Luigi Manconi: “Sogno un mondo senza carcere. Il culto della cella va demolito” di Angela Stella Il Riformista, 25 luglio 2020 “La prigione e la caserma sono istituzioni totali” in cui “regnano cameratismo e complicità virile”. “La legge sulla tortura porta il mio nome, ma non la riconosco come mia. La mia proposta prevedeva un reato proprio per qualificare gli abusi dei pubblici ufficiali”. La caserma degli orrori di Piacenza dimostra per Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici, già presidente della commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, presidente di “A Buon Diritto Onlus”, che nel nostro Paese esistono le cosiddette “istituzioni totali”, dove vigono complicità virili, potere intimidatorio e senso dell’impunità. Ma in questa lunga intervista abbiamo discusso anche di abolizione del carcere, di 41bis, di rapporti Italia-Libia. I gravi fatti di Torino e Piacenza ci raccontano di detenuti e cittadini temporaneamente sotto la custodia dello Stato che sarebbero stati umiliati e torturati dai loro stessi custodi. Come può accadere tutto questo? Può accadere perché il carcere e la caserma sono istituzioni totali, secondo la classica definizione di Erving Goffman: sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica. Dentro queste istituzioni totali operano corpi specializzati dello Stato che per loro stessa natura sono organismi coesi, integrati, autoreferenziali, dove regnano una forte solidarietà tra i membri, un robusto cameratismo, una complicità virile che facilmente si traduce in connivenza e omertà. Secondo la legge, d’altra parte, questi corpi statuali posso esercitare l’uso legittimo della forza a fini di controllo e repressione. Si tratta di un potere cruciale e delicatissimo che richiede da un lato grande lucidità e dall’altro la possibilità di un controllo esterno, perché è facile che possa trascendere e diventare arbitrio. Questo arbitrio rischia di affermarsi e riprodursi senza che le istituzioni democratiche possano esercitare il controllo e dunque denunciare quando quell’uso legale diventa illegale: tanto più che la vigilanza interna sembra latitare. Sono queste le circostanze in cui quegli episodi maturano. E sono tutti elementi che contribuiscono a suggerire una sensazione di impunità. La formulazione attuale del reato di tortura è efficace per reprimere questo tipo di condotte o come dicono molti aver formulato questa fattispecie di reato come delitto comune e non come reato proprio ha depotenziato l’efficacia della deterrenza? Le legge sulla tortura porta il mio nome ma io non la riconosco come mia perché il disegno di legge originario da me presentato prevedeva la tortura come reato proprio, in quanto sia la Convenzione delle Nazioni Unite sia le leggi di altri Paesi democratici qualificano la tortura esattamente in questi termini, ovvero quel reato che discende dall’abuso di potere. E che si realizza quando un carabiniere, un poliziotto, un poliziotto penitenziario, un finanziere eccedono il perimetro stabilito dalla legge nell’uso della forza. È da questo abuso che può derivare la fattispecie penale del reato di tortura. Definire genericamente la tortura come una violenza all’interno delle relazioni tra i cittadini è per un verso superfluo, perché i reati adeguati a questo tipo di azione già esistevano nel codice. Invece la nuova figura di reato sarebbe stata destinata appunto a qualificare quei trattamenti inumani e degradanti quando effettuati da pubblici ufficiali o persone facenti funzioni di pubblico ufficiale. Si dice tanto che in Italia non si tortura “perché non siamo la Turchia”. Salvini e Meloni hanno spesso detto di voler lavorare alla cancellazione del reato di tortura. E invece la cronaca, dagli anni 70 in poi, ci racconta il contrario: dal prof. De Tormentis e la sua pratica del water-bording al carcere di Asti, da Federico Aldovrandi a Giuseppe Gulotta, dalle torture praticate a danno di cinque brigatisti rossi sospettati del sequestro del generale Usa James Dozier fino alla condanna per i fatti di Bolzaneto, non dimenticando le celle lisce di Poggioreale. Qual è il suo pensiero? Il reato di tortura viene introdotto nell’ordinamento italiano solo nel 2017, ben 28 anni dopo la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione delle Nazioni Unite. Faccio notare che quando il nostro connazionale Giulio Regeni viene rapito, seviziato, torturato e ucciso in Egitto, in Italia il reato di tortura ancora non esisteva. Ritengo che tra le molte ragioni dell’inerzia con la quale il nostro Paese ha affrontato la vicenda di Regeni c’era anche il fatto che l’Italia avesse una sorta di senso di colpa nel pretendere verità e giustizia da uno Stato dispotico quando al proprio interno quel reato non era ancora previsto. L’Italia non ha avuto la forza giuridica e morale di esigere quella verità anche perché non aveva le carte in regola. E riguardo la tortura all’interno dei nostri confini? Ritengo che in Italia non vi sia una pratica sistematica della tortura. Che invece molti siano stati i casi di trattamenti inumani e degradanti è indubbio, si sono verificati più volte. La frase più sciocca che si possa dire è quella delle mele marce, che è una metafora giustificazionista. A proposito di questo: dal caso Cucchi a quello dell’americano accusato della morte di Cerciello Rega bendato nella caserma, passando per lo stupro delle due americane a Firenze. Da quale male è affetta l’Arma dei Carabinieri? Intanto questi episodi sono davvero troppi. Nel caso di Piacenza una stazione dei carabinieri è stata ridotta a cellula criminale. Ma tre anni fa un’altra caserma dei carabinieri di Aulla in provincia di Massa Carrara ha avuto lo stesso trattamento da parte della magistratura: non c’è stato il sequestro dell’edificio ma l’azzeramento di quella postazione perché all’interno spadroneggiava una gang di carabinieri coinvolti in attività criminali. E ricordo che 11 anni fa in occasione del tristissimo caso Marrazzo emerse come la caserma Trionfale avesse al proprio interno una intensa attività delinquenziale. Ci sono gli episodi da lei citati - tutti da valutare in maniera differenziata - però resta una frequenza un po’ inquietante. Penso proprio che il ruolo particolare che l’Arma dei carabinieri svolge tra le forze di polizia, i consensi di cui gode nella società, il fatto che dipenda dal Ministero della Difesa, e che ci sia una elevata capacità dell’attività di repressione alimentino la sensazione di impunità ed esaltino le caratteristiche proprie delle istituzioni totali. All’interno dell’Arma si formano gerarchie informali che esercitano un potere intimidatorio, gruppi - veramente esemplare la situazione di Piacenza - che si costituiscono come agglomerati di potere e questo potere viene esercitato per un verso per accumulare risorse economiche e per l’altro verso per affermare una autorità illegale. Oggi si terrà il consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino dedicato al 41bis, che Sergio D’Elia sul nostro giornale ha definito “un regime di tortura”. Non posso non ricordare il suo grande lavoro in Commissione Diritti Umani proprio su questo tema. Secondo lei è possibile mettere seriamente in discussione questo istituto giuridico? Secondo la legge il regime di 41bis ha un solo scopo: impedire i collegamenti tra coloro che vi sono sottoposti e la criminalità esterna. Tutto ciò che eccede questo scopo è semplicemente fuori legge. Per questo penso che quel regime costantemente rischi di scivolare nella illegalità: vengono attuate limitazioni, provvedimenti di censura o misure di controllo che non sono previste in quanto non destinate a garantire il raggiungimento del solo scopo che il 41bis persegue. All’interno di questo quadro non c’è il minimo dubbio che alcune condizioni possano configurare la fattispecie di tortura. Non si dimentichi che, anche nella legge italiana contro la tortura, si parla di violenza psicologica: che al 41bis ci siano violenze psicologiche è indubbio. In una intervista sul Riformista a Gherardo Colombo ieri si è parlato del carcere che ha assunto la sola funzione di punire e non di rieducare… Con Gherardo Colombo vagheggiamo da tempo un libro che avrebbe come titolo “Abolire il carcere”. Ma, in realtà, quel libro io e miei collaboratori lo abbiamo scritto già cinque anni fa: e resta l’idea di un’esigua minoranza. In Italia una corrente abolizionista esiste: ad esempio c’è Livio Ferrari che ha creato il movimento “No prison”. Ed è una prospettiva che sta conquistando lentamente, molto lentamente, consensi. Il carcere è inutile, diseconomico e controproducente. Il carcere riproduce all’infinito crimine e criminali. La prospettiva dell’abolizione del carcere è quanto mai ragionevole. Ma siccome non siamo degli utopisti ma dei realisti sappiamo che questo obiettivo è di lunga gittata. Occorre un programma possibile di provvedimenti che prima di tutto riduca al minimo il ricorso al carcere e che possa far sì che la sua abolizione non sia la profezia di un sognatore, ma una concreta direzione di marcia. Però politicamente è forse impossibile… Politicamente tutto ciò, in particolare in questo momento, risulta quanto mai arduo perché il peso che il Movimento 5 Stelle ha all’interno della maggioranza di governo ma anche il peso che hanno le sue tesi soprattutto all’interno del senso comune della mentalità collettiva, è fortissimo. Però anche il Pd ha fatto deflagrare per convenienza elettorale la riforma sull’ordinamento penitenziario che avrebbe potenziato le misure alternative… Sono sempre contrario a queste interpretazioni ossia “per calcolo elettorale”. Sicuramente anche per esigenze elettorali ma c’è qualcosa di più profondo e duraturo ed è una cultura: una mentalità che ritiene che il carcere debba rimanere carcere, debba rimanere un sistema di sanzioni tutto costruito intorno ad un paradigma che ha nella cella chiusa il suo fondamento. Se il senso comune va in questo senso è fatale poi tradurre tutto ciò in considerazioni di natura elettorale. L’altro giorno Matteo Orfini ci ha detto che il rifinanziamento da parte dell’Italia della guardia costiera libica è stato il momento più buio della storia del Pd e del Paese. È d’accordo? Sì, sono d’accordo. Noi proprio per questo lunedì 27 luglio saremo alle 18 a piazza San Silvestro a Roma per chiedere al Governo italiano e all’Unione Europea di azzerare i fondi alla guardia costiera libica ed evacuare e chiudere i centri di detenzione in Libia. Vorrei però tornare un momento sulla questione culturale: anche in merito alla questione della riforma dei decreti sicurezza il Pd va a traino del Movimento 5 Stelle e sceglie di procrastinare la discussione in commissione… Il Governo Pd - 5 Stelle è un governo dettato dall’emergenza che ho appoggiato perché mi sembrava rispondesse in quel momento preciso all’esigenza di impedire che vi fosse un esecutivo di centro-destra, guidato da Salvini. Penso che all’interno del Pd vi sia una parte significativa che ha sull’immigrazione una posizione quale quella che si è manifestata con la gestione da parte di Minniti. È una posizione non solo legittima ma che non è - e su questo insisto - la stessa posizione di Salvini, pur essendo, a mio avviso, errata. Ho criticato molto Marco Minniti, ci tengo molto però a distinguere. Salvini ha introdotto una rottura, non c’è continuità tra le due gestioni come troppi scioccamente dicono. Ad esempio, l’abolizione dello Sprar fatta appunto da Salvini è stata veramente una lesione profonda al sistema dell’accoglienza. Aggiungo che quando nel Mediterraneo si sono create situazioni di emergenza e ci sono state richieste di attracco da parte delle Ong a me è capitato tante volte di trovare una interlocuzione positiva con Minniti, visto che svolgo un po’ la funzione di lobbista delle Ong. Certo, la stessa cosa non è accaduta con il Ministro Salvini. Carcere, per fermare gli abusi bisogna sradicare il senso di impunità di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2020 Due episodi sono balzati di recente alle cronache, molto diversi l’uno dall’altro ma accomunati dal fatto di mettere sotto accusa pubblici ufficiali a servizio dell’ordine pubblico e della sicurezza. Mi riferisco alla chiusura delle indagini sulle presunte torture avvenute tra il 2017 e il 2019 nel carcere di Torino e all’arresto di sette carabinieri a Piacenza. Nel primo caso abbiamo una storia che di recente è stata purtroppo raccontata varie volte. Agenti di polizia penitenziaria che, per umiliare e punire persone detenute oltre la legale punizione già in atto con la reclusione in carcere, avrebbero utilizzato forme di violenza fisica e psicologica. Varie altre procure in giro per l’Italia stanno indagando per il crimine di tortura in relazione a eventi che sarebbero avvenuti nelle carceri di San Gimignano, Monza, Santa Maria Capua Vetere. Affinché la cultura dell’arbitrio e delle punizioni illegali in carcere venga sradicata è necessaria una profonda azione preventiva e culturale. È necessario che la polizia penitenziaria venga valorizzata nel proprio ruolo. È necessario che chi svolge un compito così sensibile sia formato adeguatamente e che si comprenda l’importanza estrema di quanto sta facendo, attribuendole il dovuto riconoscimento. Con l’idea della sorveglianza dinamica si era provato ad ampliare l’orizzonte del ruolo svolto dal poliziotto penitenziario, non limitandolo ad aprire e chiudere cancelli ma attribuendogli la fiducia di un compito sensibile, fondato sull’intelligenza della situazione carceraria e sulla capacità di gestirla in maniera alta. Alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria sembrano non averlo compreso e chiedono che si ritorni indietro. Ci auguriamo invece che il cammino percorso non venga vanificato. Per combattere gli abusi in carcere serve tuttavia anche un’altra profonda azione culturale: quella dello sradicamento netto dello spirito di corpo e di ogni forma di omertà. Se il poliziotto penitenziario continua a sentirsi protetto dall’immunità è perché qualcuno glielo consente. Vedremo cosa dirà il processo quando avrà fatto il suo corso. È grave se confermerà che il direttore del carcere era a conoscenza delle violenze che accadevano nel suo istituto e non le ha denunciate. È così che le violenze si perpetuano. Lo stesso direttore dirigeva il carcere di Asti quando, come ormai accertato da una sentenza passata in giudicato, due detenuti furono sottoposti ad atroci torture. Nella sentenza si legge che “era possibile per gli agenti porre in essere tali comportamenti poiché si era creato un sistema di connivenza con molti agenti della Polizia Penitenziaria e anche con molti dirigenti”. Quanto accaduto a Piacenza è naturalmente molto diverso, non solo perché riguarda l’Arma dei Carabinieri ma anche perché qui le presunte violenze non sarebbero state volte esclusivamente a esercitare un potere arbitrario e umiliante verso le persone in custodia, bensì anche a commettere reati volti a perseguire profitti personali. I carabinieri sarebbero anche degli ordinari delinquenti che volevano spacciare droga per arricchirsi. A questo fine avrebbero commesso torture e detenzioni illegali (il sequestro di persona dello Stato). Anche qui, aspettiamo che la giustizia faccia il proprio corso. Possiamo notare però come gli organismi internazionali ci spieghino da sempre che la prima fase dell’arresto è la più delicata e a rischio per quanto riguarda possibili abusi. È importante che si guardi con fermezza a quanto accade nelle caserme e nelle stazioni di polizia. Tempo fa un gruppo di avvocati ci disse di aver visto un numero impressionante di persone arrestate arrivare in tribunale per la celebrazione del processo per direttissima con segni di percosse sul volto. Non so che fondamento abbia la notizia e quindi non cito luoghi né tanto meno nomi. Ma, come ha dimostrato il caso di Stefano Cucchi, sarebbe importante controllare la fase iniziale dell’arresto. Quando Antigone chiese di poter accedere alle celle del tribunale per fare quel lavoro di monitoraggio che da oltre venti anni porta avanti in carcere, ci fu risposto che non se ne vedeva il motivo. I fatti di Torino e Piacenza ci dimostrano che la legge che nel 2017 ha finalmente introdotto il reato di tortura nel codice penale italiano non era inapplicabile, come qualcuno sul momento ha detto. Non è certo la legge migliore che potevamo avere, ma queste imputazioni ci dicono che è uno strumento normativo senz’altro meglio rispetto al vuoto che lo precedeva. Oggi i processi si possono celebrare, senza rischi di facili impunità e prescrizioni. La magistratura sta facendo la propria parte. È importante che la facciano altri. È importante che venga dato il segnale forte che lo Stato non sta con il potere arbitrario ma con la legge che vale per tutti. Anche e in maniera essenziale per chi indossa una divisa e rappresenta ognuno di noi. Un Paese che ha vissuto i fatti di Genova 2001 non può permettersi di non dare oggi questo segnale, se vuole lavorare a sanare la frattura tra tanti cittadini e le forze dell’ordine. Che i vertici dell’Arma si costituiscano come parte civile nel processo per i fatti di Piacenza. E che lo faccia l’Amministrazione Penitenziaria per i fatti di Torino, affinché ogni suo funzionario sappia che la violenza non va solo non promossa ma va bandita con strumenti effettivi e pubblici quali la denuncia. *Coordinatrice associazione Antigone I 13 morti in carcere, dimenticati e considerati “vite minori” di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 25 luglio 2020 Ho firmato l’appello di Diritti Globali perché sia fatta chiarezza sulle 13 morti avvenute all’indomani delle proteste nelle carceri. Ritengo inaccettabile che a più di quattro mesi di distanza da quei tragici fatti, le morti di Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi e Abdellah Rouan, siano ancora avvolte nel mistero e liquidate, come è avvenuto, con espressioni del tipo “l’ipotesi più plausibile è…”, “i decessi sembrano per lo più riconducibili a…”. Parole vaghe e pronunciate senza alcun rispetto delle regole e della trasparenza, tipiche di un regime autoritario e non di uno stato di diritto; in totale disprezzo di quelle stesse vite, quasi fossero vite minori, vite di scarto in contrapposizione a vite più degne. Ho firmato l’appello perché l’ho ritenuto un mio dovere in quanto opero nelle carceri come volontario per costruire percorsi di uscita da una struttura che ritengo essere sbagliata nelle sue fondamenta. Soprattutto l’ho sentito un dovere nei confronti dei tanti detenuti che in oltre dieci anni ho conosciuto personalmente, direttamente e senza filtri. Persone, prima che detenuti, con le quali ho messo in piedi negli Istituti di Chieti e Pescara, e inizialmente anche in quelli di Vasto e Lanciano, una redazione giornalistica, un giornale, una compagnia di teatro, un laboratorio di grafica e di digitalizzazione, una sartoria, un bar e altro ancora, per provare a modificare dall’interno - e quindi da altri punti di vista - la realtà del carcere che fissa e incatena le persone al passato, al cliché del criminale propinato in modo superficiale da certo cinema, certa stampa e tanti format televisivi. Stereotipi e luoghi comuni che sono stati rimessi in circolo proprio in occasione delle rivolte avvenute tra l’8 e il 9 marzo (“erano drogati, volevano scappare, dietro c’è la mafia”) per coprire ancora una volta quello che stava avvenendo nelle carceri: la paura, la mancanza di informazioni, la sofferenza, il disagio sociale, le contraddizioni, anche la protesta di chi non ha voce e non viene ascoltato. Tutto questo per nascondere quello che si fa fatica ad ammettere e riconoscere, ovvero l’anima del carcere, la sua essenza: sebbene sulla carta si parli di risocializzazione (basta pensare alla Riforma O.P. del 75 e alla Legge Gozzini dell’86), nella realtà - specialmente oggi e in questo nostro sistema economico nel quale l’inclusione e il lavoro non sono più possibili per tutti - il carcere è unicamente una struttura che esclude concentrando e ammassando corpi di persone emarginate e che poi abbandona come rifiuti non riciclabili. Come se fossero niente altro che corpi di classe, soggetti preferiti da un penale totale, corpi che devono soffrire (perché altrimenti che pena sarebbe!), e che devono sottostare a codici che ripropongono un sistema in equilibrio grazie a premi e punizioni per la costruzione di un carcerato che “si faccia la galera”, di un agente che controlli e di un sistema che punisca. Un sistema, però, che alle volte scoppia: rivolte, violenze, aggressioni, suicidi e squadrette in azione appunto per punire più che sedare. Gli esempi sono moltissimi. Come la punta di un iceberg ecco dunque che quelle 13 morti ci rivelano aspetti ben più complessi e radicati: non solo la fine del senso di umanità che deve essere garantito a tutti nessuno escluso, non solo il senso (potremmo anche chiamarlo fallimento) della pena del carcere e del diritto penale, ma anche un cambiamento di paradigma: carcere e sistema penale da fabbriche normalizzatrici diventano zone di guerra dove coloro che sono considerati i nemici sono da combattere ed eliminare. Ed è questo infatti, soltanto questo, il significato di quei tanti e ripetuti “devono marcire in galera”. È questo il vero significato dei continui attacchi contro le sentenze ritenute-percepite troppo miti o contro le scarcerazioni delle persone malate o a rischio per il coronavirus. Vendetta e non umanità della pena. Ed è ancora questo, ad esempio, lo stravolgimento dell’articolo 30 dell’O.P. del ‘75 in base al quale in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati poteva essere concesso dal magistrato di sorveglianza “il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo”. Un provvedimento per permettere a tutti i detenuti di accompagnare i propri familiari in punto di morte, o di condividere il dolore con i parenti nell’ipotesi di decesso di un familiare. Ma erano altri tempi. Oggi invece i tempi sono altri, nessun posto per Antigone. Oggi, prima di concederlo, il magistrato di sorveglianza non deve acquisire semplicemente informazioni, ma addirittura deve ricevere il parere delle autorità di pubblica sicurezza - i quali sono il più delle volte negativi -, con il risultato che quell’articolo 30 di fatto è abrogato, come tante altre disposizioni che sono alla base dei diritti. Tutti abrogati perché bisogna difendere la società, abrogati perché chi sbaglia deve pagare e deve quindi marcire in galera, abrogati perché la giustizia è tornata ad essere vendetta, unica vera stabilizzatrice del consenso alimentato da falsi e indotti bisogni sociali di sicurezza. Abrogati come il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione, il diritto all’affettività, eccetera. In definitiva, è per tutto questo che ho firmato l’appello per la verità per quelle 13 persone morte. Ne ho scritto anche nell’ultimo numero della rivista Voci di dentro che ha per titolo “Noi siamo George Floyd”, dove quel noi siamo George Floyd è riferito ai milioni di Floyd del mondo. Ai carcerati abbandonati in celle malsane e senza speranza, ai tanti disuguali del mondo: neri, poveri, precari, migranti. Ai tredici detenuti morti durante le proteste 135 giorni fa, vite di scarto, la cui morte non viene neppure ritenuta degna di rispetto e di verità. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” Reprimete, reprimete... ora il Dap mostra i muscoli di Aldo Torchiaro Il Riformista, 25 luglio 2020 La Circolare “Aggressioni al personale, linee di intervento” getta qualche ombra sugli intendimenti della direzione appena insediata. Dopo la nota parabola di Basentini, due mesi fa il ministro Bonafede ha nominato i nuovi vertici: Dino Petralia è il nuovo capo dipartimento e Roberto Tartaglia il suo vice. Hanno firmato congiuntamente una circolare, la 3689/6139 del 23 luglio scorso, avente per oggetto: “Aggressioni al personale, linee di intervento”. Il documento fa esplicito riferimento alle rivolte nelle carceri scoppiate le prime due settimane di marzo, con la sospensione dei colloqui dei detenuti con le famiglie e il timore della diffusione dei contagi in cella. Una serie di rivolte che interessò tutta Italia e provocò 13 vittime tra i detenuti, il più alto numero di morti dietro le sbarre nella storia repubblicana. “Non possiamo escludere vi sia stata una sottostima di aree di criticità (...) nell’emergere di comportamenti violenti ed antidoverosi”, recita in burocratese il testo. Tradotto: la situazione c’è sfuggita di mano, dobbiamo correre ai ripari. Di comportamenti “antidoverosi” non si leggeva più dagli anni di Scelba e Tambroni, ma è nella natura complessiva del documento che troviamo il vero vulnus: manca l’analisi di quel che è accaduto: delle motivazioni che hanno spinto migliaia di detenuti a forme anche molto diverse tra loro di disobbedienza e di protesta, non esclusivamente violenta. Manca, e i firmatari lo annunciano nell’incipit: “non è questa la sede”. E invece questa l’occasione per fare un richiamo muscolare, una esortazione alla vigilanza attiva: “A fronte di episodi di aggressione indirizzati contro il personale, pronta ed efficace deve essere l’azione della Polizia penitenziaria per la prevenzione di tali tipi di condotte”. Anomalia diacronica: la prevenzione è posta a valle dell’azione repressiva. Non si previene per non reprimere, si reprime a monte, per prevenire. Si incoraggia a dare una “dimostrazione fattiva della capacità reattiva”. Traduca il lettore in italiano corrente. Nero su bianco, troviamo l’inasprimento delle misure repressive e punitive: i responsabili di eventuali nuovi disordini vanno sottoposti a misure disciplinari che vanno fino alla sorveglianza particolare ex art. 14 bis. Rita Bernardini, di Nessuno Tocchi Caino, è allarmata. “Vengono esautorati di fatto i Direttori degli Istituti di pena, già al collasso per una endemica carenza organica. E mentre vengono ignorate del tutto le cause della invivibilità di cui soffre la popolazione carceraria, si punta esclusivamente su una maggior repressione delle proteste, instaurando un clima di tensione che non giova a nessuno”. La Circolare trova anche modo di annunciare una app per la segnalazione di eventi critici che da metà settembre metterà in rete una mappatura in tempo reale degli episodi. Dimentica però del tutto un dettaglio: la maggior parte di aggressioni e violenze sono causate da chi in carcere non dovrebbe entrarci, come i casi psichiatrici e i tossicodipendenti. Difficile rigar dritto sulle storture. Errori giudiziari, ogni anno in Italia vengono arrestati 1.000 innocenti di Michele Magno Il Riformista, 25 luglio 2020 Scritta tra il 1612 e il 1614, “Fuente Ovejuna” è forse la commedia più famosa di Lope de Vega, drammaturgo tra i più prolifici della letteratura spagnola. È ambientata nella seconda metà del Quattrocento in Andalusia, durante la lotta tra la pretendente al trono di Castiglia, Giovanna la Beltraneja, e i sovrani cattolici Isabella e Ferdinando. Fuente Ovejuna è il nome di un borgo che fa parte di una “commenda” (una specie di signoria) dell’ordine militare di Calatrava. Il suo “comendador” (comandante) è un partigiano della Beltraneja, Férnan Gómez. Despota prepotente e crudele, impone lo “ius primae noctis” a tutte le fanciulle del luogo. Quando imprigiona il giovane Frondoso e rapisce la sua promessa sposa Laurenzia, il popolo si ribella e lo decapita. Vinta la guerra di successione, Isabella e Ferdinando inviano un giudice per istruire il processo contro i rivoltosi. Nonostante le torture, quando vengono interrogati tutti rispondono che a uccidere il tiranno è stato Fuente Ovejuna, ossia i suoi trecento abitanti. Il giudice, non potendo scoprire i veri autori dell’omicidio, allora li assolve per insufficienza di prove. Piuttosto che imprigionare degli innocenti, infatti, preferisce lasciare liberi i colpevoli. Per fortuna, quel giudice era un garantista ante litteram, in un’epoca in cui peraltro non si andava tanto per il sottile con i diritti degli imputati. Ma anche oggi nella patria di Cesare Beccaria non si scherza, sebbene - parola di Alfonso Bonafede - “da noi gli innocenti non finiscono mai in carcere”. Qualcuno ricorda? Il ministro della Giustizia fece questa ardita affermazione in un talk show televisivo, il 23 gennaio scorso. Il giorno dopo la corresse con argomenti che non correggevano nulla. Allora proviamo a rinfrescargli la memoria. Quanti sono gli errori giudiziari in Italia? Quante persone ogni anno subiscono un provvedimento di custodia cautelare, salvo poi rivelarsi innocenti? Qual è la spesa dello Stato per risarcirle? Quante di queste persone ottengono un indennizzo? “errorigiudiziari.com”, il sito fondato da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, il 30 giugno ha pubblicato i dati aggiornati al 31 dicembre 2019 sull’ingiusta detenzione e sugli errori giudiziari nel nostro paese. Ecco i più significativi. Se sommiamo tra loro i casi di ingiusta detenzione con quelli dovuti a un errore giudiziario in senso stretto, nell’ultimo ventennio i casi totali sono stati 28.893. Sono costati una cifra enorme, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: circa 824 milioni di euro. Tuttavia, è il numero dei casi di ingiusta detenzione che consente di capire meglio le dimensioni inquietanti del fenomeno. Sono proprio coloro finiti in custodia cautelare da innocenti, infatti, a rappresentare la stragrande maggioranza. Dal 1992, cioè da quando ne esiste la contabilità ufficiale presso il ministero dell’Economia, alla fine del 2019 mediamente oltre mille innocenti sono finiti in custodia cautelare ogni anno, per un importo che supera i 757 milioni di euro in indennizzi. Nel 2019 i casi di ingiusta detenzione sono stati un migliaio, per una spesa complessiva in indennizzi pari a quasi 45 milioni di euro. Rispetto all’anno precedente, sono in deciso aumento sia il numero di casi (più 105) sia la spesa (più 33 per cento). Passando agli errori giudiziari veri e propri, dal 1991 al 2019 sono stati 191, per una spesa in risarcimenti di circa 66 milioni di euro. Nell’anno passato sono stati venti, confermando un trend in ascesa nell’ultimo quadriennio. L’unica parziale buona notizia, se non altro per le casse dell’erario, riguarda la spesa in risarcimenti: nel 2019 è stata di quasi quattro milioni di euro, un quarto di quanto è stato versato alle vittime nel 2018. Va però precisato che qui i criteri di definizione dei risarcimenti sono molto più discrezionali e variabili rispetto a quelli fissati dalla legge per l’ingiusta detenzione. Questi dati occupano raramente il posto che meritano sulla grande stampa. Tanto più su quei giornali i cui direttori usano la penna come una clava. La loro furia iconoclasta talvolta non conosce limiti. Poiché considerano i princìpi dello Stato di diritto un optional, basta l’annuncio dell’apertura di un’inchiesta, un rinvio a giudizio, la richiesta di arresto per un esponente della “casta” (ormai, quasi un’entità metafisica), e subito scatta il “Tutti in galera!” urlato da Catenacci. Forse i meno giovani se lo ricordano: era lo straordinario personaggio interpretato da un esilarante Giorgio Bracardi in “Alto gradimento”, la leggendaria trasmissione radiofonica degli anni Settanta nata dall’estro di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. A chi gli obiettava che occorrevano le prove, Catenacci rispondeva canzonandolo: “Ma chettefrega?”. Una battuta profetica, che nel tempo presente purtroppo rappresenta l’idem sentire di una parte non trascurabile dell’opinione pubblica, addomesticata dai manipolatori della verità che popolano il mondo della comunicazione. #Ricuciamo, arriva il riconoscimento di Amnesty International Italia di Antonella Barone gnewsonline.it, 25 luglio 2020 Tutti i giorni, dal 10 aprile al 29 maggio, gli attivisti della Task Force Osservatori di Amnesty International hanno consultato testate giornalistiche, portali d’informazione e canali di comunicazione di enti pubblici e hanno ascoltato associazioni e testimonianze per valutare l’impatto diretto e indiretto della pandemia sui diritti e le libertà degli individui. I risultati del lavoro della task force sono stati inclusi nel rapporto di Amnesty “Fase 1 - L’attuazione delle misure di lockdown in Italia durante la pandemia, tra discriminazioni e buone prassi” pubblicato oggi in occasione in della consegna delle firme dell’appello #Nessunoescluso al presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, con cui i firmatari chiedono al capo del governo di garantire a ogni persona “il pieno godimento dei diritti umani durante la pandemia, in applicazione del principio di non discriminazione, senza lasciare indietro nessuno”. Nel rapporto si segnalano sia criticità, sia casi in cui le istituzioni hanno saputo dare una risposta efficace ai cittadini, con particolare attenzione ai bisogni di quelli più vulnerabili. Tra le buone prassi nel rapporto si evidenzia la creazione del Polo Industriale per la produzione di mascherine nelle carceri italiane coinvolte nel progetto #Ricuciamo. Nata dall’intesa tra Domenico Arcuri, Commissario straordinario di governo per l’emergenza Covid-19, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, l’iniziativa è stata avviata il 26 maggio e ha creato dei poli produttivi industriali all’interno degli istituti penitenziari di Rebibbia, Salerno e Bollate con circa 320 detenuti occupati. Nel documento di Amnesty International si citano altre iniziative promosse in carcere durante la pandemia, come le raccolte fondi attivate in diversi istituti penitenziari e il numero verde Oltre il carcere, a disposizione delle famiglie dei detenuti, attivato a Roma (e da pochi giorni anche in Abruzzo) dall’associazione “Isola Solidale”. “Le istituzioni devono trasformare questa esperienza in un’opportunità di cambiamento - ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia - trovando soluzioni a quei problemi che la pandemia ci ha costretto a guardare in faccia e prendendo a modello quanto di positivo è stato costruito”. I dirigenti di via Arenula: “Via i magistrati dal ministero” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 luglio 2020 La “lettera aperta” dell’Adg al presidente del Consiglio. Fuori i magistrati dal Ministero della giustizia. È l’appello lanciato questa settimana dall’Associazione dirigenti giustizia (Adg). La “lettera aperta”, inviata anche al presidente del Consiglio, ai ministri della Giustizia e della Pubblica amministrazione, alle Commissioni giustizia e affari costituzionali di Senato e Camera, è stata firmata da Nicola Stellato, presidente di Adg. I dirigenti del Ministero della giustizia vogliono richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla “anomalia istituzionale” dovuta all’eccessivo numero di magistrati fuori ruolo attualmente presenti a via Arenula. Quando venne riorganizzato agli inizi degli anni duemila il Ministero, ricordano i dirigenti, furono istituite diverse direzione generali con compiti gestionali, come ad esempio quelle per i servizi informatici, il bilancio, il personale. Tali direzioni furono affidate a dirigenti di carriera. Ma anche ai vertici del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) o di quello per l’organizzazione giudiziaria (Dag), ora esclusivo appannaggio delle toghe, vennero destinati dei dirigenti. Nello spazio di un decennio, però, i magistrati hanno scalzato i dirigenti, occupando tutto quello che era occupabile. Anche posizioni dirigenziali di “seconda fascia”. Per evidenziare le criticità dovute al monopolio togato in via Arenula, i dirigenti della giustizia citano numerosi interventi sul punto. Ad iniziare da quello di Sabino Cassese secondo cui “i magistrati sono scelti per giudicare, ma vengono assegnati a compiti amministrativi per cui non sono idonei perché non addestrati”. Altro che separazione dei poteri, insomma. Concetto, pur con varie declinazioni, ripetuto da Giovanni Fiandaca e Valerio Onida, entrambi convinti della necessità di affermare con forza il principio di indipendenza del potere giudiziario dalla politica. Questi incarichi, infatti, vengono dati dal Guardasigilli di turno che potrebbe tranquillamente avvalersi dei dirigenti amministrativi senza dover ricorrere ai pm. La procedura prevede che il ministro faccia richiesta nominativa del magistrato. Il Csm poi autorizza e colloca fuori ruolo. Unico “paletto” la non scopertura nell’ufficio di provenienza del magistrato superiore al 20%. In alcuni casi, come per l’attuale capo di gabinetto Raffaele Piccirillo, il Csm ha dato però una lettura estensiva, dal momento che l’ufficio di provenienza del neo braccio destro di Alfonso Bonafede, la Procura generale della Cassazione, aveva una vacanza organica superiore al limite previsto. Inoltre, proseguono i dirigenti, il “Palamaragate”, la pubblicazione delle chat che l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, sotto indagine a Perugia, intratteneva con centinaia di colleghi ha fatto emergere come “l’attribuzione di incarichi anche al vertice al Ministero della giustizia sia stata strumentalizzata a fini opachi e diversi dagli obiettivi di innovazione e miglioramento dell’efficacia dell’azione amministrativa”. La ciliegina sulla torta è infine il testo di riforma sul rientro in ruolo dei magistrati che hanno svolto incarichi politici. Quello in discussione in Parlamento prevede che i magistrati che abbiano ricoperto, perché candidati o eletti ad un ruolo politico, alla cessazione del mandato, vengano collocati nei ruoli amministrativi della propria o altra amministrazione, conservando il proprio trattamento economico “Un rimedio peggiore del male”, affermano i dirigenti. Si tratterebbe di ingrossare ancora di più e senza alcun limite le fila dei magistrati che non esercitano la giurisdizione. Al momento sono circa 80 i magistrati in servizio a via Arenula. Come detto, tutti gli incarichi di vertici e tutti gli incarichi di diretta collaborazione del ministro. I dirigenti riportano pure i dati sulla percezione di indipendenza dei giudici da parte di cittadini. Dati “disastrosi” visto che il 40 percento ha un parere abbastanza negativo e il 15 percento molto negativo. Urge valorizzare allora questo ruolo professionale: è funzionale all’indipendenza della giurisdizione una dirigenza amministrativa con compiti distinti di quelli dei magistrati. Il primo passo è “riaffidare” almeno le funzioni gestionali ai dirigenti, senza distogliere dalla giurisdizione un numero sempre maggiore di magistrati. Con il futuro ruolo unico della dirigenza amministrativa, conclude infine Stellato, chi vorrà venire al Ministero della giustizia sapendo che non avrà mai la possibilità di fare carriera a causa del tappo togato? L’appello dei penalisti: “Ora separazione delle carriere” di Errico Novi Il Dubbio, 25 luglio 2020 Rafforzare la terzietà del giudice come garanzia per il contraddittorio tra le parti e la legalità del processo, senza indebolire il ruolo del pubblico ministero, che conserva l’autonomia dalla politica, ma limitando lo squilibrio che ha dato ai capi delle procure “un potere incontrollato e incontrollabile”. Sono questi gli obiettivi della proposta di legge popolare sulla separazione delle carriere sulla quale l’Unione delle Camere penali. Rafforzare la terzietà del giudice come garanzia per il contraddittorio tra le parti e la legalità del processo, senza indebolire il ruolo del pubblico ministero, che conserva l’autonomia dalla politica, ma limitando lo squilibrio che ha dato ai capi delle procure “un potere incontrollato e incontrollabile”. Sono questi gli obiettivi della proposta di legge popolare sulla separazione delle carriere sulla quale l’Unione delle Camere penali sollecita l’attenzione dei deputati, con una lettera inviata in vista dell’avvio della discussione generale alla Camera prevista per lunedì prossimo, a firma di Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Ucpi, e di Beniamino Migliucci, presidente del Comitato promotore per la separazione delle carriere dei magistrati. “Siamo certi che il dibattito parlamentare che finalmente si celebrerà sul tema, grazie alla iniziativa popolare promossa dalle Camere Penali Italiane, saprà onorare l’importanza della questione, memore del fatto che oltre settantamila persone abbiano sottoscritto la nostra proposta e che nel 2000 oltre 9 milioni di cittadini ebbero a votare sì al referendum proposto dai radicali per la separazione delle carriere”, scrivono i penalisti. La terzietà del giudice, si spiega nella lettera ai deputati, “mira, dunque, a garantire l’effettiva attuazione del principio del contraddittorio, della parità delle parti e ad assicurare l’imparzialità della decisione, perché, a logica e senza la necessità di grandi approfondimenti, si comprende che qualora il Giudice non sia strutturalmente distinto rispetto a chi accusa e a chi difende, difficilmente potrà essere e apparire garante della legalità del processo, e la sua decisione perderà di autorevolezza”. E “non può essere ignorato - ammoniscono i penalisti - il tema dei rapporti tra controllore (il giudice) e controllato (il pubblico ministero). Per rendere effettivo, proficuo e credibile il controllo, giudicante e inquirente non devono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo che, tra l’altro, decide promiscuamente anche degli avanzamenti in carriera di giudici e pubblici ministeri, condizionando altresì le reciproche aspettative rappresentative”. Il potenziamento del ruolo del Giudicante, d’altro canto - assicurano le Camere penali - non indebolirebbe ruolo e funzione del Pubblico Ministero, che nella proposta in esame conserva chiaramente la propria autonomia e indipendenza dal potere politico. Rafforzando la figura del giudice -più che mai nella fase delle indagini preliminari - si limiterebbe lo squilibrio che ha conferito ai capi delle Procure un potere incontrollato e incontrollabile: un giudice effettivamente terzo e percepito come tale dalla comunità conferirebbe autorevolezza alle decisioni e riaffermerebbe il principio della presunzione di innocenza attribuendo finalmente valore preminente alle sentenze rispetto alle indagini.” Contrariamente a quanto si ritiene, molti Magistrati convengono sulla necessità di pervenire alla riforma ordinamentale contemplata nella proposta di legge in esame alla Camera”, si sottolinea nella lettera, nella quale i penalisti ricordano che”settantamila persone hanno sottoscritto la nostra proposta per avere un Giudice terzo che sia e appaia tale, garante dei diritti e delle libertà di tutti, e che non confonda mai il processo penale con uno strumento di lotta a questo o quel fenomeno criminale”e che”quasi la totalità dei Paesi che hanno adottato il sistema accusatorio ha attuato la separazione delle carriere e ciò vale per Germania, Svezia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Giappone”. “D’altronde, il valore liberale di questa riforma - concludono i penalisti - con è confermato, se ancora ve ne fosse bisogno, dalle ragioni per le quali il Regime Fascista sostenne con forza, nella Relazione alla Legge sull’Ordinamento Giudiziario firmata da Dino Grandi, l’unitarietà delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti”. No al Foro che giudica le toghe: la riforma del Csm ha il suo tabù di Errico Novi Il Dubbio, 25 luglio 2020 Non si può dire che le ipotesi di riforma del Csm siano tenere con le toghe. Proprio no. Si va dalla configurazione dell’illecito “Palamara” - modellato cioè proprio sulla contestazione di “interferenza indebita” mossa all’ex capo Anm nel processo disciplinare - fino al divieto di costituire gruppi consiliari in plenum, dove oggi le delegazioni riconducibili alle correnti esistono eccome, con tanto di capigruppo. Ma allora viene da chiedersi perché sussista un così insuperabile timore nel dare adeguato peso al ruolo dell’avvocatura, non solo all’interno della componente laica ma anche nei Consigli giudiziari, i cosiddetti “mini Csm” istituiti in tutti i distretti. Remore relative anche all’ipotesi di aprire al Foro gli incarichi nell’ufficio Studi e documentazione. Una timidezza irriducibile, che ha condotto la maggioranza giallorossa a scelte di compromesso. Come se la presenza dell’avvocatura quale controparte tecnica della magistratura inducesse cupi retro-pensieri. Andiamo con ordine. E partiamo dai Consigli giudiziari. Un anno fa, quando era ancora in vita l’alleanza M5S - Lega, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede presentò un testo molto ampio, in cui le modifiche relative al Csm erano integrate in un’unica legge delega comprensiva anche della riforma penale. Già in quella bozza compare una norma, allora codificata all’articolo 27, che rimedia a un aspetto assai antipatico nel funzionamento dei Consigli giudiziari: in tutti i casi in cui si deve discutere e deliberare un parere, da inviare al Csm, relativo alla valutazione di professionalità su un magistrato, i “componenti avvocati e professori universitari” sono costretti a lasciare la seduta. Come se fossero spie. Il guardasigilli ritenne già allora che al Foro e all’Accademia andasse quanto meno riconosciuta la “facoltà di assistere” a quelle discussioni. Poi nell’autunno scorso, dal Pd e da Italia viva erano arrivate sollecitazioni affinché si sancisse un riconoscimento più pieno per il rappresentante dell’Ordine forense distrettuale, ossia il diritto non solo di assistere ma anche di votare. Il 16 ottobre l’Anm produsse però un documento che stroncava l’ipotesi. Che nei mesi successivi è gradualmente stata ridimensionata. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis e il responsabile Giustizia del Pd Walter Verini hanno così ritenuto di sollecitare almeno una riformulazione di quella riforma dei Consigli giudiziari che era stata prospettata dall’ex guardasigilli Andrea Orlando con il Cnf, in particolare con il presidente Andrea Mascherin: ed è così che, nell’attuale testo sul Csm, si è arrivati a prevedere almeno l’obbligo, per Palazzo dei Marescialli, di acquisire il parere dell’avvocato che presiede l’Ordine nel distretto in cui è in servizio il magistrato candidato a un incarico direttivo. È un ulteriore passo avanti, che si aggiunge al diritto di tribuna nei Consigli giudiziari, ma non è la stessa cosa. Ci sarebbe un capitolo a parte sui componenti laici del Csm: Forza Italia, con Enrico Costa, ha proposto a Bonafede di affidarne l’elezione direttamente al Cnf e alla Conferenza dei rettori. Idea che richiede ovviamente una modifica all’articolo 104 della Costituzione. Bonafede l’ha accantonata proprio per l’iter troppo oneroso. Ma ora un confronto impegnativo rischia di aprirsi a proposito dei “magistrati segretari” e delle toghe in servizio nell’ufficio Studi e documentazione di Palazzo dei Martescialli. Al Dubbio, il sottosegretario Giorgis ha spiegato di tenere molto alla modifica del “sistema di reclutamento: oggi”, ha ricordato, quelle funzioni sono affidate appunto a “magistrati scelti per cooptazione. Sarebbe invece più opportuno selezionarli per concorso un po’ come avviene per i consiglieri parlamentari, o comunque”, ha spiegato, “attraverso modalità capaci di garantire una loro maggiore autonomia, e di coinvolgere tutte le migliori espressioni del mondo giuridico”. È un punto sul quale la linea nella maggioranza non è univoca. E che certamente animerà la discussione in Parlamento. Certo è che chi è in servizio al Csm con ruoli tecnici spesso assume un peso molto rilevante rispetto alle decisioni dei consiglieri: si occupa del fascicolo sulla base del quale prima la quinta commissione e poi il plenum decidono, in particolare, l’assegnazione degli incarichi dirigenziali. Siamo al cuore delle cosiddette degenerazioni, al motivo stesso che, a partire dal caso Procure dell’anno scorso, spinge ora il governo alla riforma. Ebbene, anche qui le resistenze nella maggioranza sull’apertura agli avvocati auspicata da Giorgis sono particolarmente difficili da scalfire. C’è un ultimo capitolo. Riguarda la sezione disciplinare. L’Unione Camere penali, nella lettera inviata ieri a tutti i deputati (firmata dal presidente Gian Domenico Caiazza e dal presidente del Comitato promotore dell’iniziativa sulla separazione delle carriere, Beniamino Migliucci) riserva un passaggio assai significativo alla valutazione degli illeciti e della professionalità: “Né può essere ignorato il tema dei rapporti tra “controllore” (il Giudice) e “controllato” (il Pubblico Ministero). Per rendere effettivo, proficuo e credibile il controllo, giudicante ed inquirente non devono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo che, tra l’altro, decide promiscuamente anche degli avanzamenti in carriera di Giudici e Pubblici Ministeri, condizionando altresì le reciproche aspettative rappresentative”. Argomento portato, dai penalisti, a sostegno della riforma che separa le carriere e istituisce due Csm. Ora, il paradosso ricordato dall’Ucpi rischia di essere ingigantito nella sua rilevanza da un aspetto piuttosto sottovalutato della b riforma sul Csm, in arrivo martedì in Consiglio dei ministri: l’elezione dei componenti togati prevede l’eliminazione dei posti riservati a requirenti e giudicanti: in futuro i consiglieri superiori potrebbero anche essere solo pubblici ministeri. A valutare i magistrati giudicanti, sia in termini di carriera che di condotta disciplinare, si troverebbero cioè solo, o prevalentemente, gli inquirenti. Si è disposti a correre un simile, pur teorico rischio piuttosto che consentire agli avvocati di giudicare i magistrati. Una remora che l’esame in Parlamento rischia di mostrare in tutto il suo carattere paradossale. La giustizia lenta amplifica il divario tra il Nord e il Sud dell’Italia di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 25 luglio 2020 Meno investimenti dall’estero, meno posti di lavoro, divario economico-sociale più profondo tra il Nord e il Sud del Paese. No, non sono gli effetti della crisi scatenata dalla pandemia da Coronavirus. Si tratta delle conseguenze di una giustizia civile pachidermica, costosa e inefficiente come quella con la quale non solo i cittadini, ma migliaia di imprese italiane devono fare i conti tutti i giorni. Una simile situazione, ovviamente, incide in maniera ancora più forte sulle aziende del Sud, a cominciare da quelle campane, dove il tessuto economico-produttivo di partenza è indiscutibilmente meno vivace di quello del Nord. E allora ragioniamo sui dati. Le più recenti stime della durata dei processi stilate dal Consiglio d’Europa rivelano che i contenziosi civili, nel nostro Paese, arrivano al terzo grado di giudizio in 8 anni e 1 mese. In Francia si parla di 3 anni e 4 mesi, in Spagna di 2 anni e 8 mesi e in Germania di 2 anni e 2 mesi. Eppure, tra il 2016 e il 2018, la durata dei processi si è ridotta. Il gap tra la giustizia di casa nostra e quella dei nostri vicini, tuttavia, è rimasto enorme. I numeri diffusi dal Ministero della Giustizia sono sostanzialmente in linea con quelli in possesso del Consiglio d’Europa: per giungere a una sentenza civile di primo grado si impiegano, in media, 460 giorni, mentre per Strasburgo la durata del processo civile di primo grado nel nostro Paese tocca 514 giorni. Quali sono le conseguenze per le imprese? Lo rivela uno studio Cer-Eures, secondo il quale la burocrazia e le inefficienze della giustizia civile costano alle imprese 40 miliardi di euro, pari a due punti e mezzo di Pil. Il risvolto più preoccupante, però, è un altro: l’incertezza dei tempi processuali si traduce in meno investimenti dall’estero e nella perdita di circa 130mila posti di lavoro. Un disastro, insomma, soprattutto per il Sud. Qui, infatti, l’inefficienza della giustizia civile è ancora più evidente e si somma alle difficoltà di vario genere con cui le imprese devono storicamente fare i conti. Quindi anche il dedalo di norme e l’incertezza dei tempi processuali contribuisce ad aumentare il divario tra le diverse aree del Paese. Al Sud un procedimento civile dura in media 17 mesi, più del doppio rispetto al Nord, dove in media ne occorrono otto. Quanto ai tribunali, il più rapido è quello di Ferrara, in Emilia Romagna, con 147 giorni, e il più lento è Vallo della Lucania, in Campania, con 1.231 giorni. Il divario è ancora più evidente se si analizza la durata dei singoli procedimenti. Nelle cause in materia di assistenza sociale, a Vallo della Lucania, un procedimento dura 13 anni; 91 giorni a Rovereto, invece, e 110 giorni a Siena. A Vibo Valentia una causa di lavoro privato richiede quasi 12 anni, mentre a Bolzano solo 112 giorni e a Milano 187 giorni. Che cosa vuol dire? Che lo sviluppo economico del Paese nel suo complesso non può prescindere da interventi che rendano la giustizia civile più rapida, efficace ed efficiente. E che il divario tra Nord e Sud può essere ridotto a patto che le performance di tutti gli uffici giudiziari nazionali si allineino agli standard europei. La certezza dell’impunità, il salto di qualità della banda di Piacenza di Massimo Carlotto Il Manifesto, 25 luglio 2020 Alla Levante non solo si sono pericolosamente intrecciati e stratificati interessi di vario tipo ma l’impunità, che qualcuno forse aveva garantito, ha determinato nuove forme di comportamenti illegali. Una sorta di salto di qualità che finora non avevamo conosciuto. In questi giorni la vicenda della caserma Levante di Piacenza viene continuamente paragonata a romanzi o a serie televisive. L’aggettivo che si spreca a sproposito è “incredibile” quando il fenomeno delle bande all’interno delle forze dell’ordine è endemico a livello internazionale e viene raccontato da almeno una ventina di anni. Anche in Italia, paese privo ormai di memoria, sono stati già inquisiti e puniti episodi altrettanto gravi che non hanno riguardato solo l’Arma dei carabinieri. Si tratta di storie che ovunque si basano sempre sugli stessi elementi: un gruppo di agenti, guidati da un capo carismatico, si distingue per i risultati alla lotta al traffico di stupefacenti e i diretti superiori, ossessionati dalla carriera, non si pongono il problema dei metodi con cui vengono ottenuti. Ma una banda si comporta come tale e violenza, ricatto e corruzione sono gli strumenti fondamentali per arrivare a effettuare la giusta quantità di arresti e confische da esibire nelle conferenze stampa. E data la quantità impressionante di denaro che circola negli ambienti dello spaccio, agli agenti che rischiano la vita ogni santo giorno sembra giusto intascarne una parte, magari come fondo pensione. Alla fine però arriva sempre il personaggio incorruttibile che ristabilisce la legalità ed espelle le mele marce dal corpo, giusto per ribadire che il crimine non paga e che lo Stato di diritto trionfa sempre. Quanto accaduto alla Levante sta già stuzzicando l’interesse di romanzieri e sceneggiatori sempre a caccia di intrecci tra realtà e finzione, ma al momento la vicenda presenta buchi narrativi che anche la più sfrenata delle fantasie avrebbe difficoltà a colmare. Piacenza non è una metropoli ma una bella e civile città di provincia dove lo spaccio è sempre stato circoscritto e controllato dalle forze dell’ordine. La prima stranezza riguarda gli informatori della Questura e della Guardia di Finanza che non hanno mai riferito nulla su questa banda di carabinieri che agiva alla luce del sole da oltre tre anni. Eppure l’obiettivo dichiarato era quello del controllo del mercato locale, perseguito tra torture, vessazioni di ogni tipo, arresti pilotati e appoggiando alcuni spacciatori italiani con cui si facevano fotografare sventolando banconote. E qui la faccenda diventa ancora più inquietante perché non si capisce quali interessi criminali rappresentassero questi signori. A questo punto l’ombra di una “benedizione”, diretta o mediata, delle cosche ammorba l’intera vicenda perché è evidente che, nella geografia del traffico di stupefacenti, questa gestione della piazza piacentina a qualcuno di “grosso” doveva far comodo, altrimenti i carabinieri della Levante sarebbero stati neutralizzati ben prima. Le ‘ndrine, ben radicate nel territorio, non avrebbero mai rinunciato ai propri guadagni. Invece nel 2018, anche sulla base di arresti fasulli, la caserma riceve un encomio solenne. Difficile da digerire oggi, alla luce delle torture e dei festini a base di escort che si consumavano all’interno. Per decenza è stata abbandonata la linea del “nessuno sapeva” in nome di “chiacchiere che circolavano da tempo”, ma la vera domanda è perché si è permesso che la banda agisse per un tempo così lungo. Domanda che non riguarda solo l’Arma, ovviamente. Fino a questo momento però è una storia già raccontata, letta e vista sia nella realtà che nella finzione. Anche i personaggi ricalcano cliché: l’appuntato leader del gruppo, la sua fidanzata, i gregari, lo spirito di corpo deviato. La villa con piscina, lo champagne, l’ostentazione sfacciata di un tenore di vita incompatibile con lo stipendio di un servitore dello Stato. La pratica disinvolta della violenza. La vera novità di questa storia è la meno presente nella narrazione mediatica e cioè che la banda trattava delinquenti e onesti allo stesso modo. L’episodio del concessionario costretto a vendere al capo una macchina di lusso a basso prezzo perché picchiato a sangue e minacciato con le pistole deve far riflettere. Perfino lo spacciatore che accompagna l’appuntato si stupisce e in un’intercettazione afferma che sembrava una scena di Gomorra. Durante il lockdown mentre Piacenza lottava contro il virus e contava le vittime, la banda accompagnava gli spacciatori a rifornirsi a Milano e organizzava feste. Una vicina chiama il centralino dell’Arma per protestare e non solo non viene ascoltata ma segnalata al padrone di casa. Alla Levante non solo si sono pericolosamente intrecciati e stratificati interessi di vario tipo ma l’impunità, che qualcuno forse aveva garantito, ha determinato nuove forme di comportamenti illegali. Una sorta di salto di qualità che finora non avevamo conosciuto. Poche regole di libertà contro l’ordine senza disciplina di Marco Perduca Il Manifesto, 25 luglio 2020 “Pensano solo a fare tanti arresti”, questa una delle spiegazioni che il carabiniere della Caserma Levante di Piacenza non coinvolto dava al padre dell’inusuale modus operandi dei colleghi. Non conta il perché del fermo, l’importante è la quantità. E niente offre più pretesti per fermare qualcuno che la cosiddetta “lotta alla droga”, meglio se “leggera”, e ancora meglio se questo qualcuno non è italiano: più facilmente intimidibile, più facilmente ricattabile e quindi più facilmente piegabile a disegni criminosi. Quando le forze dell’ordine sono sospettate di violazioni di legge subito s’alza la difesa nazional-popolare del “si tratta di poche mele marce”. Purtroppo l’Italia non è immune da efferate brutalità da parte dei tutori della legge. Salvo casi straordinari ed eclatanti, come al G8 di Genova del 2001, nella stragrande maggioranza dei casi violenze e prepotenze sono giustificate dalla lotta allo spaccio, ancor più che quella al narcotraffico internazionale. Mentre non si ha notizia di boss mafiosi deceduti in caserma, atti di forza e violenze estreme contro individui deboli, spesso estranei ai gravi delitti loro contestati, ce ne son state fin troppe per un paese che si riempie la bocca di “legalità” a ogni piè sospinto. Il proibizionismo crea crimine, criminali e, col passare del tempo, ha corrotto chi lo deve imporre con la forza. Se questi carabinieri in poco tempo sono riusciti ad accumulare ingenti ricchezze personali, potere di ricatto, anche nei confronti dei propri superiori, e controllo del territorio manu militari è stato perché da 30 anni si continuano a investire risorse umane e finanziarie - e propagandistiche - nella cosiddetta “lotta alla droga”. Poteri che a Piacenza nei mesi del lockdown sono diventati molto più che “pieni”. Prepotenze, minacce e violenze - addirittura torture! - che segnalano un preoccupante tasso di corruzione, falsi ideologici, estorsioni, connivenze e omertà che hanno portato la Procura di Piacenza ad affidare alla Guardia di Finanza l’indagine “Odysseus” perché i magistrati non si fidavano dell’Arma. Se dovessimo star dietro all’indignazione istituzionale, questa sfiducia, unita al fatto che l’intera caserma è stata messa sotto sequestro, basterebbero a pretendere una commissione d’inchiesta parlamentare sulla qualità dell’operato delle forze dell’ordine. Per il momento neanche un tweet. Il Libro Bianco sulle Droghe, pubblicato a giugno da decine di associazioni della società civile, denuncia come dal 1990 oltre 1,2 milioni di persone siano state segnalate ai Prefetti, ancor di più quelle fermate e centinaia di migliaia son stati gli arresti che hanno riempito all’inverosimile le patrie galere in virtù di una “lotta alla droga” che non ha diminuito d’un grammo la presenza delle sostanze proibite in Italia o nel mondo. Di fronte a questo “scandalo” senza precedenti il Viminale tace. Solo qualche mese fa la Ministra Lamorgese, in linea coi suoi predecessori, prometteva il pugno duro contro il piccolo spaccio perché rende insicure le città e travia i giovani. Nuove opportunità per colpire duramente i “pesci piccoli”. Le mele marce, anzi putride, di Piacenza sono il prodotto di leggi che per tutelare l’ordine e la salute pubblica hanno affidato al diritto penale la gestione di comportamenti individuali che nella stragrande maggioranza dei casi non provocano vittime. Con poche e chiare regole di libertà, non solo si eviterebbe l’entrata nel circuito penale di centinaia di migliaia di persone ma si toglierebbe un potere incontrollato a chi impone l’ordine senza disciplina. Complicità e viltà dietro le violenze di Piacenza e Torino di Peppino Ortoleva Il Secolo XIX, 25 luglio 2020 Due vicende sono arrivate simultaneamente al centro delle cronache, quella del gruppo di carabinieri di Piacenza che (se le accuse saranno provate vere) oltre a intascare grosse cifre si sarebbero permessi violenze sistematiche e sadiche, quella delle guardie carcerarie di Torino e del loro comandante accusati anch’essi di pestaggi tanto più odiosi perché avevano come vittime persone particolarmente deboli. Al di là della giusta deprecazione, e della speranza che reati così gravi siano puniti come meritano, queste due storie devono farci riflettere, perché è necessario non solo evitare che fatti del genere si ripetano, ma anche riconoscere e combattere le patologie più “ordinarie” e trascurate da cui nascono, i cui effetti non sempre sono così visibili ma possono essere comunque dannosissimi. Dopo che nei primi giorni ci si è concentrati soprattutto sul comportamento di alcuni carabinieri e guardie carcerarie, ora giustamente l’attenzione si sta spostando anche sui loro comandanti, su come sia stato possibile che “non si siano accorti di niente”. La risposta è semplice, non era possibile, anche il più sciocco o il più negligente dei capi (e sarebbero comunque molto gravi entrambe, la stupidità e la negligenza) non poteva non rendersi conto che qualcosa di abnorme accadeva nei reparti sottoposti alla sua direzione: per le denunce che come ora sappiamo arrivavano, per il fatto stesso che quei carabinieri ladri e picchiatori o quelle guardie carcerarie violente non facevano molto per nascondere il loro comportamento, al contrario spesso se ne vantavano esplicitamente. Ci sono stati casi di complicità diretta, di comandanti che a quanto sembra non solo autorizzavano ma incitavano i comportamenti criminali. In altri casi si sono stabilite forme di “scambio”, del tipo io chiudo un occhio ma voi fate più arresti. Questo, se sarà provato, è particolarmente odioso e anche pericoloso, perché un atteggiamento che valorizza e favorisce la pura e semplice quantità dei risultati finisce inevitabilmente con il colpire degli innocenti, o comunque persone contro le quali vi sono solo prove incerte. Dovrebbe essere ovvio dirlo, ma l’investigatore migliore non è quello che fa più arresti, è quello che fa gli arresti motivati. E poi ci sono anche comandanti, forse la maggioranza, che si sono astenuti dall’intervenire “semplicemente” per non sollevare problemi che potevano avere conseguenze negative sulla loro carriera, o che sarebbero stati difficili da gestire. C’è una forma di vigliaccheria di chi comanda, che consiste nell’evitare le proprie responsabilità e nel continuare a rimandare, sperando che i guai spariscano prima di emergere pubblicamente. È una viltà tipica di una mentalità burocratica, e molte organizzazioni tendono non a combatterla ma a premiarla. Su questo, i vertici dei carabinieri, delle guardie carcerarie e delle altre “forze dell’ordine” dovrebbero interrogarsi molto seriamente, come sembra voler fare (speriamo) il ministro dell’Interno. Ma aldilà delle colpe dei comandanti, c’è un’altra domanda da porsi: che cosa spinge delle persone ad approfittare del potere (apparentemente piccolo) di cui dispongono per dare sfogo a un simile misto di avidità e malvagità? È possibile, certo, che qualcuno dei carabinieri di Piacenza o delle guardie carcerarie di Torino sia patologicamente sadico, e se così fosse ci dobbiamo chiedere: tra tutti gli strumenti che questi corpi usano per selezionare e controllare il loro personale non ce ne sono che aiutino a scartare gente del genere dal reclutamento nelle forze dell’ordine? Ma per spiegare quello che è successo, comunque, non bastano le eventuali patologie dei singoli: erano interi gruppi a picchiare, a spartirsi soldi e droga, a vantarsi. Riflettendo oltre un secolo fa sulle folle che partecipavano ai linciaggi, lo scrittore Mark Twain diceva che pochi prendevano l’iniziativa, ma tanti erano spinti da “quella debolezza che è di tutte la più diffusa, l’avversione a farsi notare, criticare, indicare a dito, il desiderio di non essere messi ai margini”. È un’analisi ancora attuale, che indica un’altra forma di viltà: quella di chi non vuole essere escluso dal gruppo e si comporta come i più sadici per ottenerne l’approvazione, magari per condividerne il “piacere”. C’è poi un altro aspetto. Sedici anni fa ad Abu Ghraib, in Iraq, un gruppo di soldati americani si rese orrendamente celebre per le fotografie da loro stessi scattate in cui esibivano le torture sui prigionieri. C’era qualcosa di dichiaratamente pornografico in quelle immagini, nelle quali uomini nudi venivano assaliti da cani o obbligati a comportamenti contrari alla loro religione. Erano fotografie create per essere messe in circolazione, nella logica voyeuristica della comunicazione in rete. Nelle recenti vicende italiane possiamo vedere all’opera un’altra forma di esibizionismo, fatta non di immagini ma di vanterie al telefono. Ad alcuni di questi carabinieri e guardie carcerarie non basta l’impunità, non basta nascondersi nel branco: sentono di dovere ostentare il loro potere, di dovere entrare nei particolari, proprio come fa la pornografia. Così, le perversioni sadiche e l’esibizionismo si intrecciano e si sostengono tra loro. E magari si sentono autorizzati e incoraggiati da una retorica “contro il buonismo” che ha avuto in questi anni troppi appoggi anche politici. Ma non è “buonismo” rispettare i prigionieri, anche quelli accusati di gravi reati. È una colpa non rispettarli. Se qualcuno si sente “più uomo” facendo male a chi è debole dovremmo tutti ricordarci che non c’è peggior codardo di chi approfitta così del proprio potere e della propria impunità. I carabinieri corrotti e la risposta di Piacenza di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 25 luglio 2020 Piacenza è attraversata da uno tsunami che mina la credibilità dell’istituzione per antonomasia. Le accuse della Procura ricordano quelle per camorristi e ‘ndranghetisti. Sarebbe più facile dire che non erano carabinieri. Erano i Casamonica. Dei boss travestiti, finiti per sbaglio in caserma. “Vorrei perdonarmi per non avere avuto il coraggio di denunciare”, scrive una volontaria del carcere: aveva scelto di proteggere un immigrato preso a botte dagli energumeni in divisa e non voleva complicargli la vita. Che brutta storia. Quasi un romanzo criminale, che copre di vergogna chi si porta addosso la responsabilità e l’impegno di essere servitore dello Stato. La pagina delle lettere del quotidiano Libertà riflette da ieri lo smarrimento di Piacenza. “Non ce lo meritavamo”, dice un anonimo lettore. “La città non è questo”, si indigna un altro. “Siamo scossi da un abisso illegale”, commenta il direttore Pietro Visconti. Piacenza è attraversata da uno tsunami che mina la credibilità dell’istituzione per antonomasia. Sei carabinieri sono in manette. Altri quattro li hanno denunciati. Una caserma è sotto sequestro. Un comandante è stato trasferito. Le accuse della Procura ricordano quelle che si fanno a camorristi e ‘ndranghetisti: traffico di droga, torture, lesioni aggravate, abuso d’ufficio, peculato. Le intercettazioni lasciano un senso di sgomento. I carabinieri arrestati ostentavano banconote, Suv, fuoriserie, grandi moto, donne e champagne. Spacciavano, picchiavano, lucravano sui sequestri di cocaina e hashish, frequentavano bar e ristoranti, esibivano divise e potere. Certe immagini sbiadiscono in una realtà che confonde le carte, trasforma i buoni in cattivi, offre racconti buoni per le fiction. “Ma i superiori dov’erano?”, domandano i cittadini al giornale che da più di un secolo tutela la dignità e l’onore di una terra che non si riconosce in un revival di Gomorra. “Erano disposti a chiudere un occhio sulle irregolarità”, c’è scritto nel verbale del gip, Luca Milani. Scricchiola l’intera catena di comando davanti alla sfrontatezza di un appuntato che viveva come un milionario, villa con piscina, 24 conti corrente, e dei suoi colleghi che si atteggiavano a gang. Perché nessuno ha opposto qualche alt all’abuso di potere dei bulli palestrati con la divisa? Erano competitivi, è stato detto. Gareggiavano con gli altri comandi della provincia a chi arrestava di più. Avevano, insomma, una buona produttività. La caserma come azienda: una degenerazione che passa anche attraverso la spettacolarizzazione degli arresti troppe volte esibita in tv, alla quale gli imputati della caserma Levante hanno aggiunto la loro delirante autoesaltazione e il senso di impunità. “Faccio fatica a definire questi soggetti come carabinieri”, ha detto un magistrato. “Il marcio della caserma non è il marcio di una città”, scrive un sindacalista. Ma c’è una mutazione antropologica del nostro vivere che contagia anche chi dovrebbe esserne immune: di scivolone in scivolone, di occhi che si chiudono con troppa facilità e di etica che traballa, si finisce alla bancarotta. “Se lo stato viene tradito bisogna essere inflessibili”, ha dichiarato il capo della Procura, Grazia Pradella, manifestando fiducia nella lealtà dell’Arma. E ieri sera il comando generale dei carabinieri ha azzerato la vecchia linea di comando. Piacenza non può essere ridotta a terreno di pratiche ignobili e vergognose, risponde ai lettori Visconti, che non accetta di vedere la sua città assimilata a un territorio fuorilegge. “Piacenza vuole liberarsi in fretta dalle piaghe del disonore per tornare a raccontare qualcosa di bello a sé stessa e al resto del mondo”. Per fortuna, commenta lo scrittore Gabriele Dadati, “lo Stato esiste”, e l’inchiesta della Procura dimostra che gli anticorpi ci sono. Dall’abisso si deve risalire. Per Piacenza è un’altra sfida, senza nascondere niente, in difesa dell’onestà. “Non c’è un sistema di impunità, ma guai a chiamarle mele marce” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 25 luglio 2020 “La vita dei militari va controllata”. Il procuratore generale De Paolis: un gruppo può infettare l’intera caserma. “Bisogna controllare quello che avviene nelle caserme, ma monitorare anche il tenore di vita dei carabinieri. Verificare quello che postano sui loro profili social. E proteggere chi decide di denunciare”. Il procuratore generale militare Marco De Paolis ha seguito molte inchieste che coinvolgono ufficiali e sottufficiali dell’Arma. Conosce il meccanismo, sa bene quello che accade prima che si arrivi a scoprire casi come quello della stazione Levante di Piacenza. A rileggere le ultime inchieste emerge un sistema di impunità... “Non è un sistema, chi lo dice vuole danneggiare l’istituzione. Ma commette un errore grave chi parla di mele marce”. E allora cos’è? “Sono gruppi di delinquenti che fuori controllo diventano un vero e proprio focolaio capace di infettare l’intera caserma. Per questo dico che bisogna controllare e isolare. L’Arma è un pilastro dello Stato, deve essere protetta”. Come? “Dobbiamo ripartire dalla formazione e dall’etica. I principi fondanti sono la lealtà, l’onestà e la fiducia. Basti pensare che per i militari la codardia è un reato. Al momento la segnalazione di illeciti compiuti da altri militari viene ritenuta contraria all’etica, anche perché si danneggia l’immagine del reparto. Dunque bisogna tutelare chi decide di denunciare”. I funzionari dello Stato hanno già l’obbligo di denuncia... “Però in questi casi temono le ritorsioni. Le procure militari sono piene di anonimi che poi spesso si rivelano fondati. È arrivato il momento di prevedere, almeno per un certo periodo di tempo, il whistle-blowing anche per le forze dell’ordine, garantendo loro la protezione se decidono di denunciare casi di corruzione altri reati. Bisogna tutelare le persone che segnalano le disfunzioni altrimenti le perdiamo”. Lei ha gestito l’inchiesta sullo stupro delle due studentesse americane a Firenze e le violenze compiute nella stazione di Massa Carrara. E poi decine di indagini meno eclatanti, ma ugualmente gravi. Non crede che il filo comune sia proprio lo spirito di corpo che si traduce nel senso di impunità? “Di per sé lo spirito di corpo è un valore. Se lo si abusa può diventare un illecito strumento di impunità, poiché può indurre taluno a non denunciare eventuali illeciti per evitare di danneggiare l’immagine del corpo. E ciò può far nascere la convinzione di non essere “traditi” dai colleghi finendo per costringerli ad un imbarazzante silenzio. E non dimentichiamo che molti carabinieri provengono dalle forze armate. Questo non sempre è positivo perché spesso non ricevono la tradizionale formazione delle forze di polizia, né dal punto di vista investigativo né da quello dell’etica di corpo”. Come si possono rendere efficaci i controlli? “Verificando la vita privata, chiedendo conto a chi conduce una vita al di sopra delle proprie possibilità. Anche a livello apicale deve cambiare la mentalità, ridimensionando il carrierismo fine a sé stesso”. Sta parlando degli encomi legati al numero di arresti effettuati? “Certo, penso anche a quello. L’arresto non vale nulla se non viene convalidato. Cambiare questo modo di calcolare la produttività sarebbe fondamentale. Capisco che bisogna tutelare l’immagine dell’Arma, ma il risultato non si ottiene se non facciamo pulizia all’interno”. Si riferisce ai procedimenti disciplinari? “Penso soprattutto alla mentalità. Attualmente un comandante bravo è quello che non ha problemi. In realtà in questo modo può accadere che li nasconda, che non li faccia emergere. Bisognerebbe far passare il messaggio che il vero comandante è quello che risolve il problema non quello che non lo fa apparire ignorandolo o non denunciandolo”. Dopo il clamore delle indagini si torna rapidamente alla normalità. Non crede che questo faccia aumentare il senso di impunità? “A volte accade, mi sembra che molti non abbiano la percezione di rappresentare lo Stato. Per questo ritengo necessaria una maggior condivisione tra la magistratura ordinaria e quella militare. Una condanna per reati come la violata consegna e l’omesso controllo sui doveri del comandante può demolire una carriera. Da parte dei carabinieri sarebbe necessaria una maggiore riflessione su questi profili”. Crede che i gravissimi fatti della caserma Levante possano convincere i vertici dell’Arma a voltare davvero pagina? “Non farlo sarebbe un errore gravissimo. Un colpo letale per l’istituzione”. Condizioni salute del detenuto devono essere compatibili con le finalità rieducative della pena di Massimiliano Lanzotto La Città di Salerno, 25 luglio 2020 Non può deambulare ed è invalido al 100% secondo l’Asl, ma gli viene respinto il differimento di esecuzione della pena per motivi di salute. Il caso di Antonio Vicinanza, salernitano, condannato per reati legati agli stupefacenti, è arrivato in Cassazione. A chiedere il giudizio sono stati sia la Procura generale di Salerno, guidata dal Pg Leonida Primicerio (in virtù del regolamento dell’ordinamento giudiziario che gli consente di impugnare una decisione “ogni qualvolta ravvisi la violazione o l’erronea applicazione di una norma giuridica”) che il difensore del detenuto, l’avvocato Agostino De Caro. Entrambi i ricorsi contro l’ordinanza di diniego dei giudici del Tribunale di sorveglianza di Salerno sono stati accolti dalla Prima sezione della Cassazione (presidente Mariastefania Di Tommassi), che ha annullato il provvedimento impugnato e rimandato allo stesso tribunale gli atti per una nuova pronuncia. L’arresto e la condanna. Sei anni fa Vicinanza veniva arrestato nell’ambito del blitz antidroga della polizia, “Alice”, che colpisce un’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, che ruota intorno alla figura di Ugo Corsini, con collegamenti importanti nei comuni dei Picentini, dove operano una “cellula” di spacciatori. Vicinanza viene poi condannato nei tre gradi di giudizio. I problemi di salute. I problemi di salute compaiono durante la carcerazione. A settembre dello scorso anno, Vicinanza viene ammesso alla detenzione domiciliare dopo essere stato sottoposto ad un intervento chirurgico. Il detenuto “non è nelle condizioni di svolgere le più comuni azioni quotidiane anche relative alla cura della propria persona”, dice il referto medico. Inoltre, scrivono i medici, “non è in grado di assumere la posizione eretta”. Condizioni assolutamente gravi e non compatibili con il regime carcerario. E dunque gli viene concessa la detenzione domiciliare per essere assistito dai propri familiari. Il beneficio scade il 25 febbraio scorso. Tredici giorni prima, il 12 febbraio, al Tribunale di Sorveglianza di Salerno viene celebrata l’udienza per il differimento. In quella circostanza, i giudici stabiliscono, sulla scorta di elementi in loro possesso, che la compatibilità è possibile, ma “mediante il ricovero in luoghi esterni ovvero presso un istituto penitenziario dotato di Servizio di assistenza intensificato”. Sul punto scattano i ricorsi del pg e del detenuto, accolti anche dallo stesso pg della Cassazione, Felicetta Marinelli, che ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza dei giudici salernitani. Le motivazioni della Cassazione. Per i giudici della Cassazione, il diniego al differimento dell’esecuzione della pena è stato deciso con “motivazione non adeguata”. Perché non si è tenuto conto di relazioni sanitarie, come quella stilata dall’Asl Salerno, che specifica come il condannato non può attendere alle normali attività della vita quotidiana autonomamente, non deambula, non riesce ad assumere la posizione eretta”. Relazione che spiega come i problemi di salute del detenuto sono la conseguenza di un deficit neurologico. Gli Ermellini, inoltre, censurano la decisione del Tribunale territoriale nel punto in cui disponeva il trasferimento in un istituto dotato di assistenza sanitaria continua, senza disporre una perizia a monte che giustificasse tale decisione. Nell’accogliere l’ordinanza impugnata, la Cassazione ha ribadito il principio che “in tema di differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica, ai fini della valutazione sull’incompatibilità tra il regime detentivo e le condizioni di salute del condannato, il giudice deve verificare, non soltanto se le condizioni di salute del condannato, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di un trattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell’età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale”. Il diritto all’informazione è inviolabile anche al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 luglio 2020 La Corte di cassazione accoglie il ricorso presentato da Salvatore Madonia. Non si può negare il diritto all’informazione anche per i reclusi al 41bis senza verificare prima le testate, anche se non rientrano nella lista della circolare del 2017 dove si sono uniformate le regole del regime speciale. È accaduto che il carcere di Sassari ha negato a Salvatore Madonia, recluso al 41bis, di poter leggere i quotidiani Per questo ha fatto reclamo al magistrato di sorveglianza che però l’ha respinto. A quel punto, Madonia, tramite il suo avvocato Valerio Vianello Accorretti, ha fatto ricorso alla Cassazione che l’ha accolto annullando l’ordinanza e rinviando gli atti al magistrato di sorveglianza di Sassari per un nuovo giudizio. Secondo la corte suprema, il provvedimento impugnato è fondato perché si basa su due argomentazioni fondamentali. La prima riguarda il fatto che il magistrato di sorveglianza di Sassari abbia correttamente qualificato come “generico”, ai sensi dell’art. 35 dell’Ordinamento penitenziario, il reclamo proposto da Madonia avverso il diniego opposto dalla Direzione del carcere in ordine alla ricezione gratuita di due quotidiani nazionali. La seconda concerne l’affermazione del Tribunale di sorveglianza secondo cui avverso la relativa decisione non sarebbe previsto alcun “rimedio”; ciò che, in tesi, avrebbe giustificato la decisione di “non luogo a deliberare” avverso il successivo reclamo al Collegio. Tuttavia, sempre secondo la Cassazione, entrambi tali assunti sono errati. Sotto un primo profilo, la Corte Suprema condivide il rilievo difensivo secondo cui il reclamo proposto dal detenuto avrebbe dovuto essere ricondotto nell’ambito dell’art. 35bis dell’ordinamento penitenziario. Ovvero c’è l’obbligo di verificare, a causa del divieto di leggere i giornali, un pregiudizio concreto ed attuale sofferto dal detenuto Madonia, conseguenza di un comportamento dell’Amministrazione penitenziaria lesivo di una sua posizione di diritto soggettivo, che, pur in difetto di un espresso riconoscimento di legge, ben può consistere nella proiezione di un diritto intangibile della persona. In questa prospettiva, secondo la Cassazione, il magistrato di sorveglianza è chiamato, a fronte del reclamo proposto dal detenuto, a procedere alla corretta qualificazione dello strumento giuridico azionato, verificando, preliminarmente, se sia configurabile tale comportamento lesivo nei confronti di Madonia. Una volta qualificato il reclamo come presentato ai sensi dell’art. 35bis Ord. pen., “il magistrato di sorveglianza - scrive la Cassazione - avrebbe dovuto verificare, al fine di scrutinare la fondatezza o meno della doglianza, se i due quotidiani, il Manifesto e Avvenire, ancorché non indicati nell’apposito elenco di cui al modello 72, concernente i quotidiani nazionali acquistabili al cd. sopravvitto in basse all’art. 19 della circolare n. 3676/6126 del 2/10/2017 del Dap, potessero essere agli stessi assimilabili in ragione della loro qualità di quotidiani aventi tiratura nazionale e con una “significativa tradizione editoriale”; nonché, se la Direzione del primo quotidiano avesse realmente previsto un fondo per l’acquisto di abbonamenti da parte di soggetti detenuti e se il responsabile della Direzione vendite del quotidiano Avvenire si fosse reso effettivamente disponibile a riattivare la distribuzione gratuita del quotidiano”. Sì, perché - come detto - il boss Madonia ha chiesto alla direzione del carcere di Sassari di poter sottoscrivere, a titolo gratuito, l’abbonamento del quotidiano il Manifesto e di poter avere una copia gratuita del quotidiano Avvenire. Ora il magistrato di sorveglianza dovrà nuovamente rivalutare il reclamo, motivandolo come ordinato dalla cassazione. Quest’ultima ha comunque evocato le passate sentenze della corte costituzionale, le quali sottolineano che “il diritto a ricevere pubblicazioni della stampa periodica costituisce declinazione del più generale diritto ad essere informati, a sua volta riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero, di cui costituisce una sorta di precondizione, sicché esso trova una diretta copertura costituzionale negli articoli 2 e 21 della Costituzione”. Verona. Progetto dell’esercito per il reinserimento dei detenuti tgverona.it, 25 luglio 2020 Parte il percorso di reinserimento socio-lavorativo intrapreso da detenuti di Montorio, a seguito dell’accordo stipulato il 15 novembre scorso tra il Comando delle Forze Operative Terrestri di Supporto, la Direzione della Casa Circondariale di Verona, il Tribunale di Sorveglianza di Venezia e il Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale. Le opportunità lavorative messe a disposizione dei detenuti della Casa Circondariale di Verona, riguardano lo svolgimento di lavori a titolo volontario e gratuito, nonché altre prestazioni di lavoro di pubblica utilità. Dopo la grave emergenza sanitaria che ha colpito il nostro Paese, si è potuto rendere operativa la convenzione che consente di avviare un percorso di stretta collaborazione tra le Istituzioni coinvolte e i Rappresentanti degli Organismi Statali, definendo nuovi ambiti per ampliare e consolidare le possibilità formative e di crescita dei detenuti. Una convenzione unica nel suo genere che rafforza il già solido legame tra istituzioni e cittadini e accresce l’impegno dell’Esercito in simili iniziative benefiche di altissimo spessore sociale, offrendo la possibilità a chi ha sbagliato di riscattarsi nella vita e nella società attraverso il lavoro. Milano. I detenuti del carcere di Bollate ridanno vita a 8mila tra pc e materiale elettronico di Dario Paladini Redattore Sociale, 25 luglio 2020 I dispositivi, forniti da Snam, saranno trattati all’interno dell’istituto penitenziario e donati alle scuole. Buccoliero: “Essere parte di progetti che rimettono in circolo ha una valenza forte per chi, una volta scontata la pena, dovrà ricollocarsi”. I detenuti del Carcere di Bollate ripareranno oltre 8 mila tra computer, monitor e altro materiale elettronico (stampanti, scanner e accessori) al fine di riutilizzarli in un’ottica di economia circolare rendendoli disponibili alla collettività. I dispositivi sono stati donati da Snam, nell’ambito di un’iniziativa sociale promossa insieme a Fondazione Snam e realizzata in collaborazione con l’impresa sociale Fenixs, impegnata da vent’anni in progetti lavorativi che hanno coinvolto finora più di 160 detenuti in diverse carceri italiane. Obiettivo del progetto è offrire ai detenuti un’opportunità di lavoro e riqualificazione professionale. Le apparecchiature verranno in gran parte ricondizionate, aggiornate e messe a disposizione delle scuole per attività educative, con particolare riguardo alle situazioni di fragilità, oltre a privati e aziende. Sulla parte non ricondizionabile, Fenixs collaborerà con LaboRaee, controllata di Amsa (società del Gruppo A2A) che gestisce l’attività dell’impianto di trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici (Raee) inaugurato un anno fa all’interno del Carcere. “Sono soddisfatta per l’avvio di questo nuovo progetto che coinvolge i detenuti e le strutture del Carcere di Bollate, come l’impianto Raee inaugurato lo scorso anno, con l’obiettivo di realizzare un circolo virtuoso per l’intera società. Essere parte di progetti che ‘rimettono in circolo’ ha una valenza forte per chi, una volta scontata la pena, dovrà ricollocarsi. E sappiamo che il lavoro è il modo migliore per tornare a scommettere su sé stessi” afferma Cosima Buccoliero, Direttore Aggiunto della Casa di reclusione Milano Bollate. Sala Consilina (Sa). Riapertura del carcere, no dal Guardasigilli di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 25 luglio 2020 “L’esiguità numerica dei detenuti che il carcere di Sala Consilina può accogliere non è in grado di rendere opportuno e conveniente l’impiego del personale e l’attivazione dei servizi necessari al funzionamento della struttura. Così il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, spegne quasi definitivamente le speranze di riapertura della casa circondariale di via Gioberti chiusa cinque anni fa con un decreto dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando. Ieri pomeriggio durante il Question Time alla Camera il Ministro ha risposto all’interrogazione dell’onorevole Federico Conte che aveva chiesto se il Ministero ritenesse di assumere iniziative per la riapertura della casa circondariale d alla luce delle criticità emerse dopo la chiusura denunciate anche dal Presidente della Corte di Appello di Potenza. Bonafede ha fatto capire che quasi certamente non ci sarà una riapertura, nonostante l’annullamento del provvedimento di soppressione da parte del Tar poi confermato dal Consiglio di Stato che ha imposto lo svolgimento di una conferenza dei servizi prima di decidere se emettere un nuovo provvedimento di chiusura. “Nel caso di Sala Consilina - ha detto Buonafede - dai dati forniti dall’amministrazione penitenziaria, il rapporto tra il personale e detenuti, di circa 1 a 1, rappresentava un valore sproporzionato in contrasto con ogni principio di razionalità e buona amministrazione delle risorse, sia economiche che professionali. Viene individuato in circa 100 posti detentivi il limite minimo sotto cui la gestione di un penitenziario è antieconomica. È stata valutata l’offerta del Comune di Sala Consilina di provvedere all’adeguamento funzionale della struttura con accollo dei relativi oneri, tuttavia quand’anche fosse stata accolta la capienza dell’istituto sarebbe rimasta al di sotto del limite di sostenibilità”. Benevento. 400 detenuti assistiti da un solo infermiere di Simone Gussoni nursetimes.org, 25 luglio 2020 Un solo infermiere avrebbe l’onere di assistere oltre 400 detenuti dislocati in tre diverse sezioni. “E tra gli infermieri dipendenti Asl che lavorano al Carcere di Benevento - racconta il segretario territoriale della Uil Fpl di Benevento, Giovanni De Luca - c’è anche il presidente dell’Opi di Benevento”. È apparso a molti incredibile come il presidente dell’ordine provinciale delle professioni infermieristiche, Massimo Procaccini, territorialmente competente accetti di lavorare in simili condizioni senza aver denunciato in alcun modo quanto accade quotidianamente nel penitenziario. “Ci sorprende - incalza De Luca - che proprio il presidente dell’Ordine che lavora nel carcere e sa benissimo la situazione non abbia speso una parola di denuncia, non tanto come lavoratore, ma come rappresentante dell’organismo che tutela la categoria infermieristica”. Appare giustificata l’incredulità dei molti professionisti coinvolti, considerando che l’Opi di Benevento abbia una delle quote associative annuali più alte in Italia. “Confidiamo che in futuro ci sia un atteggiamento diverso - conclude De Luca - e che anche questo organismo aggiunga la propria voce per risolvere i problemi degli infermieri di Benevento”. Empoli. Aperta al Pozzale la “casa” dei criminali psichiatrici di Irene Puccioni La Nazione, 25 luglio 2020 Inaugurata la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, struttura gestita dall’Asl che ha preso il posto degli ospedali giudiziari. Era il 30 luglio di quattro anni fa, quando cominciava il trasferimento delle detenute dalla casa circondariale di Empoli, che di lì a pochi giorni avrebbe chiuso. Troppo alti i costi per troppe poche carcerate, fu in sostanza la motivazione alla base della decisione del Ministero della Giustizia. Contemporaneamente la Regione era alla ricerca di strutture adeguate dove collocare quei detenuti usciti dagli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) a seguito della legge 81 del 2014. Fu così che Comune e Regione iniziano un percorso insieme che ha portato, con non pochi ostacoli, al progetto di una Rems, residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, inaugurata ieri dopo una profonda ristrutturazione dei locali. Si tratta della prima struttura di riferimento per i territori dell’Asl Toscana Centro e la seconda a livello regionale, dopo l’apertura della residenza di Volterra nel 2015 (con una capienza attuale di 40 posti). La Rems empolese, nella frazione di Pozzale, è dunque destinata alla cura dei pazienti autori di reato affetti da infermità o seminfermità psichica attraverso percorsi terapeutico-riabilitativi e socio-riabilitativi, gestiti dal dipartimento di salute mentale dell’azienda sanitaria. Il primo paziente - dei 9 (tutti uomini) previsti nella prima fase di attivazione - arriverà non appena sarà completato il protocollo della sicurezza con prefettura e ministero. La seconda fase sarà invece avviata a struttura funzionante e riguarderà il recupero di altre due aree abitative al piano terra che potranno ospitare 3 donne e 8 uomini. A regime, la struttura potrà ospitare fino a 20 pazienti. L’intervento complessivo di ristrutturazione e degli allestimenti è stato di 700mila euro. “Questa struttura - commenta l’assessore regionale alla salute, Stefania Saccardi - s’inserisce all’interno di un percorso terapeutico riabilitativo di pazienti che, nello stesso tempo, dovranno portare avanti il loro percorso detentivo. Da qui la necessità di una forte collaborazione e sinergia con le autorità giudiziarie per le misure di sicurezza e vigilanza. A noi spetta il compito, tramite i servizi di salute mentale, di farci carico del bisogno di cure di questi pazienti nel miglior modo possibile”. Entrando dentro l’ex carcere femminile, il sindaco Brenda Barnini, ha ricordato quanto la decisione di chiudere la casa circondariale procurò una “ferita nella comunità empolese”. “Il progetto Rems - dice il sindaco - è arrivato, quindi, sia come soluzione di nuova vita dell’edificio sia come opportunità di ricostruire con i pazienti quel rapporto terapeutico insieme ad associazioni e istituzioni del territorio. Ci sta a cuore ovviamente - aggiunge Barnini - anche la serenità dei cittadini e la gestione in sicurezza di tutto il progetto; ragione per cui seguiremo da vicino i passaggi con la prefettura per la stipula di un protocollo ad hoc per la sorveglianza della struttura”. La Rems di via Valdorme sarà gestita da un team multidisciplinare, composto da tre psichiatri, uno psicologo, 14 infermieri, 6 operatori socio sanitari, 2 educatori professionali, 2 tecnici di riabilitazione psichiatrica, un assistente sociale e un servizio di vigilanza attivo 24 ore su 24. Migranti. L’assurda storia di Abbas, finito in quarantena per sbaglio di Giulio Cavalli Il Riformista, 25 luglio 2020 La storia, vista da fuori, è una vera e propria deportazione ma riflette perfettamente il caos legislativo e la disattenzione che regna mica solo sulla questione dei migranti ma più in generale su tutto quello che riguarda gli stranieri. Il protagonista è Abbas Mian Nadeem, un pakistano che vive a Amantea, è arrivato in Italia da qualche anno ed è regolarmente sul suolo italiano. Amantea nei giorni scorsi è stata teatro di una protesta dei cittadini che contestavano l’arrivo di alcuni migranti sbarcati qualche giorno prima a Roccella Jonica: 13 migranti risultati positivi al Covid vengono trasferiti al Celio mentre per gli altri 11 si decide il trasferimento al Cara di Isola Capo Rizzuto, nei pressi di Crotone, quello stesso Cara che un processo ha dimostrato come fosse nella disponibilità del clan di ‘ndrangheta degli Arena e che ora è gestito dalla Croce Rossa. Un luogo in pieno decadimento dove dei materassini dovrebbero essere letti e dove le condizioni sono più che carenti. Quando arrivano i mezzi per trasferire gli 11 migranti al Cara di Isola Capo Rizzuto Abbas Mian Nadeem si trovava nei pressi perché, avendo conosciuto gli orrori della traversata del Mediterraneo, aveva deciso di portare un po’ di conforto e qualche bene. Dalla finestra, come in un brutto film, una signora urla dal balcone alle forze dell’ordine di prendere anche lui, Abbas, di caricarlo insieme agli altri e quelli, noncuranti del fatto che avessero prelevato 12 persone anziché le 11 programmate, portano il ragazzo al Cara. Una vera e propria detenzione illegale a cui Abbas prova a subito a ribellarsi, si spiega, mostra i suoi documenti e il suo regolare permesso di soggiorno ma non accade nulla. Abbas Mian Nadeem si ritrova rinchiuso senza nessuna motivazione. Ma non è tutto: Abbas è malato di HIV oltre che di epatite B e C e in questo momento si ritrova a contatto con persone che stanno passando la quarantena con il dubbio che possano avere contratto il Covid. E il Covid, per chi ha una situazione sanitaria come quella di Abbas gli potrebbe essere addirittura fatale. Per questo Abbas non si arrende e fotografa le condizioni in cui si ritrova e registra un video in cui chiede l’aiuto di qualcuno, il video viene ripreso dalle giornaliste Alessia Candito e Floriana Bulfon, escono articoli. Non si muove niente, niente. “Abbiamo scritto a tutti i deputati, a tutti i senatori e perfino agli eurodeputati senza ottenere nessuna risposta e nessuna attenzione - mi racconta Giulio Vita dell’Associazione La Guarimba che sta seguendo la vicenda -. Margherita Corrado, Movimento 5 stelle di Crotone, mi ha chiamato dicendo che ha parlato con il prefetto che è amico suo e che andava tutto bene. Le ho chiesto di vedere il video, che non aveva visto, e dopo che lo ha visto ha detto che per lei non ci sono violazioni di diritti umani “Anche noi usiamo i materassini quando andiamo a mare”. Alberto Pagani PD ci ha fatto chiamare dalla sua Segretaria che ci ha anche detto che si tratta di un piccolo errore e lo stanno risolvendo. Che comunque lui può fare poco perché è molto occupato e ci sono le commissioni apposta, di scrivere agli altri. Nel frattempo io ho ricevuto minacce telefoniche, addirittura il mio account Facebook è stato sospeso”. Ma non è finita qui, non ancora: al Cara è stato sospeso anche il medico Orlando Amodeo, con un ordine di servizio ufficiale firmato da Marco Olivari, che per la Croce rossa italiana gestisce il centro d’accoglienza. La colpa di Amodeo, ex dirigente medico della Polizia e fino allo scorso 20 luglio direttore medico del centro, sarebbe quella di avere fatto “filtrare” immagini e informazioni riservate dal centro e avere contribuito ad accendere i riflettori sulla kafkiana vicenda di Abbas. Intanto, mentre nulla si muove, c’è un uomo che si ritrova a scontare la quarantena in un Cara e non a casa sua, con l’altissimo rischio di contrarre il Covid che potrebbe essergli letale e con questa irresistibile voglia di silenzio che corre tutto intorno. Cile. Lotta mapuche: in 27 rifiutano il cibo in carcere da tre mesi di Claudia Fanti Il Manifesto, 25 luglio 2020 La protesta in corso da maggio, i prigionieri politici chiedono di scontare la pena nelle loro comunità, come 13mila detenuti mandati ai domiciliari a causa dell’epidemia di Covid. Gravi le condizioni del leader spirituale Celestino Cordova. Le vite dei mapuche contano, ma non per lo Stato cileno. Nulla lo dimostra meglio dello sciopero della fame di 27 prigionieri politici mapuche, tra cui l’autorità spirituale (machi) Celestino Cordova, iniziato più di 80 giorni fa per protestare contro l’assenza di risposte da parte dal governo di Sebastián Piñera. La richiesta dei detenuti, alcuni ancora in attesa di giudizio, è semplice: la possibilità di scontare le pene detentive nelle loro comunità, come previsto dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata dal Cile nel 2008, e come sollecitato dall’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, che, nel contesto della pandemia da Covid-19, ha invitato gli Stati ad adottare misure urgenti a favore della sicurezza della popolazione carceraria. Una richiesta tanto più legittima in quanto il sistema giudiziario cileno, a causa dell’emergenza sanitaria, ha già concesso gli arresti domiciliari a oltre 13mila detenuti - compreso il poliziotto responsabile della morte nel 2018 del giovane weichafe Camilo Catrillanca, un “guerriero” della causa mapuche - negandoli però ai giovani arrestati nel quadro delle proteste contro Piñera e ai prigionieri indigeni, vittime della legge antiterrorismo varata da Pinochet e usata ancora oggi per colpire dirigenti e autorità ancestrali in lotta per la restituzione delle terre usurpate. Mentre il governo continua a tacere, la situazione dei prigionieri politici delle carceri di Angol e di Temuco, in sciopero della fame dal 4 maggio scorso, e di quelli della prigione di Lebu, che hanno iniziato lo sciopero il 5 luglio (più altri sette che si sono uniti alla protesta domenica scorsa) diventa sempre più critica e tesa. “Di natura politica sono le nostre condanne e la nostra oppressione, di natura politica deve essere la soluzione”, dichiarano i detenuti. Preoccupano in particolare le condizioni del machi Celestino Cordova, già debilitato dal lungo sciopero della fame di due anni fa e trasferito la settimana scorsa in ospedale per gravi problemi respiratori e cardiaci. Condannato nel 2014, solo sulla base di alcuni indizi, a 18 anni di carcere per il caso dell’incendio alla residenza dell’imprenditore Werner Luchsinger (morto nel rogo nel 2013 insieme alla moglie Vivienne), il leader spirituale, in carcere da quasi sette anni, ha chiesto invano di poter trascorrere il periodo di isolamento per la pandemia nel suo rewe, lo spazio spirituale di fondamentale importanza per la cosmovisione mapuche. E un allarme ancor più forte aveva provocato la sua decisione di intraprendere anche lo sciopero della sete, sospeso tuttavia dopo l’accordo raggiunto con il sottosegretario di Giustizia Sebastián Valenzuela che, cedendo alle crescenti pressioni nazionali e internazionali, ha accettato, tra l’altro, di vietare qualunque azione punitiva nei confronti dei detenuti che decidano di rifiutare il cibo e di modificare il modulo interculturale nella prigione di Temuco. Nuova Zelanda. Asilo per lo scrittore curdo-iraniano Boochani, voce dei migranti di Manus di Gabriella Colarusso La Repubblica, 25 luglio 2020 Ha trascorso sei anni nel limbo di Manus, l’isola carcere sede di un campo di confinamento offshore australiano dichiarato illegale. E raccontato la brutalità della sua detenzione in un libro pluripremiato inviato via WhatsApp all’editore. Nel giorno del suo 37esimo compleanno, il 23 luglio, Behrouz Boochani è tornato a essere un uomo libero. La Nuova Zelanda della premier Jacinda Ardern ha riconosciuto lo status di rifugiato allo scrittore e giornalista curdo-iraniano che in questi anni è diventato il simbolo e la voce dei detenuti di Manus, l’isola della Papa Nuova Guinea dove l’Australia gestisce uno dei suoi campi di confinamento offshore per migranti. Boochani era arrivato in Nuova Zelanda circa 8 mesi fa con un permesso temporaneo per partecipare a un festival letterario. Si era stabilito a Christchurch, girava in bicicletta, faceva lunghe passeggiate in collina - ha raccontato al Guardian con cui collabora da diverso tempo - in attesa che l’ufficio dell’immigrazione si esprimesse. “Non tornerò mai più indietro”, aveva promesso. La risposta è arrivata con un visto di lavoro di un anno e la possibilità di richiedere la residenza fissa in Nuova Zelanda. “Mi sento finalmente al sicuro sapendo che ho un futuro”, è stato il suo primo commento al Guardian. “Ma, allo stesso tempo, non posso celebrarlo appieno perché così tante persone che sono state incarcerate con me stanno ancora lottando per ottenere la libertà, ancora in Papa Nuova Guinea, a Nauru, in detenzione in Australia. E anche se vengono rilasciati, la politica australiana esiste ancora”. Per sei anni Boochani è rimasto nel limbo di Manus, l’isola carcere dove vengono fermati i migranti che cercano di raggiungere l’Australia in barca. La struttura in cui era è stata successivamente dichiarata illegale: dopo un processo durato anni, lui e quasi altri 2mila migranti sono stati risarciti per la loro detenzione illegale. Boochani è stato testimone di violenze e torture, lui stesso è stato picchiato e torturato due volte per diversi giorni mentre era in isolamento nel famigerato braccio di Chauka, nel centro di detenzione di Manus ora demolito. Ha denunciato e raccontato la brutalità del sistema Manus in numerosi articoli scritti per il Guardian e altre testate e in un libro, No Friends But The Mountains, che ha mandato via whatsapp a un editore in Australia e con cui ha vinto uno dei più prestigiosi premi letterari australiani, il Victorian prize. I richiedenti asilo che cercano di raggiungere l’Australia via mare vengono intercettati e spediti a Manus o nell’isola di Nauru, nel Pacifico meridionale, e finiscono in un limbo giuridico e umano che può durare anni visto che l’ingresso in Australia viene loro vietato in maniera permanente. Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato più volte le condizioni di vita e di detenzione ingiusta dei richiedenti asilo nelle isole del Pacifico. La premier neozelandese Ardern si è offerta di accogliere 150 richiedenti asilo dai campi offshore dell’Australia, ma il governo australiano finora non ha voluto accogliere la richiesta temendo che questo possa indebolire l’efficacia del suo sistema di “deterrenza” e respingimento per chi cerca di arrivare illegalmente nel Paese.