dai paesi di approdo). Ma i paesi di approdo, che sono dunque corresponsabili delle migrazioni, chiudono i porti e i confini, e rifiutano di accogliere il frutto, o lo scarto, delle proprie politiche. Ecco che nasce il ghetto, in prossimità di quella chiusura. Il ghetto cresce, come un bubbone, sulla faglia che separa il nord dal sud del mondo. È la cicatrizzazione, proteiforme e sempre crescente, della ferita causata dall’ingiustizia della chiusura. Ecco che il ghetto, per sua natura, sta un passo prima del confine, un gradino prima della salvezza. Il suo abitante è il respinto, o colui che è in attesa di un responso sulla richiesta di asilo politico. Non ti potrai salvare, è il messaggio dei paesi di approdo - non ora, e forse mai - ma allo stesso tempo non sarai più nel tuo paese di origine, e sarai condannato per sempre a vivere nella sospensione del ghetto. Starai, finché riuscirai a rimanere in vita o finché non ti stancherai di aspettare, nel limbo. Vivrai in purgatorio, proprio tu che, musulmano, sikh, ebreo, induista, buddista, il purgatorio non sai cos’è. La tua stessa vita, diventerà purgatorio. Così è per i ghetti più grandi e celebri: quello di Calais, “la Giungla”, tra la Francia e l’Inghilterra; quelli di Ceuta e Melilla, al confine tra Spagna e Marocco; quello di Moira, nell’isola di Lesbo in Grecia, al confine tra Europa e Medioriente, che ospita tredicimila migranti e mille minori; il campo ufficiale di Velika Kladusa, in Bosnia, costruito dall’Iom, l’agenzia dell’Onu per le migrazioni, con fondi dell’Unione europea, al confine tra Europa e rotte migratorie continentali dal Medioriente, e più volte criticato dal governo croato per l’eccessiva vicinanza al confine. Ci sono tre i tipi di ghetto, come spiegano le ricercatrici degli insediamenti temporanei, Elena Tarsi e Diletta Vecchiarelli: gli insediamenti pianificati, tendopoli istituzionali costruite dai ministeri degli Interni; l’insediamento informale: baracche, fabbriche o casolari occupati; e una forma ibridata (baraccopoli e campo container), che nasce nel momento in cui un insediamento pianificato decade e sfocia nell’informalità, mostrando il fallimento di interventi mossi in un’ottica di emergenza anziché in un’ottica strutturale. E ognuno di questi gironi, nei mesi e negli anni, finisce col mostrare la vita che, nonostante tutto, continua, e prende a ingrandirsi, e il campo provvisorio diventa un villaggio, poi un paese, infine una città, e la cicatrice sulla faglia tra nord e sud del mondo si ingrossa a dismisura, diventa un centro di vita abitato da una popolazione sempre crescente. Così, la maggior parte delle baracche viene usata come dormitorio, ma altre sono adibite a servizi, ad attività commerciali (ciclo-officina, sala tv, sartoria, bazar), ad attività alimentari (macelleria, piccoli shop), a luoghi di culto, moschee, templi e chiese cattoliche. All’interno ci si muove in bicicletta, a volte esiste un servizio di trasporto auto-organizzato (un “taxi” a basso costo) che garantisce ai migranti/abitanti del limbo la possibilità di spostarsi nelle zone limitrofe. Ma questo avviene soprattutto in Italia dove, oltre alla legislazione che si oppone all’inserimento legale dei richiedenti asilo (legge Bossi-Fini, Decreti sicurezza), si unisce una burocrazia inefficiente che allunga a dismisura i tempi di risposta alle richieste di asilo, e un tessuto produttivo sempre più permeabile all’illegalità e alla criminalità, e pronto a recepire forza lavoro da sfruttare senza diritti sindacali e in condizioni di schiavitù. Ecco che dal ghetto, nascosto e rimosso, il migrante/abitante del limbo può uscire, se richiesto, per lavorare come schiavo. Sono i “ghetti a pagamento”, come li definiscono Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet, leader del primo sciopero di braccianti stranieri in Italia, in “Ghetto Italia”: luoghi in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, “nemmeno un medico in caso di bisogno”. È, dicono, “un complesso sistema criminale in cui a rimetterci sono solo i braccianti, costretti a pagare cifre impensabili per vivere stipati in baraccopoli insalubri, lontano da qualsiasi forma di civiltà”. Ecco che il migrante/abitante del limbo diventa il salvagente dell’agricoltura italiana, la vittima che paga per essere sfruttata, compiendo il circolo maligno del paradosso e dell’ingiusto. In Italia sono centinaia, da nord a sud: dalla Puglia (San Severo, Capitanata, Nardò) alla Campania (nel casertano, nella Piana del Sele), dalla Calabria (San Ferdinando, Sibari e piana di Gioia Tauro), al ragusano e al trapanese in Sicilia, da Metaponto e alto Bradano in Basilicata fino al Lazio e poi al Nord, in Piemonte, a Saluzzo, fino al Trentino. Sorgono vicino ai campi e alle aziende agricole, vicino all’offerta di lavoro stagionale. Finisce a viverci chi ha fatto richiesta di asilo politico ed è in attesa, e aspetterà anche due o tre anni; oppure chi arriva in uno dei porti di identificazione, gli hotspot, e in base al Decreto sicurezza viene respinto ma non rimpatriato, né inserito nei Centri per i rimpatri, che sono sovraffollati, e si vede presentare l’intimazione di lasciare il territorio nazionale. Se il ghetto non esistesse, come migliaia di altri come lui senza alternative, finirebbe a vivere per strada. Entrambe le categorie sono al di fuori del diritto e quindi ricattabili, come non si stanca di ripetere Aboubakar Soumahoro, e paiono disegnate per incontrare le necessità dei caporali dell’agricoltura. Chi possiede la terra sta fermo, è chi la lavora a doversi spostare. Per quanto possa apparire banale, è su questa costante del lavoro agricolo che si radica la cifra principale dell’assoggettamento. Un tempo i braccianti condividevano con il caporale uno stesso orizzonte sociale, la stessa lingua; potevano provenire dallo stesso paese, o dalla stessa provincia, dalla stessa regione. Lo spostamento del bracciante verso la terra c’era ma, rapportato a oggi, era minimo. Si stabiliva, con il caporale, e quindi con il proprietario terriero, un rapporto di forza codificato. Oggi avviene qualcosa di profondamente diverso, con i migranti/abitanti del limbo: i braccianti stranieri, che siano centroafricani, nordafricani, esteuropei o sudamericani, percepiscono le campagne italiane come “terra di frontiera”, con cui non hanno niente in comune: non ne parlano la lingua, non ne conoscono le leggi scritte, né quelle non scritte. C’è, per il bracciante “globalizzato” e migrante, una lontananza siderale dal tessuto urbano e sociale, e questa lontananza è garantita proprio dall’isolamento del ghetto. Ed è questa lontananza, questo isolamento, che genera lo stato di “soggezione continuativa”, per come viene definita dall’articolo 600 del nostro Codice penale: “La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona”. Tre euro l’ora per dieci o dodici ore di lavoro al giorno. La chiamata discrezionale, e i giorni lavorativi non sono mai più di cinquanta in un anno. Il trasporto, l’acqua, il cibo, i vestiti e l’alloggio nel ghetto sono da pagare al caporale. Che, di solito ma non sempre, è solo un gradino sopra il migrante/abitante del limbo, e proviene dai suoi stessi paesi: Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Congo, Sudan. Riproducendosi su larga scala, per migliaia e migliaia di braccianti/migranti, questa “soggezione continuativa” diventa elemento strutturale di gran parte del lavoro agricolo del nostro Paese. È, senza mezzi termini, schiavitù. Dentro il ghetto il controllo da parte del caporale è sempre più capillare, e giunge fino alle sfere più intime della vita del bracciante/migrante, che arriva a dipendere in tutto da lui, non avendo una rete sociale, né un tessuto urbano, su cui fare riferimento. Il controllo arriva fino al cibo e agli alloggi, con danni alla salute: malattie dell’apparato digerente e malattie infettive, malattie osteomuscolari e del tessuto connettivo, dovute alle terribili condizioni lavorative e igienico-sanitarie del ghetto. Chi prova a ribellarsi muore. Solo per citare alcuni casi, i braccianti maliani morti nel “gran ghetto” tra Rignano e San Severo, in Puglia; i centodiciannove braccianti polacchi “scomparsi”, dal 2000 al 2006, durante la raccolta del pomodoro, sempre in Puglia; Soumayla Sacko, che viveva nel ghetto di San Ferdinando, in Calabria, ucciso da una fucilata il 2 giugno del 2018. Il ghetto è indispensabile, per salvare la dignità della città e per salvare la nostra agricoltura. Come ha scritto Alessandro Leogrande: “Fuori dal ghetto non ci sono gli ingaggi dei caporali”. Chi arriva in Italia ed è posto fuori dalla legalità da leggi ad hoc, se vuole lavorare non ha alternative, in un mercato occupazionale che vive una crisi senza precedenti. “Sei vuoi vivere devi andare al ghetto. Fuori, nessuno ti darà lavoro”, è il mantra tra i migranti. Il ghetto deve continuare a esistere, ma senza essere visto. Migranti. Il fallimento (strapagato) delle Ong di Luana De Francisco L’Espresso, 26 luglio 2020 Sei milioni di euro per un progetto umanitario che finisce per legittimare il sistema dei campi di prigionia. Le torture sono quotidiane, anche se noi non le vediamo. Dallo scempio ci separano chilometri di terra e di mare e l’indifferenza per i muri. Tutto invisibile e muto dietro quei recinti, lontano anni luce da una società, la nostra, ossessionata dalla xenofobia. Eppure, anche se di quegli abusi sappiamo così tanto, abbiamo deciso di aprire i cordoni della spesa e investire proprio là dove lo sguardo non arriva. Lo ha fatto il ministero degli Esteri, finanziando interventi destinati alle comunità libiche e ai centri di detenzione per migranti e rifugiati attraverso l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo. Il progetto, inserito nel 2017 in un più ampio quadro di azioni per l’assistenza alle vittime di crisi umanitarie e la cooperazione con i Paesi interessati dal fenomeno migratorio, ha contato finora su uno stanziamento di sei milioni di euro. Tutti soldi ripartiti tra le nove organizzazioni non governative italiane che si sono aggiudicate i tre bandi pubblicati dall’Aics. Un’operazione forse ispirata da buone intenzioni. In realtà, da subito una parte dell’opinione pubblica ha storto il naso di fronte a una mossa considerata piuttosto la legittimazione del funzionamento e dell’esistenza stessa di centri notoriamente gestiti nel disprezzo dei diritti umani. Si è guardato all’iniziativa con la stessa diffidenza riposta nel memorandum che, pochi mesi prima, aveva sancito l’impegno dell’Italia a garantire sostegno economico, politico e operativo alle autorità libiche, in cambio del contenimento dell’afflusso di migranti verso l’Europa. Ora, a tirare le somme sull’apparente contraddittorietà di quei bandi è l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, con un rapporto che, nel confermare la funzionalità dei progetti a un piano di “esternalizzazione” delle frontiere, ne biasima l’inefficacia in termini di risposte durevole e sostenibili alle carenze strutturali dei centri, veri e propri luoghi di prigionia, dove gli stranieri intercettati dalla Guardia costiera libica, con mezzi e tecnologie forniti dall’Italia, vengono trasferiti e sottoposti a ogni forma di violenza e sfruttamento, in attesa di “rimozione”. “Ideati nella piena consapevolezza delle gravi e diffuse violazioni che si consumano nei centri e con l’obiettivo di ridurne l’entità, ma non di eliminarle del tutto - scrive il pool di studiosi che ha lavorato al report - i bandi hanno creato i presupposti per la realizzazione di progetti che hanno l’effetto, quantomeno politico, di perpetuare un sistema di detenzione di cittadini stranieri in condizioni inumane, al fine di impedire loro di raggiungere il territorio europeo e di esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale”. Del resto, suona curioso puntare a “migliorare” le condizioni dei detenuti, senza un’attività di controllo esercitata in loco da personale italiano (espressamente vietato dall’Aics per ragioni di sicurezza) e senza che l’erogazione delle prestazioni sia condizionata all’impegno del governo di Tripoli a porre rimedio alle criticità. Come? Per esempio, suggerisce l’Asgi, con più investimenti per il mantenimento dei detenuti, cui spettano razioni alimentari da non più di un euro al giorno, l’ampliamento dei locali, “pericolosamente sovraffollati e con scarsa luce e ventilazione”, e una vigilanza più stringente sugli abusi fisici commessi anche su donne, bambini e malati. La verità, secondo i ricercatori, è un’altra. “L’inadeguatezza delle risorse stanziate, l’illegittima e arbitraria detenzione e l’assenza di meccanismi di prevenzione sugli abusi - osservano - non paiono ascrivibili a un’impossibilità oggettiva del governo libico, come asserito nei bandi, ma a una sua precisa scelta politica, e si pongono in contrasto con gli obblighi internazionali della Libia di proteggere i diritti fondamentali degli individui di cui ha assunto la custodia”. Intanto, l’Italia paga e lo fa anche a fronte dell’“approssimazione dei rendiconti contabili di alcune Ong” e nonostante le perplessità sul “corretto impiego del denaro pubblico” che la gestione dei centri, per lo più lasciata a milizie armate svincolate da supervisione giurisdizionale, non può non suscitare. Il rapporto ha esaminato i contributi apportati in particolare ai centri di Tajoura, Tarek al Sikka e Tarek al Matar, tutti nelle vicinanze di Tripoli. Nell’elenco figura, tra gli altri, Nasr di Zawiya, gestito dal clan cui afferisce il trafficante Bija e teatro delle violenze recentemente accertate da una sentenza del tribunale di Messina. Ci sono pure Al-Khoms e Souq al Khamis, che nel 2019 il segretario generale dell’Onu ha descritto come “agghiaccianti” e definito “paradisi per la tratta di esseri umani, il traffico di migranti e le sparizioni forzate”. E allora, a giudicare dalla tipologia degli interventi, tra creazione di presidi medici e igienici, riabilitazione di sistemi idrici e supporto psico-sociale, e dalla quantità di beni inviati, tra forniture di generi alimentari, medicine, vestiario, coperte e giochi, quella italiana pare una gigantesca opera umanitaria. Assai diversa la conclusione dell’Asgi, critica con la logica stessa dei bandi. “Il rischio - ammonisce - è che, agevolando il funzionamento dei centri, si fornisca un contributo causale ad azioni illegittime, presenti e future, imputabili direttamente al governo libico o, comunque, ai gestori dei centri”. Borhan Loukasi, il diciassettenne etiope che nell’abbraccio del marinaio siriano Alì è diventato l’icona della Pietà nel Mediterraneo, arrivava da uno di quei centri di tortura. La gamba gliela avevano spezzata là. Stati Uniti. Qui c’è un’altra epidemia che si chiama overdose di Martino Mazzonis L’Espresso, 26 luglio 2020 Eroina, Fentanyl, oppiacei antidolorifici. Crescono le morti dovute al consumo di droghe pesanti. E il lockdown peggiora le cose. Ora il fenomeno colpisce soprattutto i bianchi impoveriti e le autorità sembrano accorgersene. Viaggiando sulle strade d’America, capita di vedere chiese sulla cui facciata è appiccato uno striscione sui cui campeggia la scritta: “Qui abbiamo il Naxolone”. Il Naxolone è un medicinale per inalazione che si usa per fermare le overdose, per salvare vite. C’è un ambito dove l’epidemia di coronavirus ha colpito gli Stati Uniti in silenzio: le tossicodipendenze. I dati raccolti dal Washington Post da ambulanze e distretti di polizia parlano di un +29 per cento ad aprile e +42 per cento a maggio. In Indiana l’uso del Naxolone, è aumentato del 35 per cento negli ultimi due mesi. Le case di accoglienza e i centri di assistenza erano chiusi, mentre l’isolamento, il disagio, le paure che il virus ha scatenato, hanno determinato un aumento del consumo. Sul vialetto che porta all’ingresso di Helping Hands, un centro di accoglienza di Manchester, in New Hampshire, due maschi bianchi sulla cinquantina si salutano. Uno dei due spegne la sigaretta e tira fuori una felpa rossa da un bastone di plastica di quelli dove nelle lavanderie a gettoni infilano i tuoi panni lavati, sorride mostrando i pochi denti rimasti e chiede: “Per caso vi interessa una bella felpa con il cappuccio? Ne ho diverse, cerco di svoltare così, tra qualche giorno dovrò lasciare il mio posto qui e devo mettere da parte un po’ di soldi. Non voglio tornare negli asili per homeless”. Helping Hands è un ex scuola per soli ragazzi, un edificio in mattoni rossi. Al pianterreno si sentono le voci degli ospiti che si preparano a uscire, durante il giorno chi dorme qui deve partecipare a un programma: “Il nostro è un passaggio, prendiamo gente che esce dal carcere, homeless che vengono da un dormitorio qui dietro l’angolo e non sanno dove andare. Prima di arrivare qui c’è la disintossicazione, poi noi organizziamo un percorso di assistenza di tre ore al giorno per nove settimane”, racconta nel suo piccolo ufficio Guy Torgensen, che un tempo lavorava nel distretto hi-tech attorno a Boston e dopo aver cambiato vita dirige il posto: “Avrebbero bisogno di programmi a lungo termine, ma le assicurazioni sanitarie non sono disposte a mantenerli più a lungo, comparano la tossicodipendenza a malattie croniche, come il diabete, dove se cambiano le condizioni si cambiano dosaggi. Con in più il pregiudizio sui “drogati” che sarebbe sbagliato in assoluto ma è insensato oggi perché il 70-80 per cento delle persone passate qui ha cominciato con gli anti dolorifici contenenti oppiacei prescritti dai medici dopo un incidente, un’operazione, uno strappo giocando a tennis”. La assurda “Opioid crisis” che tormenta l’America da un decennio è infatti una crisi indotta dall’industria farmaceutica che ha promosso l’uso allegro di potenti antidolorifici di quelli che in Europa si danno in ospedale a malati terminali. E poi c’è il Fentanyl oppiaceo sintetico con il quale vengono tagliate eroina e cocaina, che è 50- 100 volte più potente della morfina e mortale dieci volte di più dell’eroina. A Seattle lo scorso mese si è toccato il record di overdose causate da queste pillole, 10 dollari l’una, e nella contea di Franklin, in Ohio, a marzo ci sono stati 62 casi di overdose mortale. Il medico legale della contea, la dottoressa Anahi Ortiz, spiega sulla sua pagina Facebook: “Non fate mai uso di droghe da soli, abbiate sempre il Naxolone con voi e usate il test per il Fentanyl”. Ovvero abbiate con voi un rimedio blocca overdose e cercate di sapere quel che vi iniettate o sniffate. La contea distribuisce gratuitamente Naxolone e test. Nel 2018 negli Stati Uniti sono morte 67mila persone di overdose e solo il 30 per cento tra questi si era iniettato eroina nelle vene. I dati del censimento raccolti nel 2019 parlano di una popolazione bianca che invecchia, i cui numeri assoluti calano per la prima volta nella storia. La ragione, spiegano gli statistici, è da imputarsi a quelle “Death of despair” (Morti di disperazione) come recita il titolo del saggio di due economisti di Princeton, Anne Case e Angus Deaton, sulla crisi della working class bianca. La crisi ha reso necessario indagare sul lavoro fatto da Big Pharma per piazzare i suoi prodotti. A gennaio 2020 l’amministratore delegato della Insys Therapeutics, John Kapoor, è stato condannato a cinque anni per aver corrotto medici in maniera che prescrivessero oppiacei anche a chi non ne aveva bisogno. Più di 30 Stati stanno negoziando con giganti farmaceutici per una compensazione: Big Pharma offre 19 miliardi, alcuni Stati sono d’accordo, altri ritengono sia poco. Sul banco degli imputati anche le catene di farmacie, che distribuivano pillole come caramelle. La West Virginia, lo Stato più colpito dalla crisi, ha fatto causa ai due marchi più grandi, Rite- Aid e Walgreens, che hanno ordinato 127,5 milioni di pillole in dieci anni: circa 119 pillole per ciascun abitante dello Stato minerario, bambini compresi. Il risultato di questa distribuzione capillare sono i 400mila morti tra 2000 e 2018. Nel 2019 i numeri erano scesi, poi è arrivato il coronavirus - e non sappiamo se e quanto l’impennata di morti per overdose sarà un altro degli effetti nefasti di lungo periodo della pandemia. Certo è che in Colorado hanno dirottato i fondi per la prevenzione e il recupero, 26 milioni, verso le terapie intensive intasate da casi di Covid-19. Fino a quando sono morti i neri, i marroni, i poveri, la società si è girata dall’altra parte. Serviva che a morire fossero bianchi della middle class. Oggi le istituzioni prendono atto che c’è una crisi, che la gente muore, che bisogna intervenire solo perché muoiono bianchi di famiglie normali. È orrendo, disgustoso, ma è così”. Così Howard Woodbridge, ex poliziotto del Michigan che ha fondato Citizens Opposing Prohibition (la sigla è “Cop”, poliziotto) e si presenta a tutti gli appuntamenti politici per fare campagna. Baffoni, cappello da cowboy e una t-shirt dove campeggia la scritta: “Cop says legalize heroin”, Woodbridge racconta: “Sono un detective in pensione, ho visto morti di overdose, ragazzini ammazzati perché spacciavano, morti durante rapine per procacciarsi denaro. Troppo per non provare a fare qualcosa. Nessuno muore vendendo o bevendo birra e la legalizzazione della marijuana in molti Stati sta mostrando quanto l’idea di proibizionismo che ci ha guidati per 30 anni fosse sbagliata”. “L’eroina della mia generazione era migliore. Oggi tra Fentanyl prodotto in Cina e altra roba sintetica prodotta in Messico si muore prima. E la dipendenza è peggiore di quella dell’eroina, in dieci, venti giorni ci si finisce sotto”, racconta ancora Torgensen che spiega quanto sia difficile il suo lavoro di trovare casa e lavoro per chi ne esce con programmi di riabilitazione troppo brevi e di come la sfida sia appunto il dopo. “Alla figlia di un amico che ha avuto un incidente d’auto hanno dato del Percocet per un mese. Quando è finita la “cura” era dipendente dagli oppiacei. È stata homeless per un periodo, nel suo caso è intervenuta la famiglia, ma non sempre succede”. Storia simile a quella di Amy, poliziotta 30enne di Jersey City. Joanne abita di fronte alla casa in cui viveva quella che una volta era un’agente modello. Case bifamiliari a schiera, un quartiere tranquillo: “Una mattina qualsiasi svegliandomi vedo che la strada era completamente bloccata da Suv della polizia locale. Nessuno dei poliziotti parlava ma qui sulla strada abbiamo capito tutti. Overdose, tutto per colpa di un incidente d’auto e di un medico che le ha prescritto antidolorifici. Dopo mesi i dirigenti si sono accorti che stava male e hanno sospeso Amy dal servizio. Non è servito a nulla. Il risultato però è stato che la madre ha perso la seconda figlia per colpa dell’eroina. Stavolta però non c’entravano la strada, le frequentazioni, le scelte sbagliate”. La dipendenza indotta funziona così, dopo che hai provato a passare da un paio di medici diversi, magari fuori dallo Stato e non riesci più a ottenere ricette, scopri che l’eroina si trova e costa meno. In Massachusetts, a Lawrence, c’è un centro di smistamento e quindi è facile farla arrivare in tutti gli Stati del New England dove il prezzo è più alto. Lo stesso succede in altri Stati che confinano con grandi città - ad esempio dal Bronx o dal South Side di Chicago verso l’Indiana. Ancora Torgensen: “Un ragazzo che ho conosciuto, fa lo stand-up comedian, prendeva la roba a New York e la vendeva a Cape Cod, in Massachusetts, dove il prezzo era cinque volte quello a cui l’avrebbe piazzata nel suo quartiere. Lo usavano anche come trasportatore in tutti gli Stati perché aveva un’auto in buono stato e nessun legame con la criminalità”. Droghe, tossicodipendenti e polizia. un altro capitolo difficile da affrontare. “Troppo spesso i miei ex colleghi non capiscono quale sia il problema che hanno davanti, hanno l’idea cresciuta negli anni della guerra alla droga che si tratti di delinquenti. Non lo erano allora e non lo sono adesso. E forse il fatto che si tratti di persone bianche ha aperto gli occhi a qualche dipartimento di polizia. Ce ne sono che stanno sperimentando formule interessanti”. Tra i primi in America c’è quello di Gloucester, sobborgo di Boston, che invita a presentarsi al distretto per chiedere aiuto: “Se avete con voi della droga, ce ne libereremo per voi. Non verrete arrestati. Non verrete accusati di alcun crimine. Non finirete dentro”, si legge sul sito del Dipartimento. Qui e la spuntano anche tribunali specializzati, conferma Torgensen: “Quando si accorgono che una persona gli compare davanti molte volte, gli prescrivono Suboxone, metadone o Vivitrol e li inseriscono in un programma. La tendenza a sbattere tutti in cella sembra essere diminuita. Sono invece aumentate le pene per i medici che prescrivono gli oppiacei. Qualcuno è stato condannato per omicidio preterintenzionale, la pena a 30 anni è un deterrente”. Coronavirus, razzismo della guerra alla droga e persino sanità: la crisi da oppiacei tocca molti aspetti cruciali per la politica americana. “È grazie ai fondi pubblici in più stanziati da Obama per Medicare e Medicaid, le assicurazioni sanitarie pubbliche, che organizzazioni come la nostra possono avviare programmi di reinserimento e non lasciare i loro ospiti tornare in strada dopo un breve periodo di disintossicazione”, spiega Torgensen. Chissà che la discussione nazionale sull’inutilità della militarizzazione della polizia, cominciata proprio con la guerra alla droga, porti allo stanziamento di fondi per combattere l’epidemia che le case farmaceutiche hanno regalato all’America bianca e di mezza età. Ungheria. 80 giornalisti si dimettono da Index, ultimo sito indipendente di Francesco Giambertone Corriere della Sera, 26 luglio 2020 “Interferenze del partito di Orbán”. Dopo il mancato reintegro del direttore Dull, che aveva denunciato le pressioni da parte dell’editore amico del presidente, la redazione di Index si è dimessa in massa. Oltre 80 giornalisti di Index, il sito d’informazione più importante d’Ungheria, si sono dimessi ieri a seguito del licenziamento del direttore Szabolcs Dull: ritengono la scelta del management di mandare via il capo una “chiara intromissione” politica da parte di Fidesz, il partito del primo ministro Viktor Orbán, in uno degli ultimi media indipendenti rimasti nel Paese. E poche ore dopo le dimissioni di “massa” della redazione, alcune migliaia di persone si sono riunite a Budapest per chiedere libertà di espressione per i media, protestando sotto la sede della presidenza. Tutto è cambiato alcuni mesi fa, quando Miklos Vaszily, un imprenditore della cerchia di Orbán, ha comprato il 50% delle azioni della compagnia che controlla la pubblicità e i ricavi di Index. Vaszily è già editore di una televisione filogovernativa, TV2, e secondo la Bbc avrebbe svolto un ruolo decisivo nel trasformare il sito Origo in un media pro Orbán. Nell’ultimo mese, il direttore Szabolcs Dull aveva avvertito che il sito “stava ricevendo una pressione esterna tale da poter causare la fine del nostro staff editoriale per come lo conosciamo”. A fine giugno, in un articolo aveva scritto che la redazione era “in pericolo” e che il barometro della libertà per la home page era passato da “indipendente” a “in pericolo”. Sostenendo che queste sue scelte avessero causato danni economici al giornale, il management martedì aveva licenziato il direttore. La redazione però si è schierata con lui, chiedendo che tornasse al suo posto. Il presidente del board, Laszlo Bodolai, si è rifiutato di farlo. Così la redazione si è dimessa in massa. Tra le decine di giornalisti ad aver lasciato - molti tra le lacrime - il giornale, ci sono anche tre importanti capiredattori. Sul sito, i giornalisti hanno spiegato: “Per anni abbiamo detto che ci sono due condizioni per l’attività indipendente di Index: che non ci siano influenze esterne sui contenuti pubblicati e sulla struttura e composizione dello staff. Licenziare Dull ha violato la seconda condizione. La sua rimozione è una chiara interferenza nella composizione della redazione”. Kirghizistan. Hrw: morto in carcere l’attivista Azimjon Askarov radiobullets.com, 26 luglio 2020 L’attivista per i diritti umani Azimjon Askarov è morto a 69 anni in carcere in Kirghizistan. A renderlo noto è Human Rights Watch in una comunicazione ufficiale. Askarov, ricorda l’organizzazione, stava scontando una condanna all’ergastolo dopo un “arresto arbitrario”, la tortura e un processo in cui ha subito una condanna “politicamente motivata”. Per HRW le autorità kirghise sono “pienamente responsabili” della sua “morte senza senso”. “La salute dell’attivista, da dieci anni in carcere e per il cui rilascio si erano susseguiti nel tempo numerosi appelli, l’ultimo a poche ore dalla morte, si era deteriorata significativamente in carcere e si era aggravata durante gli ultimi giorni, anche se la causa del decesso deve ancora essere stabilita ufficialmente”, dice Hrw. “È essenziale che ci sia una indagine indipendente sulla sua incarcerazione ingiusta oltre che sulla negazione di cure adeguate e alla sua morte in detenzione”. Askarov, ricorda Human Rights Watch, era direttore di Air, un’organizzazione per i diritti umani attiva nel sud dell’ex repubblica sovietica, specializzata nel documentare le condizioni delle carceri e gli abusi della polizia. “Nel giugno del 2010, dopo un’ondata di violenze inter-etniche nella sua città Bazar-Korgon, in cui aveva documentato abusi e saccheggi, era stato arrestato con l’accusa di aver ucciso un agente di polizia durante i disordini”. Le autorità del Kirghizistan, dice Mihra Rittmann, ricercatrice di Hrw per l’Asia centrale, “portano la piena responsabilità per la morte di Askarov. Hanno avuto ogni opportunità per mettere fine alla sua ingiusta detenzione, ma ogni volta hanno schivato i loro obblighi. Volevano che morisse in prigione e così è stato. Le nostre più sentite condoglianze vanno alla moglie di Askarov, che per 10 anni ha lottato per la libertà del marito, alla sua famiglia e ai suoi colleghi”, conclude Rittmann.