Colombo: “Il carcere oggi non rieduca... insegna la sottomissione e umilia chi vi è ristretto” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 24 luglio 2020 Ex pm, protagonista della stagione di Mani Pulite, oggi Gherardo Colombo è tra più acerrimi avversari del sistema carcerario come dimostra anche il suo ultimo libro “Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla”. “Secondo me - ci spiega - il carcere da noi non rieduca se non eccezionalmente. Perché il carcere nel modo di pensare generale ha una funzione diversa da quella del rieducare: ha la funzione del punire, e quindi punisce. Tutto l’opposto di quello che dice la Costituzione…. Esatto. La Costituzione, all’articolo 27, prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato, anche attraverso l’umanità del trattamento. Richiederebbe cioè che la persona detenuta prenda coscienza della dignità dell’altro e della sua inviolabilità. E invece così non accade. Mi verrebbe da dire che accade il contrario. Il carcere oggi insegna a sottomettersi e umilia chi vi è ristretto. A mio parere non è compatibile con la nostra Costituzione. Quali sono le carceri che ha visitato di persona? Da magistrato sono stato in molte sale colloqui, che non vuol dire visitare il carcere. Ho visto San Vittore durante il tirocinio, e ho iniziato a frequentarlo da volontario nel 2007, dopo che mi sono dimesso dalla magistratura. Tutti i mesi, da tredici anni e fino al Covid, ho partecipato al corso di legalità nel reparto di trattamento avanzato per tossicodipendenti, la Nave. A vario titolo ho partecipato ad attività in vari istituti, tra cui Opera, Bollate, Verona, Torino, Genova, Padova, Rebibbia, Regina Coeli e tanti altri. E quando va da volontario, cosa fa? Dialogo con i detenuti sul tema delle regole e della legalità. La rieducazione che dovrebbe fare il carcere... E che molto limitatamente solo alcuni istituti fanno. Per fare in modo che una persona si renda conto della dignità dell’altro, bisogna che possa rendersi conto della dignità propria. A mio parere la detenzione, quindi, dovrebbe essere limitata a chi è pericoloso, per il tempo in cui è pericoloso, e in una condizione in cui siano garantiti tutti i suoi diritti che non confliggono con la sicurezza delle collettività. Quali sono i diritti più spesso negati? Il diritto allo spazio vitale, all’igiene, alla cura della salute, all’istruzione, all’affettività. Con l’emergenza Covid le difficoltà ovviamente si sono moltiplicate… Si sono moltiplicate e hanno reso ancora più pesante la detenzione. Credo che in tanti fossero angosciati, nella fase acuta della pandemia, dal non avere contatti con i propri cari, della salute dei quali non avevano notizie. Il che ovviamente non giustifica l’uso della violenza, che è in sé la negazione del principio del riconoscimento della dignità altrui, da qualunque parte provenga. Ha incrociato l’impegno politico dei Radicali su questi temi? Più di una volta mi sono incrociato con Nessuno Tocchi Caino, con Rita Bernardini e con altri, dei quali apprezzo l’impegno. Credo sia fondamentale lo stimolo a occuparsi del carcere che viene da loro e da Radio Radicale. Peccato che il mondo politico sia invece spesso disattento… Non credo sia del tutto disattento, credo che tante parti del mondo politico stiano molto attente ai riflessi elettorali. Che è una cosa diversa. Lei ha mai pensato di dedicarsi alla politica? Ho ricevuto più di una proposta, ma ho sempre detto di no. Quelli che dicono “buttiamo via la chiave” lo fanno per convenienza elettorale? O anche per convinzione personale. In Italia è così diffusa l’idea che chi ha commesso un reato poi debba soffrire, che quando si vota tanti scelgono chi dice e promette di garantire le stesse cose. Non siamo più il Paese di Cesare Beccaria… Per certi versi non lo siamo mai stati. Dovremmo fare analisi un po’ articolate: nel 1764 quante erano le persone che potevano aver letto il suo trattato “Dei delitti e delle pene”. Soltanto chi sapeva leggere, e quanti erano? A proposito di libri. Qualche anno fa uscì con Longanesi un volume scritto a quattro mani, sue e di Davigo, il cui titolo diceva tutto: “La tua giustizia non è la mia”. Due visioni diverse tra colleghi dello stesso pool… Abbiamo lavorato a lungo insieme Piercamillo ed io, abbiamo avuto momenti di divergenza, c’è stata qualche discussione, ma è successo raramente. Il diverso modo di vedere le cose non ha influito sul rispetto delle regole del processo da parte di entrambi. Avete un approccio culturale diverso… Molto diverso. Lei non direbbe mai che è pieno di colpevoli che la fanno franca o che certe volte non vale neanche la pena di aspettare le sentenze… Non so se Piercamillo ha detto proprio così. Certo bisogna considerare anche chi, oltre a chi la fa franca, finisce in carcere senza aver commesso un reato. Cosa si può cambiare del processo penale senza ledere il diritto all’oralità della difesa? Non soltanto all’oralità, ma a tutte le prerogative della difesa. Bisogna cambiare tanto. Bisogna partire da lontano: perché il processo penale possa funzionare è necessario in primo luogo che si depenalizzi molto. Perché ormai tutto diventa penale, o quasi. Va operata una distinzione tra fattispecie, e depenalizzare quelle di tipo amministrativistico? La depenalizzazione deve essere molto ampia. Le faccio un esempio, cancellare la timbratura del biglietto dell’autobus per riutilizzarlo è reato, sarebbe invece sufficiente una sanzione amministrativa. Occorrerebbe procedere allo stesso modo per tante fattispecie E poi, soprattutto, serve un intervento educativo. Educare alla prevenzione dell’illegalità? Sia attraverso la scuola sia attraverso i mezzi di comunicazione. Oggi molto frequentemente, in modo inconsapevole, anziché educare al rispetto dell’altro, si educa a un rapporto di sopraffazione e sottomissione. Bisogna fare in modo che l’intervento penale diventi residuale anche grazie al fatto che la stragrande maggioranza delle persone evita di commettere reati. Ora, invece, in Italia ogni anno arrivano alle Procure quasi tre milioni di notizie di reato, ed è davvero difficile gestirle. Viviamo la più grave crisi di fiducia verso la magistratura… Il tasso di considerazione nei confronti della magistratura è aumentato durante gli anni del terrorismo, poi con gli omicidi di tanti magistrati a opera anche della mafia. E all’inizio di Mani Pulite. In una situazione di normalità io credo che la considerazione della magistratura non possa essere eccezionale, anche perché è connaturato alla funzione che ci sia sempre qualcuno che ha da lamentarsi (chi perde la causa, per esempio). Oggi mi pare che siamo al discredito, credo per quel che accade all’interno della magistratura. “Perché quel detenuto psichiatrico, dopo 4 tentativi di suicidio, è ancora in carcere?” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 luglio 2020 Entro mercoledì prossimo il Ministero della Giustizia dovrà rispondere ai quesiti della Corte europea dei diritti umani. Il Governo, in particolar modo il Ministro della Giustizia, è chiamato a rispondere entro mercoledì prossimo ai quesiti posti dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu) per quanto riguarda un detenuto accusato di 416bis che ha tentato 4 suicidi e ha una grave patologia psichiatrica. L’uomo, però, solo a nove mesi di distanza dal provvedimento del magistrato di Sorveglianza è stato portato nell’articolazione psichiatrica del carcere di Spoleto. Luogo non idoneo per le sue condizioni, tant’è vero che ha tentato di impiccarsi nuovamente. Salute mentale e fisica equiparate dalla consulta. Una situazione, quella del recluso, diventata paradossale a causa di provvedimenti discutibili da parte del magistrato di sorveglianza che non ha concesso la detenzione domiciliare “in deroga” visto che recentemente la Consulta ha equiparato la salute mentale con quella fisica. L’anno scorso, infatti, la Corte costituzionale ha esteso l’applicabilità della detenzione domiciliare “in deroga” anche ai casi di grave infermità psichiatrica sopravvenuta durante la carcerazione. Ci sono stati, però, ritardi da parte del Dap nel trovare una sistemazione e rifiuti da parte delle articolazioni psichiatriche di vari istituti penitenziari, oltre ai tentativi di suicidi, l’ultimo accaduto proprio al carcere di Spoleto. La difesa, nel frattempo, ha presentato una nuova istanza di detenzione domiciliare in deroga, ma nell’udienza del 2 luglio scorso l’articolazione psichiatrica di Spoleto non ha trasmesso alcuna documentazione di aggiornamento, nemmeno per dichiarare di non avere completato l’osservazione. A quel punto, la difesa, all’udienza ha chiesto l’audizione dei consulenti che hanno attestato l’incompatibilità con il regime carcerario del detenuto e ha sottolineato la necessità che la valutazione sulla concessione del 47 ter c. 1 ter venga svolta non dalla struttura penitenziaria stessa, ma da un perito eventualmente nominato dal Tribunale. Quest’ultimo, su richiesta difensiva, ha trasmesso gli atti alla procura della Repubblica per valutare eventuali responsabilità penali in ordine al ritardo nella esecuzione del provvedimento del magistrato emesso a settembre 2019. Ma si è in attesa, e ancora non è avvenuta, di una rapida decisione vista l’urgenza. In oltre 13 mesi lo Stato italiano non è stato, quindi, in grado di esaminare compiutamente la situazione del detenuto. Motivo per il quale gli avvocati difensori Michele Passione, Marina Silvia Mori ed Eustachio Claudio Solazzo hanno presentato una richiesta urgente alla Corte europea. La procedura 39 (questo è il tipo di richiesta prevista dal regolamento Cedu) è straordinaria e viene attivata allo scopo di ottenere una misura provvisoria ed urgente in casi particolari ove è a rischio la vita delle persone. Le richieste della Corte europea dei diritti umani. La Corte ha accolto la richiesta, sospendendo, però, la decisione in attesa che il governo italiano relazioni su gli aspetti che sono stati posti. “Quali sono le attuali condizioni psichiatriche del recluso, in particolare per quanto riguarda il rischio suicidario? Esiste un recente rapporto di esperti sulla patologia del paziente psichiatrico? Quali misure sono state prese dalle autorità per fornire al detenuto il trattamento psichiatrico richiesto, in particolare in considerazione del fatto che il suo trasferimento nell’ala psichiatrica del carcere di Spoleto è stato portato a termine con nove mesi di ritardo e nel frattempo ha commesso tre tentativi di suicidio? Sono stati presi provvedimenti per valutare la compatibilità dello stato di salute del recluso con la detenzione? Ha accesso al monitoraggio e cure mediche di cui ha bisogno a causa della sua patologia psichiatrica?”. Questi i quesiti che la Cedu ha posto al governo. La difesa ha chiesto la detenzione domiciliare. La Corte Europea ha accolto la richiesta di procedura urgente, perché il problema è reale. Gli avvocati hanno ripetutamente sollecitato le Autorità interne e hanno ribadito l’istanza di detenzione domiciliare in deroga, ma non hanno ulteriori strumenti per accelerare la trattazione, soprattutto in assenza di valutazione aggiornata da parte dell’Articolazione psichiatrica di Spoleto. In relazione alla osservazione psichiatrica disposta, con provvedimento di settembre del 2019, e attuata con gravissimo ritardo, inoltre, le difese hanno segnalato l’incongruenza del provvedimento del magistrato di Sorveglianza. Quale? Nonostante la sentenza della Consulta sulla detenzione domiciliare in caso di grave patologia psichiatrica sopravvenuta, il provvedimento è consistito nel disporre un’osservazione psichiatrica di un mese in una articolazione della salute mentale. Ovvero ha chiesto l’applicazione del 112, il decreto del Presidente della Repubblica del 2000, ma che non sarebbe più applicabile al caso di specie, a seguito dell’abrogazione implicita dei famigerati ospedali giudiziari psichiatrici. Come si legge nel ricorso urgente alla Cedu degli avvocati Passione, Mori e Solazzo, per il recluso “residuerebbe, infatti, la possibilità di disporre l’osservazione solo ai fini dell’adozione di una successiva misura di sicurezza, o per verificare la capacità di stare in giudizio dell’imputato, entrambe ipotesi non ricorrenti nel caso di specie”. La difesa quindi ha chiesto direttamente l’applicazione della detenzione domiciliare. Il recluso è in pericolo di vita, si trova in un luogo, di fatto, non idoneo visto che ha tentato nuovamente il suicido e per oltre 13 mesi le autorità non gli hanno trovato una soluzione. La Cedu, come detto, ha recepito tutte le questioni poste, anche perché diverse sue sentenze potrebbero confermare che la protratta allocazione detentiva del ricorrente, per le conclamate problematiche psichiche, si tradurrebbero anche in una violazione dell’art. 3 (il divieto di tortura e di trattamento inumano o degradante) considerate le condizioni detentive non adeguate rispetto alla patologia. Il governo, entro mercoledì, dovrà chiarire. Tortura e spirito di corpo, i nostri orrori di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 24 luglio 2020 Nessun Paese è indenne dal rischio di essere luogo di maltrattamenti e violenze istituzionali. La tortura esiste, e fortunatamente da qualche anno vi è anche un reato che la punisce. I fatti di Piacenza e Torino ci dicono tanto di una sotto-cultura diffusa fondata su tre pilastri: spirito di corpo, violenza e corruzione morale. Quanto accaduto nella caserma dei Carabinieri a Piacenza e nel carcere di Torino evidenzia anche un altro Stato che indaga, persegue, e speriamo giudichi, senza farsi condizionare da divise e stellette. La tortura non è questione che riguarda il terzo mondo incivile o il solo Egitto, nelle cui mani è ancora il nostro Patrick Zaky. La tortura riguarda anche noi, la nostra democrazia, le nostre istituzioni e le nostre forze dell’ordine. Ben lo sapevano coloro che alla fine degli anni 80 del secolo scorso proposero la nascita di un Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Nessun Paese è indenne dal rischio di essere luogo di maltrattamenti e violenze istituzionali. A Piacenza, come a Torino, pare ci siano state forme di copertura o di omissione da parte di chi aveva responsabilità di direzione e di comando. Ugualmente era accaduto nelle violenze di Genova 2001, nelle torture di Asti 2004, così come scrissero i giudici nelle sentenze che aprirono le porte alle condanne europee. Il depistaggio è stato drammatico nel caso Cucchi. Vedremo come procederanno le inchieste. La tortura si nutre di spirito di corpo, reticenze e silenzi, nonché di quell’incondizionato sostegno politico che alberga nella teoria impropria delle mele marce. Colui che tortura può essere definito una mela marcia solo se è isolato nel suo contesto (a Piacenza le indagini ci parlano però di un’intera caserma che usava violenze e commetteva crimini), se i superiori lo fanno sentire una scheggia impazzita, se viene emarginato e non esaltato in caserma, se i sindacati e le forze politiche prendono le distanze, se lo Stato si costituisce parte civile. Se ciò non accade vi è una responsabilità di sistema. Le carriere nelle forze di Polizia non si devono fondare sul numero di arresti, perché ciò induce al falso, alla corruzione. Chiunque lavora nelle forze dell’ordine ha un compito essenziale, ossia essere promotore di diritti e di giustizia. Il suo lavoro non va misurato in controlli, fermi, uso di manette. I poliziotti, i Carabinieri e la Polizia Penitenziaria non hanno bisogno di Taser, come i sindacati aizzati da alcuni politici ritengono erroneamente, ma di gratificazione. Non hanno bisogno di un Salvini che indossa le loro felpe per eccitare il loro spirito di corpo, ma di essere immersi in una cultura della legalità e della non-violenza. A Piacenza spirito di corpo e violenza si sono pericolosamente frammiste anche a una più generica attività criminale che ci ha riportato nei film di Polizia americani dove c’è sempre qualcuno corrotto. Corruzione e tortura fanno parte dello stesso campo semantico, si rafforzano l’un l’altra, sono raramente scollegate. Nelle intercettazioni abbiamo sentito come fosse diffusa una cultura della violenza, rivendicata con un machismo insopportabile. Non è facile sradicarla. Tre anni fa è stata approvata la legge che ha introdotto la tortura nel nostro codice penale, scatenando la protesta nel nome dell’impunità di chi indossa una divisa. C’è chi ancora nel dibattito pubblico - politici di destra e sindacati autonomi di Polizia - ne chiede l’abrogazione. Da qualche mese i pubblici ministeri e i giudici evocano la tortura nelle inchieste, la chiamano per nome. Solo così si riducono i rischi dello spirito di corpo. Se la tortura di Stato è la norma di Iuri Maria Prado Il Riformista, 24 luglio 2020 Dopo aver appreso dal Corriere della Sera che nella caserma di Piacenza si infieriva su “spacciatori, immigrati, ma anche semplici cittadini innocenti” (l’immigrato è notoriamente colpevole), potremmo adottare la retorica comune a destra e a manca secondo cui quando si discute di giustizia ci si dimentica sempre delle vittime. Sarebbe una retorica buona, per una volta: anche solo perché, guarda caso, non risuona mai quando a subire violenza sono quelli sottoposti alle cure di giustizia e quando a perpetrarla è l’ordinamento che semmai dovrebbe proteggerli. Di queste altre vittime, chissà perché (chissà perché per modo di dire, ovviamente), non si occupa mai nessuno, eppure lo stato di afflizione in cui versano è conclamato. A fronte della sperabilmente episodica vergogna piacentina c’è la tolleratissima normalità di un sistema che sottopone a tortura decine di migliaia di cittadini, perlopiù appartenenti ai ranghi infimi della società: e se ora fa scandalo la sopraffazione di cui sono stati destinatari i poveracci finiti nelle grinfie di quei criminali in divisa, nulla, ma proprio nulla si fa per mettere fine all’ordinaria ignominia di un’organizzazione pubblica che con il sigillo di Stato sequestra la vita delle persone e la consegna alla malattia, alla schiavitù sessuale, alla disperazione dell’isolamento, alla privazione di qualsiasi diritto riconosciuto persino alle bestie. E sono tutti innocenti, tutti: perché potranno anche aver commesso un illecito (molti non ne hanno commesso nessuno), ma non c’è colpa che giustifichi la sottomissione a quel dispositivo di multiforme degradazione. Ordini di carcerazione e condanne irrogate con sentenze emesse in nome del popolo italiano sono lo strumento con cui la società, ogni giorno, infligge a degli esseri umani una somma di sanzioni che non hanno nulla a che fare con la pena già gravissima costituita dalla privazione della libertà: e così quei provvedimenti di giustizia diventano il tramite indifferente di un’illegalità sostanziale, il mezzo formalmente impeccabile con cui si realizza il crimine di Stato, il lasciapassare della pubblica impunità. Non servono indagini e denunce per fare emergere la realtà del nostro sistema carcerario, perché è una realtà conosciuta. E non servono condanne, che dal pulpito della giustizia europea continuano a fioccare senza che cambi mai nulla e senza che lo Stato italiano, questo delinquente abituale, ritenga di adeguarvisi. Serve una classe dirigente per opporsi a questo schifo senza curarsi del consenso a rischio. Maggioranza divisa sul Csm, il Pd contesta il doppio turno di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 24 luglio 2020 Mentre il caso Palamara deflagra in un maxi-processo disciplinare mai visto nella storia della magistratura, s’infiamma lo scontro sul sistema elettorale dello stesso Csm. La pietra filosofale che dovrebbe garantire la rigenerazione morale del terzo potere dello Stato. Scontro che attraversa politica e magistratura. Non c’è accordo nella maggioranza. Non c’è accordo tra le correnti. E nemmeno all’interno delle correnti. I sistemi elettorali per il Csm sono persino più esoterici di quelli per il Parlamento. Ma mai si erano raggiunte le vette di quello che il ministro della Giustizia Bonafede ha presentato l’altra sera ai delegati di M5S, Pd, LeU e Italia Viva al vertice di maggioranza convocato dopo due mesi di stallo (a fine maggio Bonafede aveva annunciato in pochi giorni il varo della riforma, poi era calato il silenzio). La proposta prevede che i venti membri togati del Csm siano eletti in collegi territoriali, corrispondenti grosso modo ai distretti di Corte d’Appello. E qui viene il difficile. Ogni elettore può esprimere quattro preferenze, che nel computo hanno un peso diverso e decrescente: la prima vale 1, la seconda 0,9, la terza 0,8, la quarta 0,7. Al primo turno viene eletto chi prende il 65% dei voti (praticamente impossibile) e al ballottaggio accedono non due, ma quattro candidati. Guarda caso numero pari a quello delle correnti. Al ballottaggio si può esprimere un doppio voto, sempre con il meccanismo della ponderazione decrescente noto nella letteratura costituzionalistica come sistema all’australiana (per dire l’esotismo, oltre all’esoterismo). Il vertice dell’altra sera - una decina i convenuti tra capigruppo e sottosegretari - si è protratto per quattro ore, non senza tensioni. Alla fine, l’accordo è sul metodo, non sul merito. E quindi: il testo andrà in Consiglio dei ministri la prossima settimana, perché non si può più aspettare. Ma poi approderà in Parlamento senza un accordo di maggioranza blindato. Trattandosi di una legge delega, la strada è lunga e ci sarà tempo per fare e disfare accordi, a questo punto anche trasversali con l’opposizione. Parola d’ordine “permeabilità del testo alla forza degli argomenti” sia dei gruppi parlamentari che di magistrati e avvocati, come spiega Andrea Giorgis, sottosegretario del Pd. I punti di convergenza non mancano: dalle regole meno discrezionali per l’attribuzione degli incarichi direttivi all’organizzazione delle Procure. Su alcuni temi come gli incarichi nel Csm (concorsi riservati ai magistrati o aperti agli avvocati?) ci sono sfumature diverse. Sul sistema elettorale del Csm il dissenso è più profondo. Il Pd LeU e Italia Viva vogliono modificare il maggioritario di Bonafede perché, dice Giorgis, “rischia di mortificare eccessivamente il pluralismo e di non offrire una garanzia adeguata alla rappresentanza di genere”. Il timore è un Csm monocolore o bipartitico e di soli uomini. Ma anche tra le toghe il maggioritario di Bonafede fa discutere. Una parte della corrente progressista Area è solleticata dalla possibile egemonia, ma la parte legata alla tradizione di Magistratura Democratica rimpiange il proporzionale. Autonomia e Indipendenza, la corrente di Davigo, tergiversa. Una parte e pro maggioritario perché favorisce i candidati più autorevoli sul territorio, una parte pro proporzionale per timore di scomparire, una parte (Ardita, con Di Matteo) rilancia il sorteggio. E Magistratura Indipendente, la corrente colpita dallo scandalo per via di Cosimo Ferri, è pro maggioritario secco ma teme di rimanere stritolata nel doppio turno da “accordi occulti” tra le altre tre correnti con “desistenza incrociate”. Al punto di estrarre dal cilindro il sorteggio temperato. Insomma tutti contro tutti. Come la politica, se non di più. Caso Palamara, martedì il Csm decide sulle istanze di ricusazione di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 luglio 2020 L’ex capo dell’Anm ha chiesto di sostituire Davigo, Ferri “rifiuta” tutto il plenum. Il vicepresidente del Csm David Ermini, in qualità di presidente della sezione disciplinare, con un decreto del 21 luglio ha fissato per martedì prossimo, 28 luglio, la data della trattazione delle istanze di ricusazione presentate dall’ex presidente dell’Anm Luca Palamara e dall’ex leader di Magistratura indipendente e ora deputato di Italia viva Cosimo Ferri nell’ambito dei procedimenti legati a quello che viene ormai chiamato comunemente “Palamaragate”, il “mercato” delle nomine. Palamara aveva ricusato Piercamillo Davigo, Ferri, invece, si era spinto oltre ricusando addirittura tutto il Plenum, reo a suo dire di non essere “terzo ed imparziale” nei suoi confronti. Anzi, in più occasioni ci sarebbe stata già una anticipazione - sfavorevole - del giudizio. La mossa dei due magistrati complica la tabella di marcia della sezione disciplinare. Una tabella di marcia alquanto lunga, dal momento che sono state fissate udienze fino alla fine dell’anno. Niente processo rapido come molti si aspettavano. Da qui, allora, la decisione di una fissazione sprint da parte di Ermini per non dilatare ulteriormente i tempi. Le prime conseguenze, in caso venissero la settimana prossima respinte le istanze di ricusazione di Ferri e Palamara, si avranno sulla futura campagna elettorale per il rinnovo dell’Anm, le elezioni sono previste in autunno. Una campagna elettorale che dai tribunali si sposterà nella sala Vittorio Bachelet al terzo piano di Palazzo dei Marescialli. Molto probabile, infatti, che alcuni dei testimoni citati da Palamara siano chiamati a riferire sul sistema delle correnti e sull’influenza di quest’ultime in tema di nomine e di incarichi ai magistrati. Salvo che il collegio disciplinare decida per un taglio dei testi. Si tratta di domande che possono creare molto imbarazzo. Fra i magistrati citati da Palamara ci sono i capi dei gruppi associativi. Cosa potrà uscire da questi interrogatori è difficilmente prevedibile. Le chat di Palamara hanno comunque messo in luce che tutti i gruppi della magistratura erano coinvolti nella degenerazione del correntismo. Il clima in generale nella magistratura associata è sempre più teso. In particolare sulla vicenda Palamara c’è chi invoca il ritorno della loggia P2 e chi grida al complotto. In tutto ciò la legge di riforma del Csm, voluta dall’esecutivo per rispondere a quanto accaduto, dovrebbe dare ancor più potere ai gruppi associativi. Soprattutto a quelli più organizzati e strutturati sul territorio. L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi da Sebastiano Ardita, consigliere davighiano al Csm. Ardita, con il pm antimafia Nino Di Matteo, ha anche firmato l’appello per il sorteggio dei componenti del Csm Sorteggio che però, dopo averlo sponsorizzato, è ora visto con il fumo negli occhi dal ministro della Giustizia Alfonso Bonadede. Dietrofront sui taser alla polizia, dardi difettosi e il Viminale li ritira di Romina Marceca La Repubblica, 24 luglio 2020 La pistola ad impulsi elettrici, il Taser, voluta fortemente dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini come dotazione per le forze di polizia, non sarebbe adeguata, almeno per il momento, per arrivare nelle mani di agenti, carabinieri e finanzieri: secondo il Viminale non è andato bene il collaudo a Brescia, l’arma ha mostrato alcuni difetti. “Criticità relativa alla fuoriuscita dei dardi. Un difetto dei requisiti minimi previsti dal capitolato tecnico”, c’è scritto in un comunicato del dipartimento di pubblica sicurezza. E così una direttiva del ministero dell’Interno ha disposto il ritiro “fino a nuove disposizioni” dei 32 taser che in questi mesi erano stati distribuiti alle forze di polizia per la sperimentazione. E l’unica società che aveva partecipato al bando di gara per la fornitura, la “Axon Public Safety Germany Se”, è stata esclusa dalla gara. In fumo sono andati circa 50 mila euro: un taser costa intorno ai 1.500 euro. “Rimane intento del dipartimento di Pubblica sicurezza - c’è scritto nella nota diffusa ieri - di dotare le forze di polizia di questa arma, ritenuta pienamente corrispondente alle esigenze operative”. “Mentre il governo blocca la sperimentazione del Taser e pensa di cancellare i decreti sicurezza che danno più tutele alle Forze dell’Ordine, nel carcere di Perugia una detenuta ha staccato un orecchio a una poliziotta”, ha detto ieri il leader della Lega Matteo Salvini. La sperimentazione del taser (la pistola spara dardi che emettono impulsi elettrici che immobilizzano per alcuni secondi la muscolatura) è partita, dal 2018, in dodici città: Milano, Torino, Firenze, Napoli, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia, Brindisi, Genova, Bologna. Nel giugno 2019, Salvini deliberò le somme per il bando che riguardava l’acquisto. A gennaio è stato emanato il bando che poi l’Axon si è aggiudicato. Alle forze di polizia sarebbero arrivate 4.482 pistole taser: 1.600 alla polizia, 2.626 all’Arma, 256 alla Finanza. Totale dell’appalto: oltre 8milioni e mezzo. Adesso è tutto da rifare. “Sembra ci siano state delle modifiche al dardo originario nei taser già forniti alle forze di polizia. Modifiche apportate per renderlo il meno offensivo possibile”, dice Felice Romano, segretario generale del sindacato di polizia Siulp. Alla società Axon, però, nessuno conferma queste modifiche. La replica della Axon non tarda ad arrivare: “Ai test ufficiali non era presente alcun rappresentante Axon. Non è corretto riportare un’eventuale pericolosità in caso di malfunzionamento dei dispositivi: tale circostanza non si è mai verificata nei 107 Paesi che hanno adottato l’utilizzo del dispositivo. Rispetto agli esiti della gara la società ha preso atto dell’esito della procedura con stupore e sorpresa considerato che nel corso delle precedenti prove balistiche, svolte in contraddittorio, i dispositivi avevano dimostrato piena aderenza alle specificità tecniche previste dal bando di gara”. Sulla vicenda si addensa anche un piccolo giallo. E c’è chi sospetta che dietro al collaudo fallito ci sia dell’altro. “L’attuale maggioranza di governo ha mostrato scetticismo e ci auspichiamo che questo scetticismo non rallenti l’acquisto e la distribuzione dei taser. Nel collaudo con colpi a vuoto, in alcuni casi il dardo si è staccato dal cavo attraverso il quale passa l’impulso elettrico”, dice il segretario del Sap, Stefano Paoloni. Che aggiunge: “Una statistica interna dimostra che in 14 casi su 15 in cui il taser è stato soltanto mostrato, la persona si è arresa alla polizia senza reagire”. Per il portavoce nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, questo stop alla fornitura è una conferma ai dubbi sollevati due anni fa. “Nel 2018 presentammo un’interrogazione parlamentare al governo dove chiedevamo quali rischi e quali cautele erano state messe in opera per l’utilizzo dei taser da parte delle forze dell’ordine. Ci furono alcuni politici, i soliti, che in modo sguaiato ci accusarono di essere amici dei criminali e così via. Oggi veniamo a sapere che il Viminale ha disposto il ritiro dei taser per difetti. Una conferma autorevole del fatto che avevamo ragione a porre dubbi”. Bologna. Detenuto morto nella rivolta, il pm chiede un’archiviazione che lascia domande di Lorenza Pleuteri giustiziami.it, 24 luglio 2020 “Fu una overdose di sostanze che legittimamente stavano in carcere. Non è emersa alcuna responsabilità di altre persone”. La procura di Bologna chiede al gip di archiviare le indagini sulla fine tragica di Kedri Haitem, 29 anni e origini tunisine, uno dei 13 detenuti morti durante e dopo le rivolte che a inizio marzo hanno incendiato le carceri di mezza Italia. Il fascicolo, con l’ipotesi di reato di “morte come conseguenza di altro delitto” (un reato non meglio specificato), era stato aperto contro ignoti. Ma l’atto con cui la pm Manuela Cavallo sollecita la chiusura del caso (“reso pubblico all’insegna della massima trasparenza”, dice il procuratore capo Giuseppe Amato) lascia alcune domande senza risposta, non disvelando dettagli che probabilmente sono nelle carte dell’inchiesta. E ricostruisce ciò che è accaduto alla Dozza in termini di “plausibilità”, non di certezza assoluta. Scrive la sostituta procuratrice: “La ricostruzione dei fatti più plausibile - anche alla luce delle informazioni fornite dal compagno di cella e riscontrate dall’esame autoptico, nonché dal sopralluogo nella cella del detenuto - è che la persona deceduta, già destinataria di farmaci per il controllo dell’ansia e degli stati di agitazione, abbia assunto volontariamente sostanze prelevate abusivamente dalla farmacia del carcere (in realtà sono stati depredati gli ambulatori di tre piani del reparto giudiziario, non il dispensario centrale) durante la rivolta dei detenuti dei due giorni antecedenti alla morte e che quest’ultima sia avvenuta per overdose”. Di quali sostanze si tratti esattamente non è dato sapere, né in questo né in altri passaggi della richiesta di archiviazione, non dal procuratore capo (interpellato). Annota ancora la pm: “Dagli accertamenti svolti sulla salma non è emersa la responsabilità di terzi nel determinismo causale della morte, causata dalla massiccia assunzione di farmaci e sostanze psicotrope in combinazioni e dosi letali. Sul corpo, infatti, non sono state rinvenute lesioni, né segni di contenzione”. Tutte le sostanze individuate nei liquidi prelevati dal cadavere di Kedri, altro passaggio testuale, “appartenevano alle tipologie di farmaci legittimamente presenti presso la struttura carceraria - circostanza rimarcata da Amato - in quanto utilizzate per la cura di patologie ed il trattamento delle dipendenze dei detenuti”. L’ultima espressione sembra alludere al metadone, ma l’oppioide non viene esplicitamente citato dalla magistrata né al suo capo. Voci qualificate, ufficiose, ribadiscono che sarebbe stato individuato nell’organismo del ragazzo. Non è una questione da poco, anzi. Per capire il perché bisogna mettere in fila date e fatti. L’8 marzo scoppia una rivolta nel carcere di Modena. I detenuti ribelli forzano e svuotano la cassaforte che contiene elevate quantità di metadone e di benzodiazepine. Le sostanze passano di mano. Cinque reclusi muoiono nell’istituto, probabilmente per overdose di un mix di preparati. Quattro perdono la vita durante il trasporto verso altri penitenziari (e non in ospedale, aspetto al centro delle inchieste in corso a Modena). Il responsabile del servizio di medicina penitenziaria della Dozza di Bologna, dottor Roberto Ragazzi - lo racconta il Garante cittadino dei diritti delle persone recluse, Antonio Ianniello - dispone il ritiro del metadone dagli ambulatori di reparto del carcere del capoluogo emiliano e la messa in sicurezza dell’oppioide, da spostare in un luogo a prova di assalto e fuori portata. Il 9 marzo si ribellano anche i detenuti del carcere bolognese, una settantina di persone. Le agitazioni continuano la mattina del 10 marzo, poi si smorzano. Anche qui l’obbiettivo delle razzie sono i farmaci strong. “Il metadone - sostiene Domenico Maldarizzi, dirigente nazionale della Uil-pa, sigla della polizia penitenziaria - nei reparti detentivi non c’era già più”. Vero o no, Kedri non partecipa ai raid. La sera del 10 marzo il ragazzo tunisino al compagno di cella sembra strano, come “un po’ ubriaco”. Lo straniero gli confida che “durante la rivolta ha assunto farmaci”, dice che è stanco e che vuole dormire e a lungo. La mattina dell’11 marzo si sente russare e si rigira sulla branda, fino alle 10.30. Che sia a letto fino a tardi non è insolito. Capita di frequente. Alle 12.40 altri detenuti entrano nella cella per chiedergli una cosa. Il compagno lo scuote per svegliarlo e si accorge che non respira più, dando un inutile allarme. Solo a questo punto, a decesso avvenuto, la cella viene perquisita. E sotto il materasso del ragazzo morto saltano fuori 103 pasticche (l’atto della pm Cavallo non specifica il nome commerciale o la composizione) e 6 siringhe, una delle quali usata (nella richiesta di archiviazione non è scritto se siano state trovate tracce di sostanze e di quali). Ma perché la cella non è stata perquisita prima, sapendo che i detenuti ribelli avevano rubato e distribuito sostanze potenzialmente letali? Perché la polizia penitenziaria è arrivata dopo? E di che pasticche si trattava? “Il carcere - ricorda Maldarizzi - non era in una situazione ordinaria. Era mezzo distrutto, inagibile, terremotato. Mancava la luce. Abbiamo passato due giorni drammatici. La rivolta era finita da poche ore, andavano disposti i trasferimenti d’urgenza”. Tra agenti e detenuti si sono contate 22 persone contuse o ferite (fonte Ansa), 16 medicate in loco e 6 portate in ospedale. Insomma, non ci sarebbe stato il tempo per perquisire cella per cella e per recuperare tutti farmaci sottratti e non ancora consumati. Le telecamere di sorveglianza non sono state utili alle indagini, perché danneggiate e non funzionanti. La pm Cavallo ha affidato l’autopsia e le analisi tossicologiche al medico legale Guido Pelletti. Le 103 pasticche sequestrate in cella però non sono state date al consulente della pubblica accusa, esperto cui non sono nemmeno arrivati i risultati di eventuali esami effettuati da altri soggetti (la Scientifica della polizia non si è occupata del caso, dai carabinieri non si hanno informazioni sul punto). Agli accertamenti post mortem non erano presenti altri anatomopatologi o tossicologici, in rappresentanza di parenti o soggetti abilitati. La famiglia forse non è stata avvisata in tempo per designare u medico legale di fiducia oppure non ha nominato nessuno, idem i due avvocati che seguivano Kedri in vita (Manuel Manfreda e Federico Bertani, i penalisti delle vecchie vicende giudiziarie del ragazzo, perso di vista). Il Garante nazionale dei detenuti si è costituito persona offesa anche nel procedimento avviato verso l’archiviazione, ma si avvale di un penalista e di un medico legale “solo” per i morti di Modena e non per la vittima di Bologna (e non si capisce il perché). L’avvocata Emilia Rossi, componente dell’ufficio, non ha nulla da aggiungere o non si sente tenuta a dare informazioni in più: “Sono in missione - risponde al telefono - mi occupo solo di questioni urgenti”, come se 13 decessi in carcere e le domande senza risposta non lo fossero. Torino. Torture in carcere, pronto il commissariamento di Giuseppe Legato La Stampa, 24 luglio 2020 Il capo del Dap in visita alla struttura. Già a Roma gli atti dell’inchiesta. La visita - va detto - era programmata da settimane e la tappa alla Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino era tra le prime mete previste dal tour con cui Bernardo Petralia, nuovo capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) nominato il 2 maggio scorso dal ministro Bonafede a capo delle carceri italiane, ha intenzione di raccogliere le istanze su criticità ed esigenze. Ma è evidente che il suo arrivo, ieri pomeriggio, a Torino ha assunto tutto un altro significato coincidendo con l’inchiesta che da tre giorni ha scosso l’intero istituto di pena. Che vede indagati 21 agenti per tortura, e i vertici - il direttore Domenico Minervini e il comandante della penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza - per favoreggiamento di quella che è già stata ribattezzata una “squadriglia di picchiatori”. Petralia non parla, ma si sa che ieri mattina gli atti dell’indagine sono stati acquisiti proprio dal Dap che lui sovrintende. E autorevoli fonti del dipartimento spiegano come le carte integrali dell’inchiesta - 5300 pagine di violenze, intercettazioni, annotazioni sui pestaggi che sarebbero avvenuti tra il 2017 e il 2018 - saranno attentamente studiati. E che nessuna decisione è preclusa. È dunque a forte rischio la permanenza del direttore e del comandante degli agenti nei ruoli di vertice su cui il Dap ha discrezionalità pressoché assoluta. Per fatti molto simili accaduti a Nuoro nel 2000, i “quadri” erano stati azzerati. Prima ancora che per motivi disciplinari - per cui bisogna attendere l’esito processuale - per questioni di opportunità. Lo ricorda bene il magistrato Alfonso Sabella che insieme a Giancarlo Caselli (allora direttore del Dap), si trovò a dover decidere come affrontare quel momento. Sabella ha seguito anche la vicenda torinese dalle cronache nazionali. E commenta: “Il dato negativo è che ancora oggi nonostante tutto quello che è accaduto, e brucia ancora sulla mia pelle la vicenda di Bolzaneto, si continuano a fare cose di questo tipo che sono inqualificabili e ingiustificabili per persone che hanno giurato di servire la nazione”. C’è anche un dato positivo: “E cioè che le indagini sono state svolte dalla stessa Polizia penitenziaria che ha voglia di liberarsi da alcune vecchie cattive abitudini che purtroppo residuano ancora in una parte, per fortuna minoritaria, di appartenenti al corpo”. L’inchiesta del pm Francesco Pelosi ha acceso anche un dibattito politico in Regione. Marco Grimaldi, di Leu: “Riguardo alle presunte torture occorre sostenere con fermezza che, al di là degli sviluppi futuri del processo sui quali è giusto attendere, e anche per garantire una miglior difesa agli imputati, è opportuno che il ministero della Giustizia affianchi il direttore del carcere de Le Vallette fino a sentenza”. Torino. Nel carcere botte, insulti e umiliazioni. “Il direttore sapeva” di Ottavia Giustetti e Sarah Martinenghi La Repubblica, 24 luglio 2020 Il capo delle Vallette Minervini ai suoi agenti: “Non chiamate gli indagati, credono più ai detenuti che a voi”. E in un’intercettazione ammette: “Le coercizioni ci sono sempre state, ma abusive e non tracciate”. Il caso di un detenuto con problemi psichiatrici portato in ospedale quasi nudo e imbavagliato. Costantemente informato. Il direttore del carcere Domenico Minervini sapeva delle vessazioni e delle violenze cui le guardie carcerarie sottoponevano i detenuti delle Vallette. Ne era a conoscenza perché arrivavano segnalazioni, da più persone. Relazioni, colloqui e preoccupazioni: non solo la garante cittadina dei detenuti Monica Gallo gli aveva chiesto di intervenire, senza risultato. C’erano anche medici, insegnanti e psicologi che raccoglievano confidenze, racconti, paure dei detenuti intimoriti dalle botte già ricevute, dagli insulti, e dalle umiliazioni. In diciassette - tante sono le vittime che hanno riferito di aver subito angherie degli agenti della polizia penitenziaria - hanno raccontato e denunciato di aver subito violenze. La maggior parte all’interno del padiglione C, in particolare nel settore detentivo “sex offender - protetti promiscui”, quello dove l’ispettore Maurizio Gebbia e la sua “squadretta” infierivano e spadroneggiavano. La preoccupazione del direttore, soprattutto, era di mettere in guardia la polizia penitenziaria: “Non chiamate gli indagati”, e poi “non dite niente al telefono, perché credono più ai detenuti che a voi”, diceva loro nelle riunioni con gli agenti. Sputi, insulti, pugni, calci, risate. Umiliazioni rivolte persino a persone che erano in condizioni di evidente fragilità. Come un detenuto con problemi psichiatrici, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, fatto uscire dalla cella per essere portato in ospedale quasi nudo, ammanettato e con un bavaglio sulla bocca. Dopo essere stato sedato. Era sconfortata la garante dei detenuti dalla passività e dall’inerzia del direttore dalla mancanza di reazioni di fronte alle sue continue denunce e non ne faceva mistero. Puntualmente lui la rassicurava, ma alle parole non sarebbero mai seguiti fatti, tanto che a garante lo farà mettere a verbale nella sua deposizione: “Con il direttore Minervini non parlavo più perché comunque non mi dava retta”. Anche al Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria erano stati informati della gravità della situazione. Tanto che a Minervini era stato consigliato, dallo stesso provveditore, di far ruotare gli agenti di polizia penitenziaria per porre un freno a comportamenti non più tollerabili. L’ispettore Gebbia, in particolare, era indicato da più persone come autore di troppe violenze. “Le coercizioni in carcere ci sono sempre state, ma abusive e non tracciate” dirà il direttore in una intercettazione captata il 30 ottobre 2019, mentre parla con il direttore sanitario del carcere. Sono scattati gli arresti dei primi agenti polizia penitenziaria accusati di tortura e lui al telefono si dilunga a nell’interpretazione giuridica del reato di tortura, e sul cambiamento portato dagli arresti e dall’indagine in corso. L’inchiesta porta scompiglio e getta diversi agenti nel panico. Ma la preoccupazione del direttore, come emerge in diverse riunioni, è prima di tutte le altre quella di tenere a freno i suoi uomini ai quali, inchiesta penale in corso, raccomanda di non parlare al telefono. Ora la procura di Torino gli ha notificato un avviso di garanzia, con l’accusa di favoreggiamento e omessa denuncia. Nei giorni scorsi l’avviso di chiusura indagine è stato recapitato a lui, che è difeso da Michela Malerba, e altri 24 indagati, tra cui anche il dirigente della polizia Penitenziaria, Giovanni Battista Alberotanza, difeso da Antonio Genovese, e i rappresentanti del sindacato più attivo della polizia penitenziaria, l’Osapp. I fatti contestati agli agenti che per la prima volta dovranno rispondere dell’accusa di tortura per le violenze in carcere, sono decine e partono dal 2017, anno a cui i Radicali fanno risalire la registrazione video di un incontro shock, che è la prova di come le denunce venivano fatte, anche pubblicamente, e poi sistematicamente ignorate. Parole cadute nel vuoto, quella sera, che alla luce di quello che è emerso ora acquistano però il senso di un’accusa ben precisa. “Voglio dire una cosa: mi hanno picchiato gli agenti in carcere, mi hanno picchiato fin quasi alla morte e poi mi hanno messo una settimana in isolamento”: un detenuto di nazionalità nigeriana davanti al pubblico prendeva la parola e trovava il coraggio di lanciare sommesse ma pesanti accuse. Poi si alzava la maglietta e faceva vedere le cicatrici. Accanto a lui quel 26 ottobre 2017, c’era proprio Domenico Minervini, La Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino e Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito avevano organizzato un dibattito dopo la proiezione del film di Ambrogio Crespi “Spes contra Spem. Liberi dentro”. L’uomo voleva fare un appello per aver più ore d’aria, diceva di essere rinchiuso 21 ore in cella. Il direttore replicherà solo su questo aspetto, pavoneggiandosi delle opportunità e dei cambiamenti concessi sotto la sua direzione. Tanto da sollevare indignazione del pubblico che gli chiede di rispondere sulle accuse di violenze da parte dei suoi agenti. “Ci sono gli avvocati difensori a cui possono raccontare queste cose, io farò i miei accertamenti” è stata l’unica replica di Minervini. Ma l’inchiesta del pm Francesco Pelosi, in cui per la prima volta è contestato il reato di tortura, non è l’unica a sollevare il velo su abitudini e illecite che ruotano intorno alla vita penitenziaria. Come quella sul microcosmo di illegalità che quasi ogni giorno vengono segnalate: far entrare droga e dare microcellulari ai detenuti. Piccoli apparecchi telefonici che vengono poi trovati durante le ispezioni. L’ultimo episodio alle Vallette, tre giorni fa, è stato raccontato dal Sindacato Osapp, dopo che addosso a un detenuto italiano del padiglione A, ristretto in regime di massima sicurezza, era stato ritrovato il telefonino di pochi centimetri: “La Polizia penitenziaria si trova sempre più sola e in condizioni disumane a risolvere le criticità che si presentano nel quotidiano con grave penuria di personale e di mezzi” commentava il sindacato. In procura un’inchiesta su questi scambi di favore da agenti di polizia penitenziaria e detenuti è stata aperta dal pm Vito Destito e vede già una decina di indagati. Piacenza. Il giovane straniero, la caserma dei Carabinieri e la denuncia che avrei dovuto fare di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 24 luglio 2020 Scrivo e parlo a me stessa, discuto con la mia coscienza, le chiedo di assolvermi ma non riesco a convincerla. Cerco ragioni che mi sembrano anche valide ma la voce interiore è implacabile. Qualche tempo fa un giovane straniero “Messo alla prova”, con cui il percorso di avvicinamento era stato lungo e molto delicato, mi ha detto che proprio in quella caserma lì - attaccata alla chiesa e tanto vicina a casa - lo avevano picchiato. Gli ho proposto di denunciare ma ho visto subito la sua paura e mi sono detta che avrei provato io a fare qualcosa. Io, cittadina italiana non più giovane e incensurata; proprio io che con altri volontari sono impegnata a collaborare con l’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna all’interno di quel mondo tanto affascinante quanto quasi sconosciuto delle “Misure di comunità”. Oltre che volontaria in carcere da ormai vent’anni. Più e più volte ho pensato a cosa fosse possibile fare; mi sono chiesta come intervenire senza coinvolgere il ragazzo che si era fidato di me. Ho persino immaginato di suonare a quel portone, di entrare e chiedere semplicemente “perché”. Perché ricorrere alla violenza, perché pestare e umiliare una persona indifesa proprio lì tra i simboli della Repubblica? E poi cercare di capire come sia possibile indossare una divisa e navigare indisturbati in un mare di pessime azioni. Come ci si sente? Avrei voluto capire e ancora oggi in verità vorrei capire. Perché tutto questo è un colpo durissimo anche alla indispensabile fiducia tra cittadini e istituzioni. E ora comprendo meglio gli sguardi ironici, spesso sarcastici di tanti ragazzi “messi alla prova” in occasione delle non rare discussioni sulle regole e la legalità. Ingenui e un po’ patetici noi, che difendiamo le istituzioni e la legge. Noi che abbiamo le idee così chiare, che ci preoccupiamo di rieducare chi ha sbagliato, che ci poniamo come mediatori tra lo Stato, gli imputati e i condannati. Nella chat del nostro gruppo si rincorrono testimonianze di botte subite ed entusiasmo per il lavoro della Procura. Qualcuno propone un brindisi. Ma no, non c’è niente da festeggiare, proprio un bel niente. Forse sarebbe più importante capire perché non è bastata la dolorosa vicenda di Stefano Cucchi per impedire questo orrore e, per me, sarebbe importante trovare le ragioni del mio silenzio. Forse la risposta è proprio lì, dietro l’angolo; non ho avuto nessun dubbio riguardo alla sincerità di A. ma non ho avuto sufficiente fiducia nel sistema della giustizia. Mi sono fidata di lui ma ho avuto paura per lui. Una posizione troppo complessa la sua e lui ancora troppo fragile. Troppo in salita la sua vita. E così mi sono fermata. Gli altri, dal canto loro, fino ad oggi hanno avuto la bocca cucita; credo non sia facile raccontare le umiliazioni subite, proprio per niente. La violenza subita ti sporca come quella agìta, e purtroppo ti segna per sempre. Figurati poi se viene dai “rappresentanti della legge”, in una situazione in cui non puoi difenderti. In cui di fatto sei nelle mani dello Stato. Scrivo e sento salire la mia rabbia. Non mi importa degli anni di carcere che queste persone dovranno attraversare perché chi conosce il carcere un po’ da vicino, non dovrebbe augurarlo a nessuno, ma vorrei tanto che un giorno si trovassero faccia a faccia con le persone che hanno umiliato e picchiato e poi con i cittadini che credono e si impegnano per la giustizia. Vorrei che ascoltassero le loro voci e che li guardassero negli occhi. Questo vorrei; che aprissero le orecchie per ascoltare con attenzione, in silenzio e togliessero le lenti scure per vedere bene, fino in fondo. Sì, questo vorrei. E infine vorrei perdonarmi per non aver avuto il coraggio di denunciare. Ho scelto di proteggere A. ma non sono sicura che fosse la cosa più giusta da fare. Piacenza. I criminali in divisa e l’ombra dei clan di Roberto Saviano La Repubblica, 24 luglio 2020 È una delle vicende più gravi della storia della Repubblica quella che riguarda la caserma “Levante” di via Caccialupo a Piacenza. Guardo le foto di questi carabinieri coinvolti nell’inchiesta, si atteggiano come rapper con cartamoneta in mano, vedo le immagini dei torturati. Leggo le accuse gravissime, le violenze e i pestaggi che hanno perpetrato certi dell’impunità (momentanea) data dalla divisa; leggo dei ricatti, delle estorsioni, dello spaccio di hashish ed erba. Leggendo in fila le carte delle inchieste degli ultimi anni l’Italia ne esce come un Narco-Stato. Vivo tra carabinieri da quasi 14 anni e quindi sento di dover urlare agli arrestati e indagati Giuseppe Montella, Salvatore Cappellano, Angelo Esposito, Giacomo Falanga, Daniele Spagnolo, Marco Orlando, Stefano Bezzeccheri: “Non siete Carabinieri”. Se le accuse saranno confermate, vorrà dire che questi individui non solo hanno tradito il giuramento fatto alla Repubblica, ma hanno sputato, stuprato, violato ogni donna e uomo (più di centomila militari) che, decidendo d’essere carabiniere, raccoglie su di sé una scelta di vita complicata e di responsabilità. Hanno delegittimato la fiducia dei cittadini nell’Arma. Di tutto questo dovranno rispondere, e non solo dei loro crimini gravissimi. Leggo le carte dell’inchiesta e trovo che nelle telefonate i carabinieri infedeli fanno rifermento a Gomorra. “Hai presente Gomorra? Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato”. Secondo le accuse, l’appuntato Montella, che sembra essere il capo di quello che viene in queste ore chiamato “il clan dei carabinieri” va insieme ad un collega in una concessionaria e, per farsi vendere un’auto a un prezzo molto basso, i due militari iniziano a pestare il gestore e gli fanno notare di essere armati: “Figa, sono entrato attrezzato, uno si è pisciato addosso, nel senso proprio pisciato addosso (...) L’altro mi ha risposto e l’ho fracassato”. Gomorra diventa lo specchio in cui si riflettono, addirittura il potere che vorrebbero raggiungere. Gomorra è divenuta nel tempo l’altro volto della vita: esistono le cose e poi esistono le cose come si fanno in Gomorra. La serie tv diventa lo spazio dove rivedono non solo le dinamiche in cui operano ma ambiscono a diventare esattamente ciò che dovrebbero contrastare, prova finale che chiunque pensasse che in Gomorra si trattava di una esagerata descrizione della realtà non conosceva la realtà. La storia di Piacenza apre delle riflessioni: la prima, la legalizzazione delle droghe leggere. Legalizzare è l’unica strada per fermare un traffico infinito su cui si fonda il segmento iniziale di ogni - e ripeto, ogni gruppo criminale. Fermare il traffico delle droghe leggere è facile, basta legalizzare. Legalizzare significa bloccare sul nascere molti gruppi criminali che non riuscirebbero a fare il salto di qualità verso il traffico di cocaina e su altri tipi di attività criminali senza partire dallo spaccio di hashish e marijuana. La seconda questione, l’immigrazione. Nella caserma di Piacenza si muovono certi che essere violenti con gli immigrati non porterà nessun danno, anzi. Sanno che un immigrato (ancor più se con precedenti penali) non avrebbe possibilità di essere creduto se dovesse denunciare torture. L’idea che arrestare significhi risolvere, eradicare il problema - errore cavalcato dai populismi - ci porta alla terza questione: i superiori. Come riuscivano a nascondere quanto facevano questi carabinieri? Le voci delle loro violenze circolavano da tempo in città, le loro auto di lusso erano chiaramente incompatibili con i loro stipendi. Perché la loro condotta veniva tollerata? Semplice, “il clan dei carabinieri” si tutelava con il numero elevato di arresti. Portavano risultati quantificabili, e questo serve a fare carriera e serve alla politica per fare facile comunicazione. Chi totalizza più arresti è il migliore e viene in qualche modo “protetto”. Il maggiore Stefano Bezzeccheri, comandante della compagnia di Piacenza, chiede all’appuntato Montella di fare più arresti, e i magistrati scrivono nell’ordinanza: “In presenza di risultati in termini di arresti, gli ufficiali di grado superiore erano disposti a chiudere un occhio sulle intemperanze e sulle irregolarità compiute dai loro sottoposti”. Quando arriva in caserma il nuovo maresciallo, rimane sconvolto da quello che vede e confessa al padre: “Se lo possono permettere perché portano i risultati, portano un sacco di arresti l’anno. Ma perché? Perché hanno i ganci...”. Ecco uno degli elementi che dovrebbe immediatamente mutare in tutte le forze dell’ordine. Bisogna smetterla di pensare che sbandierare arresti significhi professionalità e capacità. Fare multe non significa che si sta gestendo bene una città, così arrestare a tappeto (immigrati, disperati, nella maggior parte dei casi) non significa che si stia davvero tenendo in sicurezza un territorio. La differenza non la fa il numero di arresti, ma la qualità degli interventi, le modalità, le inchieste che si portano a compimento per mutare la situazione. La quarta questione: la ‘ndrangheta. Ciò su cui non si è posta abbastanza attenzione è che è difficile credere che si possa costruire un’organizzazione come hanno fatto questi carabinieri infedeli senza l’alleanza e l’accordo con le ‘ndrine. Loro stessi cercano (arrestano e pestano a sangue) uno spacciatore che mette sul mercato erba a minor prezzo rischiando di distruggergli la piazza, cosa che farebbero anche le cosche con loro. C’è stato certamente un accordo ma per ora non sono accusati di associazione mafiosa. Piacenza è terra con forte presenza di ‘ndrangheta: ricorderete nel giugno 2019 l’arresto per ‘ndrangheta di Giuseppe Caruso, il presidente del Consiglio comunale di Piacenza (in quota Fratelli d’Italia) è pensabile che li abbiano lasciati fare i clan? I carabinieri della “Levante”, quasi tutti di origine campana e calabrese, hanno un legame strettissimo con gli spacciatori Daniele Giardino e i suoi fratelli (Simone e Alex): è lì la pista che ci porta dritti alle organizzazioni criminali calabresi e alla mediazione con loro. Il patto tra crimine organizzato e carabinieri infedeli è la parte più oscura e che merita approfondimento di questa incredibile storia. Piacenza. Indagini sull’Arma: il ruolo della catena di comando di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 luglio 2020 Gli inquirenti al lavoro per capire i motivi dei mancati controlli sulla caserma Levante. Il giorno dopo aver posto i sigilli ad un’intera caserma dei carabinieri nel centro di Piacenza per mancanza di personale in servizio (tutti i militari tranne uno, infatti, sono stati denunciati e sospesi per reati ipotizzati che vanno dallo spaccio di stupefacenti alla tortura, nei casi più gravi, e dalla truffa al peculato per i soggetti più marginali dell’”associazione a delinquere”, come è stata definita dagli stessi intercettati), i pm piacentini concentrano ora le indagini sulla catena di comando e controllo dell’Arma. Per capire come sia stato possibile che una tale mole di supposti reati e abusi commessi dal 2017 ad oggi, con un particolare picco tra gennaio e giugno 2020 - stando a quanto sostenuto dalla procuratrice capo di Piacenza Grazia Pradella e confermato dal Gip Luca Milani - non abbia mai suscitato l’intervento delle gerarchie dell’Arma. Neppure il minimo sospetto, si sarebbe sollevato riguardo all’alto tenore di vita di alcuni carabinieri della stazione Levante che, sembra, fosse assolutamente esibito (auto di lusso, fese e quant’altro) e non certo in linea con il modesto stipendio percepito. “È la stessa domanda che ci poniamo anche noi”, fa notare al manifesto l’avvocata Romina Cattivelli del foro di Piacenza che difende uno dei carabinieri denunciati per peculato d’uso e truffa aggravata ai danni dello Stato e sottoposto all’obbligo di dimora. Lei è stata una dei primi legali di fiducia ad essere nominata al posto di quelli d’ufficio con i quali si è dato seguito all’ordinanza del Gip che dispone misure cautelari varie per sei carabinieri della caserma sequestrata. L’avvocata pone l’accento per esempio sul fatto che, secondo quanto riportato in conferenza stampa, l’indagine denominata “Odysséus” sarebbe stata avviata in seguito al racconto riportato alla polizia municipale da un ufficiale dei carabinieri di un’altra caserma, non coinvolto nelle indagini ma evidentemente ben informato di quanto accadeva all’interno della stazione di Via Caccialupo. “Come mai questo ufficiale non ha informato i superiori dell’Arma?”, si chiede l’avvocata Cattivelli. Ha invece incontrato il suo assistito nel carcere di Piacenza, l’avvocata Mariapaola Marro del foro di Milano. Il carabiniere, riferisce la legale, “è molto preoccupato, si professa totalmente estraneo ai fatti contestati: si è trovato improvvisamente dall’altra parte della sbarra senza aver fatto nulla e teme per le ripercussioni sul lavoro che svolge da anni”. A partire da oggi, comunque, si terranno gli interrogatori di garanzia dei sei carabinieri arrestati, alcuni dei quali in carcere a Piacenza. Secondo fonti locali, non si esclude che nei prossimi giorni i militari reclusi possano essere trasferiti in altri istituti penitenziari. Ieri, intanto, al posto del comandante della stazione Levante, che è attualmente ai domiciliari, è stato nominato un sostituto, proveniente dalla provincia di Messina. Mentre la Procura militare di Verona, che ha competenza sui reati militari commessi tra le varie regioni anche in Emilia Romagna, ha aperto un fascicolo d’inchiesta sulla decina di carabinieri a vario titolo coinvolti, “in perfetta sintonia con i colleghi della magistratura ordinaria per ottimizzare le attività di indagine”. Oltre agli esponenti dell’Arma, tra le 22 persone arrestate o denunciate c’è anche il portavoce dei “Forconi” locali (movimento nato nel 2013 e oggi, a livello nazionale, confluito perlopiù nei gilet arancioni del generale Pappalardo) e del “Comitato 9 dicembre”. L’uomo è ai domiciliari perché accusato, insieme a tre figli maschi, di spaccio di stupefacenti. Ciò che appare comunque chiaro fin da subito agli inquirenti è che all’interno della caserma Levante si era instaurato uno “spirito di corpo” malato, un assoggettamento supino e criminale alla personalità di un appuntato che svolgeva, secondo l’accusa, il ruolo del boss: “La personalità dell’indagato - scrive il Gip di Piacenza Luca Milani - rivela come egli abbia la profonda convinzione di poter tenere qualunque tipo di comportamento, vivendo al di sopra della legge e di ogni regola di convivenza civile”. Il suo scopo era eseguire più arresti possibile; e per questo, sempre secondo i pm, gli ufficiali di grado superiore erano disposti a chiudere un occhio sulle violenze e sulle irregolarità che commetteva. Nulla di nuovo, è già accaduto, lo abbiamo visto anche nel caso Cucchi, per esempio. Che sia arrivato il momento di rimettere in discussione il modo in cui si fa carriera all’interno delle forze dell’ordine? Piacenza. I superiori ignoravano o chiedevano arresti a gettoni per le carriere di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 luglio 2020 Le telefonate tra Montella e il maggiore Bezzeccheri per fare più catture: “Vediamo di farne il più possibile, almeno di farne altre tre-quattro”. “Le indagini sono ancora in corso e hanno lo specifico obiettivo di chiarire fino in fondo quale sia stato il livello di consapevolezza e di partecipazione degli ufficiali nelle attività illecite commesse dai carabinieri in servizio presso la Stazione Piacenza Levante”, scrive il giudice che ha ordinato gli arresti dei sei militari e il sequestro della caserma. Si riferisce al maresciallo a capo della Stazione, Marco Orlando, e al maggiore comandante della Compagnia, Stefano Bezzeccheri, indagati e sospesi dal servizio. Ma l’inchiesta è disseminata di indizi sulle consapevolezze interne all’Arma di ciò che accadeva in quella caserma; di “anomalie” mai denunciate ai vertici. Nemmeno da parte di chi diceva che “i ragazzi della Levante vanno ridimensionati perché si sono allargati un po’ troppo”, come un carabiniere he aveva lavorato lì fino al 2018. Finché il maggiore Rocco Papaleo, già in servizio a Piacenza, ne ha parlato alla polizia municipale. Ma senza riferire nulla alla propria scala gerarchica, così impedendo che l’Arma potesse intervenire tempestivamente. Oltre all’indagine penale (da domani cominceranno gli interrogatori di garanzia) e a quella aperta dalla Procura militare, ieri il Comando generale dell’Arma ha avviato l’inchiesta “sommaria” prevista dall’ordinamento militare a fronte di “eventi di particolare gravità o risonanza che potrebbero avere riflessi negativi sull’opinione pubblica per la loro delicatezza o per il numero di persone coinvolte”. La condurrà il Comando interregionale di Padova, e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha specificato che servirà a verificare “se vi sono state criticità nei controlli e nell’organizzazione della realtà territoriale; l’Arma resta presidio di legalità”. Gli accertamenti interni all’istituzione riguarderanno anche il comportamento del maggiore Papaleo, ma il livello delle verifiche non potrà non salire di grado. A partire dai tre comandanti provinciali che si sono avvicendati negli ultimi tre anni - i colonnelli Corrado Scarretico, Michele Piras e Stefano Savo - che non risulta si siano mai accorti di ciò che accadeva alla Levante. Sopra di loro c’è il comandante regionale dell’Emilia Romagna: quello attuale, il generale Davide Angrisani, è arrivato un mese e mezzo fa; prima di lui c’era Claudio Domizi, ora al vertice della Scuola allievi ufficiali. È con Bezzeccheri che il maresciallo a capo di un’altra Stazione parlava della necessità di “ridimensionare” i carabinieri della Levante. I due discutevano delle difficoltà emerse tra il maresciallo Orlando i suoi sottoposti finiti in cella, e Bezzecheri spiegava: “Non è che uno può abusare più di tanto, che a quello gli puoi mettere i piedi in testa... Bisogna trova’ il giusto equilibrio, cioè “Ci lasci in pace? Ci fai stare tranquilli? Ci fai stare sereni? E noi lavoriamo e ci divertiamo”. Però, diciamo, deve essere un contributo da entrambe le parti”. Il problema è che da altre intercettazioni emerge un rapporto diretto “di particolare confidenza” tra l’appuntato Peppe Montella (il capo dei malavitosi in divisa, secondo l’accusa) e lo stesso Bezzeccheri, il quale scavalcava il comandante della Stazione per spingere i suoi sottoposti a mietere più arresti che potevano. Si telefonavano, organizzavano incontri in ufficio e fuori (“ti devo parlare urgentemente, a quattr’occhi, in borghese”), per affrontare quella che per il maggiore era diventata una sorta di ossessione: la competizione a chi riusciva a contabilizzare più catture con le Compagnie limitrofe di Bobbio e Rivergaro. “Perché io so’ fatto così Montè - diceva Bezzeccheri il 5 marzo scorso -, a Rivergaro e a Bobbio gli devo fare un culo così... È una questione di orgoglio, perché mi gira il culo che gente che rispetto a voi non vale un cazzo fanno i figurini col colonnello, col comandante della Legione, eccetera eccetera”. Risposta di Montella: “Io adesso... Vediamo di farne il più possibile, anche prossima settimana, almeno di farne altre tre-quattro”. Seguono elogi del maggiore: “Il massimo risultato col minimo sforzo”. L’indagine che li ha portati in carcere ha svelato il metodo con cui, nella ricostruzione dell’accusa, Montella e i suoi colleghi organizzavano gli arresti degli spacciatori. E l’unico carabiniere di Piacenza Levante non inquisito, Riccardo Beatrice, ne parlava col padre (carabiniere in pensione) per sottolineare: “Si gestiscono tra di loro... perché portano i risultati... a te colonnello ti faccio fare bella figura e ti porto un sacco di arresti l’anno!... Lavorano assai, ma perché?... C’hanno i ganci”. Sembra di risentire il “carabiniere pentito” del caso Cucchi, che a proposito dei colleghi condannati per il pestaggio disse: “Erano un po’ i pupilli del comandante, perché si volevano fare più arresti per farsi notare...”. Anche Beatrice, tuttavia, che al padre denunciava atti falsi e “cose fatte a umma umma...”, è rimasto muto con i superiori: “Adesso mi faccio i cazzi miei perché non voglio rimanere qua. Ma se dovessi rimanere qua... quel giorno... salta tutto, salta!”. Sono arrivati prima i magistrati, far saltare tutto; anche in virtù dei suoi silenzi. Perugia. Guida per detenuti e molto altro: presentato l’Alfabeto penitenziario di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 luglio 2020 L’Alfabeto penitenziario - Guida per le persone detenute, presentato ieri nel carcere di Perugia, non è solo un vademecum per orientarsi nella vita detentiva ma, secondo le intenzioni del gruppo di ricerca che lo ha redatto “un supporto tecnico-pratico per facilitare l’accesso ai diritti e il corretto esercizio degli stessi”. Il progetto, promosso dal precedente garante Carlo Fiorio, in collaborazione con il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, è stato portato a termine sotto la guida della docente Maria Chiara Locchi, nell’ambito di una ricerca europea sulla condizione dei detenuti stranieri (progetto “Printeg”, finanziato dal programma Sir 2014). Il testo, secondo gli intenti degli autori, vuole essere uno strumento per condividere un linguaggio, in un sistema complesso come il carcere, popolato da persone che rispondono a necessità organizzative e a regole diverse. “Un glossario serve a questo, innanzitutto: serve a capire e a capirsi - ha dichiarato Stefano Anastasia, Garante regionale dei diritti dei detenuti -. Perciò sarà bene che questo glossario lo leggano sia i detenuti che gli operatori carcerari, per intendersi sui reciproci diritti e doveri”. La guida potrà risultare anche utile, aggiungono i redattori, a quanti siano interessati a conoscere cosa è cambiato nell’ordinamento penitenziario dopo le modifiche apportate dal decreto legislativo del 2018. Le voci dell’Alfabeto sono state redatte dalle ricercatrici Ludovica Khraisat, Fabiana Massarella e Alessia Nataloni. “Il nostro auspicio - spiegano le curatrici - è che i detenuti possano acquisire una maggiore consapevolezza civica, che è parte integrante della funzione rieducativa della pena”. L’Alfabeto penitenziario è stato illustrato ieri mattina nella casa circondariale di Perugia Capanne da Stefano Anastasia insieme alle curatrici e a Francesca Sola, docente di clinica legale penitenziaria dell’università di Perugia. Copie del vademecum sono state consegnate a una rappresentanza di detenuti alla presenza della dirigente del carcere Bernardina Di Mario che ha ringraziato i ricercatori per la qualità del lavoro svolto. Sulmona (Aq). Lavori di pubblica utilità come misura alternativa al carcere agensir.it, 24 luglio 2020 Rinnovata questa mattina la convenzione tra il ministero della Giustizia e la Caritas diocesana di Sulmona-Valva, grazie alla quale è possibile attuare la legge che permette di sostituire la pena detentiva e pecuniaria inflitta dal Tribunale a un imputato, con lavoro di pubblica utilità, ovvero nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere, tra gli altri, presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Sono stati Marco Billi, presidente vicario del Tribunale di Sulmona, e mons. Michele Fusco, vescovo di Sulmona-Valva, ad apporre la loro firma sul documento grazie al quale la Caritas diocesana proseguirà nella convenzione attuata per la prima volta nel maggio 2013, accogliendo nel corso degli anni un centinaio di persone in percorso giudiziario, offrendo loro la possibilità di svolgere lavori di pubblica utilità durante la sospensione del procedimento penale. Per coloro che a seguito di condanna sono affidati in prova al servizio sociale dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe), la Caritas diocesana di Sulmona offre l’opportunità ad un massimo di 5 persone di svolgere attività di volontariato, come previsto dal patto di affidamento, durante l’intera misura. Sul sito della diocesi di Sulmona-Valva si legge come queste iniziative, promosse in tutto il territorio nazionale, hanno come obiettivo il reinserimento nella società della persona come soggetto attivo e positivo, e non come condannato, nella costruzione del bene comune. L’opportunità di mettersi al servizio di chi soffre e prendere coscienza dei propri bisogni attraverso il contatto con le marginalità sociali incontrate nei luoghi in cui si svolgono i lavori di pubblica utilità favoriscono la consapevolezza dell’imputato circa le responsabilità derivanti dalla sua condotta e la promozione di valori essenziali quali la responsabilità, la solidarietà, la gratuità e il dono, l’altruismo, la promozione umana e culturale. Bollate (Mi). I detenuti di ripareranno 8mila pc: ecco il progetto che aiuterà anche le scuole milanotoday.it, 24 luglio 2020 I detenuti di Bollate ripareranno 8mila pc: ecco il progetto che aiuterà anche le scuole. I dispositivi, donati da Snam, saranno trattati all’interno della struttura grazie a una collaborazione con l’impresa sociale Fenixs. I detenuti del Carcere di Bollate ripareranno oltre 8.000 tra computer, monitor e altro materiale elettronico non più in uso (stampanti, scanner e accessori) al fine di riutilizzarli in un’ottica di economia circolare rendendoli disponibili alla collettività. I dispositivi sono stati donati da Snam, nell’ambito di un’iniziativa sociale promossa insieme a Fondazione Snam e realizzata in collaborazione con l’impresa sociale Fenixs, impegnata da vent’anni in progetti lavorativi che hanno coinvolto finora più di 160 detenuti in diverse carceri italiane. Obiettivo del progetto è offrire ai detenuti un’opportunità di lavoro e riqualificazione professionale. Le apparecchiature verranno in gran parte ricondizionate, aggiornate e messe a disposizione delle scuole per attività educative, con particolare riguardo alle situazioni di fragilità, oltre a privati e aziende. Sulla parte non ricondizionabile, Fenixs collaborerà con Labo Raee, controllata di Amsa (società del Gruppo A2A) che gestisce l’attività dell’impianto di trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici (Raee) inaugurato un anno fa all’interno del Carcere. “Sono soddisfatta per l’avvio di questo nuovo progetto che coinvolge i detenuti e le strutture del Carcere di Bollate, come l’impianto Raee inaugurato lo scorso anno, con l’obiettivo di realizzare un circolo virtuoso per l’intera società. Essere parte di progetti che ‘rimettono in circolo’ ha una valenza forte per chi, una volta scontata la pena, dovrà ricollocarsi. E sappiamo che il lavoro è il modo migliore per tornare a scommettere su sé stessi” afferma Cosima Buccoliero, Direttore Aggiunto della Casa di reclusione Milano Bollate. L’iniziativa è in linea con i valori di Snam e con l’impegno della società nella sostenibilità ambientale e sociale, con particolare attenzione alle aree vulnerabili. Nel perseguire questi scopi, l’azienda fa leva anche sulla capacità di Fondazione Snam di costruire reti e collaborazioni con il mondo non profit. In questo periodo di emergenza legata al Covid-19, Fondazione Snam è al fianco di oltre 50 enti non profit impegnati nel sostegno alla popolazione più fragile. Alessandria. Falegnameria in carcere: “Recuperiamo materiali ma, soprattutto, persone” di Francesco Conti radiogold.it, 24 luglio 2020 Da qualche giorno all’Istituto di pena Cantiello e Gaeta di Alessandra è stata attivata una nuova falegnameria specializzata, dedicata ai detenuti protagonisti del progetto Social Wood. Promossa dalla associazione Ises in partnership con Casa di Carità, Arti e Mestieri, ente responsabile dei corsi di formazione, oltre che da altri enti della provincia e non solo, l’iniziativa rappresenta per le persone recluse una importante occasione di acquisire competenze in grado di offrire opportunità di lavoro una volta terminata la pena. Nel carcere alessandrino esiste già una falegnameria, utilizzata durante l’apprendimento delle nozioni del mestiere. Questo nuovo spazio, invece, rappresenta lo step successivo: i detenuti lavorano sei giorni su sette, affiancati dalla Polizia Penitenziaria e da esperti falegnami volontari, con l’obiettivo di soddisfare ordini dall’Italia e non solo. Ascoli. Nel carcere c’è chi torna in campo e chi aspira a fare il giornalista di Simone Corradetti cronachepicene.it, 24 luglio 2020 Il Csi di Ascoli riparte con gli allenamenti di calcio nella casa circondariale di Marino del Tronto. Sabato 25 luglio, i detenuti della sezione giudiziaria, incontreranno il loro preparatore atletico Valentino D’Isidoro, dopo lo stop dovuto all’emergenza Coronavirus. Con il lockdown, tutte le iniziative che si svolgevano nel penitenziario ascolano, erano state sospese. Adesso con grande entusiasmo il Csi, capitanato dal presidente Antonio Benigni e dalla responsabile della segreteria Eleonora Sacchini, ha annunciato la ripresa delle attività sportive che porteranno a nuovi incontri nelle prossime settimane, tra i detenuti e soggetti esterni. Dopo questo periodo buio, si cerca di tornare alla normalità, utilizzando tutte le precauzioni anti Covid, per la riabilitazione motoria e la rieducazione del condannato, come già previsto dalla Costituzione. Già nel dicembre 2019, la squadra dei detenuti, aveva incontrato l’ordine dei commercialisti, la Confindustria, la Sambenedettese, e la nazionale italiana dei sacerdoti, per regalare un sorriso, e una nuova possibilità a chi sta pagando il proprio debito con la giustizia. Sempre nell’ultimo incontro natalizio, fu celebrata una messa dal Vescovo della diocesi di Ascoli Giovanni D’Ercole. Inoltre nei prossimi giorni, uscirà il nuovo periodico dei detenuti, che hanno frequentato il corso di giornalismo all’interno della struttura, dal titolo “L’eco del Marino”. Infine il Csi, sta continuando la sua attività con i campi estivi per i bambini, che vogliono trascorrere una serena estate in compagnia, e all’insegna della socializzazione. Migranti. Impennata di sbarchi e la Guardia Costiera ferma le navi delle Ong di Alessandra Ziniti La Repubblica, 24 luglio 2020 E quattro. Con la strategia delle ispezioni e dei fermi amministrativi che arrivano puntuali alla fine di ogni soccorso, la Guardia costiera italiana continua a svuotare il Mediterraneo dalle navi umanitarie. Dopo la Alan Kurdi, la Atta Mari e la Sea Watch, è toccato alla Ocean Viking; ora bloccata a Porto Empedocle con una singolare contestazione. “Ci hanno accusato di aver portato un numero di persone superiore a quello riportato nel certificato di sicurezza dotazioni. Una manovra vessatoria palesemente volta a ostacolare il lavoro di soccorso”, accusa la Ong Sos Mediterranée che aveva salvato 209 migranti. Naufraghi, mica passeggeri in crociera, da soccorrere tutti in una situazione di emergenza, come per anni hanno fatto i mezzi della Guardia costiera italiana a prescindere dalla loro stazza. Libera, in preparazione per una nuova missione, resta solo la Mare Jonio. Il Mediterraneo ormai da 15 giorni è totalmente privo di soccorsi. E di informazioni. Gli unici occhi sono quelli del Seabird, l’aereo di Sea Watch che continua a segnalare inascoltato alle autorità le coordinate delle imbarcazioni in difficoltà e a documentare orrori (come il gommone con il corpo di un uomo mai recuperato) e respingimenti in Libia. “Ogni giorno al rientro a Lampedusa subiamo ispezioni - denuncia la portavoce Giorgia Linardi - se dovessero sequestrare anche l’aereo sapete il perché”. Ancora ieri, dall’alto, sono arrivate le immagini di due gommoni in difficoltà da ore in vana attesa di aiuto. Dopo una notte in cui, solo a Lampedusa, i soccorritori non si sono fermati un attimo. “Adesso, il grosso problema è di nuovo la Tunisia. Arrivano tanti pregiudicati, tante persone già più volte espulse che ritornano, ma anche interi nuclei familiari che si portano dietro persino i gatti”. Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio aggiorna la contabilità degli sbarchi: quindici barchini solo nella notte tra mercoledì e giovedì a Lampedusa. Svuotare l’hospot (95 posti la capienza dell’unico padiglione, 954 gli ospiti fino a ieri mattina) è un’impresa titanica: se ne riesce a portar via poco più di 200 al giorno, gli altri (donne e minori compresi) stanno tutti ammassati dentro e fuori il centro di contrada Imbriacola dove ieri Matteo Salvini in visita si è visto dare del fascista da un tunisino. La puntata del leader leghista a Lampedusa, tre giorni dopo la visita della Lamorgese, è caduta proprio nelle ore in cui l’isola tornava a registrare numeri complicati da gestire con 761 presenze all’hotspot dove è finalmente arrivato il macchinario per effettuare i tamponi ai migranti. Ma i 4500 arrivi solo a luglio, che hanno fatto schizzare il contatore degli sbarchi del 2020 ben oltre quota 11.000 (quasi quadruplicati rispetto all’anno scorso), impongono una nuova missione della ministra Lamorgese in una Tunisia dove la crisi economica ha ormai fatto saltare qualsiasi equilibrio sociale spingendo migliaia di persone verso l’Europa: più di un terzo dei migranti arrivati in Italia nel 2020 è tunisino, dunque i cosiddetti migranti economici che non beneficiano di alcun tipo di protezione e che all’Italia tocca provare a rispedire indietro. Con alterne fortune. Quanto basta a Matteo Salvini per cavalcare l’onda: “C’è un vergognoso traffico di esseri umani di cui il governo italiano è complice in maniera criminale”. Migranti. Sos Mediterranée: “Ci fermano perché abbiamo salvato troppe persone” di Carlo Lania Il Manifesto, 24 luglio 2020 “La nave trasportava un numero di persone superiore a quello riportato nel Certificato di Sicurezza Dotazione per Nave da carico”. È una delle motivazioni con cui mercoledì sera la Guardia costiera ha deciso il fermo amministrativo della Ocean Viking, la nave della ong Sos Mediterranée. Le persone in più di cui si parla sono i 180 migranti tratti in salvo in quattro differenti salvataggi compiuti nell’area Sar (ricerca e salvataggio) di Italia e Malta. Naufraghi, la cui vita senza l’intervento dell’equipaggio della Viking molto probabilmente sarebbe stata a rischio. La decisione della Guardia costiera segue quella analoga adottata il 9 luglio scorso nei confronti della Sea Watch 3, dell’omonima ong tedesca. Le due navi si trovano ora entrambe a Porto Empedocle, ormeggiate a poca distanza l’una dall’altra. Ma soprattutto nel Mediterraneo centrale non ci sono più le ong, nonostante le partenze dei barconi dalla Libia e dalla Tunisia siano in aumento, come dimostrano gli arrivi di questi giorni. Nicola Stalla è il coordinatore dei soccorsi di Sos Mediterranée. 41 anni, prima di arrivare nel 2016 alla ong è stato a lungo imbarcato su navi mercantili. A quanto pare vi considerano come una nave passeggeri che ha preso a bordo troppi turisti... Non siamo sorpresi, si tratta di un’interpretazione forzata delle Convenzioni marittime e dei regolamenti tecnici, un comportamento già visto in passato con altre navi delle ong. Stupisce che questa volta il provvedimento non colpisca piccole navi come l’Alan Kurdi o l’Aita Mari ma l’Ocean Viking, che per stazza, tipologia e caratteristiche tecniche è di fatto una delle imbarcazioni del Mediterraneo centrale attrezzata in maniera migliore per i soccorsi. Alla stregua di navi ammiraglie della Guardia costiera italiana come la Diciotti o la Dattilo. Stando al vostro certificato di sicurezza quante persone potreste prendere a bordo? Soltanto l’equipaggio e il personale tecnico, che per la Viking significa 41 persone. Ma sono le stesse convenzioni, come la Solas (la Convenzione per la sicurezza in mare, ndr) che specificano come le persone che si trovano a bordo in seguito all’obbligo del comandante di soccorrere chi si trova in difficoltà, non vanno conteggiate ai fini di verificare l’applicazione delle disposizioni tecniche. In teoria chi potrebbe fare i soccorsi? A questo punto nessuno. Ma c’è una cosa da sottolineare: in passato la Guardia costiera ha fatto sistematicamente ricorso alle navi mercantili e alle ong per intervenire in operazioni Sar, per imbarcare a volte centinaia di naufraghi senza che mai venissero mossi rilievi. Quindi cosa è cambiato nel frattempo? Ecco, questo è il punto. Convenzioni e regolamenti internazionali non sono cambiati, quello che è cambiato è l’indirizzo politico dell’Unione europea e dell’Italia sui soccorsi nel Mediterraneo centrale. Le nuove e forzate interpretazioni del quadro normativo tradiscono l’influenza di queste politiche sull’amministrazione marittima, che ci si aspetterebbe indipendente e neutrale e che invece dimostra ora di operare in continuità con quelle politiche. Il risultato è che nessuna ong è presente nel Mediterraneo... In questo momento nessuna. Ocean Viking, Sea Watch 3, Alan Kurdi e Aita Mari, quattro delle cinque navi che battono bandiera straniera, sono state bloccate. Allo stesso tempo anche gli aerei di monitoraggio vengono ostacolati. Senza la presenza di navi e aerei delle ong nessuno saprebbe nulla delle crisi in atto nel Mediterraneo centrale, nulla dei naufragi, del mancato soccorso da parte degli Stati, dell’abbandono in mare e dei respingimenti in Libia. Non dimentichiamoci il cadavere del migrante ancora abbandonato in acqua da settimane. Libia, migranti e profughi: ecco dove vanno a finire i fondi della Cooperazione italiana di Sara Creta La Repubblica, 24 luglio 2020 Il rapporto di un’Associazione di giuristi (Asgi) sui 6 milioni stanziati dal governo italiano. Un dossier dettagliato sui progetti che pone interrogativi sugli interventi nei centri di detenzione libici. Sono passati oltre 2 anni dalla firma del Memorandum d’intesa Italia-Libia. A poche ore dal voto in Parlamento sulle operazioni militari all’estero e la proroga della missione di assistenza alla Guardia costiera Libica, rimangono vaghe le promesse del Governo di Tripoli di rispettare i diritti umani, in un Paese frammentato da anni di conflitto armato, in grave crisi politica ed economica. Nonostante il silenzio di Tripoli sulle modifiche all’accordo, continuano le sparizioni forzate dei migranti respinti in Libia - documentate dalle Nazioni Unite - il tutto anche all’interno di strutture “adeguate e finanziate” dal governo italiano. I progetti esaminati da Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) si inseriscono nel quadro più ampio degli interventi della Farnesina del cosiddetto “Fondo Africa” di 200 milioni, in gran parte gestito dalla Cooperazione, sia con interventi d’emergenza che di stabilizzazione. I 6 milioni dell’Agenzia per la Cooperazione. Non solo progetti partiti a fine 2017 a sostegno di donne e bambini detenuti arbitrariamente a Tripoli nel Centro di Tarek al Matar - ora chiuso a causa del conflitto - il bando dell’Aics, l’Agenzia per la Cooperazione italiana - appunto - ha aperto le porte alle Ong italiane ad altri centri di detenzione a Zawya, Khoms e Tajoura le cui condizioni critiche sono segnalate nello stesso bando di Aics. I nove progetti della Farnesina in Libia, alcuni dei quali sono ancora in corso di realizzazione, prevedono un costo di spesa pubblica di oltre 6 Milioni. Secondo una analisi di Asgi l’obiettivo dell’intervento non è infatti di tentare di risolvere le gravi criticità individuate nei centri di detenzione, ma semplicemente di “migliorare” le condizioni sanitarie, nutrizionali ed igieniche, in modo temporaneo (in quanto limitato dalla durata dei progetti) e inevitabilmente non risolutivo. Migranti utilizzati per ampliare le strutture. Le organizzazioni italiane attive in Libia, oltre che occuparsi della distribuzione di beni di prima necessità, hanno anche riabilitato centri di detenzione, nominalmente sotto il controllo del ministero degli interni, ma in realtà gestiti da milizie locali, spesso coinvolte nel traffico di migranti. “Il sistema di detenzione è troppo compromesso per essere aggiustato”, scrive l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti dell’Uomo (Ohchr), mentre insiste nella chiusura di tutti i centri di detenzione libici. Tuttavia, dai resoconti finanziari raccolti da Asgi, con il supporto della Cooperazione italiana e attraverso la collaborazione di organizzazioni libiche locali, sono state ampliate le strutture esistenti, contribuendo a finanziare l’illegittima detenzione di persone in condizioni inumane. Gli interventi includono la costruzione di bagni, ma anche costruzione di muri e cancelli, ripristino dell’energia elettrica o della sostituzione di finestre. Dai racconti dei direttori dei centri di detenzioni di Khoms e di Sabaa a Tripoli emerge che in alcuni casi gli stessi migranti sono stati utilizzati per costruire muri di recinzione e ampliare le strutture. La trasmissione dei rendiconti e altri documenti. Nonostante le numerose richieste inviate all’Autorità responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza del Maeci (Ministero degli Esteri); l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo ha sempre negato il diritto di accesso ai testi dei progetti approvati nel “tutelare le relazioni internazionali e la sicurezza degli operatori”, senza fornire alcuna ulteriore spiegazione. Gli avvocati di Asgi hanno ricevuto rendiconti annuali e periodici, i contratti di subappalto con le associazioni libiche (oscurando tutti i dati di quest’ultime), i rendiconti narrativi delle attività svolte delle seguenti organizzazioni non governative italiane: Help Code, Cesvi, Cefa, Emergenza Sorrisi, Terre des Hommes. In alcuni casi i rapporti finanziari narrativi forniscono elementi aggiuntivi come quali cibi o quali tipi di medicine sono stati acquistati. Approssimativa rendicontazione e scarsa trasparenza delle Ong. I rendiconti contabili e finanziari che l’Aics ha trasmesso (oscurando i nomi dei partner libici o l’ammontare del budget per alcune voci di spesa tra cui compensi personale), sono in alcuni casi “voci di spesa generiche, approssimative e talora di importi identici ed arrotondati”, scrive Asgi. La Ong Helpcode, per esempio, nel rendiconto finale del progetto “Intervento di prima emergenza con tecnologia innovativa per migliorare le condizioni igienico-sanitarie nei centri migranti e rifugiati a Tripoli”, di importo pari a 662.108,00 euro, indica per l’attività riabilitazioni idriche tre unità - presumibilmente una per ciascun centro interessato dagli interventi - di costo unitario stranamente identico tra loro (16.000 euro). In Libia, Helpcode ha inizialmente collaborato con l’organizzazione non governativa Staco; ma il rapporto si è concluso nel 2018. Gli operatori libici sul campo e il monitoring. Nell’estate del 2018, il centro di detenzione di Tarek al-Matar è stato colpito da violenti combattimenti; “era il caos”, ricorda un operatore umanitario presente nella struttura durante gli scontri. “L’equipaggiamento medico che usavamo nel centro e il generatore, entrambi donati dalla cooperazione italiana sono stati saccheggiati dalle milizie”, conclude l’operatore libico. Per tutti gli interventi della Cooperazione italiana in Libia si è optato per un management da remoto, in quanto gli accessi degli operatori umanitari italiani sono stati più volte evitati per motivi di sicurezza. L’organizzazione Helpcode per esempio, ha speso oltre 22.000 euro per attività di monitoraggio, attraverso l’utilizzo di un’applicazione chiamata “Gina”, che garantiva un meccanismo di controllo remoto sulle distribuzioni, ma secondo un operatore libico che ha utilizzato il sistema durante le distribuzioni nei centri, rimane impossibile sapere cosa succede quando gli operatori lasciano i centri. “In generale stavamo semplicemente investendo denaro nelle basi delle milizie per assicurarci l’accesso”, conclude. Alcune organizzazioni hanno cambiato approccio. “Il grande equivoco è che - come Cefa - non abbiamo mai gestito i centri, abbiamo fatto solamente interventi o formazione alle guardie in due occasioni”, racconta Andrea Tolomelli, responsabile progetti. L’ultimo progetto di Cefa all’interno dei centri di detenzione di Tripoli si è concluso a giugno, e “non c’è l’intenzione di ri-progettare interventi strutturali, poiché con l’esperienza che abbiamo maturato in Libia, la nostra visione è cambiata radicalmente. Ora preferiamo puntare su attività live-saving”, conclude il responsabile di Cefa. La strategia di contenimento migratorio. Secondo Asgi, gli interventi nei centri di detenzione non sono sostenibili nel tempo. “Non ambiscono ad un miglioramento durevole delle condizioni dei centri, né ad un meccanismo che impegni il governo libico ad assumere la responsabilità di assicurare una detenzione rispettosa dei diritti fondamentali”, scrive l’organizzazione. “Non può così escludersi che di almeno parte dei fondi abbiano beneficiato i gestori dei centri, ossia quelle milizie che sono talora anche attori del conflitto armato sul territorio libico nonché autori delle già ricordate sevizie ai danni dei detenuti”, conclude Asgi. Libia. I rischi dell’escalation egiziana di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 24 luglio 2020 La recente decisione del parlamento egiziano di autorizzare l’invio di truppe in Libia contro l’irrompere dell’influenza militare e politica turca rimarca le gravi tensioni crescenti nell’intero Medio Oriente. Va chiarito che l’esercito di Abdel Fattah al Sisi non è in grado da solo di sostenere uno scontro diretto con quello di Recep Tayyip Erdogan. Un’evidenza emersa anche negli ultimi mesi. Khalifa Haftar, il grande “protetto” da Egitto, Russia ed Emirati, ha dovuto abbandonare l’assedio di Tripoli nel momento in cui la Turchia ha mandato rinforzi alle milizie che sostengono il governo di Fayez Sarraj nell’ovest. E oggi Erdogan può tranquillamente rilanciare le sue mire neo-ottomane sull’antica provincia del nord-Africa. Ne consegue che anche le “linee rosse” egiziane circa l’eventualità che il fronte di Sarraj possa conquistare sia Sirte che la base di Jufra potrebbero facilmente venire violate. Tuttavia, lo scontro è molto più profondo e sfaccettato. In primo luogo, al Sisi è in gravi difficoltà. Indebolito dalla fallimentare trattativa con Adis Abeba e Khartoum relativa alla diga etiope sul Nilo, diventa per lui vitale rilanciare un’immagine di potenza. Ne consegue l’aspirazione a porsi alla testa del fronte degli Stati forti impegnati nella guerra ad oltranza contro l’universo dei Fratelli Musulmani schierati con Sarraj e di cui Erdogan è oggi il massimo protettore. Non si tratta dunque solo di decidere chi governerà la Libia, o alternativamente di spartirsi Cirenaica, Tripolitania e Fezzan in zone d’influenza. Al Sisi ovviamente non vuole i gruppi jihadisti sulle centinaia di chilometri del confine desertico a ovest. Ma soprattutto il braccio di ferro libico rivela la battaglia ideologica interna al mondo sunnita tra una concezione “laica” del potere, sorretto dall’esercito con le moschee asservite, e invece una molto più “teologica”, dove le autorità religiose fanno parte integrante dello Stato. La Chiesa nelle carceri spagnole al tempo del lockdown di Florencio Roselló Avellanas L’Osservatore Romano, 24 luglio 2020 Quando si è sparsa la notizia che le porte delle carceri della Spagna sarebbero state chiuse a tutti, tranne che agli agenti di custodia e al personale sanitario, mi trovavo all’interno di un penitenziario e mi ha colpito l’ambiente di volti seri, sguardi persi e malinconici. Qualche lacrima scendeva, mentre si parlava di tagliare ancor di più i ponti col mondo esterno, ma anche di morti e di ospedali. Corridoi vuoti, silenzi, teste chine: tutto denotava incertezza. I detenuti facevano tante domande per le quali non non c’erano risposte: che cosa succederà? fino a quando? Interrogativi che continuano a riguardare ogni persona, anche chi vive in libertà, perché la pandemia ha davvero sorpreso tutti. Dopo la chiusura all’esterno, l’amministrazione penitenziaria ha aggiunto nuove misure per combattere il diffondersi del covid-19 nelle celle: anzitutto sono stati sospesi i colloqui con i famigliari, sia nei parlatoi (attraverso il cristallo) sia “vis à vis” (personalmente). Sono state scelte dure, perché la famiglia è il balsamo curativo che tranquillizza la vita dietro le sbarre; è il motore che alimenta la speranza. E invece la comunicazione è stata limitata a chiamate telefoniche, a lettere, ma senza poter vedere e ancor meno abbracciare i cari. In seguito sono state comunque consentite videochiamate, che hanno quantomeno alleviato la tristezza del non poter vedere i congiunti. Successivamente è stata anche sospesa la possibilità di godere di permessi ordinari in strada con la famiglia. Non sono stati neppure più accettati pacchi di vestiti per i reclusi. E così le porte si sono chiuse ancora di più, lasciando cuori feriti e sentimenti frustrati. Perché pure le attività sono state ridotte: i laboratori produttivi di ditte esterne sono stati fermati, le lezioni delle scuole carcerarie sono state sospese, come anche le celebrazioni religiose, perché è stato vietato l’accesso ai cappellani, bloccando di fatto tutto ciò che costituiva una valvola di sfogo, una boccata di ossigeno dentro il carcere. Certo grazie a tutto ciò, il tasso di mortalità nei penitenziari spagnoli è circa dieci volte più basso di quello della popolazione in generale; e sono stati colpiti solo una decina di centri di detenzione, quindi nell’85 per cento di essi non sono stati registrati contagi. Ma non bisogna mai dimenticare che alla fine il detenuto rimane solo con il muro, la recinzione del cortile e le sbarre della cella; solo con il suo “io” isolato e chiuso. Perciò, soprattutto all’inizio, si sono vissuti momenti di tensione, con proteste singole e collettive; ma in generale, contrariamente a quanto si potesse pensare, gli uomini e le donne reclusi in Spagna hanno reagito con responsabilità e in maniera esemplare; e in alcuni casi addirittura sorprendente e solidale: ci sono state case circondariali dove ogni sera i detenuti hanno applaudito gli operatori sanitari, insieme al resto del Paese libero; in altre hanno elogiato i secondini perché li stavano proteggendo e aiutando, scrivendo persino lettere per ringraziarli della dedizione dimostrata nei loro confronti. La società ora capisce meglio i detenuti: a causa dell’isolamento domiciliare, infatti, anche le persone libere hanno sperimentato il “non poter uscire in strada” quando volevano, il non poter circolare liberamente. E ciò ha provocato reazioni diverse: alcuni si sono sentiti oppressi, ad altri “è caduto il mondo addosso”, a molti il confinamento è risultato difficile, specie se la casa piccola, perché con un alto numero di occupanti si moltiplicano le tensioni. Ciò ha portato molte persone a sentirsi in carcere, a capire che cosa prova un recluso. Ma, a differenza del carcere, siamo stati con la nostra famiglia, seguendo l’orario che volevamo e mangiando quello di cui avevamo voglia. Tutto ciò è molto diverso dalla detenzione. Questa esperienza farà forse scemare dal linguaggio e dalla percezione comuni l’idea dei penitenziari come “hotel a cinque stelle”, come sono definiti soprattutto quelli per detenuti accusati di determinati delitti. E per la pastorale penitenziaria resta la speranza che questa esperienza porti a un impegno maggiore con le carceri e con le persone che vi sono rinchiuse. Mi ha scritto un detenuto in una lettera: “Questo servirà a far sì che tanta gente si metta nei nostri panni, al posto nostro, perché, in fin dei conti, tutti ora sono carcerati, con la sola differenza che il carcere è la propria casa”. I cappellani e i volontari non sono potuti entrare nelle carceri durante il “lockdown”. Si è perso il contatto fisico e personale con i detenuti, sia per l’attenzione spirituale sia per le celebrazioni e lo svolgimento di attività. In un simile contesto, la Chiesa in prigione si è dovuta reinventare, ha dovuto essere creativa. Ma non ha mai smesso di assistere i reclusi e le loro famiglie. Senza poter ricorrere però a mezzi telematici, perché non sono consentiti nei penitenziari. Questa presenza ha avuto molteplici e diverse manifestazioni di vicinanza e di sostegno: varie cappellanie hanno fabbricato, all’inizio della pandemia, circa 20.000 mascherine e 100 schermi protettivi per i carcerati e le guardie. Altre delegazioni hanno aperto indirizzi e-mail a cui inviare messaggi di sostegno e di solidarietà ai detenuti. Molte hanno continuato a dare un aiuto economico ai più poveri e indigenti, perché al momento le famiglie non possono andare a visitarli. Si sta anche producendo una “pioggia” benefica di lettere di volontari che scrivono ai detenuti. Diverse cappellanie inviano sussidi liturgici per vivere le celebrazioni della messa e schede telefoniche con traffico dati: infatti sono stati creati gruppi WhatsApp con le famiglie per tenere alto il morale e offrire sostegno in questo tempo di distanziamento. In qualche casa circondariale la Chiesa ha introdotto fino a 40 televisori per chi si trova in isolamento sanitario. Inoltre la pastorale penitenziaria ha mantenuto appartamenti e centri di accoglienza aperti per quanti hanno riacquistato la libertà. La Chiesa non chiude neppure davanti al coronavirus, sempre nell’osservanza delle regole stabilite dalle autorità sanitarie. Come nelle prime comunità cristiane, gruppi di detenuti continuano a pregare, ritrovandosi con semplicità in piccole sale: cantano e invocano Dio per le loro famiglie, per la loro libertà e anche per la fine della pandemia, che ha fatto nascere una nuova Chiesa. Infatti, sono stato un testimone privilegiato di come il covid-19 abbia avvicinato i detenuti a Dio. La situazione di solitudine e d’incertezza ha portato molti di loro a ricorrere al Signore, a mettere la vita nelle sue mani. Quando le persone non trovano risposte, volgono lo sguardo verso il cielo. Lo testimoniano le 200 lettere che ho ricevuto dalle carceri durante questo periodo. Dinanzi alla malattia e alla morte, in carcere la gente sente che Dio la protegge, ne sperimenta la vicinanza. “Padre, qui dentro per ora va tutto bene, visto che con l’aiuto di Dio non veniamo abbandonate, e sappiamo che ogni volta che si prega, Lui si ricorda di tutto il carcere” (Rosa). “Sono sola nella mia cella, ma so che Dio è con me. Ogni giorno prego, piango e guardo il cielo perché non mi abbandoni” (Dalila). In molti si è risvegliato il valore della preghiera. “Leggo la Bibbia ogni giorno, recito il Padre nostro e chiedo al Signore che tutto finisca presto” (Tamara). “Prego per tutte le famiglie che hanno perso i propri cari o che sono malate” (Ana). “In questi giorni a volte, in silenzio, recito un Padre nostro perché il virus passi in fretta” (Miguel Ángel). In altri è maturato il desiderio di accrescere e conservare la fede. “Sto imparando a rafforzare la mia fede anche nei momenti brutti, come ora” (Joaquín). “Parlo a Dio con umiltà e gli chiedo di cambiare il mio cuore giorno dopo giorno” (Jesús). “Ogni sera leggo il Vangelo e prego molto nella mia cella” (Ana). Insomma i detenuti sentono che non li abbiamo abbandonati, che stiamo con loro. La Chiesa cammina dentro da fuori, celebra dentro da fuori. Anche la Settimana santa è stata molto diversa, ma una pandemia non può fermare la risurrezione di Gesù. I carcerati hanno percepito che, come Chiesa, siamo stati loro vicini anche dal di fuori. Abbiamo continuato ad accompagnare le famiglie e lottato per i loro sogni. Cile. Il governo dialoghi coi prigionieri mapuche in sciopero della fame di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 luglio 2020 Amnesty International ha inviato una lettera aperta al presidente del Cile Sebastián Piñera, esprimendo preoccupazione per la situazione di 27 detenuti mapuche in sciopero della fame nelle prigioni di Temuco, Angol y Lebu. Uno di loro, Celestino Córdova, non assume cibo ormai dal 4 maggio. “Invece di disinteressarsi della vicenda e di negare le loro responsabilità, le autorità cilene dovrebbero trovare una soluzione basata sul dialogo per garantire il diritto alla salute e alla vita dei detenuti in sciopero della fame”, si legge nella lettera aperta al presidente cileno, che sottolinea anche la situazione di maggiore rischio di contagio dal Covid-19. La lettera aperta di Amnesty International evidenzia anche il fatto che 19 delle 27 persone in sciopero della fame sono in detenzione preventiva, rispetto alla quale dovrebbe applicarsi il principio della presunzione d’innocenza. Si fa infine riferimento alla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata dal Cile, che stabilisce che nei casi in cui si impongano sanzioni penali ad appartenenti a una comunità nativa (come nel caso dei 27 mapuche) si deve tener conto delle caratteristiche economiche sociali e culturali e considerare prioritariamente sanzioni diverse dal carcere. L’addio del Sudan alla sharia, ora l’infibulazione è vietata La Stampa, 24 luglio 2020 Il Sudan abbandona definitivamente la sharia, la legge islamica introdotta da Omar Hassan al-Bashir, il dittatore deposto l’anno scorso dopo più di tre decenni al potere. La riforma che apre ai diritti umani dovrebbe mettere fine alla persecuzione dei cristiani e alle violenze contro le donne e i gay. Le durissime leggi coraniche eliminate dal governo di transizione sono il lascito sia di al-Bashir che di Gaafar al-Nimeiry, un colonnello dell’esercito che guidò il Sudan tra il 1969 e il 1985. Fu lui nel 1983 che impose il primo nucleo della legge islamica facendo precipitare il conflitto tra il nord a maggioranza musulmana e il sud, prevalentemente cristiano e animista, fino alla secessione del Sud Sudan nel 2011. Il cambiamento avvenuto in questi giorni è un grande passo in avanti, fino a qualche anno fa impensabile. Da ora in poi sarà permesso ai non musulmani di consumare alcol. Sarà vietata la fustigazione pubblica come punizione, non verranno più eseguite condanne a morte contro gli omosessuali, scompare la terribile legge sull’apostasia. È stato anche introdotto il divieto all’infibulazione e alle mutilazioni genitali femminili. Per le donne sudanesi e per milioni di bambine è la fine di un incubo: la mutilazione è ora punibile fino a tre anni di carcere anche se - per tante comunità rurali - questa pratica fa parte di una cultura tradizionale piuttosto radicata che, se non sarà supportata da una adeguata campagna medica e capillare sul territorio, potrebbe anche non scomparire facilmente. Le mosse del governo erano nell’aria da tempo e, ultimamente, sono state accelerate dalle enormi proteste che hanno attraversato il paese. Decine di migliaia di persone in strada chiedevano i cambiamenti nonostante il blocco dovuto al coronavirus. La nazione africana - sotto la supervisione della comunità internazionale - è avviata a compiere piccoli passi verso la democrazia. “Come governo, il nostro lavoro è quello di proteggere tutti i cittadini sudanesi sulla base della Costituzione e delle leggi che dovrebbero essere coerenti con la Costituzione”, ha detto il capo del governo provvisorio Abdulbari alla televisione di Stato. Per le donne il mutamento in atto è quasi una rivoluzione copernicana. Significa, per esempio, che ora potranno persino portare i pantaloni, uscire di casa senza avere più bisogno di un permesso scritto dal marito, significa che non rischieranno sanzioni o frustate per un banale pretesto. Diverse organizzazioni per i diritti umani - tra cui Amnesty - si erano battute contro la legge sull’apostasia che ha consentito diffuse persecuzioni contro i cristiani o arresti arbitrari nei confronti di chi avversava il regime. Il caso più eclatante di apostasia era affiorato nel 2014 quando una donna incinta di nome Meriam Ibrahim, era stata arrestata rischiando la pena di morte per essersi convertita al cristianesimo. Ne seguì una campagna martellante a livello internazionale per ottenere il suo rilascio. Nel maggio scorso la ministra degli esteri del governo di transizione, Asmaa Mohamed Abdalla - prima donna a ricoprire un incarico così importante nel paese africano - aveva annunciato le modifiche costituzionali e i cambiamenti al codice penale che ora sono stati approvati. “Potremo perseguire chi infibula”. Una pratica pericolosa perché tante bambine muoiono per le infezioni e per le conseguenze devastanti che le escissioni lasciano sul corpo. Si calcola che l’89 per cento delle bambine sudanesi siano state sottoposte a questa pratica.