L’Avvocato e l’ergastolo ostativo di Michele Passione Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2020 C’è una ragione su tutte per la quale non ho avuto esitazioni ad accogliere l’invito della Fondazione Ferrarese, sebbene costretti ad un’interlocuzione ancora dolorosamente a distanza (che, tra l’altro, impedisce di guardare in faccia chi ascolta, e gli sguardi sono tutto): l’invito a riflettere sulla “etica della responsabilità sociale” quale conseguenza delle proprie azioni (od omissioni). Proverò a dire qualcosa su questo. Del resto, durante il lungo periodo di lockdown non sono mancate le voci di chi ha preso posizione su forme di regolazione dei fenomeni sociali determinati dal virus, e tra esse quelle di non pochi giuristi, che hanno ragionato allargando lo sguardo oltre il qui ed ora. Già l’etimo della parola Avvocato rivela il compito e la difficoltà di sottrarsi ad esso; spingendosi oltre, questo ciclo di incontri, che pone l’Avvocato al centro, propone la stimolante riflessione di una nuova declinazione del termine, non solo intesa come “chiamata” per porsi accanto a chi ha bisogno di aiuto per la difesa (o rivendicazione) dei suoi diritti, ma come (ad)vocazione sociale, utile a “rinsaldare un rapporto virtuoso tra gli operatori del diritto e la cittadinanza stessa”. Così, attraverso la narrazione di casi celebri e battaglie ardite, riflettendo sull’importanza dell’impegno profuso e delle numerose pietre d’inciampo lungo la strada, oltre che sui risultati raggiunti, si sarà comunque ottenuto un risultato: considerare che vale sempre la pena provarci. La storia che ci occupa è lunga e dolorosa, troppo a lungo “giustificata” da bias di comodo. Per quanto mi riguarda, comincia circa un anno fa: mentre bevo una birra ricevo una telefonata, qualcuno che chiede aiuto. Una Collega, poi diventata Amica. Si tratta di assistere una persona davanti alla Corte, una persona il cui destino è scritto nel suo fine pena. MAI, c’è scritto. Le propongo una mano, ma la invito a far da sola, a fare presto (il tempo corre, e bisogna spicciarsi per l’atto di intervento), a fare bene. L’occasione è storica. “non lasciarlo solo davanti alla Corte”, le dico; occorre che ci sia la voce della Difesa. Passano i giorni, e proprio il giorno in cui spedisco al colle il mio atto di intervento per altra causa (per un minorenne, oggetto di altre preclusioni; ma questa è un’altra storia), vengo raggiunto da una nuova richiesta, questa volta di condivisione della Difesa. Mancano due giorni. Allora scrivo. Questo è l’inizio, la fine è nota (anche se la storia non è ancora finita, e altri capitoli stanno per aggiungersi). Tralascio il Diritto, ché altri qui, e meglio di me, hanno detto e diranno: mi limito a riflessioni sparse, partendo da una domanda (che pure si misura con uno dei temi implicitamente affrontati al § 8.2 del Considerato in diritto, oggetto di riflessione del Giudice delle Leggi nella sent. 253/2019). “Quanto pesa un giorno di carcere? O un secondo, o un’ora, o una vita?” (L. Santa Maria). La Corte ha detto poco dell’Uomo in carcere, e la sentenza sembra parlare più ai cittadini che ai condannati. Eppure l’Uomo è sempre molto di più del reato che ha commesso. Saltato il limite, considerato che “ciò che limita, almeno in parte, fonda” (V. Manes), sarà il cammino, non il passato, a condurre al futuro. Senza entrare in tecnicismi, per quel che mi compete segnalo come in relazione alla prudenza che ha accompagnato la Corte nella stesura della storica sentenza (esposta a - e in qualche modo “condizionata” da - irragionevoli strumentalizzazioni politiche e mediatiche) potrà (e dovrà, dai difensori del Diritto) essere considerato che l’onere rafforzato circa il pericolo di ripristino dei collegamenti debba essere declinato in termini di attenta verifica del rischio di recidiva, senza cedere a nuovi automatismi, riconoscendo definitivamente la libertà di non collaborare, questa volta (e per sempre) finalmente oggetto di valutazione euristica. Il tempo della pena non può dunque davvero più essere un tempo immobile, né in termini qualitativi (la pena certa, la giusta pena, è costituzionalmente mutevole, in ragione del percorso risocializzante intrapreso dal condannato) né quantitativi L’ergastolo ostativo ha le ore contate; nel muro c’è finalmente la crepa che lo farà cadere. Nessuna pretesa autoritaria (come quella suggerita dalla Dia in questi giorni: “qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia”) potrà resistere alla considerazione che “il diritto è ordinamento del sociale, guai se il diritto si lega troppo all’autorità e diventa soltanto voce dell’autorità” (P. Grossi). Se è vero che “si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti” (M. Palma), occorre rifuggire dall’aporetica tra Diritto e Giustizia, che finisce spesso col sovrapporre impropriamente concetti diversi (la colpevolezza e la pericolosità). Stare accanto a chi ha bisogno, saper accompagnare il percorso e aiutare a rialzarsi, garantire diritti; nessuno è perso per sempre, e il libero arbitrio spesse volte è una scusa per chiamarsi fuori dai doveri di solidarietà sociale che la Costituzione impone. Non bisogna dunque farsi condizionare dalla sfrenata “passione contemporanea” della punizione (D. Fassin), del resto denunciata anche dal Pontefice, ma avere riguardo alla finalità inclusiva, tanto più che “la funzione risocializzativa mira, in ultima istanza, ad evitare la recidiva e a proteggere la Società” (Corte Edu, GC, Murray c. Paesi Bassi; Corte Edu, Viola n.2 c. Italia). La storia di P.P. è storia di tanti; comincia con la ricerca di un riconoscimento sociale e di marcatori di successo, cercato per strada con le pistole in mano. La bella vita e la morte; l’affiliazione a vent’anni, la fuga e la galera. (dal 1995). Col tempo, nel tempo lungo e freddo del carcere, la sopravvenuta devastante immagine di sé, la consapevolezza del disvalore dell’agito criminale, una maturata coscienza civile. Per rispetto alla “funzione sociale” che sta nella formula di impegno con cui si comincia la professione, appare dunque evidente come sia indispensabile misurarsi quotidie con le più varie agenzie, con i bisogni, con i diritti, non solo coi codici e con le parti. È il famoso aforisma di Einstein, che deve indurci a riflettere sempre, e a non desistere mai: “tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa, e la inventa”. Fossa comune di sepolti vivi, ecco cos’è il 41bis di Sergio D’Elia* Il Riformista, 23 luglio 2020 Sabato il Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem dedicato al “carcere duro”. Al centro dell’incontro anche le testimonianze dirette di chi ha subito questo regime speciale, diventato un regime di tortura. Si parlerà, tra le altre, della vicenda di Raffaele Cutolo. Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem terrà un altro Consiglio Direttivo sabato, 25 luglio. La riunione dal titolo “41bis: monumento speciale della lotta alla mafia, fossa comune di sepolti vivi” prende spunto dall’uscita di un numero monografico sul “carcere duro” della rivista giuridica Giurisprudenza Penale. Insieme all’aspetto tecnico-giuridico (di cui il fascicolo prevalentemente tratta), verrà trattato quello umano del vissuto delle vittime di questo regime speciale che vige in Italia da quasi trent’anni e che nessuno pare voglia mettere in discussione. Prenderanno la parola ex detenuti al 41bis, familiari, avvocati difensori, magistrati di sorveglianza, giuristi, giornalisti. Si parlerà della vicenda di Raffaele Cutolo, un uomo di quasi 80 anni vissuti in un tempo “equamente” diviso fra tre generazioni: la prima in libertà, la seconda nel carcere “normale”, la terza al “carcere duro”. Non sono pochi i detenuti al 41bis che, come Raffaele Cutolo, sono sottoposti al regime speciale di isolamento, ininterrottamente, da quando è stato istituito nel 1992 e che rischiano di morire nelle mani di uno Stato che ha abolito la pena di morte, ma non la morte per pena e la pena fino alla morte. Il monumento simbolo della lotta alla mafia si erge su una fossa di sepolti vivi, uomini privati di sensi umani fondamentali come la vista e l’udito, di facoltà sociali minime come la parola. Da regime speciale introdotto per tagliare le comunicazioni mafiose tra l’interno e l’esterno del carcere, il 41bis si è nel tempo involuto fino ad attorcigliarsi su sé stesso, si è incattivito fino ad accanirsi anche contro sé stesso, con norme, disposizioni, circolari assurde che, al confronto, quelle in vigore a Guantánamo o nei campi di rieducazione cinesi appaiono regole libertarie. La mania securitaria ha spinto, ad esempio, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a percorrere tutti i gradi di ricorso fino alla Suprema Corte di Cassazione per ripristinare la sanzione disciplinare, che il Magistrato di Sorveglianza di Sassari aveva cancellato, nei confronti di due detenuti che da una cella all’altra, prima di cena, si erano scambiati un “buon appetito”. Se il “diritto penale del nemico” ha stravolto le regole basilari del giusto processo nelle aule di tribunale dove si trattano reati di mafia, il “codice penitenziario del nemico” applicato ai detenuti per mafia (anche a quelli in attesa di giudizio, quindi innocenti fino a prova contraria) ha travolto le regole minime del buon senso. Dire a quello della cella di fronte “buonanotte” prima di dormire o “buon appetito” prima di mangiare, costituisce grave minaccia all’ordine democratico e alla sicurezza pubblica, ordine e sicurezza non solo interni al carcere, anche esterni e, forse, anche internazionali. La Corte di Cassazione ha seppellito il ricorso del Dap con una risata. Ma c’è poco da ridere. Il 41bis è un regime di tortura, un dominio dell’uomo sull’uomo pieno e incontrollato, sempre più chiuso e ottuso. È la quintessenza del carcere, dell’isolamento, della privazione della libertà. Un giorno - che noi di Nessuno tocchi Caino, noi che siamo anche Spes contra Spem, faremo in modo non sia molto lontano - ci volgeremo indietro e guarderemo al carcere, nella sua versione “dura” e nella sua versione “morbida”, come si guarda a una rovina della storia, un resto archeologico dell’umanità. Ci volgeremo indietro e diremo a noi stessi: cosa abbiamo fatto? Siamo arrivati a giudicare, punire e chiudere le persone in una cella! A tenerle fuori dal tempo e fuori dal mondo. A volte senza pane e acqua, a volte con pane e acqua, a volte interdette anche all’uso stesso della parola, all’usanza civile del dire “buon appetito”, alla buona maniera del dirsi “buongiorno” o “buonanotte”. Il Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino sarà trasmesso in diretta da Radio Radicale, sul canale You Tube e sulla pagina Facebook dell’Associazione. *Segretario Associazione “Nessuno Tocchi Caino” Rivolte nelle carceri, non emerge finora alcuna regia mafiosa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2020 L’inchiesta della Procura nazionale antimafia coperta dal segreto istruttorio. Dell’inchiesta della Procura nazionale antimafia, coperta dal segreto istruttorio, non c’è nulla che non sia stato già detto. Il capo Federico Cafiero De Raho, d’altronde, già ha anticipato che si sarebbero occupati delle rivolte carcerarie per capire se ci sia stata o meno una regia mafiosa. L’inchiesta è in corso, quindi si attende la conclusione. Di sicuro, almeno da quello che è stato riportato, i reclusi appartenenti a Cosa nostra non hanno partecipato o tantomeno fomentato le rivolte carcerarie. Come già riportato da Il Dubbio (7 luglio 2020 a pagina 12) le carceri più grandi, come quella napoletana di Poggioreale, ha visto coinvolti numerosi detenuti, anche se in realtà l’unico padiglione- denominato Avellino - esente dalle rivolte è stato quello dove sono reclusi i camorristi. Sicuramente al carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno partecipato anche quelli dell’alta sicurezza. Che i camorristi, in generale, abbiano partecipato alle rivolte non dovrebbe però sorprendere. Fin dagli anni 80, hanno fomentato le rivolte per ottenere benefici e avere il controllo del carcere. Ad esempio a Poggioreale, negli anni 80, periodo che vide la nascita della Nuova camorra organizzata, fondata da Raffaele Cutolo, si verificavano scontri tra faide, avevano le armi, compresi i detenuti che non erano affiliati ma che si dovevano proteggere. All’epoca in quel carcere entrava di tutto, armi, droga, denaro. Fu lì che per riprendere il controllo del penitenziario degli agenti specializzati - antesignani dei Gom - fecero irruzione e usarono metodi violenti, anche nei confronti di detenuti comuni, commettendo delle vere e proprie torture. Utilizzarono la famosa “cella zero”, quella denunciata dall’allora detenuto Pietro Ioia e ora garante dei detenuti di Napoli. Ma ritorniamo alle rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e il’ 11 marzo scorso, oggetto dell’inchiesta da parte della Procura nazionale antimafia. Non emerge, per ora, una strategia comune della criminalità organizzata fatta a tavolino coordinando i 49 istituti penitenziari del territorio nazionale protagonisti delle violente rivolte. Non si chiarisce come sia stato possibile che i detenuti comuni, tra i quali gli extracomunitari, si siano immolati per la causa mafiosa arrivando, in alcuni casi (ben 14), fino alla morte. Tutti coloro che hanno partecipato alle rivolte sono stati esclusi dal decreto “cura Italia”, la parte relativa alla possibilità di scontare la pena a casa se rimanevano meno di 18 mesi di carcere. Non solo. Oltre all’esclusione, rischiano di finire sotto indagine tutti i rivoltosi e quindi si ritroveranno con altri anni da scontare in carcere. Per avere il quadro completo, bisogna sottolineare che hanno partecipato 10 mila detenuti su una popolazione carceraria che era oltre i 50 mila reclusi. Infatti, nella maggioranza delle carceri ci sono state proteste pacifiche, semplici battiture o sciopero della fame. In altre, invece, non è accaduto nulla, soprattutto quelle carceri - rare - dove l’attività trattamentale funziona e c’è un dialogo tra la direzione e i detenuti stessi. Infatti, come riporta un’analista sentito da Repubblica, non è un caso che “le rivolte più violente siano avvenute - come ripetono le associazioni che si occupano dei detenuti - negli istituti più sovraffollati, dove sono rinchiusi anche mafiosi pugliesi e camorristi”. Quindi, non si fa altro che dire ciò che su Il Dubbio è stato detto già dai primi giorni successivi alle rivolte. Mentre gli altri appartenenti alla criminalità organizzata storicamente hanno sempre partecipato alle rivolte, per la mafia siciliana è diverso. E ciò smentisce chi ha evocato la trattativa Stato-mafia, quasi per dire che le rivolte carcerarie sono servite per ottenere la scarcerazione dei boss mafiosi del periodo delle stragi, senza aver alcun rispetto dei giudici che hanno concesso la detenzione domiciliare in tutta autonomia e dove, tra l’altro, nessun boss stragista è stato scarcerato. Mai, nella storia, i mafiosi hanno partecipato alle rivolte, anzi le hanno da sempre ostacolate. Sono maggiormente rispettosi delle regole penitenziarie rispetto ai detenuti “comuni” e apprezzano l’ordine e la disciplina anche se ciò comporta per loro alcune privazioni che sul momento possono contestare. Il detenuto mafioso “accetta” l’istituzione carceraria in quanto è portatore di un suo sistema di regole, non la contesta drasticamente come fanno i detenuti comuni o quelli politici tipo gli anarchici. L’accettazione del carcere da parte del detenuto mafioso deriva anche dalla sua consapevolezza di dover trascorrere un lungo periodo di tempo di reclusione e, pertanto, ha generalmente interesse a una apparente tranquillità, perché sa che disordini o atti di indisciplina che turbano la vita del carcere provocano maggiori controlli e comportano l’adozione di provvedimenti quali trasferimenti e l’introduzione di nuovi decreti legge che rendono più difficile la concessione dei benefici per loro. Quello, che in fondo, è accaduto. Le rivolte, la mafia e quella voglia matta di dietrologia di Frank Cimini Il Riformista, 23 luglio 2020 La regia dei boss dietro le proteste di marzo nelle carceri: è l’ipotesi di una maxi inchiesta della Dna. Lo rivela “Repubblica”, ma del complotto nessun elemento, solo virgolettati di fonti anonime. La dietrologia è uno sport nazionale, una passione. La direzione nazionale antimafia con a capo Federico Cafiero De Raho e “alcune procure distrettuali”, scrive Repubblica a cui l’indiscrezione è filtrata, sta svolgendo una maxi inchiesta ipotizzando la regia delle mafie dietro le rivolte in carcere della prima decade del marzo scorso. Quella stessa magistratura che si è rivelata incapace di spiegare le ragioni della morte di 15 detenuti durante le proteste cerca di cavarsela ipotizzando un grande complotto del quale l’articolo di Repubblica non fornisce elementi apprezzabili al di là di virgolettati attribuiti a fonti che restano anonime. Il blocco fino al 31 maggio dei colloqui con i congiunti e la possibilità di interrompere permessi premio e il regime di semilibertà sarebbero stati secondo queste fonti solo il pretesto che in molti nelle carceri stavano aspettando per scatenare il caos. “Non è un caso che le rivolte più violente siano avvenute negli istituti più sovraffollati dove sono richiusi anche mafiosi pugliesi e camorristi”, scrive il quotidiano che ha scoperto l’acqua calda dal momento che era già emerso da tempo come alcuni camorristi avessero partecipato alle rivolte. Ma partecipare a una rivolta non significa certo averla organizzata e nell’ambito di una tentacolare “spectre” l’invenzione della quale serve a nascondere le responsabilità della politica, dell’amministrazione penitenziaria e della stessa magistratura. Secondo la tesi della direzione antimafia i detenuti tossicodipendenti, quelli più fragili, sarebbero stati usati come carne da macello da chi voleva mettere lo stato nell’angolo. Per cui le fonti anonime ripetono la cantilena di quella ufficiale. I 15 detenuti sarebbero morti in seguito all’assalto alle farmacie interne e alle conseguenze delle assunzioni di quanto asportato. Indagini accurate su quei decessi non ce ne sono state e chi avrebbe dovuto farle punta sul disinteresse generale per la sorte di poveri cristi. In compenso sono spedite le inchieste sui presunti responsabili delle rivolte. A Milano saranno processati in 34 per devastazione. E non saranno gli unici a pagare. Perché paga chi è dentro ma anche chi sta fuori a dare solidarietà alle lotte dei detenuti. È il caso delle indagini su gruppi anarchici a Bologna e a Roma. Nel capoluogo emiliano il Riesame ha azzerato l’accusa di associazione sovversiva e scarcerato tutti. Esito opposto a Roma ma in entrambi i casi le procure indicano i presidi e i sit-in sotto le prigioni come “prove” a carico. Era stata ipotizzata anche una regia anarchica. Adesso si punta sulla mafia quando storicamente la realtà è l’opposto. La mafia per svolgere i suoi traffici ha bisogno dentro le prigioni di pace e silenzio. Ma la dietrologia non conosce confini. In un paese in cui partiti e giornali da oltre 40 anni vi ricorrono per spiegare il delitto più importante del dopoguerra. Dl antiscarcerazioni, la Consulta rinvia gli atti al giudice di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2020 La corte costituzionale, esaminata la questione di legittimità sollevata dal magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi in merito al decreto nato dopo le proteste contro le “scarcerazioni” dei reclusi mafiosi durante l’emergenza Covid-19, ha deciso di rinviare gli atti al remittente per chiedergli se ritenga la questione ancora non manifestamente infondata. Questo perché, nel frattempo, la norma è stata parzialmente modificata con l’obbligo da parte del tribunale di sorveglianza di pronunciarsi sulla revoca del provvedimento, ove emessa dal magistrato di sorveglianza, entro il termine di 30 giorni. Tutto nell’ambito di un procedimento in cui la difesa ha pieno accesso agli atti. Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto, ricordiamo, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale nella parte in cui - il magistrato che lo ha emesso - prevede che procede a rivalutazione del provvedimento di ammissione alla detenzione domiciliare o di differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19. La disposizione censurata prevede che quando un condannato per uno dei delitti di criminalità organizzata indicati è ammesso alla detenzione domiciliare o usufruisce del differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, il magistrato di sorveglianza o il Tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del Procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato, valuta la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. Secondo Gianfilippi il procedimento previsto dalla disposizione, onerando il magistrato di sorveglianza della rivalutazione, non coinvolge adeguatamente la difesa tecnica dell’interessato, non prevedendo alcuna comunicazione formale dell’apertura del procedimento e non garantendo il contraddittorio rispetto alla parte pubblica rappresentata dal Procuratore Distrettuale antimafia. In sostanza il remittente ha censurato la lesione del diritto della difesa e disparità di un procedimento privo di garanzie solo per gli autori di specifici reati. La Corte ha osservato che, successivamente al Decreto legge, è stata approvata la legge n. 70 del 2020 secondo cui, quando il Magistrato di sorveglianza ha disposto in via provvisoria la revoca, e il condannato è tornato in carcere, il Tribunale di sorveglianza è tenuto a pronunciarsi in via definitiva sull’istanza di scarcerazione entro il termine perentorio di 30 giorni, nell’ambito di un procedimento in cui la difesa ha pieno accesso agli atti. Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto dovrà dunque rivalutare se i diritti costituzionali del condannato siano ora adeguatamente garantiti. Il male nascosto nelle istituzioni e la mancanza di anticorpi di Luigi Manconi Il Secolo XIX, 23 luglio 2020 Davanti ai fatti di Torino e di Piacenza, ciò che non va assolutamente detto, ma che già si sente dire, è: “Si tratta solo di alcune mele marce”. La metafora è davvero infelice. Innanzitutto sotto il profilo ortofrutticolo, dato che anche pochi frutti andati a male possono guastare irreparabilmente l’intero cestino che li contiene. Nel caso delle illegalità verificatesi in due strutture dello Stato, l’immagine appare ancora più sgualcita. Troppi i precedenti e, in un caso come nell’altro, la presenza di una rete di complicità, strutturata gerarchicamente, fino a un livello medio-alto di comando capace di assicurare un sistema di impunità fondato sulla connivenza e sulla omertà. Le due vicende hanno tratti comuni. Il primo è rappresentato dalla tipologia di luogo dove si sono consumate le violenze. Carcere e caserma sono istituzioni totali (secondo la sempre valida definizione di Erving Goffman), al cui interno, gli operatori (in questo caso poliziotti penitenziari e carabinieri) vivono un’esistenza fortemente integrata, fatta di rapporti camerateschi e solidarietà virile. Qui è fatale che si creino gerarchie informali tese a misurare il proprio potere - piccolo o grande che sia - nel rapporto di controllo su chi, di quella istituzione, risulta vittima: il cittadino detenuto o quello che - seppure occasionalmente - sia soggetto alla potestà di un funzionario dello Stato. Sono queste, in sintesi, le condizioni che rendono possibili fatti inauditi quali: la riduzione di una caserma dei carabinieri a cellula criminale e la catena di comando che ha messo a tacere le tante denunce fatte dalla garante dei detenuti, Monica Gallo, degli orrori di quel carcere. Poi, certo, pesano le personalità individuali e gli interessi delinquenziali e c’è, soprattutto, la sensazione di un ambiente che garantisce l’impunità. Sensazione non troppo infondata, considerate alcune circostanze: tanti, proprio tanti, sono gli episodi di illegalità che hanno visto coinvolti appartenenti alle forze di polizia e, in particolare, all’Arma dei carabinieri. Quasi mai, forse mai, le denunce sono giunte dall’interno di quei corpi e dai loro vertici. Recentemente si sono avute alcune manifestazioni di resipiscenza, alle quali non hanno fatto seguito adeguati provvedimenti e concrete politiche di riforma. Il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha avuto parole aspre nei confronti della gestione dell’ordine pubblico durante il G8 di Genova del 2001 (“una catastrofe”) e, prima, i suoi predecessori Manganelli e Pansa, avevano pronunciato parole autocritiche a proposito della morte di Gabriele Sandri e di quella Federico Aldrovandi. Il Comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Nistri, una volta individuati i responsabili della morte di Stefano Cucchi, ha riconosciuto la gravità dell’accaduto con espressioni finalmente nitide. Ma, tutto ciò, è accaduto drammaticamente tardi. E sempre dopo. Dopo che le procure avevano indagato, dopo che un giornalista rigoroso o un politico attento, avevano denunciato, dopo che i reati commessi erano stati segnalati a chi di dovere. Ma, troppo spesso, chi di dovere si è adoperato alacremente perché quegli allarmi finissero nell’oblio. In altre vicende, sono state le vittime o i loro familiari a fare del proprio dolore un’occasione di mobilitazione civile. Eppure, quante volte si sono dovuti arrendere non perché una sentenza negava loro giustizia, (è accaduto anche questo) ma perché pesanti ostacoli sono stati frapposti all’accertamento dei fatti. È vero: la gran parte dei membri di questi apparati è costituita da persone per bene, ma ciò che davvero sembra mancare è una efficace rete di anticorpi. E, a creare tale rete, dovrebbero essere in primo luogo i vertici di quegli stessi apparati, attraverso un processo di democratizzazione interna, capace di smantellare tutte le sottoculture, le ritualità, le consuetudini fascistoidi che tuttora vi permangono. Un simile percorso, assai faticoso, non è stato né agevolato né incentivato da una classe politica che rivela una sorta di complesso di inferiorità. Ma se quel processo di democratizzazione ritarderà ancora, il poliziotto, il carabiniere e l’agente carcerario continueranno a considerare il cittadino come qualcuno da sospettare o una minaccia da sventare o un nemico da sopraffare. E avremo solo ulteriori sofferenze. Forza dell’ordine, un potere enorme che può finire nelle mani sbagliate di Stefano Anastasia Il Manifesto, 23 luglio 2020 Gli stomaci duri possono ascoltare online l’audio di una intercettazione dei carabinieri indagati a Piacenza per traffico di sostanze stupefacenti, tortura, estorsione e chissà che altro. Ma per avere una immagine della gravità dei fatti, basta guardare quel portone, in via Caccialupo 2, e i sigilli apposti dai confratelli della Finanza. Una intera Caserma dell’Arma posta sotto sequestro in via cautelativa, affinché possano essere svolti dagli inquirenti tutti gli accertamenti necessari su episodi che sembra vedano coinvolti dieci degli undici militari che vi prestavano servizio. Un arrestato pestato a sangue a Piacenza - foto Ansa Sarà il processo a convalidare o meno l’ipotesi accusatoria della Procura della Repubblica, ma è importante la reazione dei vertici politici e militari, della Difesa e dell’Arma dei Carabinieri: l’immediata sospensione dal servizio e l’avvio di una indagine interna sull’accaduto. I 110mila carabinieri in servizio “uomini e donne che ogni giorno lavorano con altissimo senso delle istituzioni”, come dice il Ministro Guerini, non possono essere identificati con i dieci militari sottoposti a misure cautelari per “episodi inauditi e inqualificabili”, “fatti inaccettabili che rischiano di infangare l’immagine dell’Arma”. Bene. Come importanti sono state, nel corso del tempo, le prese di posizione dei vertici della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri su alcune ferite ancora aperte della nostra storia, dalla repressione violenta del movimento alter-mondialista a Genova, di cui ricorre proprio in questi giorni l’anniversario, al depistaggio delle indagini sulla morte di Stefano Cucchi a seguito delle violenze subite in un’altra caserma dei Carabinieri, a Roma, a metà di questo ventennio horribilis per le forze di polizia italiane. Ciò detto, di fronte a questi fatti è veramente possibile sfuggire alla alternativa tra la generale criminalizzazione delle forze di polizia e il giustificazionismo della singola o delle poche mele marce nel cesto sano? Non facile, ma necessario. A una condizione: che si guardi in faccia e si chiami con il suo nome il potere di polizia. Potere anfibio che, in nome della legalità, vive ai confini di essa e ne determina in gran parte dei casi il significato concreto. È il potere di polizia che - in prima battuta - definisce ciò che è legale e ciò che legale non è, e con ciò discrimina condotte e azioni, indirizzando alcune di esse (e i suoi autori) sui binari dell’accertamento penale e lasciando altre (e relativi interpreti) libere di manifestarsi. E questo potere di polizia non è (solo) centrale, né (tutto) accentrabile, ma vive nella pratica e nell’esercizio discrezionale dei suoi titolari, sparsi sul territorio quanto la “pubblica sicurezza” richiede. Non si tratta, quindi, di criminalizzare genericamente l’Arma oggi, la Polizia domani o la Penitenziaria dopodomani, né di ridurre tutto alla casistica delle mele marce, ma di riconoscere il rischio dell’abuso nell’esercizio di un potere enorme e diffuso. Per questo serve l’accertamento della verità in ogni singolo caso, nel rispetto dei diritti e delle garanzie di ogni singolo accusato, ma serve anche un’attenzione vigile e costante, capace di prevenire gli abusi e di impedire acquiescenze o, peggio, giustificazioni. Un’attenzione necessaria da parte dei vertici delle forze di polizia e di ogni singolo appartenente a esse, della magistratura e dei garanti delle persone private della libertà, dell’opinione pubblica e di forze politiche finalmente libere da quel complesso di inferiorità nei confronti delle polizie più volte denunciato da un osservatore attento come Luigi Manconi. Da Cucchi ad Aulla: è l’anno nero dell’Arma di Niccolò Zancan La Stampa, 23 luglio 2020 I fatti sono questi. Ad Aulla, dove la Toscana confina conia Liguria, 29 carabinieri stanno affrontando un processo per violenze, minacce, abuso d’ufficio, ispezioni corporali fatte con bastoni, rapporti sessuali estorti e angherie contro i migranti. Uno di quei carabinieri parlava così: “I negri sono degli idioti, sono delle scimmie, devono mangiare banane”. I fatti dicono che Stefano Cucchi è stato ammazzato a furia di botte in una caserma di Roma, tanto che due carabinieri sono stati condannati per omicidio preterintenzionale. Ma altri otto sono a processo per i depistaggi che seguirono quella violenza, accusati di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. È inutile girarci intorno. È un anno orribile per l’Arma dei carabinieri. Tutti ricordano l’interrogatorio, nella notte dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello, quando il sospettato fu incappucciato e ammanettato dentro un’altra caserma di Roma. Così come è difficile dimenticare che, a febbraio 2020, anche il secondo carabiniere accusato dello stupro di due studentesse americane a Firenze è stato condannato. E ora c’è questa caserma di Piacenza, sede di spaccio e di torture, con altri dieci militari indagati. Il comandante generale Giovanni Nistri fa bene a ricordare che i carabinieri in Italia sono in tutto 110 mila. Ma commentando il processo per l’assassinio di Stefano Cucchi aveva dichiarato: “Ci sono episodi esecrabili peri quali l’Arma si deve scusare, non come istituzione, ma perché alcuni suoi componenti infedeli sono venuti meno al proprio dovere”. Chiamarli “alcuni” e definirli “episodi” adesso sembra più difficile. Csm, stop alle candidature per due anni per uomini di governo e segretari di partito di Liana Milella La Repubblica, 23 luglio 2020 La maggioranza chiude nella notte l’accordo sulla riforma anti-correnti del Csm. Doppio turno con parità di genere nelle candidature e 4 preferenze. Accordo fatto. La maggioranza chiude, nella notte, l’intesa sulla nuova legge che cambia le regole per l’elezione al Csm. Una riforma non solo contro le correnti dopo l’inchiesta di Perugia su Palamara, ma anche per allontanare il più possibile dall’organo di “governo autonomo della magistratura” - come ha precisato il presidente Sergio Mattarella nell’ultimo plenum che ha presieduto al Quirinale il 15 luglio - qualsiasi possibile interferenza della politica attiva. Per questo - ed è la novità maturata tra le 9 e trenta e la mezzanotte di ieri - al Csm non si potrà candidare chi, negli ultimi due anni, ha rivestito incarichi di governo sia nazionale, sia locale. Stop ai politici per 2 anni - Ma non basta: perché, anche se non se ne ricorda un solo caso nella storia di palazzo dei Marescialli, non potranno essere designati dal Parlamento, nell’elezione in seduta comune, neppure i segretari di un partito. Una regola che, dopo i casi Lotti e Ferri nell’inchiesta di Perugia su Palamara, ha l’obiettivo, a cui tengono il Guardasigilli Alfonso Bonafede, ma anche i partiti della maggioranza giallorossa, di evitare qualsiasi possibile interferenza esterna sul Consiglio superiore della magistratura. Insomma, se sei anni fa fu designato come laico al Csm l’ex sottosegretario Giovanni Legnini, divenuto poi vice presidente, in carica nel governo nelle stesse ore in cui fu scelto per il Csm, questo non sarà più possibile. Via libera ai parlamentari - All’opposto non passa la stretta, che pure Bonafede avrebbe voluto ma su cui c’è stato il netto niet del Pd, sui parlamentari. Potranno essere eletti liberamente come laici del Csm. Ma non si può escludere, visto che la riforma va in Parlamento aperta alle modifiche, che anche su deputati e senatori non possa essere inserito un blocco temporale che sterilizzi almeno il tempo del loro passaggio da parlamentari a membri del Csm. Per esempio potrebbero restare fuori deputati e senatori in carica in quel momento. Per cui una scelta come quella dell’attuale vice presidente del Csm David Ermini, ex deputato del Pd, risulterebbe impossibile. Ma su questo ci sono possibili rischi di violare le regole della Costituzione. La legge elettorale e le donne - Ma è sulla legge elettorale che si registrano altre due novità interessanti. Sempre in chiave anti correnti e con l’obiettivo di garantire la parità di genere. Nella legge di Bonafede sarà previsto un sistema elettorale con 19 collegi, con il doppio turno. Nel primo le liste dovranno essere composte rispettando appunto il principio della parità di genere, tanti uomini e altrettante donne. Un modo per garantire una maggiore presenza femminile a palazzo dei Marescialli, che oggi, su 26 consiglieri - 16 togati e 8 laici - conta soltanto donne nel parterre dei togati (ce ne sono sei, due di Area, Alessandra Dal Moro ed Elisabetta Chinaglia, due di Magistratura indipendente, Loredana Micciché e Maria Paola Braggion, una di Unicost, Concetta Grillo, una di Autonomia e indipendenza, Ilaria Pepe), mentre la rappresentanza laica è tutta al maschile. Sarebbe opportuno quindi - qualora Bonafede ancora non l’avesse previsto - che anche nella scelta dei consiglieri laici il Parlamento fosse obbligato a rispettare la parità di genere. In futuro il Csm sarà ampliato nei numeri, con 20 togati e 10 laici. Ebbene, almeno la metà dei laici dovrebbe essere composta da donne. Come si è cercato di fare per la Corte costituzionale che nell’ultima votazione in seduta comune, ha mandato alla Corte Silvana Sciarrerei mentre il Quirinale ha scelto Daria de Pretis. L’obbligo delle 4 preferenze - Ma è proprio sulla legge elettorale che la maggioranza - presenti per il Pd il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, il responsabile Giustizia del Pd Walter Verini, il vice capogruppo del Pd al Senato Franco Mirabelli; per Italia Viva Lucia Annibali; per Leu Piero Grasso e Federico Conte - ha dibattito più a lungo. Nell’ansia di garantire sia la parità di genere che soprattutto lo stop a qualsiasi manovra correntizia, l’elettore al primo turno dovrà esprimere quattro preferenze. Anche se ovviamente nessuno potrà impedire eventuali accordi di pacchetto su chi votare. In Cdm la prossima settimana - In queste ore in via Arenula il capo dell’ufficio legislativo Mauro Vitiello, che era presente all’incontro politico, dovrà mettere a punto l’ultimo testo. Che non ce la farà ad andare nel prossimo consiglio dei ministri di questa settimana, ma salterà alla prossima. l’idea di Bonafede e della maggioranza è di portare in Parlamento un testo aperto ai contributi dei partiti, ma con l’obiettivo di approvare la legge in tempi stretti. Il sistema clientelare coincide con la magistratura stessa di Valerio Spigarelli Il Riformista, 23 luglio 2020 Ridurre lo scandalo a una saga del pentitismo correntizio serve a mantenere intatta una idea proprietaria della giustizia. Parte il processo disciplinare a Palamara e subito si ferma. Scopriremo tra un po’ se la sezione disciplinare del Csm si comporterà come dovrebbe, facendo luce sulla vera, grave, violazione deontologica che può essere ascritta a Luca Palamara, cioè quella di essere stato parte integrante di un sistema di potere che ha minato, e mina, l’autonomia e l’indipendenza interna della magistratura. Perché di questo si tratta, ma è forte il sospetto che l’organo disciplinare opererà, principalmente, per mettere Palamara fuori dalla magistratura e, con lui finalmente fuori dai cabasisi, anche la polvere sotto il tappeto. Da diversi decenni la magistratura italiana difende il proprio potere intonando, a volte a ragione, ma assai più spesso in maniera strumentale, il refrain sulla necessità di tutelare la propria indipendenza e autonomia rispetto all’esterno; lo fa di preferenza puntando il dito contro la politica nei - pochi - momenti in cui la stessa politica mette in campo autonome proposte, quasi sempre non gradite, sui temi giudiziari. L’apoteosi di questo atteggiamento fu quando si discusse della riforma dell’ordinamento giudiziario: i magistrati italiani si opposero fieramente sfilando durante le cerimonie di apertura dell’anno giudiziario con la il testo della Costituzione in mano. Ma doveva essere una edizione abusiva, visto che l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario era imposto dalla settima disposizione transitoria che volutamente l’Anm ignorava. Il problema della indipendenza e autonomia interna, invece, la magistratura italiana lo ignora da decenni, forse perché consapevole di avere la coscienza sporca. Altrimenti non si spiegherebbe la gigantesca amnesia collettiva dell’unica magistratura di un Paese occidentale che vede la sua vita interna regolata da raggruppamenti “esterni”, strutturati come centri di potere, quali sono le correnti. Esterni perché non istituzionali, ma libere associazioni, che stabiliscono, e anche questo è un segreto di Pulcinella, rapporti di carattere schiettamente politico con i propri referenti di partito, fuori e dentro il Csm e le istituzioni. La lista testi che ha depositato Palamara (e che la sezione disciplinare probabilmente falcidierà) si propone di dimostrare la operatività di questo “sistema”, e rappresenta, più che un argomento a difesa una gigantesca ed ingombrante chiamata in correo. Comunque come tale viene avvertita, all’interno ed all’esterno della magistratura. Il che, come si coglie anche da alcune interviste del diretto protagonista, fa pensare che il nostro sia pronto a passare alla politica politicienne, sapendo - poiché conosce i suoi più di chiunque altro - che se la battaglia per la toga è persa il Paese dei pentiti può sempre collocarlo da qualche altra parte, magari in Parlamento. Il problema vero è che la rappresentazione della vicenda Palamara alla stregua di una saga di pentitismo correntizio - che Palamara condivide con i suoi attuali avversari - è funzionale a lasciare le cose come stanno poiché parte dalla illusione ottica, o se si vuole dal vero e proprio imbroglio logico, secondo il quale il “sistema” - quello descritto dal Palamara “pentito” che coinvolge tutto l’associazionismo in magistratura, oppure quello descritto da una nutrita schiera di sepolcri imbiancati, alcuni dei quali in toga d’ermellino, che puntano il dito solo contro le “mele marce” - prescinde da un dato di realtà inoppugnabile: se esiste un sistema clientelare esso coincide con la magistratura stessa. Tutta la magistratura. Se ci si racconta che l’avanzamento in carriera dei magistrati, tutti i magistrati e per ogni carica, anche la più insignificante, era legato a logiche di spartizione tra le correnti, ciò significa che non solo la stragrande maggioranza dei magistrati italiani lo sapeva, e non lo denunciava, ma che ne prendeva parte attivamente anche solo rivolgendosi alle correnti per avere quello cui pensava di aver diritto. Ovviamente non tutti i magistrati lo facevano o venivano premiati, anzi probabilmente le vittime sono state anche numerose, ma rimane il fatto che i magistrati che lo hanno pubblicamente denunciato, da trenta anni a questa parte, si contano sulle punte delle dita di una mano. Perché va così quando un sistema clientelare funziona: alla sua base sta il consenso. Insomma, se qualcuno pensa che la vicenda Palamara sia l’8 settembre di un sistema malato, pensi a riformare la magistratura dalla base, altrimenti finisce come sempre nel paese degli “antemarcia”, ovvero degli antifascisti post bellici e degli elettori democristiani non dichiarati: il sistema sopravvive ai suoi epigoni così come ai suoi capri espiatori, perché nessuno si preoccupa di cambiarne il tessuto connettivo. Dalla base significa cambiando la composizione del Csm, istituendo un’alta corte di disciplina esterna all’organismo elettivo, innovando i criteri di accesso in magistratura. Quel sistema si fonda, infatti, prima di tutto su di una concezione “proprietaria” della giustizia che è propria della stragrande maggioranza dei magistrati italiani, che non ha nulla a che vedere con la autonomia ed indipendenza ed è il vero problema di struttura: o si cambia quello o tutto rimarrà come prima, anche perché affratella vittime e carnefici. Durante un dibattito radiofonico un magistrato, Alfonso Sabella, che pure raccontava le sue disavventure di magistrato estraneo alle correnti e perciò pregiudicato nella sua carriera, ha dichiarato che, però, nella concezione proprietaria della giustizia da parte della magistratura in realtà non ci vedeva nulla di strano, e che anzi era legittimata proprio dalle garanzie di autonomia ed indipendenza che la Costituzione garantisce. Ecco, finché i magistrati italiani ragioneranno così il sistema rimarrà lo stesso. Ue, giustizia più rapida una giusta pretesa di Carlo Nordio Il Mattino, 23 luglio 2020 Tra le raccomandazioni formulate (o le condizioni imposte) all’Italia da parte della UE per ottenere i sospirati sussidi, campeggia quella della riforma della giustizia civile, oggi così lenta da scoraggiare gli investimenti e minare la certezza dei rapporti giuridici. Va detto che i nostri reggitori sono stati finora ben più attenti alla giustizia penale, e per due ragioni. La prima, che essa incide sui beni primari della libertà e dell’onore dei cittadini. La seconda, meno nobile ma più significativa, che da quasi trent’anni essa ipoteca la vita politica, estromettendone chi viene sottoposto a processo, o semplicemente raggiunto da un’informazione di garanzia. Un sistema demenziale qui denunciato più volte, che ha sconvolto il principio della divisione dei poteri. Tuttavia la giustizia civile è, per certi aspetti, anche più importante. Prima di tutto perché essa disciplina tutti i rapporti personali e patrimoniali dei cittadini; in secondo luogo perché condiziona l’economia e le finanze del Paese; e infine perché mentre la giustizia penale coinvolge, per fortuna, un numero ridotto di persone, non v’è individuo che, nel corso della vita, non sia stato protagonista di una causa o che, per evitarla, non si sia comunque rivolto ad un avvocato. Un’obbligazione non adempiuta, un credito contestato, un divorzio, una lite condominiale, un risarcimento danni, una divisone ereditaria ecc. son tutte vicende nelle quali, spesso nostro malgrado, ci siamo trovati coinvolti. Mentre – ripetiamo - la gran parte di noi non è mai finita in manette e nemmeno convocata dalla Procura. Ebbene, una serie di studi - compreso quello della Ambrosetti House pubblicato a Cernobbio e per inciso coordinato da chi scrive - hanno dimostrato che questa lentezza ci costa almeno due punti di Pil. Un salasso finanziario che comunque non tiene conto dei danni collaterali, cioè dello sgomento dei cittadini e della perdita di fiducia nelle istituzioni. Questa diffidenza è dilagata in Europa e nel mondo. Nessuno investe più in Italia perché sa che le sue legittime aspettative sono spesso deluse dai contraenti, e ancor più spesso dallo Stato, che impiega anni, e talvolta decenni, per risolvere i conflitti interpersonali e intersocietari. Il collasso del sistema è ben rappresentato dal paradosso per cui mentre un tempo il creditore minacciava il debitore inadempiente con l’espressione “Ti faccio causa!” oggi le parti si sono invertite, ed è quest’ultimo a provocare il creditore con la battuta “Fammi causa!”, sottintendendo, in modo beffardo, che tanto non caverà un ragno dal buco. Le ragioni di questa lentezza sono spesso state enfatizzate in modo improprio e superficiale. Alcuni avvocati hanno detto che è colpa dei giudici, che lavorano poco; e questi hanno risposto che è colpa degli avvocati, che son troppo numerosi. Sono entrambe due sciocchezze. Statistiche alla mano, i nostri magistrati sono infatti i più produttivi d’Europa. E le liti non sono inventate dai patrocinatori, ma riflettono contrasti reali, non componibili in via spontanea e amichevole. In realtà la ragione è la solita: la complessità delle leggi e la sproporzione tra i mezzi disponibili e i fini prefissi. I magistrati italiani sono circa novemila, e l’organico è sempre carente: un numero - paragonato a quello degli altri Stati dell’Ue - troppo esiguo rispetto agli abitanti e alle pendenze. E queste sono sempre più numerose non perché il nostro carattere sia più litigioso, ma proprio perché chi ha torto pianta una causa, confidando nella sua eternità. Come si vede, un gatto che si morde la coda. Che fare allora? La prima cosa è semplificare le procedure, magari copiandole da quelle dei paesi più efficienti e virtuosi: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Poi viene la cosa più ovvia: o aumentiamo i mezzi, cioè le risorse, o riduciamo i fini, cioè le cause da decidere. Ma poiché queste ultime non si ridurranno finché dureranno secoli, bisogna assumere più magistrati, e soprattutto più collaboratori amministrativi. Superfluo ricordare che la sciagurata legge Madia che ha improvvisamente rottamato cinquecento toghe ultrasettantenni, e i successivi pensionamenti di migliaia di cancellieri e segretari hanno aggravato una situazione già disperata. Sull’ingresso di nuovi giudici è la stessa magistratura a mettere dei freni, sostenendo che l’aumento dei chiamati diminuirebbe la qualità degli eletti. Ora, per quanto la nostra scuola sia scalcinata, e alcune Università sfornino semianalfabeti, è difficile pensare che i duecento posti che in media vengono annualmente messi a concorso non possano esser raddoppiati, e degnamente coperti. È vero che fino ad ora i governi hanno sostenuto questa limitazione, invocando la carenza di mezzi finanziari. Ma è proprio questa l’occasione - che Conte ha definito epocale - per rimettere in piedi la nostra sgangherata giustizia. E se l’Europa ci dà i soldi proprio per questo, rifiutarli o impiegarli diversamente più che un errore sarebbe proprio un delitto. Che purtroppo, per le ragioni sopra esposte, resterebbe comunque impunito. Quotidiani per il detenuto al 41bis, ma non se ci sono notizie utili a Cosa nostra di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2020 Il diritto ad essere informati è parte integrante della libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuto dalla Costituzione. Tuttavia per ragioni di indagine e sicurezza sono lecite restrizioni. Al boss mafioso, detenuto al 41bis il cosiddetto carcere duro, non può essere negato l’abbonamento ai quotidiani. Il diritto ad essere informati è, infatti, parte integrante e condizione per una libera manifestazione del pensiero, garantito dalla Costituzione. Ma resta il limite della cronaca locale, che può essere fonte di notizie che possono essere diffuse tra i detenuti sottoposti al regime speciale. La “staffetta” con il padre Francesco Madonia - Partendo da questo presupposto la Corte di Cassazione (sentenza 21803) ha accolto il ricorso del boss di “Cosa Nostra” Salvatore Madonia classe 1956, figlio di Francesco, storico capo mafia condannato all’ergastolo nel processo “Borsellino-ter”. Salvatore Madonia ha raccolto il testimone del genitore, finito in carcere nell”87, per rappresentarlo nella commissione provinciale della Cupola. Quello accolto dalla Cassazione è l’ennesimo ricorso in Cassazione di Salvatore, in carcere anche lui dal 1991. Un precedente, relativamente recente, riguarda il presunto diritto violato alla corrispondenza: ricorso respinto dalla Suprema corte. L’ultima censura è invece passata. La condizione della significativa tradizione editoriale dei quotidiani - Per i giudici di legittimità la direzione della casa circondariale nella quale si trova ristretto, non avrebbe dovuto negare la possibilità di ricevere i quotidiani richiesti, Avvenire e Il Manifesto, senza prima verificare se le testate, pur non inserite nella circolare Dap del 2017, tra i quotidiani acquistabili con il “sopravvitto”, potessero arrivare al detenuto in abbonamento gratuito, vista la disponibilità ad inviarli da parte della direzione vendite, e se rientrassero tra i quotidiani di “significativa tradizione editoriale”. Il diritto ad essere informati - Per la Cassazione “il diritto a ricevere pubblicazioni della stampa periodica costituisce declinazione del più generale diritto ad essere informati, a sua volta riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero, di cui costituisce una sorta di precondizione, sicché esso trova una diretta copertura costituzionale negli articoli 2 e 21 della Costituzione”. Il limite delle notizie di mafia - Il diritto può comunque essere negato, come avvenuto nel caso del boss di Cosa Nostra Giuseppe Falsone (sentenze 21942 e 21943) che aveva fatto ricorso perché non gli era stato consegnato il Corriere della Sera. Per la Cassazione un no giustificato dal contenuto di alcune pagine, con articoli relativi ad un’operazione anti ‘ndrangheta a Milano. Notizie che potevano essere di interesse per altri detenuti nello stesso carcere di massima sicurezza. Ancora un ricorso di Falsone era stato respinto, sempre per rivendicare la consegna di un numero del Corriere della Sera, questa volta con servizi che riguardavano un testimone di giustizia impegnato contro il “clan dei Casalesi”, ed alcuni esponenti della consorteria erano nello stesso carcere del ricorrente. Senza successo la difesa di Falsone ricorda ai giudici che le uniche limitazioni, alla libertà di informazione possono riguardare solo la stampa locale e, in particolare, quella delle zone di provenienza del carcerato. La Suprema corte ricorda infatti che le maglie strette sono consentite quando sono in gioco l’ordine e la sicurezza pubblica. Niente giornali, neppure nazionali dunque, quando possono essere fonte di aggiornamento sulle dinamiche criminali sul territorio e uno strumento per verificare che siano stati eseguiti gli ordini fatti arrivare all’esterno. Sì alla Pec per comunicare l’assenza del difensore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2020 Nel procedimento camerale di sorveglianza, è causa di rinvio il legittimo impedimento del difensore, purché prontamente comunicato con qualsiasi mezzo, compresa la posta elettronica certificata. Il giudice che ne sia a conoscenza è dunque tenuto, se ci sono i presupposti, a rinviare l’udienza. Con la sentenza n. 21981, la Corte di cassazione prende le distanze dalla giurisprudenza secondo la quale, nel processo penale, le parti non possono fare comunicazioni, notificazioni o istanze via Pec, comprese le richieste che riguardano il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore. Sul punto la Suprema corte cita i precedenti restrittivi, relativi a procedimenti di sorveglianza, in cui il difensore aveva affidato la sua richiesta alla posta elettronica certificata. Anche nel caso esaminato, lo slittamento dell’udienza nella quale si doveva decidere sulla domanda di affidamento al servizio sociale era stata negata per l’uso illegittimo della posta elettronica, invece del canale tradizionale del deposito in cancelleria. La Cassazione sostiene un principio più elastico. I giudici di legittimità richiamano a supporto della loro scelta l’articolo 420-ter, comma 5, del codice di rito penale applicabile anche al procedimento di sorveglianza. Una norma che fissa l’obbligo del giudice di rinviare l’udienza in caso di assoluta impossibilità del difensore a comparire, purché l’impedimento sia prontamente comunicato. E nulla dice sulle modalità di una informazione che deve solo essere tempestiva e nota al giudice. Per la Suprema corte, è evidente che, in assenza di un regolare deposito in cancelleria della richiesta di rinvio per legittimo impedimento, come previsto dall’articolo 121 del Codice di procedura penale, sarà compito del difensore verificare che il giudice sia al corrente della comunicazione. Nel caso esaminato l’istanza il Tribunale di sorveglianza, pur essendo al corrente che si è però limitato a dichiararla irricevibile perché non depositata in modo rituale, e aveva dato corso all’udienza respingendo la richiesta della misura alternativa. Per la Cassazione è una decisione illegittima. I giudici di legittimità aprono, infatti, all’uso di qualunque mezzo, compreso il fax, sottolineando la sola condizione della tempestività e della verifica della conoscenza da parte del giudice che deve procedere. I domiciliari possono essere revocati per violazione delle misure di protezione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2020 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 22 luglio 2020 n. 21975. Nessun automatismo tra la violazione delle norme comportamentali legate alla misura di protezione - nei confronti del collaboratore di giustizia che si rifiuti di adempiere all’ordine amministrativo di modificare il domicilio protetto - e la revoca della misura alternativa. Ma nulla esclude che tale violazione possa essere valutata come motivo di revoca del beneficio penitenziario della detenzione domiciliare, anche in assenza di comportamenti contrari alle prescrizioni della misura alternativa. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 21975 di ieri ha annullato con rinvio la decisione del tribunale che confermava la revoca dei domiciliari disposta dal magistrato di sorveglianza e asseritamente assunta per il rifiuto di adempiere alla prescrizione di un nuovo domicilio operata dal Servizio centrale di protezione dell’antimafia. La vicenda - Il collaboratore era stato condannato per associazione di stampo mafioso finalizzata al traffico illecito di stupefacenti. Reati gravissimi cui era seguita l’ampia collaborazione del reo al contrasto dell’attività criminale. Ottenuto il beneficio penitenziario dei domiciliari al collaboratore veniva imposta la misura di protezione accompagnata da specifiche norme comportamentali. In seguito all’occasionale incontro del collaboratore con altro pentito di mafia - tra l’altro, come rileva la Cassazione - era stato disposto il trasferimento del domicilio protetto che era stato rifiutato per esigenze familiari. Da qui la disposta revoca dei domiciliari. Il punto espresso - La Cassazione chiarisce che una tale decisione non poteva essere adotta de plano sul presupposto del rifiuto, ma doveva poggiare sulla più ampia valutazione del comportamento del collaboratore che non aveva, peraltro, mai violato le prescrizioni della detenzione domiciliare. In sintesi, al centro del beneficio c’è il processo rieducativo del condannato che se positivo non può essere svalutato dal mancato rispetto della norma comportamentale legata alla misura di protezione. Confisca: beni da restituire all’imprenditore se l’appello sfora i 18 mesi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2020 Va annullata la confisca disposta sui beni personali dell’amministratore e della società, se l’appello non si conclude nel termine di un anno e sei mesi. La possibilità di proroga di sei mesi, per due sole volte, resta limitata a indagini complesse. La Cassazione, con la sentenza 21532, accoglie il ricorso contro la confisca di numerosi beni di proprietà dell’imprenditore e della famiglia, oltre a immobili e rapporti bancari di una società a responsabilità limitata, rispetto ai quali erano emersi gravi indizi di intestazione fittizia e provenienza illecita. Circostanze contestate dalla difesa, alla quale però, per veder accolto il ricorso, basta eccepire la lunghezza eccessiva dell’appello. La Cassazione precisa che in tema di misure patrimoniali, il procedimento di secondo grado si deve chiudere entro un anno e sei mesi dalla data del deposito del ricorso. Un tempo che può, eccezionalmente, essere prorogato per sei mesi, per due sole volte, solo nell’ipotesi di indagini complesse e compendi rilevanti. Mentre la data finale coincide con il deposito del decreto motivato. Solo in quel momento, infatti, si perfeziona la formazione del provvedimento, che acquista così esistenza giuridica. Sforati i tempi tutto va restituito ai legittimi proprietari. La cessione del credito non viola l’ordine di pagamento del giudice di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 22 luglio 2020 n. 21988. Non incorre nel reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, il rappresentante legale di una azienda in crisi, condannata al pagamento di una somma nei confronti di un creditore, che ceda il proprio credito più consistente. In tal modo vanificando la richiesta di pignoramento presso il terzo eseguita da lì a poco. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 21988 depositata ieri, che ha accolto con rinvio il ricorso del manager. Secondo i giudici della VI sezione penale, infatti, va richiamato il principio espresso a Sezioni unite secondo cui per la configurabilità del reato “non è sufficiente che gli atti dispositivi di cui all’art. 388, comma primo, cod. pen., compiuti dall’obbligato sui propri o altrui beni siano oggettivamente finalizzati a consentirgli di sottrarsi agli adempimenti indicati nel provvedimento, rendendo così inefficaci gli obblighi da esso derivanti, ma è necessario che tali atti abbiano natura simulata o fraudolenta, siano cioè connotati da una componente di artificio, inganno o menzogna concretamente idonea a vulnerare le legittime pretese del creditore”. “È in altri termini indispensabile - prosegue la Corte - che l’atto si qualifichi per un quid pluris rispetto alla idoneità a rendere inefficaci gli obblighi nascenti dal provvedimento giudiziario, tanto più in quanto solo così può giungersi, in un’ottica improntata al principio di offensività, a differenziare una condotta solo civilmente illecita da una condotta connotata da disvalore penalmente rilevante” (Cass. n. 12213/2017). Quanto alla nozione di atto fraudolento, spiega ancora la Corte, le stesse Sezioni unite hanno precisato che deve considerarsi atto fraudolento “ogni comportamento che, formalmente lecito, sia tuttavia caratterizzato da una componente di artifizio o di inganno” (n. 25677/2012), ovvero che è tale “ogni atto che sia idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero ovvero qualunque stratagemma artificioso tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali alla riscossione”. La Corte di appello invece non ha applicato alcuno di questi principi. Non ha infatti spiegato: a) in cosa sarebbe consistito il carattere fraudolento della cessione del credito; b) quale sarebbe stato l’effetto di quell’atto sul patrimonio della società cedente; c) quale fosse in concreto ed effettivamente, la situazione economico patrimoniale della società cedente e perché la cessione aumentava il rischio di svuotamento della garanzia patrimoniale. Giudizio da rifare dunque da parte di un’altra Sezione della Corte perugina. Sardegna. Pittalis (Fi): “Il Governo intervenga per prevenire infiltrazioni mafiose” castedduonline.it, 23 luglio 2020 Saranno 200 a breve i capi mafia nell’Isola. Le riflessioni di Pittalis (Fi), che ha presentato sullo scottante argomento una interrogazione a risposta scritta al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, scaturisce dall’analisi della relazione sull’attività svolta e sui risultati raggiunti dalla Direzione Investigativa Antimafia nel secondo semestre del 2019 presentata lo scorso 17 luglio dallo stesso ministro al Parlamento. La preoccupazione è reale e gli interventi non più rimandabili. Per il deputato di Forza Italia, Pietro Pittalis l’attuale impasse del governo di fronte al pericolo di infiltrazioni mafiose in Sardegna rischia di provocare dei problemi molto seri. Una situazione a cui occurre porre rimedio in tempi rapidissimi prima che degeneri. Le riflessioni di Pittalis, che ha presentato sullo scottante argomento una interrogazione a risposta scritta al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, scaturisce dall’analisi della relazione sull’attività svolta e sui risultati raggiunti dalla Direzione Investigativa Antimafia nel secondo semestre del 2019 presentata lo scorso 17 luglio dallo stesso ministro al Parlamento. “Fra i numerosi aspetti toccati, la relazione, con specifico riferimento alla Sardegna, evidenzia come “le particolari caratteristiche della cultura sarda, influenzata dalle vicende storiche che ne hanno determinato lo sviluppo sociale e delle tradizioni, costituiscono ostacolo per il radicamento delle organizzazioni criminali di tipo mafioso […]. Tuttavia, vale la pena di osservare come rimanga alto il rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto economico-sociale isolano, che potrebbe essere favorito anche dalla presenza, in diverse carceri sarde, di detenuti per delitti di mafia in regime di cui all’art. 41bis 2° comma o.p. ovvero di Alta Sicurezza 3”, dice Pietro Pittalis. Nondimeno, prosegue la relazione, “seppur in assenza di evidenti radicamenti delle note organizzazioni di tipo mafioso, la criminalità regionale ha stabilito rapporti con le prime, soprattutto in relazione al settore degli stupefacenti, al riciclaggio ed al reinvestimento dei capitali illecitamente acquisiti, che interessano principalmente il settore turistico-immobiliare, trainante, secondo l’analisi di Unioncamere, per l’economia dell’Isola”. L’attenta lettura e analisi del documento solleva tutta una serie di criticità e interrogativi per il deputato azzurro che con l’interrogazione depositata chiede subito al ministro che chiarisca “quali orientamenti intenda assumere, per prevenire e contrastare lo sviluppo delle consorterie già esistenti fra le organizzazioni di tipo mafioso e la criminalità locale, in settori vitali dell’economia sarda, quali il turismo e gli immobili, o rispetto a reati di grave allarme sociale, quali quelli legati agli stupefacenti. La lotta all’infiltrazione mafiosa non può essere certo lasciato solo alla pur straordinaria cultura sarda, da sempre contrassegnata da forti radici identitarie”, rimarca. “Ugualmente centrale, poi, è che il Ministro chiarisca come si concili l’allarme lanciato nella relazione, circa il rischio che l’infiltrazione mafiosa sia catalizzata dalla presenza di molti mafiosi nelle carceri sarde, e la prossima apertura del nuovo padiglione del carcere di Uta destinato ai condannati in regime di 41bis. Circa 110 i boss mafiosi che saranno raccolti nella nuova struttura, che doveva essere pronta fin dal 2013 e che già ha suscitato negli anni asprissime polemiche. I numeri, infatti, sono davvero sbalorditivi: con l’operazione Uta i capimafia in Sardegna diventeranno 202, 110 a Cagliari e 92 a Sassari. Quasi un terzo dei detenuti in regime di 41bis saranno nell’isola, sui 700 complessivamente presenti nelle carceri italiane. Una vera e propria Caienna francese, rivisitata in chiave sarda. Con una semplice differenza, quell’isolotto divenuto celebre per la detenzione più dura al largo della costa della Guyana francese era un deserto grande appena 14 ettari. Non è così per la Sardegna, regione insulare, con un milione e 650 mila abitanti e un’estensione di 24 mila km quadrati. Non un isolotto desertico in mezzo al mare”, sottolinea il parlamentare nuorese che poi aggiunge. “Questi aspetti appaiono francamente incoerenti, e delle due l’una: o esiste un totale difetto di coordinamento, all’interno del Ministero e fra le diverse articolazioni che se ne occupano, fra politica penitenziaria e politica di contrasto alla mafia; oppure si è ritenuto che il rischio d’infiltrazione mafiosa fosse accettabile, o peggio che la Sardegna fosse sacrificabile. Entrambe le alternative sono, ad ogni evidenza, inaccettabili. Tutto ciò premesso, si chiede al Ministro interrogato: quali orientamenti intenda assumere, alla luce della relazione sull’attività svolta e sui risultati raggiunti dalla Direzione Investigativa Antimafia nel secondo semestre del 2019, rispetto al nuovo padiglione del carcere di Uta, per i detenuti in regime di 41bis”. Torino. Le intercettazioni choc dal carcere: “Oggi ci siamo divertiti, li abbiamo menati” di Giuseppe Legato La Stampa, 23 luglio 2020 Ad agosto del 2019 la Procura di Torino aveva già chiaro cosa stesse accadendo nella “pancia” del carcere Lorusso e Cutugno. Botte, sputi, pestaggi, umiliazioni ai detenuti. In una parola torture. Uno degli agenti indagati ha il telefono intercettato. Nelle cuffie degli investigatori finisce una chiamata alla fidanzata. “Oggi ci siamo divertiti. Sembrava un carcere di Israele degli anni Cinquanta”. Lei domanda: “Li avete menati di nuovo?”. Silenzio, pausa: “Sì”. Secondo il pm Francesco Pelosi, titolare dell’inchiesta che scuote uno dei più importanti penitenziari italiani, è questo uno dei tanti casi in cui nemmeno si conoscono i nomi delle vittime. Ma dei presunti picchiatori di professione sì. “E la ventina di episodi emersi sono solo la punta di un iceberg” racconta un investigatore. Non potrebbe essere altrimenti a meno di non leggere ulteriori conversazioni finite agli atti dell’inchiesta: “Cosa vuoi che dicano? - dice uno dei secondini indagati a un collega. Nemmeno li abbiamo portati in infermeria a farsi refertare. Vale di più la parola di un pedofilo o di un pubblico ufficiale?”. Dunque altre lesioni, altre torture sarebbero avvenute e se non sono contestate nella lunga lista dei capi di imputazione notificati agli indagati è solo perché non si è raggiunto il livello necessario della prova contro qualcuno. Negli atti allegati al fascicolo emergono le riunioni che gli agenti tenevano per concertare insieme al loro comandante le versioni “dolosamente false” a discolpa per disinnescare le segnalazioni giunte al direttore. Il comandante li copriva. Quando il detenuto Diego Sivera segnalò le prime violenze, Giovanni Battista Alberotanza, comandante della polizia penitenziaria, avviò un’indagine interna. E andò a sentire il detenuto: “Lo sai - gli avrebbe detto in premessa - che se poi vieni smentito dagli agenti rischi di essere condannato per calunnia e dovrai stare in carcere ancora di più”. Sivera ha colto il messaggio e ha rinunciato a raccontare. Lo ha fatto in seguito alla garante dei detenuti di Torino Monica Gallo che ha girato le segnalazioni al comandante e in copia alla procura. Oggi spiega: “Era un atto doveroso ascoltare i detenuti. È il mio lavoro”. Ma secondo le accuse sono in pochi ad avere fatto la propria parte. Non il direttore Domenico Minervini “che ha omesso di trasmettere le segnalazioni delle presunte violenze” e si sarebbe limitato a “spostare” periodicamente un ispettore indagato in altro settore. Né il comandante degli agenti, difeso dal legale Antonio Genovese. Che viene informato dell’esistenza di un’indagine da due sindacalisti. “Comandante hai il telefono intercettato” gli dice uno dei due. Chi li ha informati? Al momento non si sa. Si conosce invece un’altra inchiesta che inguaia altri 12 agenti della penitenziaria del carcere. Secondo il pm Vito Destito portavano droga e telefonini all’interno dell’istituto per cederli ad alcuni detenuti. Sono già stati interrogati nei mesi scorsi a attendono l’avviso di conclusione indagini. Torino. Il racconto dell’inferno: “Io preso a calci in pancia sulle ferite dell’operazione” di Lodovico Poletto La Stampa, 23 luglio 2020 L’italiano è approssimativo. I fatti no. E i calci dati con le scarpe pesanti della divisa sulla ferita non ancora guarita dell’operazione all’addome fanno male anche soltanto a sentirne parlare. “Io non posso stare malato in carcere con dolori da morire, per colpa di una guardia di quel brigadiere”. E se anche la frase è sconclusionata il senso è chiaro: non posso morire qui dentro per colpa di quei due agenti che mi hanno preso a botte. La lettera è agli atti. L’ha scritta un uomo di origini marocchine, si chiama Mohamed Chikhi, ha 49 anni. Ha una condanna per omicidio e ancora tre anni da scontare. Ha una cella nel blocco B sezione decima. Il suo racconto, verbalizzato dai magistrati che hanno scoperchiato il bubbone delle violenze nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino; e anche se questa non è una storia di torture nel senso stretto del termine è una storia di violenza: gratuita. E di coperture. Mohammed racconta che era stato operato da poco per un’ulcera all’addome. A metà aprile dello scorso anno un giorno si sente male. Gli altri detenuti lo soccorrono e chiamano le guardie. Il blocco B è un posto dove tra detenuti c’è molta socialità. Si gira tra le celle. Mohamed è circostanziato: “La guardia è tornata con una pastiglia di Buscopan presa in infermeria: “Mi ha detto muori pezzo di merda e me l’ha buttata per terra”. Mohamed reagisce. Dice: “Soltanto a parole”. Il seguito è scontato. “Dopo un po’ è arrivato il capo posto e mi ha detto che il brigadiere mi voleva vedere, e mi hanno portato da lui”. Ed è qui, in una stanza al primo piano, che sarebbe avvenuto il pestaggio. “La guardia - racconta Mohamed - mi ha dato un calcio alla gamba e io sono caduto”. E ancora: “Mentre ero a terra quello ha iniziato a darmi calci nella pancia e altre botte, proprio sulla ferita dell’operazione”. Uno, due, tre: quanti non sa dirlo. Ma tanti, è sicuro. In carcere le regole sono chiare: i detenuti sanno che uno sbaglio si paga. Ma sanno anche che i graduati della Polizia penitenziaria sono la garanzia che tutto avvenga senza problemi. Senza eccessi. Ecco, ciò che più lo indigna è il fatto che il brigadiere abbia lasciato fare: “Non ha alzato la mano per fermarlo, niente”. La storia è stata raccontata la prima volta dal detenuto all’avvocato Domenico Peila. Che conferma: “Dopo quel fatto sono accadute altre cose e il mio assistito si è visto negare la possibilità di accedere a permessi e benefici: un danno grave per lui”. Il seguito è più o meno questo. Dopo il pestaggio il detenuto chiede una visita perché sta male: e vengono riscontrate lesioni. E chiede anche di andare a rapporto: vuole presentare una denuncia. E qui la questione diventa complicata. Agli atti non viene messo nulla. Mohamed viene riportato in cella, la denuncia mai formalizzata. E lui si ritrova pestato un’altra volta: denunciare, far aprire fascicoli e inchieste per vicende interne non è una buona pratica per il mondo che si agita dietro le sbarre. Non è una buona pratica e si paga cara. La storia di Mohamed è finita comunque negli atti dell’inchiesta torinese. Ci sono stati interrogatori e verifiche. Le carte sono sul tavolo del magistrato; l’interrogatorio è uno dei mille atti di questi mesi d’inchiesta. Mohamed è ancora detenuto nel padiglione B, sezione decima. Non ha ottenuto i benefici in cui sperava: in galera basta un rapporto non favorevole per ritrovarsi nell’inferno. L’italiano è approssimativo, ma il concetto è chiaro: “Signor giudice se io non ho fatto del male a lui, perché lui ha fatto a me quelle cose con botte e calci? Tanti calci nella mia pancia, proprio dove mi avevano appena operato”. Piacenza. Caserma degli orrori: sei carabinieri arrestati. Torture, estorsioni e spaccio di droga di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 23 luglio 2020 Gli audio dei pestaggi: “Mi son detto, l’abbiamo ucciso”. Traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione, estorsione, arresto illegale, tortura, lesioni personali, pe-culato, abuso d’ufficio, falsità ideologica. Quegli stessi carabinieri che sapeva che avrebbe fatto arrestare, se li trovava di fronte tutti i giorni nel Palazzo di giustizia di Piacenza. Quando li incrociava, il Gip Luca Milani quasi si stupiva che “dietro i volti sempre cordiali e sorridenti di presunti servitori dello Stato” potevano “celarsi gli autori di reati gravissimi”. Per un attimo pensava di essersi immerso in un “romanzo noir”, ma le indagini della Procura diretta da Grazia Pradella lo riportavano sempre alla realtà di “uno scenario estremamente preoccupante”, scrive nell’ordinanza con cui ha disposto gli arresti. Era una “consuetudine”, un meccanismo che girava da tre anni. Una parte della droga e dei soldi che i carabinieri della “squadra” dell’appuntato Montella sequestravano agli spacciatori, invece di essere consegnata alla magistratura serviva a pagare i confidenti, spacciatori a loro volta. A far crollare il castello dell’illegalità sono, come spesso accade, un errore e la spregiudicatezza di chi si crede padrone: un confidente marocchino viene picchiato selvaggiamente in caserma davanti a due pusher per dargli una lezione. Quando gli investigatori lo chiamano, lui vuota il sacco. A certificare la vicinanza eccessiva tra Montella e troppi pregiudicati c’è una fotografia postata su Facebook da Simone Giardino (arrestato con fratelli e altri parenti) che lo ritrae con Giacomo Falanga (carabiniere arrestato) e con un altro pregiudicato. Tutti sorridono con fasci di banconote nelle mani. “Un’immagine conta più di molte parole”, chiosa il Gip. I Giardino sono considerati i soci in affari di Montella nel traffico di droga, tanto che l’appuntato ha anche scortato Simone per fargli da “scudo” in caso di controlli delle forze di polizia mentre andava a rifornirsi di droga a Milano. Il 19 marzo la Gdf ferma il furgone del padre di Giardino all’uscita del casello di Caorso. Dentro ci sono 3,2 chili di marijuana. Montella, allertato dal trafficante, chiama un collega della Gdf che è nella pattuglia il quale lo avverte che il fermo potrebbe non essere casuale, ma frutto di indagini che coinvolgono lo stesso appuntato. Gli dice di non muoversi facendogli capire che può essere intercettato, come è: “Tieni il telefono fermo un attimo”. Montella, scrive il gip, è inserito in “una realtà collaudata nel commercio degli stupefacenti” in cui Daniele Giardino è in grado di acquistare carichi da “45 mila euro alla volta”. Quando l’8 marzo scatta il divieto di movimento per la pandemia, l’appuntato rilascia “autocertificazioni con il timbro della stazione” per consentire che i Giardino “superassero indenni eventuali controlli” ed evitare che il traffico di droga potesse interrompersi. Un informatore aveva detto all’appuntato che c’era uno spacciatore che “piazzava” la droga a meno di quanto vendeva lui con i suoi complici, 5,50 euro al grammo invece di 7-8. “Lo devo beccare...”, commenta Montella. A spingere la mano della squadra di Montella e a consentire la proliferazione degli arresti illegali anche nella pandemia, contribuiscono “disinteresse e superficialità” del maresciallo che comanda la stazione, Marco Orlando (domiciliari) e del comandante della compagnia, il maggiore Stefano Bezzeccheri (obbligo di dimora), che ha “esclusiva attenzione al numero degli arresti”. Montella e i suoi fermano un sospetto pusher, non gli trovano nulla e gli trattengono illegalmente il cellulare dopo averlo picchiato e perquisiscono la sua casa senza lasciarne traccia negli atti. Il 27 marzo la “squadra” arresta uno spacciatore nigeriano. Il trojan capta l’immagine del sospettato ammanettato sul terreno, con accanto una pozza di sangue. I carabinieri commentano: “Quando ho visto la chiazza di sangue ho detto ‘mo l’abbiamo ucciso”. “Non ti preoccupare” risponde Montella, “i denti non li teneva”. La microspia registra in diretta il pestaggio di un egiziano che si giustifica: “Non ho niente, giuro”. Viene colpito più volte: “Stai vedendo quanto tempo ci fai perdere?”. Si sente il rumore sordo dei pugni mentre lo straniero invoca pietà, piange e ha singulti, forse indotti da una tecnica simile al waterboarding. È in questi passaggi che il gip individua il reato di tortura. Nessuno dei militari sembra preoccuparsi. Le intercettazioni della Procura registrano il “favore” che l’appuntato fa al suo complice in affari Daniele Giardino. Si presenta “attrezzato” (con la pistola) da un concessionario di Treviso, picchia e minaccia i dipendenti (“uno si è pisciato addosso” per la paura). L’Audi A4 nuova viene ceduta a 10 mila euro. “Hai presente Gomorra? Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato”. A Pasqua una vicina chiama il 112 per segnalare un pericoloso assembramento in un giardino. Quando i colleghi della pattuglia si accorgono che è la villa dell’appuntato se ne vanno. Poi l’operatore cancella l’intervento e “gira” l’audio della chiamata a Montella: “Voglio sentire la voce per capire se è la mia vicina. Per togliermi lo sfizio”. Piacenza. Arresti in cambio d’impunità. I silenzi dei superiori sulla caserma della vergogna di Fabio Tonacci La Repubblica, 23 luglio 2020 Tra la stazione Piacenza Levante di via Caccialupo 2, il luogo dove per almeno tre anni ogni diritto è stato sospeso per volere di uomini dello Stato, e il Comando provinciale dei Carabinieri da cui quella stazione dipende gerarchicamente, ci sono due chilometri e duecento metri. In macchina la distanza si copre in cinque minuti. A piedi, in un quarto d’ora. Come è possibile, dunque, che nessuno nella catena di comando sapesse? Come è possibile che in questi anni non sia arrivata neanche una segnalazione delle scorribande, dei traffici e delle torture del gruppo dell’appuntato Giuseppe Montella, il capo ombra della stazione Levante? E ancora: come è possibile che neanche un sopracciglio si sia alzato di fronte alla sfilza di moto e alle undici macchine di cui Montella è stato proprietario dal 2008 ad oggi (tra cui una Porsche Cayenne, tre Mercedes, quattro Bmw e un’Audi), pur con una dichiarazione dei redditi che non supera i 31.500 curo lordi? Domande la cui risposta, da parte dei vertici dell’Arma, non può e non deve essere quella già troppe volte sentita in passato. E che suona, più o meno, così: “Sono solo delle mele marce, l’Arma è un corpo sano”. Gli arresti per fare carriera È una risposta insufficiente, da qualunque lato la si guardi. Anche perché, stando a quanto si legge nelle 326 pagine dell’ordinanza del gip Luca Milani, che alla Levante le cose non andassero come dovevano andare non era affatto un segreto. Ne era a conoscenza il superiore diretto, il maggiore Stefano Bezzecchieri, comandante della Compagnia Piacenza. È l’ufficiale che scavalca il maresciallo alla guida della Levante e impone all’appuntato Montella di fare più arresti. “Vediamoci quanto prima a quattr’occhi, in borghese, al di fuori del servizio”, lo avverte al cellulare. L’ordine è chiaro, va eseguito a ogni costo e con ogni mezzo. Pure se questo comporta, per usare le parole del giudice Milani, “la totale illiceità e disprezzo dei valori incarnati dalla divisa”. Con l’unica garanzia dell’impunità, perché, si legge nell’ordinanza, “in presenza di risultati in termini di arresti, gli ufficiali di grado superiore erano disposti a chiudere un occhio sulle intemperanze e sulle irregolarità compiute dai loro sottoposti”. L’ultimo arrivato, un giovane maresciallo assegnato di recente alla Levante, è impressionato dalle azioni dei suoi nuovi colleghi. E al telefono si sfoga con suo padre: “Se lo possono permettere perché portano i risultati, portano un sacco di arresti l’anno. Ma perché? Perché hanno i ganci”. “I ragazzi si sono allargati” - Dello scellerato modus operandi del gruppo di Montella, delle sue uscite in servizio anche in stato di ebbrezza, pare sapere qualcosa anche il comandante della stazione di Campo Dell’Olio. Parlando col maggiore Bezzecchieri, il maresciallo Pietro Semeraro il 22 febbraio scorso si lascia scappare questa considerazione: “Vabbè, comunque i ragazzi della Levante, più che gestiti devono essere ridimensionati, perché, forse, si sono allargati un po’ troppo”. Sotto il naso di tre comandanti Che “i ragazzi della Levante” si siano allargati, quindi, non sembra proprio un segreto ben custodito. Eppure niente percepiscono, e niente eccepiscono, i tre comandanti provinciali che si sono succeduti a Piacenza dal 2017 ad oggi. Il colonnello Corrado Scattaretico nel settembre del 2018 viene trasferito a Roma, in un ruolo di stretta fiducia dei vertici: vice capo-ufficio del vicecomandante generale dell’Arma. Il suo posto lo prende il colonnello Michele Piras, che arriva dal Reparto operativo di Catania, e lo mantiene fino al settembre dello scorso anno, quando è nominato dalla piacentina Paola De Micheli a capo della segreteria generale della neo-ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti. Viene sostituito dall’attuale comandante provinciale, il colonnello Stefano Savo. Che nelle intercettazioni lo si sente prima chiedere spiegazioni a proposito di uno degli arresti sotto inchiesta, poi fare i complimenti al maresciallo in comando alla Levante per le operazioni contro lo spaccio. Alla Libertà, il quotidiano della città, Savo ieri ha detto: “Per noi è come un colpo al cuore, da parte nostra c’è totale disponibilità a collaborare per fare piena luce sui fatti. Penso all’amarezza dei miei uomini dediti con onestà e generosità al loro lavoro”. Le coperture - E però, anche tra i suoi uomini c’è chi sa bene che l’appuntato Montella è, per qualche ragione, un’intoccabile. L’episodio risale al 12 aprile di quest’anno. In pieno lockdown, e violando le disposizioni del governo, Montella dà una festa in giardino. Lorenzo Ferrante, in servizio presso la Centrale Operativa del Comando Provinciale di Piacenza, invia una pattuglia. Appena capisce che la casa è quella dell’appuntato, ordina alla pattuglia di lasciare il quartiere. Non solo. Chiama Montella “per scusarsi per il disguido”, assicurandogli che “non avrebbe redatto alcun documento, per non lasciare traccia dell’accaduto”. Dal Comando Generale dei Carabinieri, a Roma, fanno sapere che i militari coinvolti sono stati sospesi dall’impiego, senza stipendio, e di aver inviato a Piacenza 2 stazioni mobili e 8 carabinieri per garantire il servizio della Levante, posta sotto sequestro. “I reati ipotizzati sono gravissimi”, commenta in serata il comandante generale Giovanni Nistri. “Episodi del genere possono intaccare la fiducia nell’Arma ma io devo parlare a tutela dei 100mila carabinieri che ogni giorno e ogni notte sul territorio fanno il loro dovere”. Ferrara. Nuovo Garante dei detenuti, la Camera Penale: “scelta poco opportuna” estense.com, 23 luglio 2020 “C’è un rischio che è proprio di chi è stato alle dipendenze dell’Amministrazione carceraria e si trova ora a dover segnalare soprusi o irregolarità”. Inopportuno aver nominato come nuovo Garante dei detenuti un ex direttore del carcere di Ferrara. Lo sostengono il Consiglio Direttivo della Camera Penale Ferrarese, l’Osservatorio Carcere Della Camera Penale Ferrarese e i referenti regionali dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. La scelta del Consiglio comunale l’altro giorno è infatti ricaduta su Francesco Cacciola, già direttore della locale casa circondariale, al quale Camera Penale Ferrarese e Osservatorio Carcere augurano buon lavoro, effettuando però alcune considerazioni sulla sua nomina. “La prima di queste - spiegano - ha, nella nostra prospettazione, carattere politico intendendo evidenziare come, l’esercizio del legittimo potere di scelta compiuto dagli Organi comunali sia, forse, indicativo di “quell’idea di carcere” propria della società civile (e politica) che noi abbiamo sempre avversato. Si fa riferimento alla concezione securitaria connessa al carcere per cui lo stesso è qualcosa di “altro” rispetto al contesto sociale in cui è ubicato e al quale bisogna prestare strumenti (e uomini) preposti solo al controllo della sicurezza. Si tratta, ovviamente, di una lettura di parte ma che, invero, sottintende la speranza che la scelta del dott. Cacciola non sia stata effettuata solo nel perseguimento di tali fini”. La seconda considerazione, invece, riguarda più precisamente l’opportunità della scelta, dato che è stata nominata una persona che ha ricoperto un ruolo dirigenziale all’interno dell’Amministrazione Penitenziaria. “Siamo consapevoli - commentano da Camera Penale e Osservatorio Carcere - che tra i compiti del direttore della Casa Circondariale vi è proprio quello dell’interlocuzione con i detenuti (ma non solo con loro), anche per il perseguimento della finalità rieducativa della pena. Il direttore della Casa circondariale è, quindi, istituzionalmente abituato a trattare con i detenuti e a rispondere ai loro bisogni, fungendo, quindi, da “primo garante” per i diritti delle persone recluse. Nondimeno, non si può non considerare il rischio che proprio chi è stato alle dipendenze dell’Amministrazione si trovi, ora, a dover segnalare (per ruolo e funzione) soprusi o irregolarità all’interno della struttura carceraria dei quali, invero, proprio quella Amministrazione è chiamata a rendere (per prima) conto”. “Siamo certi - è la conclusione della nota - che le doti umane e professionali del dott. Cacciola e la approfondita conoscenza della realtà carceraria, gli consentiranno di intervenire anche sulle situazioni più difficili senza alcuna remora. Saremo lieti di fornire, anche per il tramite dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale Ferrarese, il nostro contributo per un costante monitoraggio della situazione carceraria nel Comune di Ferrara”. Vasto (Ch). Due detenuti nella stessa cella in quarantena anti Covid-19, protesta l’Osapp zonalocale.it, 23 luglio 2020 Una nuova denuncia dell’Osapp riguardante la Casa lavoro di Vasto. Il sindacato della Polizia penitenziaria, che già nelle settimane scorse aveva preso posizione contro la decisione del provveditorato di inviare a Vasto tutti i nuovi detenuti per le due settimane di quarantena anti coronavirus, riferisce che nella notte tra lunedì e martedì due persone arrestate in circostanze diverse, sono state traferite in una stessa stanza al terzo piano. “Tutte le circolari - scrive l’Osapp al provveditore Lazio Abruzzo Molise Carmelo Cantone - impegnano l’amministrazione a evitare di mettere nella stessa cella due arrestati, fino alla fine del periodo di controllo/quarantena, per evitare che uno dei due se contagiato infetti l’altro, raddoppiando i rischi. Dopo la situazione che si è venuta a creare domenica scorsa con lo svolgimento dei colloqui senza il previsto triage per i familiari, cosa di una gravità unica, sia per gli operatori di polizia che per la popolazione detenuta, a pochi giorni un’altra situazione che denota superficialità e pressapochismo”. L’organizzazione sindacale quindi chiede al provveditore di farsi carico delle vicende della Casa lavoro di Torre Sinello dando “al personale stanco di vivere in questo stato di abbandono e avvilito” un segnale di non pressapochismo e divisione, ma “di regole chiare e semplici e vicinanza”. “Lei - si conclude la lettera - ha la possibilità di motivare il personale, ha la possibilità anche grazie alla sua enorme esperienza di ricreare le condizioni per far sì che la struttura torni a essere funzionale e funzionante. Il personale è arrivato al limite, nulla può l’esiguo numero di unità di polizia che lei ha mandato in distacco. Aspettiamo un suo intervento. Sala Consilina (Sa). Chiusura del carcere, per Bonafede è una scelta giusta infocilento.it, 23 luglio 2020 Funzionamento del carcere antieconomico. Il carcere di Sala Consilina difficilmente potrà riaprire i battenti. Questo in sintesi il pensiero del Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Interrogato dal deputato di Liberi e Uguali Federico Conte, Bonafede ha ricordato come “viene individuato in circa 100 posti detentivi il limite minimo sotto il quale la gestione di un istituto Penitenziario risulta essere anti-economica come peraltro da indicazioni giunte dalla Corte dei Conti”. Il titolare del dicastero alla giustizia ha poi precisato come sia stata valutata anche l’offerta del comune Sala Consilina di provvedere all’adeguamento funzionale della struttura penitenziaria con accollo dei relativi oneri. Ma anche in questo caso la capienza dell’Istituto “sarebbe rimasta limitate largamente al di sotto del predetto limite sostenibilità”. Insomma il numero di detenuti esiguo conferma l’anti economicità e l’opportunità della soppressione della casa circondariale di Sala Consilina. Il ministro ha comunque precisato che la questione sarà “oggetto di attenta valutazione per addivenire ad una decisione conclusiva”. Voghera (Pv). La direttrice: “Un carcere nel contesto della città” di Daniela Catalano Il Popolo di Tortona, 23 luglio 2020 Torna regolarmente di attualità la situazione difficile delle carceri italiane che in molti casi sono sovraffollate: il problema, specie in estate, rischia di “divampare”. Qual è la situazione della Casa circondariale che sorge a Voghera e che rappresenta anche l’unica realtà carceraria nel territorio diocesano? “La Casa circondariale deve essere una realtà inserita nel contesto cittadino e deve far conoscere il suo piano di azione nell’ambiente sociale nel quale si trova in modo da essere oggetto di interesse e non di timore per chi è all’esterno”: sono le parole, chiare e decise, di Stefania Mussio, che dal febbraio dello scorso anno è la direttrice della struttura vogherese, dove aveva già ricoperto incarichi dirigenziali dal 1996 al 2000 e dal 2005 al 2006. L’istituto di pena è stato aperto nel 1982 come carcere per donne terroriste ed è diventato tristemente famoso nel 1986 per la tragica morte di Michele Sindona. Già alla fine degli anni 80, pur mantenendo la connotazione di massima sicurezza, è diventato maschile ospitando detenuti a elevato indice di vigilanza come terroristi, brigatisti, associati alla mafia o autori di fatti violenti tra le mura carcerarie e dal 2005 anche collaboratori di giustizia. Oltre ai circuiti dell’alta sicurezza (quelli che escono dal circuito del 41bis e i gregari), ha mantenuto anche una sezione di media sicurezza quale appoggio al tribunale, presente in città fino a pochi anni fa. Come ci spiega la direttrice, nel caso di Voghera non ci sono situazioni di sovraffollamento, anche se “l’istituto è un po’ datato e necessita di manutenzione”. Nel 2013 è stato aperto un nuovo padiglione e oggi può arrivare a una capienza massima di 450 persone che non è, al momento, raggiunta. C’è, infine, un reparto di polizia penitenziaria maschile con la presenza di alcune poliziotte che lavorano negli uffici e nell’amministrazione. Mussio in questo suo primo anno di lavoro ha notato un cambio di atteggiamento nella sensibilità del territorio. “Mi sembra - ha affermato - che il carcere oggi sia una realtà meno trascurata e che il tessuto esterno abbia consapevolezza della sua esistenza e se ne faccia carico non mostrando più una certa diffidenza come avveniva anni fa”. Anche lo spirito di collaborazione con i volontari e le associazioni che operano all’interno è aumentato. “È molto importante che l’istituto penitenziario sia un luogo adeguato e stimolante perché solo così si traduce in concreto il rispetto della dignità delle persone detenute” ha sottolineato la direttrice che, grazie alla sua esperienza maturata in altri istituti di pena, è convinta del ruolo fondamentale della società e dei volontari. Proprio queste figure sono per lei un elemento da valorizzare e sul quale investire attraverso la creazione di corsi di formazione che possono aiutare a capire bene come muoversi e come essere “equilibrati, responsabili, dialoganti e accoglienti, ricordando sempre che c’è un reo e una vittima e che c’è sempre qualcuno che ha pagato per le azioni commesse”. “Il carcere, in base a elementi soggettivi e oggettivi, arriva a ipotizzare che i detenuti abbiano intrapreso una nuova volontà di vita - ha aggiunto - e facendo un grande gesto di fiducia, cerca di aiutarli a impiegare meglio e in modo più costruttivo il loro tempo all’interno della struttura”. Fortunata Di Tullio, coordinatrice e capoarea giuridico pedagogica, è intervenuta al riguardo per spiegare che sono presenti all’interno del carcere una falegnameria e una sartoria e recentemente un laboratorio dolciario. “Il programma di reinserimento - ha raccontato Di Tullio - segue il principio della gradualità e dovrebbe avere una naturale evoluzione in base alle risposte date dai detenuti ai programmi che vengono redatti”. In poco più di un anno, nonostante la brusca pausa del Covid che ha toccato da vicino il carcere, l’educatrice ha spiegato che “sono stati raggiunti diversi obiettivi: rinnovamento della biblioteca e realizzazione di una nuova fonoteca, rifacimento della cappella in una nuova sede, creazione di due palestre attrezzate, riqualificazione delle sale socialità, rimessa a norma del teatro, creazione di un nuovo reparto scuola e di una capiente aula magna”. Lo scorso anno il carcere ha allestito un suo stand nella fiera dell’Ascensione per far conoscere quanto realizzato nei laboratori e a novembre detenuti e personale hanno promosso un concerto di musica jazz a Tortona con ingresso a offerta per finanziare le attività della casa circondariale e per aiutare un istituto che accoglie bambini disabili. La direttrice non si ferma e guarda avanti. “Mi piacerebbe creare all’interno della struttura un laboratorio - ha concluso - che abbia legami con le realtà della zona e proporre attività interessanti per i detenuti, come ho fatto a Sondrio dove sono riuscita ad avviare un pastificio. Vorrei anche impegnare le persone detenute per i bisogni della collettività, per restituire alla società qualcosa che è stato tolto. Penso al Comune, all’Enpa, alle scuole, al Museo storico. Sono certa che bisogna portare avanti progetti concreti con le associazioni che sono già presenti, come “Terre di mezzo” dell’orionino don Pietro Sacchi, coinvolgendo altri enti locali”. Reggio Calabria. Parte la gara di solidarietà per Maria Antonietta Rositani ildispaccio.it, 23 luglio 2020 Il comitato di sostegno sorto per dare vicinanza e aiuto a Maria Antonietta Rositani nel difficile percorso che ancora dovrà compiere dopo la gravissima ferita inferta alla sua persona lancia un appello a tutta la comunità reggina e calabrese di dare concreta solidarietà. Per questo lancia una campagna di raccolta fondi che curerà gratuitamente Banca Etica. Questo il testo dell’appello dal titolo “Siamo con te: un aiuto subito per Maria Antonietta Rositani”. Il marito l’ha bruciata viva, ma è sopravvissuta, da 480 giorni si trova in ospedale, ha subito decine di interventi, per le gravi ustioni subite che hanno colpito gambe, braccia, viso. Attualmente Maria Antonietta è ricoverata al Riuniti di Reggio Calabria ancora in condizioni critiche. Quando sarà dimessa dovrà affrontare una lunga riabilitazione nella speranza che possa recuperare la migliore qualità della vita possibile, ma dovrà affrontare ancora anni di cure e di interventi di chirurgia plastica recandosi in istituti specializzati del centro nord che richiederanno ingenti spese. “Maria Antonietta ci chiede ora di dare un futuro a Lei e ai suoi figli. Questa raccolta fondi si pone l’obbiettivo di riuscire a coprire i costi per poter garantire a Maria Antonietta le migliori cure riabilitative. Dimostriamole il nostro affetto versando una somma al c.c.b. intestato a Maria Antonietta Rositani Banca Etica. Iban IT46L0501803400000016955759. Causale: un aiuto subito”. Pozzuoli (Na). Teresa, dalla cella al bistrot: “Quel lavoro mi ha aiutato” di Giuliana Covella Il Mattino, 23 luglio 2020 Quattro donne, quattro storie di riscatto che vedono protagoniste detenute che diventano imprenditrici. Ma per ora, causa Covid, solo una, Teresa, ci sarà a preparare e servire caffè ai clienti al banco e ai tavoli. La sfida è quella lanciata dalla cooperativa Lazzarelle, impresa sociale al femminile nata nel 2010 nel carcere di Pozzuoli, che ha inaugurato il Lazzarelle Bistrot nella Galleria Principe di Napoli grazie al supporto di Fondazione Charlemagne e UniCredit, “Sto pagando i miei errori, ma ora voglio rimettermi in gioco per un futuro migliore”. Occhi e capelli castani, Teresa, 37 anni e mamma serata di due figli di 14 e 16 anni, s’intimidisce davanti all’obiettivo ma nel raccontare la sua storia viene fuori la sua grande forza d’animo. Ad attirare è soprattutto la sua loquacità. Una delle sue doti è infatti quella di essere comunicativa con gli altri. “Anche se non parlo nessuna lingua straniera - ammette sorridendo - mi piace interagire con la gente e non mi scoraggio quando vengono i turisti perché riesco a farmi capire”. Originaria di Torre del Greco, a Pozzuoli Teresa deve scontare ancora quattro anni per il reato commesso. “Ho sempre lavorato onestamente - racconta - Avevo un bar e un’impresa di pulizie, poi mi sono indebitata e ho cercato di ottenere dei prestiti ma nessuno mi ha aiutata. Allora ho iniziato a fare rapine in banca insieme ad altre due persone, perché ero arrabbiata con lo Stato che non mi tutelava. Sono stata condannata a 15 anni e 2 mesi, scesi a 10 anni e 2 mesi per buona condotta e altri benefici, ma continuerò a pagare per la mia scelta sbagliata”. Già da una settimana (di prova) Teresa ha la possibilità di uscire dalla sua cella al mattino per andare a lavorare in Galleria e poi rientrare la sera, come previsto dal regime di semi libertà. A gennaio la 37enne ha iniziato a produrre e tostare caffè all’interno del carcere, dove c’è la torrefazione e in poco tempo si è appassionata grazie agli operatori. Insieme a lei in un primo momento avrebbero dovuto esserci altre tre detenute ma l’arrivo del Covid ha costretto ad un cambio di programma. “A marzo dovevano essere in quattro - spiega Imma Carpiniello, presidente della coop Lazzarelle - poi è scoppiata la pandemia e si sono ridotte a tre, fino ad una sola, come ci impongono le restrizioni”. Nel locale fino a settembre potrà esserci una detenuta affiancata da sei operatori sociali. “Sarà una grossa responsabilità - assicura Teresa - ma non mi spaventa, perché Imma e gli altri volontari hanno riposto fiducia in me”. Il progetto Lazzarelle negli anni ha coinvolto 62 detenute, dando loro la possibilità di mettersi alla prova producendo caffè artigianale nel rispetto dell’antica tradizione napoletana e dell’ambiente. Il sostegno di UniCredit - grazie ai fondi del progetto “Carta E” - ha permesso l’acquisto di beni strumentali funzionali all’avvio del locale. “Il Bistrot in effetti è lo spin off della torrefazione che è all’interno del carcere di Pozzuoli - rimarca Carpiniello. Queste sono le misure alternative che consentono un percorso virtuoso, grazie al quale per chi svolge un’attività lavorativa fuori dal carcere si abbatte la recidiva del 90%”. All’inaugurazione anche La direttrice del carcere di Pozzuoli, Carlotta Giaquinto: “Per la prima volta usciamo dalle mura del carcere e speriamo di coinvolgere altre detenute nel progetto”. Per Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli “questa esperienza è la prova di un concreto reinserimento lavorativo e sociale”. Gli spazi del locale erano dapprima usati come depositi comunali, come ricorda l’assessore ai giovani Alessandra Clemente: “Abbiamo messo in campo una progettualità che vede il Comune protagonista insieme alle istituzioni culturali dell’area, Mann, Accademia di Belle Arti, conservatorio San Pietro a Majella, facoltà di Architettura Federico II. Dall’altro lato abbiamo fatto una scelta: non una Galleria di grandi marchi, ma tesa alla valorizzazione dell’artigianato e dell’inclusione sociale. Inoltre è aperto il bando per i locali non ancora assegnati”. Ancona. “Ora d’aria”, laboratorio di poesia nel carcere di Montacuto Corriere Adriatico, 23 luglio 2020 “La punta della lingua 2020”, Festival internazionale di poesia totale, torna nelle carceri con il progetto “Ora d’aria”. Giovedì 23 luglio, il laboratorio di poesia sarà all’interno di Montacuto di Ancona per il primo degli appuntamenti nelle case di reclusione marchigiane. A inaugurare questo speciale happening, organizzato grazie alla collaborazione tra Nie Wiem e il Garante dei diritti della persona della Regione Marche, Andrea Nobili sarà il poeta e scrittore, Guido Catalano. “Sarò ospite del Festival “La punta della lingua” che mi ha invitato a tenere un incontro con i carcerati del carcere di Montacuto ad Ancona - ha detto Catalano circa l’appuntamento di domani - questo incontro rientra nel progetto Ora d’aria, un progetto davvero importante, un progetto che porta la poesia dentro le carceri, in un periodo tra l’altro piuttosto difficile, ancora più difficile, se è possibile, per i carcerati. Il Covid ha fatto sì che i prigionieri non possano incontrare i propri cari. E dunque, io sono molto contento di esserci e spero di portare qualcosa, sicuramente a me servirà molto”. “Superata la fase più acuta dell’emergenza sanitaria, è necessario, adesso, ripartire con tutto ciò che offre una prospettiva di recupero sociale alla dimensione carceraria. Dalla tutela delle relazioni affettive alle attività educative e formative - ha ribadito il Garante dei diritti della persona della Regione Marche, Andrea Nobili -. L’incontro con il poeta Guido Catalano va in questa direzione, non solo porta la cultura nei luoghi della marginalità sociale, ma si vuole dare anche un piccolo contributo affinché la pena abbia davvero una finalità rieducativa”. “Ora d’aria Poesia Lab” ha lo scopo favorire la socializzazione dei detenuti, di incrementare il loro livello linguistico e culturale e di valorizzazione la loro creatività. Durante gli incontri le poesie degli autori ospiti saranno lette e analizzate anche in forma ludica dagli organizzatori, che guideranno eventualmente i ristretti nella composizione di proprie poesie. “Ora d’aria” è di un appuntamento fortemente voluto da La punta della lingua anche e soprattutto in un periodo come questo, delicato e difficile per tutti. Ma ci è sembrato giusto il nome di Catalano perché abbiamo pensato ad un poeta e scrittore poliedrico, sentimentale e ironico allo stesso tempo”, hanno spiegato i direttori artistici della manifestazione Valerio Cuccaroni e Luigi Socci. Malta. Daphne Caruana Galizia, gravemente ferito il testimone chiave di Youssef Hassan Holgado Il Manifesto, 23 luglio 2020 Il tassista Melvin Theuma avrebbe dovuto comparire al processo per l’uccisione della giornalista ieri, poche ore prima è stato trovato a casa in una pozza di sangue. Verdi e democratici invocano. A Malta il sangue scorre ancora. Stavolta è quello del tassista Melvin Theuma, intermediario tra il mandante e gli assassini della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia. Theuma è stato trovato martedì sera nella sua abitazione in una pozza di sangue con tagli alla gola e al torace. Trasportato d’urgenza in ospedale, le sue condizioni rimangono gravi anche se stabili. In conferenza stampa il commissario Angelo Gafa ha affermato che tratterebbe di un presunto caso di suicidio. A confermarlo sembrerebbe essere stato lo stesso Theuma ma le indagini sono ancora in corso. Non sono stati rinvenuti segni di infrazione nell’abitazione e i vicini non hanno riferito nulla di sospetto. A destare dubbi, però, è il tempismo: il giorno seguente Theuma sarebbe dovuto comparire in tribunale come testimone chiave nel processo sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia. Gli inquirenti stanno tentando di far luce anche su un inquietante fatto accaduto lunedì mattina: davanti al tribunale di La Valletta è stato trovato un cappio appeso a un cartello stradale. L’intermediario si trovava sotto protezione speciale dopo il suo arresto avvenuto nel novembre scorso. In cambio di una sua confessione le autorità maltesi gli avevano garantito l’indulto. Negli interrogatori aveva accusato il businessman Yorgen Fenech di essere il mandante dell’assassinio della giornalista, avvenuto con un’autobomba nell’ottobre 2017. Nel frattempo ieri ha testimoniato in aula Lawrence Cutajar, ex capo della polizia maltese dimessosi a gennaio. Davanti ai giudici, Cutajar ha difeso il suo operato nonostante le critiche subite per la conduzione delle indagini sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia. Ha inoltre negato le accuse avanzate dagli avvocati di Fenech, secondo cui l’ex capo della polizia avrebbe ricevuto una tangente di 30mila euro per concedere la grazia al tassista. Durante l’audizione c’è stato un momento di tensione quando gli avvocati del magnate maltese hanno chiesto di ascoltare in pubblico alcune registrazioni rinvenute all’interno di un hard-disk di Theuma. Secondo i difensori di Fenech le registrazioni conterrebbero la prova che l’ex capo della polizia maltese avrebbe ricevuto la tangente, mettendo in discussione l’intero impianto accusatorio. Dopo una maratona di otto ore, la Corte ha stabilito che le registrazioni emerse rimangano private e ha chiesto che Cutajar sia risentito di nuovo a data da destinarsi. Dura la reazione della società civile rimasta scioccata dalle ultime notizie. Il partito dei verdi e i democratici hanno pubblicato un comunicato comune chiedendo che si faccia chiarezza su cosa sia accaduto a Theuma, invocando anche l’aiuto dell’Fbi: “Gli eventi connessi all’assassinio della giornalista maltese Daphe Caruana Galizia sono un test fondamentale per la nostra democrazia, un test che non possiamo permetterci di fallire”, conclude il testo. Molti i dubbi e le domande che si pongono i familiari delle persone coinvolte in questo lungo processo. A partire dai figli di Daphne. Domande in attesa di risposta a più di due anni di distanza. Iran. Narges Mohammadi in carcere col Covid senza cure mediche. L’appello dei figli di Giulia Ferri L’Espresso, 23 luglio 2020 La giornalista e attivista per i diritti umani, detenuta dal 2016 in condizioni sempre più intollerabili, è in isolamento e non può neppure telefonare. Ora i suoi ragazzi parlano via Facebook: “Aiutateci a sentire di nuovo la sua voce”. Kiana e Ali sono i figli gemelli di Narges Mohammadi, giornalista e attivista per i diritti umani detenuta in carcere in Iran dal 2016. Sanno che la madre, insieme ad altre dodici prigioniere, è stata contagiata dal virus ma non ha accesso a cure. Così come sanno che è detenuta in condizioni difficili, senza assistenza medica né accesso a una corretta alimentazione, isolata nel carcere e con il divieto di fare telefonate. Nessuna eccezione, neppure ora che ha contratto il Covid le è stato permesso di telefonare ai figli. Il video con il loro appello è stato pubblicato sulla pagina Facebook di Taghi Ramhadi, marito dell’attivista, rifugiato a Londra: i ragazzi chiedono aiuto per poter sentire di nuovo la voce della madre dopo un silenzio durato undici mesi. Narges Mohammadi, 48 anni, è attualmente prigioniera di coscienza nel carcere iraniano di Zanjan, dove è stata trasferita sei mesi fa. Collaboratrice di Shrin Ebadi, Premio Nobel per la pace nel 2003, è portavoce e vicepresidente del Centro per la difesa dei diritti umani in Iran e presidente del comitato esecutivo del Consiglio Nazionale della pace dal 2008. Attiva in difesa dei diritti umani fin dai tempi dell’università, nel 2009 vinse il premio Alexander Langer, conferito a persone che con il proprio lavoro attraverso “scelte coraggiose, indipendenza di pensiero, forte radicamento sociale, siano capaci di illuminare situazioni emblematiche e strade innovative”. Già condannata al carcere nel 2012 era poi stata rilasciata per le sue precarie condizioni di salute. La donna è infatti gravemente malata, soffre di embolia polmonare e di un disturbo neurologico. Nonostante ciò nel 2015 è stata nuovamente arrestata con l’accusa di “attività di propaganda contro il regime”, “campagne per l’abolizione della pena di morte” e “cospirazione per commettere crimini contro la sicurezza del paese”. Colpevole in realtà di essersi battuta pubblicamente in difesa dei diritti delle donne e per l’abolizione della pena di morte nel suo Paese, nel 2016 le viene inflitta una condanna a 16 anni. L’Iran è uno dei Paesi mediorientali maggiormente colpiti dal Covid. Sono 14.634 i decessi confermati e se finora i dati ufficiali parlavano di quasi 270 mila contagi, uno studio pubblicato negli ultimi giorni dal ministero della Salute iraniano stima il possibile numero dei contagi in 25 milioni. La drammaticità della situazione era già stata denunciata in una lettera dalla stessa Narges Mohammadi. L’attivista iraniana ha scritto che a inizio luglio alcune tra le diciotto donne detenute nel carcere hanno iniziato ad avvertire sintomi da Covid-19. Solo l’11 luglio sei donne rimaste asintomatiche sono state portate in un’ala separata della struttura, mentre lei e le altre undici sintomatiche sono state lasciate dov’erano, in quarantena e senza cure. In seguito al peggioramento delle loro condizioni di salute e alle forti pressioni dei familiari, tutte le detenute sono state sottoposte al test, ma non hanno mai ricevuto i risultati; intanto una di loro, particolarmente grave, è stata trasportata in ospedale ed è risultata effettivamente positiva. “Noi 12 donne presentiamo sintomi di affaticamento eccessivo e dolore addominale, diarrea, vomito, perdita di olfatto. Non abbiamo accesso alle cure adeguate né ad una alimentazione corretta. La mancanza di strutture mediche, la mancanza di spazio per la quarantena per nuove entrate e la mancanza di controllo sanitario ha causato la diffusione del coronavirus”, ha scritto l’attivista iraniana. “Chiedo al Signor Namaki, Ministro della Sanità, di inviare un rappresentante per prendere visione della situazione nella prigione femminile di Zanjan”. Critica fin dall’inizio della pandemia la situazione nelle carceri del Paese, dove sono detenute circa 189 mila persone. Proprio per contenere i contagi di massa nelle carceri, la Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, aveva ordinato a metà marzo la liberazione temporanea di migliaia di detenuti, ma non della Mohammadi. Lo scorso aprile una delegazione delle Nazioni Unite ha chiesto in una lettera indirizzata alla Repubblica islamica dell’Iran di estendere la liberazione anche ai prigionieri politici. Per tutta risposta invece la Magistratura ha fatto sapere, per mezzo del suo portavoce, Gholamhossein Esmail, che la misura di liberazione avrebbe riguardato solo chi stava scontando una pena inferiore ai 5 anni e sicuramente non i detenuti politici, considerati “spie” o “terroristi”. Non solo, l’attivista fa sapere che sono state anche inasprite le misure detentive per i prigionieri avversi al regime: “In questo periodo, per esplicita richiesta del Ministero dell’Intelligenza e della Magistratura, non mi consentono né di comprare carne a mie spese né di sentire i miei figli per telefono” ha scritto nella sua lettera di denuncia. Filippine. Quinto processo per Maria Ressa, la giornalista che sfida Duterte di Raimondo Bultrini La Repubblica, 23 luglio 2020 Un mese fa era stata condannata per diffamazione, ora è sotto accusa per evasione fiscale. Ma lei su Twitter si dichiara “non colpevole”. Sul “Washington Post” appello di 400 intellettuali a Trump perché convinca il regime di Manila a mettere fine alla persecuzione. Nell’ennesima convocazione davanti ai giudici filippini la pluripremiata giornalista Maria Ressa ha negato le ultime accuse di evasione fiscale, uno dei numerosi capi di imputazione considerati un pretesto per intimidire politicamente la redazione del sito di news online Rappler da lei fondato nel 2016 e fin dall’inizio critico verso il governo del presidente Rodrigo Duterte. Ressa, che ha doppia cittadinanza statunitense-filippina, si è dichiarata in un tweet “Non colpevole” del reato a lei attribuito in quanto amministratrice della start up sottoposta oggi alla quinta audizione giudiziaria, stavolta presso il Tribunale regionale di Pasig che la sospetta di una presunta violazione fiscale sulla dichiarazione Iva di Rappler del secondo trimestre 2015 per un piccolo importo, circa 5mila euro di “certificati di deposito” non pagati. Secondo la pubblica accusa avrebbe omesso i proventi di una vendita di quote a investitori stranieri che potrebbero portare l’autorità di regolamentazione dei titoli a revocarle la licenza giustificando le accuse avanzate dal governo di una “proprietà straniera” del “fastidioso” sito di notizie. Il governo giustifica la lunga serie dei processi come “regolari procedure di accertamento legale” e non come attacchi alla libertà di stampa. Il mese scorso un tribunale di Manila aveva condannato Ressa e un ex reporter di Rappler con l’accusa di aver diffamato un ricco e potente uomo d’affari per i suoi rapporti con un giudice corrotto a una pena di sei anni di carcere, pena sospesa in attesa della verifica dei ricorsi. Ma oltre a un altro caso di presunta diffamazione, la giornalista nominata “persona dell’anno 2018” dalla rivista Time dovrà affrontare prossimamente altri tre processi per violazioni relative alle dichiarazioni dei redditi e della partita Iva dello stesso anno 2015 oltre a un caso di “sospetta evasione fiscale”. “Andremo avanti nella difesa passo per passo”, ha dichiarato Ressa. Nella loro difesa i legali di Rappler hanno sostenuto che i “certificati di deposito” o Pdr non sono redditi imponibili e che vanno applicati solo ai “commercianti di valori mobiliari”, non a una società editrice. Una ulteriore prova, dicono, del tipo di persecuzione applicata contro i media critici verso Duterte, al quale viene attribuita - dopo la sanguinosa “campagna antidroga” con migliaia di vittime - anche la nuova legge anti terrorismo che assegna ampi poteri alla polizia e la chiusura del popolare canale tv Abs Cbn al quale non è stata rinnovata la licenza. Proprio alla vigilia di questo quinto processo oltre 400 docenti universitari, giornalisti e membri del Congresso americano hanno pubblicato un annuncio a tutta pagina sul Washington Post a sostegno di Maria Ressa per sollecitare il governo degli Stati Uniti a “usare la sua influenza” per convincere il governo filippino a far cadere tutte le accuse, considerando l’amicizia personale tra lo stesso presidente Donald Trump e Duterte. Ma intanto le procedure per riportare Maria Ressa e Rappler davanti alla magistratura continuano e presto saranno esaminati il sesto e settimo caso che riguardano altre presunte violazioni del codice per i titoli fiscali nel tentativo di provare la proprietà straniera di Rappler, sempre negata dalla giornalista e dal consiglio di amministrazione, i cui membri saranno assieme a lei sul banco degli imputati. L’ottava denuncia penale contro Ressa per diffamazione a mezzo stampa online è stata presentata dallo stesso uomo d’affari Wilfredo Keng che ha ottenuto l’ultima condanna della giornalista nonché del redattore che aveva firmato il servizio.