Frena la legge dei Cinquestelle sui detenuti ostativi: “Parli la Consulta” di Errico Novi Il Dubbio, 22 luglio 2020 Nel vertice di lunedì si è deciso di aspettare la nuova sentenza della Corte costituzionale, prevista in autunno. Ieri notte il summit per l’ok alla riforma Csm, domani all’esame del Cdm. Si può parlare di frenata. Lunedì pomeriggio il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha intavolato un vertice in videoconferenza con gli sherpa della maggioranza in materia di giustizia. Un preview del summit consumato poi stanotte sul Csm, dal quale dovrebbe essere uscito il via libera alla riforma della magistratura (ma che non si è ancora concluso al momento di andare in stampa). In attesa del Consiglio dei ministri in cui domani o venerdì approderà il ddl delega, va appunto registrata una “doverosa frenata”, se la si vuole così definire: riguarda una legge che il Movimento 5 Stelle da mesi spera di mettere in rampa di lancio, quella con cui si vorrebbero limitare al massimo gli effetti della sentenza della Consulta sui permessi ai detenuti di mafia in regime ostativo. Secondo la Corte costituzionale è illegittimo subordinare al pentimento del recluso persino la concessione del più blando dei benefici, il permesso appunto. Dal giorno stesso di quella decisione, lo scorso 23 ottobre, del tutto coerente con la pronuncia emessa poche settimane prima dalla Corte europea, una parte della maggioranza ha messo in moto la macchina della reazione. Fino a ipotizzare, in commissione Antimafia, un articolato che metta i paletti addirittura al giudice delle leggi. Ma lunedì sera come detto si è imposto un lampo di ragionevolezza, nella discussione, abbastanza serena, tra il guardasigilli e i rappresentanti della maggioranza. Si è stabilito che non se ne farà nulla fino al prossimo autunno, epoca in cui è attesa una nuova pronuncia a Palazzo della Consulta, che dovrebbe riguardare stavolta benefici penitenziari più significativi, quale la concessione della libertà provvisoria. Si riscatta dunque almeno un po’ la parte più garantista dell’alleanza di governo, il fronte - costituito da Pd, Italia viva e una parte di Leu - meno sedotto dalle leggi clamorose in materia penale. Sempre nella riunione in videoconferenza di lunedì, a cui hanno preso parte, con Bonafede, diversi parlamentari, si è discusso anche di un ulteriore dossier, sul quale invece l’orientamento restrittivo del ministro pare destinato a prevalere, ossia l’inasprimento delle pene per l’omicidio stradale. Il guardasigilli ha accettato di affidare alla libera scelta condivisa il veicolo normativo per introdurre le novità, fra cui pesantissime aggravanti per chi, mentre guida col cellulare attivo, provoca la morte di un passante. Però Bonafede ha anche detto chiaro e tondo che “una risposta va data”, dopo essersi impegnato in tal senso coi familiari di Alessio e Simone, i cuginetti uccisi un anno fa da un suv che correva per le viuzze di Vittoria, in Sicilia. Certo è che la partita sulla giustizia si è riaperta, ora che il lockdown è alle spalle. Sui problematici limiti da imporre al quadro di norme ereditato dalla Consulta sul 4 bis, non si esclude che possa essere Pietro Grasso, estensore della relazione approvata in commissione Antimafia, a predisporre un articolato. Ma lo stesso ex capo della Dna e senatore di Leu ha convenuto con gli alleati che “giocare a rimpiattino” con la Corte costituzionale, senza attenderne le nuove decisioni (una sui reati di immigrazione è attesa nelle prossime ore), sarebbe davvero inappropriato. Adesso la scena sarà tutta per la riforma del Csm. Fino all’ultimo resterà aperto il capitolo del ddl riservato al sistema per l’elezione dei componenti togati. Il principio che sembra essersi imposto è: dobbiamo fare fuori il correntismo, non le correnti. Sicuro il no al sorteggio, resta da decidere se risolvere i collegi in bilico con un ballottaggio o seguire la logica proporzionale. “Ma l’ultima parola sarà del Parlamento”, assicurano tutti. Il finale non è dietro l’angolo. Freno alle scarcerazioni. Oggi si decide sulla legittimità di Andrea Ossino Il Tempo, 22 luglio 2020 Oggi la Consulta si riunirà per prendere una decisione che inciderà sulle sorti dei detenuti che nel periodo caldo del Covid, e dopo le violente proteste sorte all’interno e all’esterno dei penitenziari, hanno salutato i compagni di cella per andare agli arresti domiciliari. La Corte costituzionale dovrà infatti esprimersi sulla legittimità del provvedimento con cui si è cercato di porre un freno alla scarcerazione di numerosi detenuti, anche di quelli che soggiornavano nel circuito detentivo di alta sicurezza. La faccenda è spinosa. È infatti dalla polemica sulla scarcerazione di alcuni mafiosi che è scaturito l’intervento della Commissione d’inchiesta Antimafia e della Dia. Ma andiamo con ordine. La vicenda inizia appena dopo i disordini che hanno visto i detenuti insorgere affermando di volere maggiori garanzie per le loro condizioni di salute, specialmente dopo l’esplosione dell’epidemia. A marzo il decreto Cura Italia ha disposto la detenzione domiciliare per chi ha meno di 18 mesi di pena da scontare. E pochi giorni dopo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha inviato una circolare a tutti i penitenziari italiani: nel documento si chiede di indicare “con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza” i detenuti che hanno compiuto più di 70 anni e che sono affetti da alcune patologie. Un “semplice monitoraggio - ha spiegato il Dap - con informazioni per i magistrati sul numero di detenuti in determinate condizioni di salute e di età, comprensive delle eventuali relazioni inerenti la pericolosità dei soggetti”. Ma è proprio in base all’età e alle condizioni di salute che, in considerazione dell’emergenza sanitaria e delle condizioni dei penitenziari, alcuni boss del calibro di Pasquale Zagaria, il braccio economico del clan dei Casalesi, sono stati scarcerati. Non a caso infatti la Direzione Investigativa Antimafia ha sottolineato che “qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia”. I mafiosi potrebbero infatti “rinsaldare gli assetti criminali sul territorio”, pianificando “nuove strategie affaristiche”. “La scarcerazione di un mafioso, addirittura ergastolano - dice la Dia - è avvertita dalla popolazione delle aree di riferimento come una cartina di tornasole, la riprova di un’incrostazione di secoli, diventata quasi un imprinting: quello secondo cui mentre la sentenza della mafia è certa e definitiva, quella dello Stato può essere provvisoria e a volte effimera”. Dopo le polemiche il 10 maggio scorso si è cercato di correre ai ripari con un decreto “che interviene sui benefici concessi, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, a detenuti per reati gravi”. In particolare nel testo si afferma che spetta al magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento di scarcerazione rivalutare, entro 15 giorni dall’adozione del provvedimento (e successivamente ogni mese), l’eventuale concessione dei domiciliari in relazione all’emergenza Coronavirus. Se però il Dap comunica la disponibilità di strutture adeguate alle condizioni di salute del detenuto, il magistrato di sorveglianza può decidere di revocare immediatamente la misura degli arresti domiciliari precedentemente concessa. Ma è proprio su questo nuovo decreto che la Corte Costituzionale è adesso chiamata ad esprimersi. Il 26 maggio scorso infatti un magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale. Secondo il magistrato si scaricherebbe la responsabilità esclusivamente sul Tribunale di sorveglianza non coinvolgendo “adeguatamente la difesa tecnica dell’interessato, non prevedendo alcuna comunicazione formale dell’apertura del procedimento e non garantendo il contraddittorio rispetto alla parte pubblica rappresentata dal Procuratore Distrettuale Antimafia”. In altre parole il detenuto potrebbe essere costretto a tornare in carcere senza nemmeno poter prendere parte al procedimento, neanche attraverso i suoi difensori. Il magistrato di Spoleto ha chiesto il parere della Consulta anche sul mancato rispetto dell’articolo 3 della Costituzione. La norma si riferisce infatti solo a chi è accusato di alcuni gravi reati e non a tutta la popolazione carceraria. Questo dunque potrebbe inficiare il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti la legge. Se le questioni sollevate dal magistrato dovessero essere riconosciute il decreto del 10 maggio scorso potrebbe essere stato inutile. Per questo dentro e fuori i penitenziari italiani sono in molti ad attendere il verdetto della Corte. La funzione rieducativa della pena ed un idoneo assetto organizzativo per renderla effettiva di Associazione Nazionale Funzionari del Trattamento avvocatirandogurrieri.it, 22 luglio 2020 Da diversi anni si assiste ad un processo di marginalizzazione dei funzionari dell’area educativa - esecuzione penale per adulti - nei processi gestionali degli Istituti penitenziari, nonostante la previsione di centralità del ruolo di questo funzionario disegnata dal quadro normativo ordinamentale e dalle disposizioni delle numerose circolari dipartimentali, disposizioni tutte dirette a dare applicazione al principio costituzionale di cui al III comma dell’art. 27 della Carta Fondamentale dello Stato. Evidentemente la politica dimostra, da diversi anni, di aver dato ragione a coloro che hanno parlato di “crollo del mito della risocializzazione” e dimostra di avere caricato di eccessivo significato dati afferenti alla recidiva dei condannati rappresentati con pretesa di scientificità. Sorvolando sulle eccezioni tecnico-criminologiche che metterebbero in crisi l’attendibilità di tali dati e pur ammettendo che occorre un serio impegno dello Stato diretto a migliorare il perseguimento della mission dell’esecuzione penale, vorremmo piuttosto chiarire che l’effettività della funzione rieducativa della pena in carcere passa necessariamente dalla funzionalità dell’assetto organizzativo del personale che attende alle attività di osservazione e trattamento dei condannati nonché dall’impiego di adeguate risorse per dare piena attuazione all’ordinamento penitenziario, anche con riferimento a quegli organi e quelle attività che concernono i condannati che si approssimano alla dimissione dall’Istituto. Fin quando gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria ed i Funzionari di Area Educativa non maturano un senso di comune appartenenza, essenziale per il perseguimento della mission del recupero sociale del reo e verso il quale dovrebbe concorrere l’impegno sinergico di tali operatori, si assisterà ad una miope contrapposizione tra istanze di sicurezza ed istanze di risocializzazione il cui esito discenderà dal potere contrattuale degli attori istituzionali in campo. Spiace doverlo esplicitare ma è davvero difficile che da questa cieca contrapposizione discenda l’individuazione di un punto di equilibrio, il più idoneo a rispondere all’esigenza di contemperare i diversi interessi pubblici implicati nell’esecuzione penale intramuraria. Piuttosto prevarrà l’istanza sostenuta dalle figure istituzionali che hanno maggiore “potere contrattuale” in concreto. Va soggiunto che l’assetto organizzativo del personale suindicato risulta nei tempi più recenti più disfunzionale, a seguito del riconoscimento delle rivendicazioni dei Funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria, che pur condivisibile andava nondimeno inserito in un complessivo riassetto organizzativo del personale che consentisse di mantenere l’equilibrio del sistema esecuzione penale intramuraria. Ma dove stiamo andando? La mission del reinserimento sociale del reo ha perso la primazia nell’esecuzione penale intramuraria? La sicurezza negli Istituti Penitenziari, da condizione per la realizzazione della finalità del reinserimento sociale del reo (art. 3 D.p.r. 230/2000) deve in modo surrettizio e contra costitutionem, assurgere a finalità esclusiva dell’esecuzione della pena? Questa Associazione, come le SS.LL. sanno, ha prodotto una proposta di legge, depositata in Senato in data 04.03.2020 (registrata al n. 1754 S), in cui è tecnicamente argomentata la funzionalità di un diverso assetto organizzativo del personale che attende al trattamento penitenziario, probabilmente il più idoneo a conferire maggiore effettività alla funzione rieducativa della pena. Bambini in carcere: il lockdown ha dimostrato che le alternative ci sono retisolidali.it, 22 luglio 2020 Le riflessioni dell’associazione “A Roma Insieme”, che ha ripreso le attività dopo l’emergenza. E vuole tirare fuori dal carcere i bambini con le loro mamme. Nel lockdown dovuto al Covid-19, per un periodo è stato bloccato l’ingresso di mamme e bambini nelle carceri e sono state trovate soluzioni alternative. Dal 1991 l’associazione A Roma, Insieme si propone l’obiettivo che nessun bambino varchi più la soglia di un carcere. Da un lato promuove e realizza attività che mirano a limitare i danni del carcere sui bambini e ad aiutare le donne a gestire il rapporto con i propri figli durante la detenzione, favorendo il loro reinserimento sociale, dall’altro sensibilizza l’opinione pubblica e lavora per ottenere risposte adeguate da parte delle istituzioni. “Sono 29 anni che ci battiamo per le soluzioni alternative alla detenzione per mamme con figli piccoli. Sono ottimista, i mesi scorsi hanno dimostrato che ciò è possibile”, dice Giovanna Lungo, presidente di A Roma, Insieme. Prima della pandemia, c’erano 11 bambini e 11 mamme all’interno del carcere femminile di Rebibbia. Con l’esplodere del Covid-19, seguendo le direttive conseguenti all’emergenza, le mamme con figli al di sotto dei 18 mesi sono state trasferite ai domiciliari, una mamma è stata accolta in casa famiglia, altre mamme avevano finito i termini e sono uscite. “Per un breve periodo è rimasto in carcere solo un bambino, Edward, perché la mamma ha una lunga pena da scontare, ma in poco tempo altre donne con figli sono entrati, subito dopo la fine dell’emergenza”, racconta Lungo. “Per adesso, purtroppo tutto è tornato come prima, ma i fatti degli scorsi mesi, durante la fase di emergenza più acuta, hanno dimostrato che si potrebbero trovare alternative, ad esempio braccialetti elettronici alle madri, per seguirne i movimenti all’interno delle case famiglia o ai domiciliari”. Finché sta con la madre, infatti, il bambino deve restare all’interno delle Sezioni nido del carcere fino al compimento del terzo anno di età, dopo deve andare via, o con un parente o se ne prende carico l’associazione con degli affidi momentanei. Nelle case famiglia protette i bambini possono rimanere fino ai dieci anni di età. Si cerca di mandare via insieme mamme e bambini, ma se le mamme devono scontare tanti anni di carcere questo ovviamente non è possibile. “Noi come associazione abbiamo dovuto aiutare il più possibile dall’esterno del carcere, non potendo entrare né noi volontari né i parenti. Da marzo scorso non abbiamo più potuto svolgere laboratori, ma abbiamo fatto da ponte con la famiglia esterna per le esigenze economiche e materiali, abbiamo cercato di aiutare le famiglie che seguiamo, con generi alimentari e non. È stato un periodo molto faticoso”. La ripresa delle attività - I colloqui con i familiari sono ripresi su appuntamento, dietro il plexiglass. “I bambini nella Sezione Nido sono attualmente cinque”, spiega Giovanna Lungo. “Ora noi delle associazioni possiamo entrare nelle carceri, a turno, ognuna scegliendo mezza giornata a settimana. I nostri laboratori riprenderanno, speriamo, a settembre”. A Roma, Insieme organizza per i bambini e le mamme laboratori di musicoterapia e movimento. Per le donne, propone danza e attività manuali con la produzione di oggetti, per i bambini organizza laboratori di lettura, quest’anno in collaborazione con il palazzo delle Esposizioni, dove i volontari dell’associazione hanno poi portato i piccoli a vedere quello che avevano imparato in carcere. “Nel caso in cui ci sia una seconda ondata, continueremo le nostre attività, facendo da tramite tra le donne in carcere e le famiglie fuori, per far stare le donne più tranquille possibili. A meno che i bambini possano stare in un ambiente tranquillo e protetto, su indicazioni del Direttore sanitario. I piccoli in carcere sono ospiti, il Direttore non decide nulla: dipendono dalla Asl, che stabilisce anche se ci sono le condizioni per farli andare all’asilo nido, sempre che riaprano da settembre. La nostra lotta è che i bambini, come tutti gli altri, possano uscire la mattina e tornare il pomeriggio, per vivere mezza giornata a contatto con la realtà normale. La mamma, durante le ore di scuola, è libera o di andare anche lei a scuola o di lavorare. Chi paga di più in ogni situazione sono sempre i più piccoli”. Con un’eventuale seconda ondata di Covid-19, A Roma, Insieme riprenderebbe i laboratori con gli adulti via Skype, come già fatto nel il carcere maschile Regina Coeli. Il mondo del carcere - “Una volta entrati nel mondo delle carceri, capita di esserne coinvolti a tal punto da non poterlo lasciare più”, dice Giovanna Lungo. “È un ambiente molto delicato: facciamo tanta fatica per arrivare a nuove piccole conquiste e a volte basta un minuto per perderle”, dice la presidente. Nella capitale, in questi ultimi due anni, l’associazione è stata attiva nel carcere maschile Regina Coeli con laboratori di musicoterapia e hanno aperto una falegnameria, con un professionista che ha insegnato l’arte del legno; hanno iniziato creando giochi per bambini, poi insieme all’associazione Libera hanno costruito dei mobiletti per una scuola. Se arrivano dei finanziamenti, ripeteranno l’anno prossimo il progetto della falegnameria, che ha avuto molto successo. A Rebibbia maschile l’associazione ha organizzato diversi corsi di scrittura e letteratura e pubblicato dei libri. A Rebibbia femminile svolge incontri una volta al mese, con la psicologa, l’assistente sociale, la ginecologa, l’avvocato, su varie problematiche. “Per i bambini, abbiamo sempre tanti progetti: l’uscita del sabato, la gita al mare, la visita allo zoo, i laboratori per i bambini più grandi che vengono in carcere una domenica al mese a trovare le madri. Negli anni passati, abbiamo fatto molte più attività anche fuori dalla città. Quando c’era Leda Colombini, fondatrice dell’associazione, riusciva molto più facilmente a fare tante cose”. A casa di Leda - “Leda Colombini”, racconta Giovanna Lungo, “era una persona meravigliosa, che “mi ha fregato”, mi ha coinvolto in quest’associazione da quasi 30 anni. Era una persona che accoglieva e sapeva capire tutti. Aveva una dote rarissima: riusciva a prendere il buono di ognuno”. Nel volontariato non tutto è semplice, soprattutto in ambiti difficili come il carcere. Eppure “una volta che si entra in contatto con la realtà del carcere si capisce quanto è dura e quanto serve esserci: io ho mollato tutte le altre cose che facevo per dedicarmi solo all’associazione. Non è tutto rose e fiori, con Leda litigavamo tanto, ma erano scontri molto costruttivi, era politicamente corretta, una cosa non da poco ai giorni d’oggi”. A Leda Colombini è dedicato “A casa di Leda”, un progetto nato con l’ex assessora alle politiche sociali Francesca Danese, attivo dal 2017. La struttura, confiscata alla mafia, si trova a Roma, all’Eur, accoglie le madri detenute (che non devono scontare lunghe pene) con figli. La casa protetta può ospitare 6 utenti in pena alternativa alla detenzione o agli arresti domiciliari con 8 figli minori da 0 a 10 anni. Gli ospiti sono seguiti da educatori e operatori, il servizio mira ad assicurare il benessere dei bambini e sostenere le madri nelle loro funzioni genitoriali. In questo momento, ospita tre madri con i rispettivi figli. “Non è semplice gestire una struttura del genere, non è facile far comprendere a tutte le detenute che se devono accompagnare il figlio a scuola, entro mezzora poi devono rientrare perché può esserci un controllo. Cerchiamo sempre di “raddrizzare i colpi” di quello che non funziona. Ma noi siamo contrarie agli Icam, gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri, riservato a mamme detenute e bambini fino a 6 anni: non cambia molto, a nostro avviso, rispetto a far stare mamme e bambini in una zona del carcere”. “I boss dietro la rivolta nelle carceri”, ecco le prove raccolte dall’Antimafia di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 22 luglio 2020 Il rapporto con i veri numeri: diecimila detenuti convolti nei disordini di marzo in cui ci furono 13 morti. L’ombra dei capiclan pugliesi e campani. “È tutto fuori controllo. I detenuti mi hanno detto di spargere la voce: da questo momento comandano loro”. E il 9 marzo, il paese che sta fuori sta per essere rinchiuso nel primo lockdown della storia d’Italia. Quello dentro, invece, ribolle. In un carcere del Mezzogiorno un agente della penitenziaria chiama al telefono i suoi superiori, spiegando loro, in sostanza, che il nostro Paese è diventato il Sud America. Gli istituti sono in fiamme. I reclusi muoiono. Gli agenti vengono feriti. Le celle e gli spazi comuni sono devastati. Lo Stato ha perso il controllo. Quattro mesi dopo le sommosse in cui hanno perso la vita 13 detenuti, qualcuno sta cercando di capire chi e perché ha acceso la miccia. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, i suoi sostituti, alcune procure distrettuali, stanno conducendo, nel silenzio del segreto istruttorio, una maxi inchiesta sulle rivolte di marzo. Gli esiti delle prime indagini, le testimonianze raccolte, il lavoro preliminare dei poliziotti dello Sco e dei carabinieri del Ros, hanno messo in fila una serie di fatti e di anomalie che vanno tutte in una direzione. Anche la mafia, le mafie, hanno avuto un ruolo. Quale lo diranno le indagini. La mappa delle sommosse Il miglior punto di partenza per raccontare quel che è accaduto sono i numeri, raccolti in un documento inedito del Garante nazionale dei detenuti ed acquisito agli atti dell’indagine. Cifre che inquadrano uno scenario sudamericano, appunto, che non può essere - ne sono convinti gli inquirenti - solo la conseguenza di misure restrittive prese sull’onda dell’emergenza Covid-19. Le rivolte non si sono concentrate solo nei giorni caldi tra il 7 e il 9 marzo. Le “manifestazioni di protesta collettiva”, ossia incendi, danneggiamenti, risse sono andate avanti fino al 20 aprile. Hanno riguardato 49 istituti su 194 totali, tra case circondariali e di reclusione. Gli “atti turbativi dell’ordine e della sicurezza” sono stati 64 e vi hanno partecipato 10.311 detenuti: un sesto della popolazione carceraria italiana. Oltre ai 13 morti (9 a Modena, 3 a Rieti, uno a Bologna), sono rimasti feriti 99 detenuti e 136 agenti dei 6 mila intervenuti per sedare i disordini. I danni ad arredi, celle e strutture sono stati stimati in 12 milioni di euro. Il primo vagito della sommossa si è avuto il 7 marzo nel carcere salernitano “Antonio Caputo” di Fuorni. Quel giorno la stampa anticipa il contenuto della bozza del decreto legge “misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica”, nella quale si prevede, per condannati e imputati, il blocco fino al 31 maggio dei colloqui con i congiunti e la possibilità di interrompere permessi premio e il regime di semilibertà. “Era il pretesto che in molti, dentro, stavano aspettando per scatenare il caos”, spiega a Repubblica una qualificata fonte del ministero della Giustizia. “Già a partire da dicembre si erano registrati segnali di tensione nell’Alta Sicurezza (le sezioni a stretta sorveglianza dei condannati per reati di tipo associativo, come mafia e traffico di droga, ndr)”. Da Fuorni (24 detenuti coinvolti, 189 agenti intervenuti) la protesta dilaga a Poggioreale (900 coinvolti, danni per due milioni di euro), Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, con una singolare contestualità che fa pensare ad azioni coordinate con micro-telefonini nascosti nelle celle. Subito dopo partono i disordini nelle carceri pugliesi, siciliane nel resto d’Italia. Agli analisti non è sfuggito il comportamento della criminalità organizzata. “Guardate chi sono i deceduti - spiega un investigatore - sono tutti detenuti difficili che hanno assaltato le farmacie interne”. Sono, cioè, i più fragili, i tossicodipendenti, i disperati, che potrebbero essere stati usati come carne da macello da qualcuno che voleva mettere lo Stato in un angolo. Per tutti la causa di morte è overdose. L’ultimo cadavere è stato seppellito il 10 luglio. E non è un caso che le rivolte più violente siano avvenute - come ripetono le associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti - negli istituti più sovraffollati, dove sono rinchiusi anche mafiosi pugliesi e camorristi. Quelli siciliani si sono mossi soltanto a incendio divampato. I calabresi affiliati alla ‘ndrangheta, invece, sono rimasti curiosamente immobili. “Detenuti modello”, commenta, con ironia, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Nel carcere di Foggia, poi, si è andati oltre. 119 marzo sono evasi in 77. Fuori, ad aspettarli, c’erano auto col motore acceso, a conferma che tutto era preordinato e organizzato via telefono dall’interno. “Una cosa del genere l’avevamo vista soltanto in Narcos, la serie tv su Fabio Escobar”, dicono gli investigatori. “Pugliesi e napoletani sono stati la parte “azionista”. I siciliani ma soprattutto i calabresi quella politica. Hanno sfruttato il sovraffollamento e la disperazione dei detenuti con dipendenze, per ottenere i benefici che da tempo chiedevano”. A Salerno (e non solo) chi protestava ha consegnato agli agenti un elenco puntato di richieste, tra cui la possibilità di fare video chiamate con i famigliari, i domiciliari laddove possibile, nessuna sanzione per i ribelli. Richieste in parte accolte. E non tutti gli istituti hanno fornito le generalità dei rivoltosi. Circostanze, anche queste, che sono oggetto dell’indagine in corso. Fratelli d’Italia: “In carcere non comandino i detenuti” di Franco Bechis Il Tempo, 22 luglio 2020 Poca attenzione alla Polizia penitenziaria. Proposta di legge di FdI per un Dipartimento e un Garante dedicato agli agenti. In carcere la divisa la indossano gli agenti e non i detenuti. E bisogna ristabilire la catena di comando. Finalmente c’è una proposta di legge, presentata dal gruppo di Fratelli d’Italia con le prima firme di Andrea Delmastro e il capogruppo Francesco Lollobrigida, che punta a rispettare il lavoro della Polizia penitenziaria. Se approvata, ci sarà una duplicazione dell’attuale Dipartimento: uno si occuperà dei detenuti, l’altro degli agenti. E sarà istituito il Garante per gli agenti della penitenziaria. Che lavorerà gratuitamente. In pratica, Fdi non intende far passare sotto silenzio - “fino alla prossima”, dice Delmastro - l’eco delle rivolte del marzo scorso. Gli agenti intervenuti per sedare le cosiddette 22 rivolte anti-Covid hanno dovuto persino subire, in molti casi, la beffa dell’indagine a loro carico con il reato di tortura. Questo nonostante l’evidente regia dall’esterno delle cosche mafiose; gli ordini trasmessi attraverso telefoni cellulari introdotti illegalmente nelle carceri; l’obiettivo era quello di costringere Governo e Parlamento a preparare il terreno per il varo di provvedimenti di amnistia e indulto. Mentre si scarceravano a valanga centinaia di boss della criminalità organizzata. Dodici morti; 77 evasi; venti milioni di euro per danni alle strutture carcerarie. Questo fu il bilancio di quei terribili giorni dal 7 al 9 marzo, che non chiamò alla responsabilità le forze di maggioranza di fronte agli indici puntati contro gli agenti della penitenziaria. Centinaia di rivoltosi presero di petto la polizia, ancora ricordiamo l’audio di una donna del Corpo circondata e disperata, l’utilizzo dell’energia elettrica contro un altro agente e un medico sequestrato in una stanza tra gli episodi più efferati. In buona sostanza, ci si è preoccupati più di chi metteva a soqquadro le carceri italiane che non della tranquillità e sicurezza degli operatori in divisa. Il che non è una novità, purtroppo. Nella proposta di legge di Fratelli d’Italia si modificano le responsabilità che ora fanno capo al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, quel Dap salito all’attenzione della pubblica opinione per le polemiche mai chiarite sul ministro Alfonso Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo, ora membro del Csm. Si prevede l’istituzione di due dipartimenti, uno legato alle attività di ufficio per quel che riguarda la popolazione carceraria e il secondo destinato ad occuparsi degli agenti. Particolare cura viene proposta anche per la formazione, l’aggiornamento e la specializzazione del personale in questione. Del resto, dovrebbe essere prioritaria la cura dei propri dipendenti, come avviene per i Carabinieri e per la Polizia di stato. Poi, certo, anche i detenuti. Ma prima chi li deve sorvegliare. Infine, le due novità. L’istituzione del Garante degli agenti della penitenziaria, con compiti prevalenti di vigilanza delle condizioni di lavoro, di visita e ispezione delle strutture dove operano, la presa visione degli atti che li riguardano. E, ancora, la previsione di un fondo di dotazione per le spese legali. Se non lo Stato, chi ci deve pensare sennò? Ricusa l’intero Csm: il tentativo di Ferri di bloccare il processo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 luglio 2020 Duello Palamara-Davigo. Il giudizio disciplinare rinviato al 15 settembre. Comincia in salita il processo disciplinare a Luca Palamara e le altre toghe coinvolte nella riunione notturna di un anno fa dove si discuteva di “nomine pilotate” con i deputati Cosimo Ferri (giudice anche lui, ma in aspettativa) e Luca Lotti. La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura s’è riunita ieri per decidere il rinvio al 15 settembre a causa dell’impedimento di un difensore di Palamara e - soprattutto - di alcune istanze di ricusazione. Palamara chiede che si astenga Piercamillo Davigo, da lui citato come testimone a discarico, che però non si ritiene incompatibile e resta al suo posto. Ferri invece ricusa tutti i consiglieri in carica nel maggio 2019, cioè l’intero organo di autogoverno tranne i cinque subentrati ai dimissionari; ma non bastano a costituire un nuovo collegio, e in ogni caso Ferri chiede l’astensione anche di uno di loro. È una mossa che, se avesse seguito, paralizzerebbe il procedimento fino al 2022, quando sarà eletto un nuovo Csm. La Procura generale della Cassazione, che sostiene l’accusa, l’ha già definita “manifestamente inammissibile”, ma sarà il primo scoglio da superare. Poi verranno altre questioni preliminari, a cominciare dall’inutilizzabilità dell’intercettazione divenuta la “prova regina” della riunione segreta e delle manovre occulte contestate, dove compaiono le voci di due parlamentari protetti dall’immunità. Palamara, che con una lista di 133 testimoni vuole trasformare il processo a suo carico in un giudizio al funzionamento del Csm e alle correnti della magistratura, era presente all’udienza-lampo e ha ascoltato dalla viva voce di Davigo il “no” all’astensione: il suo ruolo nella riunione tra magistrati su cui l’incolpato l’ha chiamato a testimoniare sarebbe irrilevante, e dunque non c’è motivo di abbandonare il giudizio. A questo punto scatta la ricusazione, sulla quale deciderà un collegio nel quale Davigo sarà temporaneamente sostituito da un altro consigliere. Più complicata la questione posta da Ferri. Il capo d’incolpazione dice (per lui come per gli altri) che le manovre svelate dall’incontro notturno del 9 maggio 2019 avrebbero condizionato “le funzioni costituzionalmente previste del Csm”, cioè le nomine del procuratore di Roma e ad altri incarichi; ne consegue - secondo il suo difensore, l’avvocato Luigi Panella, che cita una sentenza della Consulta e prospetta addirittura un’eccezione di incostituzionalità - che tutti i componenti del Csm in carica a maggio 2019 sono parti lese, peraltro citati da Ferri come testimoni per sostenere che non vi fu alcun condizionamento. In più la consigliera Elisabetta Chinaglia, eletta dopo le dimissioni dei componenti coinvolti nella riunione e oggi incolpati, pubblicamente definì i fatti su cui oggi è chiamata a decidere “di una gravità inaudita”; un’anticipazione di giudizio, secondo Ferri, che la rende incompatibile con il ruolo di giudice. Se ne riparlerà a settembre, e magari nel frattempo pure Palamara e gli altri ricuseranno tutto il Csm. “Ma noi abbiamo interesse a fare il processo - commenta l’avvocato Vittoro Manes, difensore di Gianluigi Morlini, ex consigliere sotto accusa - per distinguere i protagonisti dai comprimari, dalle comparse e dai semplici spettatori”. Antonio Leone: “Con la riforma del Csm le correnti saranno ancora più forti” di Paolo Comi Il Riformista, 22 luglio 2020 Presidente, quale potrebbe essere la vera riforma del Csm finalizzata ad eliminare l’empasse in cui si è venuto a trovare l’organo di autogoverno della magistratura? Oggi inizia il processo disciplinare a carico degli ex consiglieri coinvolti l’anno scorso negli incontri con Luca Palamara. “Il Csm andrebbe “eliminato”, sarebbe questa la riforma rivoluzionaria!”, afferma provocatoriamente Antonio Leone, presidente del Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria ed ex componente laico del Csm nella scorsa consiliatura, commentando la proposta di riforma dell’Organo di autogoverno delle toghe avanzata in questi giorni dall’esecutivo. Secondo le ultime indiscrezioni, è stato definitivamente archiviato il sorteggio, anche nella versione “temperata”, per l’elezione dei componenti togati del Csm. Il sorteggio era uno degli iniziali cavalli di battaglia del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Verrà abolito l’attuale collegio unico nazionale, sostituito con dei collegi uninominali in cui sarà eletto solo chi raggiunge una determinata soglia, altrimenti si andrà al riparto proporzionale. Sarà prevista, infine, la possibilità della preferenza multipla. Non le piace questa riforma? Mi sembra che se l’intento fosse quello di eliminare il peso delle correnti, questa riforma lo amplifica a dismisura. Il problema della finta eliminazione del correntismo, (non delle correnti!) è stato già affrontato in precedenza e non si è minimamente risolto attraverso un cambio della legge elettorale dei membri togati. Addirittura? Chi ha in mente questa riforma non sa che le correnti hanno reti locali che prendono in carico i magistrati dal loro ingresso in magistratura e li accompagnano fino alla pensione. Più ristretto è il collegio e più facile è intercettare il voto. Nessun magistrato, se non sostenuto da un gruppo, verrebbe mai eletto. Sa chi lo ha detto di recente? No... Il dott. Sebastiano Ardita che, da attuale consigliere del Csm ed esponente di punta di un gruppo associativo, quello fondato dal presidente Piercamillo Davigo, cioè Autonomia&indipendenza, credo se ne intenda. Insomma, dalla padella alla brace? Certo. Se passasse questa riforma le correnti, mi riferisco a quelle più strutturate e organizzate sui territori, avranno finalmente il pieno controllo della magistratura. Altro che caso Palamara. Lei è stato componente laico al Csm. Qual è il ruolo dei laici a Palazzo dei Marescialli? Sulla carta è un ruolo importantissimo. La Costituzione ha previsto infatti che un terzo dei componenti del Consiglio venga scelto dal Parlamento, fra avvocati e professori di diritto, proprio al fine di evitare che l’organo di autogoverno dei magistrati divenga autoreferenziale e scollegato dal controllo delle istituzioni democratiche. E poi spero che un giorno qualcuno mi spieghi perché professori delle più disparate materie giuridiche che magari non hanno mai messo piede in un’aula di tribunale debbano far parte del Csm. È la Costituzione…. Lo so benissimo. Ma potrebbe anche essere cambiata: ci vogliono magistrati e avvocati che sono i veri attori del comparto giustizia e che passano, entrambi, la maggior parte della loro vita nelle aule dei tribunali. Dalla lettura delle chat di Palamara è emerso, invece, che nella partita delle nomine i laici non venivano quasi mai coinvolti... Il “problema” è che per due terzi il Consiglio è composto da magistrati. È un fatto puramente numerico: se i magistrati si mettono d’accordo fra loro, vedasi le nomine “a pacchetto”, il ruolo dei laici è ininfluente. Il peso dei laici, poi, andrebbe aumentato soprattutto nella sezione disciplinare. Adesso può esserci il rischio che i magistrati che compongono la sezione abbiano partecipato a tornate elettorali, a convegni di corrente, a sponsorizzazioni personali in vista del conferimento di incarichi, proprio con i colleghi che un domani potrebbero giudicare. Ricordo che la sezione disciplinare è un giudice a tutti gli effetti, e come tale deve essere, oltre che apparire, terzo ed imparziale. Anche lei è dell’avviso che Palamara non possa aver fatto tutto da solo? Elementare Watson. Il ruolo del singolo consigliere non può assumere rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale. La ‘degenerazionè delle correnti non è solo farina del sacco di Palamara. Il Csm è l’organo che tutela l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Esiste, ad esempio, la pratica a tutela dei comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione che possano determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria... A me è sempre sembrato un rito stanco. Dalla richiesta di apertura pratica presso il Comitato di presidenza del Csm alla effettiva istruttoria in Prima Commissione ne corre. Molte richieste di apertura pratica cadono nel vuoto. Spesso in passato si è strumentalizzato tale istituto per fini puramente “politici”. Se venisse eliminato il Csm i suoi compiti passerebbero al Ministero della giustizia: non sarebbe la fine della separazione dei poteri? Al Ministero della giustizia i ruoli chiave, dal capo di gabinetto, al capo dell’ufficio legislativo, ai vari capi dipartimenti, sono ricoperti da sempre da magistrati. La separazione dei poteri a via Arenula si fa sempre più lontana. L’autonomia e l’indipendenza della magistratura si garantisce in primis con il comportamento dei singoli magistrati e poi con meccanismi, amministrativi, che mettano nell’angolo qualsiasi intervento della politica e delle correnti. Genova 2001. Una ferita di Stato che resta viva di Luigi Manconi La Repubblica, 22 luglio 2020 Nella vita degli individui, così come in quella delle organizzazioni sociali, accadono eventi che rappresentano una sorta di disvelamento. Una presa di coscienza o un lampo di lucidità che rivelano crudamente qualcosa che risultava occultato o rimosso. I fatti del G8 di Genova del 2001, per molti versi, hanno rappresentato questo: la scoperta del lato oscuro degli apparati dello Stato democratico. Esso, lo Stato democratico, in alcune circostanze, in alcuni settori e in alcuni uomini (non pochi), è capace di abusare della forza legittima di cui dispone, e di esercitarsi in violenze, sevizie e torture. Non che non lo si sapesse, ma osservarlo lì, nelle strade di Genova e immaginarlo all’interno di una caserma e di una scuola, e poi verificarlo nelle centinaia e centinaia di testimonianze, cambia lo sguardo e il punto di vista. E determina un processo emotivo e mentale che possiamo chiamare “perdita dell’innocenza”. Ovvero, la scoperta che lo Stato può non essere un sistema di tutele sotto cui trovare riparo, bensì una potenza ostile che insidia l’incolumità del cittadino. Certo, non erano tutti “innocenti” quanti manifestavano a Genova (non lo erano i black bloc e non solo loro), ma in quei cortei erano presenti migliaia di persone per bene e di adolescenti, dai 15 anni in su, mossi esclusivamente da ciò che muove le giovani generazioni di tutti i luoghi e di tutti i tempi: un’irresistibile voglia di cambiare il mondo. Quale brutale lezione di “educazione civica” fu, per loro, l’impatto con uno Stato, rappresentato dal poliziotto e dal carabiniere che impugnavano il manganello o il calcio del fucile? Qualcosa del genere accade periodicamente nella storia ed è accaduto, in una misura ancora più crudele, in occasione della strage del 12 dicembre 1969 a Milano. Quando altri giovani realizzarono che nel conflitto contro la vecchia società qualcuno (dentro gli apparati dello Stato) aveva fatto ricorso a un’arma “non convenzionale”, micidiale e devastante. Anche allora non tutti si era innocenti e a subire quel trauma non fu “un’intera generazione” come retoricamente si sente dire, ma settori importanti di essa, capaci di influenzare ampie aree della società. La frattura tra parte delle giovani generazioni e le istituzioni comincia a rivelarsi proprio allora. Quando, cioè, l’adolescente prende coscienza del mondo, ne misura il grado di ospitalità o l’asprezza del rifiuto, ne saggia la capacità di integrazione o ne patisce la violenza dell’esclusione. Basta questo a farci intendere quanto delicato sia il ruolo delle forze di polizia in uno Stato democratico. Non solo, l’esito giudiziario delle giornate di Genova fu assai deludente. La Procura non fu in grado di perseguire le violenze “di massa” - a danno di “un’infinità di persone incolpevoli” secondo l’attuale capo della polizia Franco Gabrielli - e il processo per gli abusi all’interno della scuola Diaz portò a condanne lievi, tali da non compromettere le carriere dei funzionari responsabili; e quello per i fatti della caserma di Bolzaneto si concluse con condanne leggere, motivate dall’assenza, nel nostro ordinamento, di una norma specifica sul reato di tortura. E tutto questo non ha potuto cancellare l’ombra di quella pratica terribile che si indovina tra le pieghe dell’attività delle forze di polizia, quando si sottraggono al controllo dell’opinione pubblica e delle istituzioni democratiche: come confermano troppi nomi di vittime (Aldrovandi, Rasman, Uva, Magherini). Poi, nel 2017, lo stesso Gabrielli, intervistato da Carlo Bonini, affermò che la gestione dell’ordine pubblico a Genova fu “una catastrofe” e aggiunse che “se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore e diffidenza” significa che “la riflessione non è stata sufficiente”. Nonostante che, anche suoi predecessori, come Antonio Manganelli e Alessandro Pansa, furono capaci di pronunciare parole di scusa a proposito di altri casi di abusi. Tutto questo è ancora drammaticamente poco. Il processo di democratizzazione delle forze di polizia è lento, lentissimo, soggetto ad arretramenti e totalmente ignorato dalla classe politica, afflitta da un antico complesso di inferiorità. E il tempo, come in tutte le grandi vicende di trasformazione, costituisce un fattore determinante. Come dimenticare che ci sono voluti dieci anni perché venissero individuati i responsabili della morte di Stefano Cucchi? Vittime di reato: è ripartito il Tavolo di coordinamento per l’assistenza di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 22 luglio 2020 È tornato a riunirsi oggi, dopo il fermo delle attività a causa dell’emergenza determinata dal diffondersi del contagio da Coronavirus, il Tavolo di coordinamento per la creazione di una rete integrata di servizi di assistenza alle vittime di reato. Alla riunione, che si è tenuta nella Sala Livatino del ministero della Giustizia, erano presenti fra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, Maria Casola e Gemma Tuccillo, capi rispettivamente del Dipartimento per gli Affari di giustizia (Dag) e del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc), e Donatella Donati, direttore generale della Giustizia penale. È stato anche possibile partecipare ai lavori da remoto, collegandosi alla piattaforma Microsoft Teams. Prosegue dunque l’impegno per dare piena attuazione alla Direttiva 2012/19/UE e, in particolare, strutturare una rete integrata attraverso il coinvolgimento delle istituzioni pubbliche, nazionali e locali, e del Terzo Settore. Tra le varie azioni previste dalla Direttiva rientra l’accesso a “specifici servizi di assistenza, riservati, gratuiti e operanti, prima, durante e, per un congruo periodo di tempo, dopo il procedimento penale”. Il Tavolo a sua volta ha previsto fra i vari obiettivi, la costruzione di un sistema che permetta alla vittima di essere sempre a conoscenza dei propri diritti e delle attività che potrà svolgere all’interno del processo penale e di come gestire l’inevitabile processo di vittimizzazione. Allo scopo di rafforzare e coordinare sempre meglio il sistema di tutela delle vittime di reato è prevista l’assegnazione al Dag, nel bilancio relativo all’anno 2020, di una somma pari a 1 milione di euro e di 2 milioni per l’anno 2021. Durante la presentazione dei lavori del Tavolo, il sottosegretario Giorgis, facendo riferimento alla Direttiva e alla sua attuazione, ha precisato: “Per raggiungere l’obiettivo con maggiore celerità, attraverso una razionale ottimizzazione delle risorse disponibili e delle esperienze maturate, occorrerà mettere a sistema i numerosi e specifici servizi già esistenti, evitando duplicazioni e procedendo a colmare le diverse lacune, sia all’interno dei singoli territori, sia in relazione ad alcune categorie di vittime”. In questa prospettiva è stato proposto di realizzare - anche sulla scorta dell’esempio francese - un Portale di informazione, in grado di offrire alle vittime un quadro dei servizi a cui già oggi si può accedere, e di promuovere la realizzazione presso gli uffici giudiziari di sportelli di help desk. L’avvocato Francesco Tagliaferri assolto, ma i giornali non scrivono una riga di Valerio Spigarelli Il Riformista, 22 luglio 2020 Quando fu accusato di essere favoreggiatore di una banda di spacciatori il suo nome e il suo viso erano comparsi incorniciati sulla stampa locale e nazionale. Una persona, un penalista perbene. So che non è elegante, che non si dovrebbe scrivere dei processi che si seguono in tribunale quando si pubblica su di un giornale, come accade a me col Riformista, però stavolta me ne fotto e metto i piedi nel piatto, per chiedere come mai dell’assoluzione di Francesco Tagliaferri, avvocato romano prestigioso, ex presidente della camera penale di Roma, mio assistito (e amico mio fraterno anche se comprendo che l’argomento è un po’ da libro cuore), accusato di essere favoreggiatore di una banda dai spacciatori e assolto dal Tribunale di Tivoli lunedì, non si trova parola sulla stampa locale e nazionale? E sì che avevo fatto anche un breve, brevissimo, comunicato stampa, mandato a tutte le agenzie ed alle testate, prime fra tutte quelle romane, dove due anni fa il nome, e il viso, di Francesco erano comparsi incorniciati dalla notizia della perquisizione subita a studio e dell’accusa, infamante per una persona perbene ma micidiale per un avvocato perbene, di essere una di quelle toghe sporche che vendendo l’anima per soldi si prestano a difendere per conto e nell’interesse non del proprio assistito ma di qualcun altro. Un favoreggiatore, appunto, non un avvocato, così come, per la verità, in cuor loro molti pm vedono gli avvocati, a prescindere. Una cosa indegna per un uomo perbene come Francesco, che aveva assistito alla perquisizione del suo studio, che poi è lo studio dove assieme esercitiamo, con l’aria incredula e ferita che spesso vediamo sul viso dei nostri assistiti. Aveva visto, assieme a me che ero accorso subito, gli agenti entrare nelle stanze, toccare i fascicoli, profanare quelle carte e quegli spazi, che ci illudiamo ancora essere oggetto di tutela perché custodiscono i segreti di una professione che sulla fiducia assoluta, e sull’assoluto riserbo, poggia le sue basi secolari. Aveva vissuto Francesco, quel giorno e nei mesi seguenti, assieme al grande abbraccio collettivo che tanti penalisti italiani gli avevano subito dato - consci di quanto può essere grande l’umiliazione che subisce un avvocato portato ingiustamente in Tribunale, cioè nel luogo ove svolge il suo lavoro - anche tutto ciò che per un professionista una accusa del genere comporta: dalla rinuncia ad alcuni mandati per questioni di opportunità, alla ostentata freddezza di magistrati conosciuti da anni, al cannibalismo dei colleghi pronto a proporsi ai tuoi clienti, alle manifestazioni di ipocrita solidarietà smentita dalle battute dietro le spalle. L’aveva vissuto, ma senza ostentare il dispiacere, perché è un uomo schivo, che semmai delle miserie sorride, e gli unici commenti che aveva fatto, con me e con pochi altri, erano che una cosa del genere per un avvocato ormai affermato come lui era tremenda ma fosse capitata ad un giovane sarebbe stato un dramma da cui rischiava di non riprendersi. Un processo fa male, noi penalisti lo sappiamo, fa male a tutti, colpevoli o innocenti che siano, perché senti che la tua vita è nelle mani di chi ti giudica, ti senti una cosa, e non è mai una bella sensazione. Però quando sai di non aver fatto nulla, quando capisci che l’accusa è il frutto di pregiudizio poggiato sugli empiti moralisteggianti di chi prima di tutto non sa come lavorano gli avvocati, e magari sei un bravo avvocato che sa altrettanto bene quanto vago sia il destino nelle aule di giustizia, il processo è un tormento. Per questo avrei voluto che il nome del mio assistito, del mio amico Francesco, ieri comparisse sui giornali che l’avevano sbattuto sulle pagine della cronaca due anni fa per dire come era finita, per raccontare che persino il pm aveva chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste; per ridargli l’onore che, pure senza riuscire a togliergli, avevano calpestato. Ma come al solito non è avvenuto, neanche una riga sui giornali, a parte un trafiletto sul giornale del Cnf ed uno sul Messaggero, perché la stampa italiana è abituata a mangiare alla greppia delle Procure e non cambia mai. Questa infamia prima o poi dovrà finire e se non sarà la rarefatta morale e la sottile deontologia del italico giornalismo giudiziario a provvedere si dovrà fare una legge che, in questi casi, obblighi i megafoni delle Procure a pubblicare, con le stesse strilla e la stessa enfasi, anche le sentenze di assoluzione. Per tutti però, non solo per i potenti, anche per i galantuomini schivi come il mio amico. Tenuità del fatto estesa ai reati con 15 giorni di pena di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2020 Corte costituzionale - Sentenza 21 luglio 2020 n. 156. Si estende l’area di applicabilità della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Sino a comprendere tutti i reati per i quali non è previsto un minimo di pena e quindi vedono, per effetto del Codice penale, determinata la sanzione minima in 15 giorni. Questo l’effetto della sentenza 156/2020 della Corte costituzionale depositata ieri e scritta da Stefano Petitti. La Consulta ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 131 bis del Codice penale, nella parte in cui non permette l’applicazione dell’esimente ai reati per i quali non è stabilito un minimo edittale di pena detentiva e tuttavia è previsto un massimo superiore a 5 anni. La Corte ha osservato che, con la scelta di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta (15 giorni di reclusione), il legislatore ha riconosciuto che alcune condotte sono caratterizzate da una offensività assai limitata. Per esse, quindi, è irragionevole escludere a priori l’applicazione dell’esimente. La decisione della Consulta, peraltro, era stata in qualche modo anticipata nel 2017 quando, con la sentenza 207, anch’essa in tema di ricettazione di lieve entità, come quella di ieri, la medesima Corte osservò che “se si fa riferimento alla pena minima di 15 giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe operare utilmente la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di 6 mesi di reclusione”, cioè una pena che, secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di maggiore offensività: per ovviare all’incongruenza, si aggiungeva, “oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, potrebbe prevedersi anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità”. Di fatto, però, il legislatore ha evitato di intervenire sul punto, pur avendo modificato anche l’anno scorso la disciplina della tenuità del fatto, introducendo nuovi casi di esclusione per reati commessi in occasione di manifestazioni sportive e per condotte di resistenza a pubblico ufficiale. Di qui la dichiarazione di illegittimità di ieri. La sentenza, peraltro, osserva anche che il legislatore potrà comunque, nell’esercizio della sua discrezionalità in materia di estensione delle cause di non punibilità, fissare un minimo relativo di portata generale, al di sotto del quale l’applicazione dell’esimente per tenuità del fatto non potrebbe essere impedita dal limite di pena massima. La Corte si premura di sottolineare come la dichiarazione di illegittimità, che riguarda sì la ricettazione ma ha poi un effetto domino, non comporta automatismi nell’applicazione, restando comunque operativi i vincoli ordinari, come, per esempio, l’abitualità della condotta illecita. Beccato con dei rasoi rubati, la Consulta: la ricettazione di lieve entità non è punibile di Simona Musco Il Dubbio, 22 luglio 2020 Per la Corte costituzionale è illegittima la mancata applicazione dell’esimente ai reati per i quali è previsto il minimo assoluto di 15 giorni di reclusione. Aveva acquistato o ricevuto sedici confezioni di rasoi e sedici confezioni di lamette per rasoi rubate. Un reato per il quale M.V. rischiava di non poter usufruire dell’esimente della causa di non punibilità per la “particolare tenuità del fatto”, a causa di una mancata previsione da parte del legislatore. Ma la Corte costituzionale - impegnata domani con le questioni di legittimità sollevate per il “Dl scarcerazioni” - ha ribaltato la questione, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 131-bis del codice penale, dove non consente l’applicazione dell’esimente ai reati per i quali non è stabilito un minimo edittale di pena detentiva e, tuttavia, prevedono un massimo superiore a cinque anni. E, dunque, anche per quanto riguarda il reato di ricettazione attenuata, per il quale si applica il minimo assoluto di 15 giorni di reclusione. La decisione, depositata oggi, prende le mosse dagli atti inviati dal Tribunale ordinario di Taranto: durante l’istruttoria dibattimentale era stata infatti evidenziata la particolare tenuità sia del danno subito dalla persona offesa dal furto che del lucro conseguito dall’imputato, per giunta incensurato, motivo per cui la sua condotta poteva essere considerata come occasionale. Il giudice non avrebbe però potuto applicare gli estremi della causa di non punibilità, a causa dell’entità della pena edittale della ricettazione attenuata, il cui massimo di pena, pari a sei anni di reclusione, quindi al di sopra del limite applicativo dell’esimente. Per il Tribunale di Taranto, “l’assenza di minimo edittale di pena detentiva” per tale reato “e quindi l’operatività del minimo assoluto di quindici giorni stabilito per la reclusione dall’articolo 23, primo comma, del codice penale, indicherebbe che il legislatore “ha formulato in riferimento alle meno offensive fra le condotte di ricettazione un giudizio di scarsissimo disvalore”“. Da qui l’irragionevolezza, alla luce dell’articolo 3 della Costituzione, dell’esclusione dell’esimente in tali ipotesi di reato, applicabile, invece, nei casi di “condotte per le quali è stato formulato un giudizio di disvalore ben più severo”. Sul punto, l’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili, in quanto già decise nel senso dell’infondatezza dalla sentenza numero 207 del 2017 della Consulta, trattandosi di insindacabili opzioni sanzionatorie del legislatore. Ma la Corte costituzionale ha dato ragione al Tribunale di Taranto, stabilendo che “la causa di non punibilità richiede una valutazione complessiva di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, incluse quindi le modalità della condotta e il grado della colpevolezza, e non solo dell’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto”. Nella sentenza chiamata in causa dall’Avvocatura dello Stato viene evidenziato come “se si fa riferimento alla pena minima di quindici giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe operare utilmente la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione”, cioè una pena che, “secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore offensività”: per ovviare all’incongruenza - si è aggiunto -, “oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, potrebbe prevedersi anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità”. Una questione della quale, però, il legislatore non si è fatto carico, nonostante le richieste della stessa Consulta, che chiedeva un intervento legislativo “per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui”. E ciò nonostante le modifiche introdotte col Decreto Sicurezza bis all’articolo 131-bis, con l’introduzione di un’ipotesi tipica di esclusione della particolare tenuità per delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive o per violenza, minaccia, resistenza o oltraggio commessi nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. “La mancata previsione di un minimo edittale di pena detentiva - e quindi l’operatività del minimo assoluto di quindici giorni stabilito per la reclusione dall’articolo 23, primo comma, del codice penale - richiama per necessità logica l’eventualità applicativa dell’esimente di particolare tenuità del fatto”, si legge nella sentenza della Consulta. E d’altronde, “nella giurisprudenza costituzionale sul principio di proporzionalità della sanzione penale, il minimo assoluto dei quindici giorni di reclusione ha identificato il punto di caduta di fattispecie delittuose talora espressive di una modesta offensività”. In linea generale, “l’opzione del legislatore di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta rivela inequivocabilmente che egli prevede possano rientrare nella sfera applicativa della norma incriminatrice anche condotte della più tenue offensività”. Toscana. Attività fisica in carcere: “È il farmaco più a basso costo” di Antonella Barone gnewsonline.it, 22 luglio 2020 L’Attività Fisica Adattata (Afa) è un complesso di attività motorie con caratteristiche specifiche che permettono di curare il proprio benessere anche a persone che hanno esigenze particolari come condizioni di sedentarietà legate all’età o ad altri fattori. In queste categorie di soggetti rientrano quei detenuti “impigriti” dalle limitazioni del carcere o che, a causa di particolari condizioni fisiche, non possono prendere parte alle attività sportive organizzate negli istituti. A loro è dedicato il progetto sperimentale Salute in carcere - Attività Fisica Adattata che partirà a settembre negli istituti fiorentini di Sollicciano e nella Casa Circondariale a custodia attenuata per tossicodipendenti “Mario Gozzini” di Firenze. I corsi, organizzati dalla Società della Salute di Firenze e finanziati con il contributo della Regione Toscana, saranno svolti da istruttori Unione Italiana Sport per tutti (Uisp) in possesso dei requisiti richiesti per svolgere questo specifico tipo di attività e debitamente formati rispetto alle necessità dell’ambiente carcerario. I detenuti saranno divisi a gruppi per motivi di sicurezza anche sanitaria, in osservanza delle misure anti Covid-19, e potranno fare due sedute settimanali della durata di un’ora ciascuna. Le Attività Adattate si avvalgono di un programma di esercizi fisici che porti ad avere consapevolezza dei propri movimenti e ad assumere corretti stili di vita in un’ottica più generale di prevenzione e promozione della salute. Il progetto, presentato ieri a Palazzo Vecchio dagli organizzatori, rientra tra i percorsi di salute messi in atto dalla Regione Toscana, dall’Azienda Usl Toscana centro, dalla Società della Salute, rivolti all’individuazione di eventuali fattori di rischio (in particolare di malattie cardiovascolari, respiratorie, metaboliche e degenerative osteo-articolari), anche nei contesti carcerari. “In termini di salute l’attività fisica è il farmaco più a basso costo - ha sottolineato Bruna Lombardi, direttore del Dipartimento Medicina fisica e riabilitazione dell’Azienda Usl Toscana centro - fondamentale quindi promuoverlo a tutti i livelli”. Torino. Torture in carcere: “Detenuti picchiati tra le risate” di Giuseppe Legato La Stampa, 22 luglio 2020 L’inchiesta della procura: 21 agenti accusati dei pestaggi. Indagato anche il direttore: “Sapeva ma nascose tutto”. C’è un’inchiesta che scuote il carcere “Lo Russo e Cutugno” di Torino. Che racconta gli orrori che tra marzo 2017 e settembre 2019 si sarebbero consumati nei corridoi, nelle celle e negli spazi comuni dell’istituto. Con 21 agenti della polizia penitenziaria indagati per il reato di tortura. Con un direttore (anche lui indagato) che aveva ricevuto le denunce e avrebbe taciuto, consapevolmente. E - infine - con un comandante del personale che avrebbe addirittura fabbricato dossier falsi per “coprire” le condotte inumane dei suoi sottoposti. Un’intera scala gerarchica avrebbe cercato di tacitare le precise segnalazioni che Monica Gallo, il garante dei diritti dei detenuti di Torino, aveva fatto dopo aver visitato i carcerati. “Numerose volte” scrive il pm Francesco Pelosi, titolare dell’inchiesta, si era rivolta al direttore Domenico Minervini per chiedere un intervento. Quest’ultimo invece “aiutava gli agenti a eludere le indagini dell’autorità omettendo di denunciare i fatti di cui era venuto a conoscenza”. Che per i magistrati rappresentano “trattamenti inumani e degradanti”. Torture. Da ieri ci sono le prime “carte” inviate ai legali degli imputati con l’avviso di chiusura indagini. Gli investigatori hanno ricostruito più di venti episodi di violenze inaudite e inaccettabili. Una lista nera: “Picchiavano e ridevano” scrive la procura nel capo di imputazione di alcuni agenti. Calci, pugni sputi. Come nel caso di Amadou Ibrahim, detenuto, pestato dentro la cella da tre agenti mentre due secondini facevano il palo sull’uscio per accertarsi che nessuno vedesse. A Diego Sivera, altri colleghi “cagionavano acute sofferenze fisiche e un trauma psichico”. Lo hanno costretto a rimanere in piedi nel corridoio della sezione a cui era assegnato per 40 lunghissimi minuti. Insultato e costretto a ripetere: “Sono un pezzo di merda”. Sono entrati diverse volte nella sua cella “eseguendo perquisizioni arbitrarie, gettandogli i vestiti per terra, strappandogli le mensole dal muro, spruzzando detersivo per piatti sul suo materasso”. Poi di nuovo pugni sulla schiena e schiaffi “indossando rigorosamente i guanti” annota il pm. Altri colleghi dopo aver accompagnato il detenuto Daniele Caruso in infermeria, gli urlavano: “Figlio di puttana, ti devi impiccare”. Gli hanno rotto il naso, rischiato di sfondare l’orbita di un occhio, spezzato di netto un incisivo superiore. È capitato che dopo un pestaggio due secondini abbiano avvicinato la vittima minacciandola: “Se ti visiteranno per le lesioni - questo il senso del messaggio - devi dire che ti ha picchiato un altro detenuto”. Altrimenti - chiosa la procura - “avrebbero usato nuovamente violenza su di lui di fatto costringendolo, il giorno dopo, a rendere dichiarazioni false ai sanitari”. A Daniele Caruso è andata peggio: “dopo averlo ammanettato e bloccato a terra in attesa che venisse eseguito nei cuoi confronti un Tso, lo colpivano ripetutamente con violenti pugni al costato e, mentre Caruso urlava per il dolore, loro ridevano”. Due sindacalisti dell’Osapp sono indagati per rivelazione di segreto d’ufficio. Sono Gerardo Romano e Leo Beneduci. Grazie alle loro “soffiate” il comandante della polizia penitenziaria del carcere Giovanni Battista Alberotanza, aveva saputo di avere il cellulare sotto controllo nell’ambito di un’inchiesta sui pestaggi in carcere. Lui stesso “Aiutava gli agenti Dario Celentano, Francesco Piscitelli, Luigi Longo, Gianluca Serafino, benedetto Demichelis, Simone Battisti e altri colleghi, ad eludere le investigazioni dell’Autorità, omettendo di denunciare i pestaggi e le altre vessazioni e conducendo un’istruttoria interna dolosamente volta a smentire quanto accaduto”. Il direttore del carcere, ora che l’inchiesta ha investito in pieno i vertici della struttura torinese, ha offerto la sua piena disponibilità agli inquirenti: “Noi siamo pronti a farci interrogare subito dai magistrati - dice Domenico Minervini. Siamo pronti a spiegare tutto ciò che sappiamo, ci mettiamo a disposizione della magistratura, nella quale abbiamo piena fiducia”. Torino. “Botte coi guanti ai detenuti e celle per fare torture” di Elisa Sola Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2020 Le accuse del pm Pelosi ai 21 agenti penitenziari. “Pestaggi” e lesioni documentate. Contestato ai vertici il favoreggiamento. Le celle delle torture erano quattro, nella Decima sezione: qui, secondo l’accusa, gli agenti portavano i detenuti “che davano segno di scompensi psichici”. Poi c’era la stanza al piano terra dove all’improvviso il carcerato da punire, preso da tre o quattro poliziotti dalla propria cella, veniva colpito con calci e pugni. Di solito due picchiavano, gli altri due guardavano. Ma le violenze, all’interno del carcere delle Vallette di Torino, avvenivano anche nei luoghi teoricamente pensati per la cura della persona. Come, sostiene il pm, l’infermeria. È qui che due poliziotti, tre anni fa, portano un detenuto, e gli sputano addosso mentre gli dicono “Figlio di puttana, ti devi impiccare”. Poi lo colpiscono con pugni al volto. Il carcerato uscirà da quel calvario con “un ematoma al volto, epistassi dal naso e lesione al dente incisivo superiore che ne provocherà la caduta”. E gli aguzzini lo minacceranno: “Devi dire che è stato un altro detenuto a picchiarti, se no lo rifacciamo”. È soltanto uno dei numerosi episodi di violenza che il pm Francesco Saverio Pelosi contesta a 21 poliziotti penitenziari del carcere Lorusso e Cutugno, 17 dei quali sono accusati del reato di tortura. L’avviso di chiusura delle indagini, iniziate due anni fa, è stato notificato ieri agli agenti e due giorni fa ai vertici del carcere, indagati invece per favoreggiamento: il direttore Domenico Minervini (che risponde anche di omessa denuncia) e il comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza. Secondo quanto accertato dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria, che ha svolto le indagini coordinato dalla procura, Minervini e Alberotanza sarebbero stati consapevoli delle “crudeltà” che avvenivano dietro alle sbarre, ma avrebbero coperto i poliziotti, senza denunciare i fatti all’autorità giudiziaria. Le vittime delle sevizie sono almeno dieci: carcerati condannati per reati sessuali o pedofilia. Agire con “crudeltà”, per il pm Pelosi, così scrive nella descrizione dei capi di imputazione, significa provocare “acute sofferenze fisiche e psichiche” ai detenuti ledendo la loro “dignità”. L’elenco degli abusi di potere e delle violenze mostra uno spaccato da incubo. Il 17 novembre 2018 tre poliziotti portano una vittima in una stanza in cui non c’è nessuno. “Per quale reato sei detenuto?”, è la domanda che dà il via alle botte. Secondo l’accusa, il primo agente dà al detenuto uno schiaffo al volto. Il secondo mette i guanti, così può picchiarlo senza lasciare troppi segni: infierisce in pieno volto e sulla testa. Il terzo lo riempie di pugni alla schiena. Quando, dopo il pestaggio, il carcerato viene riportato nella sua cella, non è finita. Viene obbligato a stare in piedi contro il muro, di modo che lo vedano tutti i compagni che stanno per tornare dall’ora d’aria. Le presunte torture sarebbero avvenute anche nei confronti dei malati. Come a un detenuto colpito da “una crisi psicomotoria e legato in barella”. Mentre era immobile, un agente “lo colpiva ripetutamente al volto facendogli sanguinare il naso”. Un altro carcerato, a terra sofferente in attesa del Tso, veniva invece “colpito ripetutamente con violenti pugni al costato”. Lui urlava, “i poliziotti ridevano”, scrive il pm. Sul perché avvenissero i pestaggi, non ci sarebbero molte spiegazioni. Se non la volontà di “punire” persone condannate per reati consideranti infamanti, come la violenza sessuale. La rabbia di volere attuare una sorta di perversa giustizia fai da te trapela dalle parole di un agente indagato, che dopo aver buttato giù dalle scale a calci un uomo, urla: “Ti ammazzerei, invece devo tutelarti”. O ancora: “Ti renderemo la vita molto dura, te la faremo pagare, ti faremo passare la voglia di stare qui”. L’accoglienza riservata a chi metteva piede per la prima volta nel carcere, è spiegata nella descrizione dei reati contestati a tre agenti. Al nuovo arrivato, ricostruisce il pm, consegnano il kit con le lenzuola, poi lo accompagnano in cella. Mentre sale le scale, lo atterrano con un calcio a gamba tesa: le ferite riportate lo faranno zoppicare per tre mesi. Il “neo giunto” sarà costretto a dormire sulla lastra di metallo del materasso. Lo priveranno, sempre secondo l’accusa, dell’ora d’aria e della possibilità di vedere un medico. Torino. Questa indagine è una speranza per tutti di Ilaria Cucchi La Stampa, 22 luglio 2020 Dopo Ferrara anche a Torino si procede per torture commesse dagli uomini dello Stato in danno di detenuti in loro custodia. Fatti odiosi come connivenze e coperture che pare ci siano state a Torino. Sono addolorata ma pienamente convinta che tutto ciò faccia bene alle Istituzioni, contribuendo a renderle migliori difendendo i pubblici ufficiali onesti e fedeli al loro compito, distinguendoli da chi invece macchia la divisa che porta. Se penso che c’è chi ha il coraggio di invocare l’abolizione di questo reato, non posso non pensare a malafede propagandista ed ignorante. Qui, invece, lo Stato c’è. È presente e ci infonde fiducia. Tutti possono sbagliare. Anche chi porta la divisa. Ma è fondamentale che chi sbagli paghi e che la legge sia uguale per tutti. Sembrano parole semplici, ma sono tutt’altro che scontate. La presenza dello Stato toglie dall’isolamento le famiglie delle vittime di abusi e violenze. Le solleva dall’onere di farsi carico delle richieste di verità e giustizia. Dall’esporre in pubblico il proprio dolore delle tragedie che spesso si trovano a vivere, in una lotta impari contro il malevolo pregiudizio. Chi non ce la fa soccombe sommerso dalla mistificazione ignorante e violenta della propaganda politica strumentalizzatrice che nega qualsiasi dignità al proprio caro, nel millantato buon nome “delle istituzioni” che nulla debbono avere a che fare con questi atti criminali. Chi ci riesce, come me, appare fortunata. Ma non è consapevole del prezzo che andrà a pagare. Se ha la fortuna di imbattersi in fior di magistrati capaci ed onesti, pur dopo anni ed anni di battaglie impari, diventa, suo malgrado, oggetto dell’attenzione invidiosa e violenta degli haters. Continua il cammino faticosissimo dei processi per la morte del proprio caro mentre viene fatta oggetto di ogni genere di insulti e minacce dai quali non riesce a proteggere sé stessa e la famiglia. Si imbatte in magistrati che quegli insulti spesso giustificano e legittimano. Ma deve reggere. Continuare ad andare avanti senza potersi permettere di inciampare. Tutti - anche chi meno te lo aspetti - sono pronti a gettarti la croce addosso in nome del rispetto di quei sacrosanti diritti di garanzia la cui violazione ha però ucciso tuo fratello. Tuo figlio. Tutti pronti a difendere l’esercizio del potere, non certo gestito al meglio. Siamo soli. E l’inchiesta di Torino è una speranza per tutti noi. Reggio Calabria. Resta in carcere il papà di Sophia, la bimba che ha smesso di parlare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 luglio 2020 Niente arresti domiciliari per il giovane calabrese Marco Venuti accusato di tentata rapina. Per il Gip la moglie Loredana Ursino può accudire da sola i due figli piccoli nonostante la sua depressione post parto. Non solo, la figlia di due anni sta bene fisicamente, quindi non ha bisogno della presenza del padre. Parliamo di Sophia, la bimba che ha avuto una brusca regressione di sviluppo a causa dell’arresto del padre. Una vicenda che Il Dubbio ha recentemente riportato. L’istanza presentata dall’avvocato Alessandro Moffa è stata ben circonstanziata. La richiesta dell’applicazione degli arresti domiciliari si basa su diversi fattori. Uno che l’imputato ha dimostrato la piena assunzione delle responsabilità chiedendo di concordare l’applicazione della pena su accordo delle parti. “Tale evento - scrive il difensore - costituisce elemento certamente sintomatico di un sicuro affievolimento, quantomeno - delle esigenze cautelari sottese al caso di specie”. Infatti, già durante l’interrogatorio il ragazzo ha ammesso tutte le proprie responsabilità per l’errore commesso, mostrandosi pentito ed esplicitando le ragioni di carattere economico che lo hanno indotto a tentare la rapina. L’altro elemento è quello che Il Dubbio ha già raccontato. “Dirò una cosa che fa male sentirlo, ma mi creda - ha raccontato Loredana al giornale - è tremendo dirlo e soprattutto provarlo. Ho partorito da sola in ospedale e la nascita di mio figlio è stata la cosa più brutta della mia vita”. Loredana è entrata in sala parto con la speranza che il dottore chiamasse in tempo il carcere per dire al suo compagno che è diventato papà. “Ho avuto - rivela con dolore - una forte depressione post parto”. Nell’istanza per i domiciliari si legge infatti che “non si può non rilevare come il disturbo d’ansia e la depressione post-partum che affliggono la signora Ursino, in assenza di altri familiari idonei ad accudire i figli, compromettono irrimediabilmente il processo evolutivo dei minori stessi, causandone, di fatto, un grave deficit assistenziale”. Ma poi c’è l’altra questione, la più delicata e che riguarda la bimba di due anni. “Come sappiamo - ha raccontato Loredana a Il Dubbio - per colpa del Covid hanno bloccato i colloqui in carcere e mia figlia ha cominciato a dare segni di instabilità. Inizialmente ha cominciato a dare problemi di deambulazione, cadeva molto spesso sia da ferma che quando camminava. Poi anche problemi di linguaggio. Prima che venisse arrestato il mio compagno, mia figlia aveva cominciato a parlare, poi ha improvvisamente smesso”. Si è pensato che fossero capricci, ma la situazione ha cominciato a diventare seria. “Alla fine l’ho portata a fare delle visite. Fisicamente, per fortuna, è risultato che non ha nessun problema. Ma la psicoterapeuta ha diagnosticato che il suo disagio è mentale. Ha spiegato che mia figlia ha subito il distacco involontario dal padre e la presenza di un altro bimbo”. Nell’istanza l’avvocato sottolinea che “non può essere taciuta, infatti, la situazione attuale della piccola Sophia, la quale presenta uno sviluppo del linguaggio carente che rendeva necessaria una valutazione logopedica e la programmazione di una visita neuropsichiatrica infantile con esame di potenziali evocati uditivi”. Inoltre, si legge sempre nell’istanza, la piccola Sophia, a seguito di episodi parossistici di caduta e arresto del contatto nonché riferita regressione di sviluppo, viene ricoverata presso il Policlinico Gemelli di Roma, nel reparto di Neuropsichiatria infantile al fine di effettuare dei controlli di inquadramento diagnostico terapeutico. “Durante il ricovero - scrive l’avvocato nell’istanza - effettuava approfondimenti neurologici, neuropsicologici, elettroencefalografici ed oculistici- ortottici. Dall’esame neuro-cognitivo emergeva un profilo disarmonico, in presenza di una differenza significativa (>12 punti) tra i punteggi indagati dalle scale nello strumento, a discapito del punteggio ottenuto nella scala di Linguaggio e Apprendimento, che si colloca nei limiti inferiori della norma. L’analisi qualitativa della valutazione sembra mettere in evidenza una resistenza alla comunicazione verbale, sebbene si apprezzi un’adeguata intenzionalità comunicativa espressa per mezzo del codice non verbale”. La richiesta degli arresti domiciliari si fonda, appunto, sul fatto che Loredana, in condizioni psico- fisiche precarie, non può offrire una adeguata assistenza ai figli che necessitano di particolari cure e attenzioni, in particolare la figlioletta Sophia. D’altronde c’è l’articolo 275 comma 4 del codice di procedura penale che prevede la disposizione dei domiciliari nel caso in cui gli imputati con figli non superiori a sei anni non posso ricevere un’assistenza adeguata. Ma nulla da fare. Il gip del Tribunale di Reggio Calabria ha rigettato l’istanza. Secondo la giudice, Loredana può essere aiutata dai parenti e la figlia Sophia ha condizioni di salute che risultano normali. La misura cautelare in carcere, rimane quindi l’unica opzione possibile. Rovigo. Il prefetto: “Il carcere minorile in via Verdi” di Alberto Lucchin Il Gazzettino, 22 luglio 2020 Doccia fredda sul Comune, che ha chiesto di poter usare gli spazi per l’allargamento dell’attuale sede del Tribunale. “Resta ferma l’intenzione del Ministero di portare il carcere minorile in via Verdi”. Lo rivela il prefetto Maddalena De Luca, spiegando che in realtà l’emergenza Covid ha rallentato, ma non fermato il trasloco a Rovigo della casa circondariale per minorenni di Treviso, sostenendo altresì che la scelta di farlo negli spazi delle vecchie carceri in centro storico non è cambiata. Questo, ovviamente, complica ulteriormente la questione dell’ampliamento del vicino Tribunale, visto che da ormai più di un anno avvocati e commercianti chiedono a gran voce che in realtà quello spazio sia utilizzato per ampliare gli spazi delle aule di giustizia ed evitarne così il trasloco fuori dal centro. Alla fine, quello che alcuni aveva definito un incubo per la città si sta avverando. L’istituto di rieducazione minorile arriverà in centro storico. L’estate scorsa erano stati svolti i primi rilievi sulla struttura, durante i quali i tecnici incaricati dal Ministero della Giustizia hanno controllato lo stato di salute dello stabile e svolto le ultime misurazioni. Lo conferma il prefetto De Luca: “Sono già avviate le prime verifiche sul campo e dovrebbero iniziare i primi affidamenti - spiega. Chiaramente c’è stato uno stop a causa della situazione emergenziale e vedremo adesso quali nuove informazioni arriveranno in merito, ma resta l’intenzione di farlo lì, nel vecchio carcere”. Il progetto di realizzazione, con il dettaglio di quante celle e su quali saranno gli spazi adibiti ad ufficio al suo interno sono top secret. Nemmeno gli uffici preposti del Comune hanno accesso a questa documentazione, visto che si tratta di un edificio che segue un iter burocratico a sé stante vista la sua particolare funzione. L’unica cosa che è possibile presumere è che quell’edificio venga sostanzialmente rifatto da zero, visto lo stato in cui versava già prima della sua chiusura e la lunga storia che ha alle spalle. La determinazione da parte del Ministero di portare a Rovigo il carcere minorile fa infuriare il sindaco Edoardo Gaffeo, che apprende con irritazione il fatto che da Roma non lo abbiano ancora interpellato su questo delicato argomento: “Non ho ricevuto alcuna comunicazione recente in merito - spiega - So che è ancora pendente addirittura un’interpellanza della senatrice di Forza Italia Roberta Toffanin, fatta il 4 marzo al Guardasigilli Alfonso Bonafede, alla quale non ha ricevuto alcuna risposta. Giusto per dire che non solo io da sindaco non ho ricevuto una risposta da parte sua, ma persino un senatore della Repubblica. Non so che informazioni abbia il prefetto, non dubito del fatto che abbia un canale privilegiato, però io sono ancora in attesa di un appuntamento al Ministero, che ancora non mi è stato dato. Nel momento in cui dovesse essere confermata questa decisione, faremo le nostre dovute riflessioni. Coinvolgeremo la città nel dibattito”. Il dibattito infatti non coinvolge solo il consiglio comunale ma un esercito di avvocati sul piede di guerra da mesi e di alcuni commercianti spaventati che questa cosa possa danneggiare l’indotto prodotto dal tribunale, che vorrebbero fosse ampliato proprio nel vecchio penitenziario in cui invece andranno a stare i cosiddetti baby carcerati. Su questo argomento l’aula di Palazzo Nodari, a febbraio, si era espressa a difesa delle toghe, ostacolando il trasloco del tribunale con una precisa mozione, chiedendo che non sia spostato dalla sua attuale collocazione in via Verdi. Questo Gaffeo lo sa e intende farlo valere nelle sedi preposte: “In questo momento una soluzione non ce l’ho, ma c’è un mandato preciso del consiglio in cui è prevista una certa direzione, non è previsto un piano B”. Di piani B ne sono circolati parecchi, dal trasloco al Maddalena, che il prefetto caldeggia, alla realizzazione di una nuova struttura realizzata fuori dal centro città, che spaventa per via dell’impatto che potrebbe avere sull’economia cittadina. Crotone. La proposta del Garante: “Commissione consiliare permanente sul carcere” cn24tv.it, 22 luglio 2020 Attualmente nel carcere a Crotone sono recluse 133 persone: di cui la maggioranza italiani. L’enumerazione delle cifre non deve farci mai dimenticare che i detenuti sono persone con percorsi di vita, tensioni, speranze, errori e non dati meramente statistici”, è quanto scrive il garante dei diritti dei detenuti di Crotone, Federico Ferraro. Ha quindi ricordato diversi episodi a volte “di agitazione emotiva, di confronto, di appelli da parte degli stessi detenuti, dei familiari e del Garante stesso, conclusi sempre con interlocuzioni importanti e costruttive”, come lo “sciopero della fame, un tentativo di suicidio, per fortuna sventato dagli agenti o ancora, alle richieste di strumenti anti Covid-19 per tutelare l’incolumità della popolazione carceraria.” “Nei primi mesi del 2020 si è fatta sentire a gran voce la richiesta da parte della popolazione carceraria crotonese di dotazioni, di strumenti di protezione per il coronavirus. Dotazioni che finalmente sono arrivate, ma esclusivamente per sensibilità di privati cittadini, che hanno accolto l’appello dei detenuti e del Garante comunale. La consegna delle oltre 300 mascherine, cucite a mano, è stata un’esperienza molto toccante e significativa. Un atto di civiltà sociale e umana che ha mostrato tutta la generosità dei crotonesi. Esprimo in questa occasione un plauso ai detenuti per l’atteggiamento collaborativo assunto durante la pandemia, senza porre in essere atti violenti o lesivi, come è avvenuto, purtroppo in altre case circondariali italiane. “Nel mese di marzo ho espresso e torno a farlo un sincero cordoglio e vicinanza al Corpo della Polizia Penitenziaria, appresa la triste notizia della scomparsa dell’agente, vittima del Coronavirus, il capo coordinatore Gian Claudio Nova di 51 anni, in servizio presso la Casa Circondariale di Locri. L’età non veneranda della vittima ci ha fatto comprendere l’importanza di tenere a tutte le età, comportamenti quanto mai responsabili e soprattutto che non mettano in pericolo noi stessi e i nostri cari. Anche per tali motivi ho dovuto ridurre la presenza fisica preso la Casa circondariale, ma sono state potenziate in sinergia con la Direzione e la Polizia penitenziaria le modalità di comunicazione digitali, ogni volta che i detenuti lo hanno richiesto. “Agli inizi di aprile i detenuti del carcere di Crotone hanno intrapreso uno sciopero della fame per alcuni giorni, per sollecitare interventi contro il sovraffollamento carcerario e i rischi di contagio da coronavirus; gli stessi hanno scritto una lettera aperta al Presidente della Repubblica, al Ministro della Giustizia, ed alle Istituzioni locali di pubblica sicurezza “lamentando il mancato rispetto delle capienze massime previste all’interno dei luoghi di reclusione, la necessità degli interventi urgenti da affrontare affinché sussistano le necessarie misure di contenimento e prevenzione della pandemia. “I detenuti hanno chiesto al Governo l’adozione di misure legislative che consentano l’osservanza delle misure di sicurezza imposte dall’Oms e dal Ministero della Salute anche all’interno delle Case circondariali. È stata importante in quei mesi, e lo è tutt’ora, la collaborazione sinergica avviata con il Comando di Polizia penitenziaria di Crotone e con la Direzione. Sempre in tema Covid-19, c’è stato poi un intervento come Ufficio del Garante dei detenuti anche per un detenuto di origine crotonese, positivo al virus, in Friuli Venezia Giulia; ad aprile si è ottenuto riscontro in merito alle condizioni di salute del detenuto, all’evoluzione della sua situazione clinica come della terapia a cui il medesimo è stato sottoposto. A maggio si è avuto purtroppo un tentativo di suicidio, fortunatamente scampato, grazie agli Agenti di Polizia penitenziaria”. L’Ufficio del Garante comunale dei detenuti ha avviato un tavolo istituzionale “ancora aperto al reinserimento socio-lavorativo: purtroppo ancora oggi nessuna iniziativa o proposta da parte della Casa Circondariale ha ottenuto riscontro concreto dalle imprese e realtà aziendali locali, per cui nessun detenuto a Crotone ha potuto svolgere lavori all’esterno. Sia nell’ambito della utilità sociale che di quello retribuito. In questa mancata risposta sicuramente vi è l’emergenza sanitaria in corso che ha stravolto i ritmi e le dinamiche anche della realtà produttive. Occorre, tuttavia, un riscontro concreto da parte delle realtà imprenditoriali locali per l’uso dei laboratori e degli spazi esterni (le serre) messi a disposizione per attività di laboratorio artigianale o attività agricole. Interessanti proposte sono venute, in questi giorni, nell’ambio dell’attività di legatorìa e serigrafia e ne auspico una concreta attuazione in tempi ragionevoli”. Ferraro ha auspicato “un interessamento da parte degli enti locali, nella fattispecie dell’Ente comunale, durante il periodo di gestione commissariale, ad intervenire nel settore della detenzione carceraria, anche con un semplice interessamento verso le problematiche, oppure prendendo in considerazione la più volte reiterata richiesta di istituire una semplice fermata per autobus che colleghi carcere e città di Crotone, più volte disattesa”. Da qui la proposta di “costituire una struttura stabile aperta sulle problematiche del mondo carcere; dovrà occuparsi anche delle criticità o di tutti gli eventuali ritardi nelle dinamiche penitenziarie tra uffici e popolazione carceraria, come dei servizi. Dovrà creare un sistema di reinserimento nella società e nel lavoro, ricevere progettualità anche da parte di aziende, cooperative, enti pubblici o privati locali, rivolti ai detenuti e ad ex detenuti, ormai liberi e pronti a ripartire. Insomma penso ad un monitoraggio costante e ad un recupero e ad un ripristino della legalità perduta”. Agrigento. L’Asp attiva un servizio di radiologia diagnostica nel carcere corrieredisciacca.it, 22 luglio 2020 I detenuti della Casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento ed il personale di polizia penitenziaria non saranno più costretti a doversi spostare da contrada Petrusa verso il presidio ospedaliero “San Giovanni di Dio” nel caso in cui siano necessarie prestazioni radiologiche. Da questo mese un telecomandato radiodiagnostico, già presente nella struttura ma recentemente aggiornato e potenziato mediante l’acquisto e l’installazione di sistemi digitali di acquisizione, permetterà l’elaborazione e la trasmissione delle immagini direttamente sul sistema di archiviazione (Ris-Pacs) del Dipartimento di radiologia dell’ASP di Agrigento per la successiva refertazione. Il servizio sarà garantito dal personale specializzato dell’Unità operativa di radiologia del nosocomio di Agrigento coordinato dal direttore dipartimentale Angelo Trigona. Si tratta di un risultato importante che garantirà agli utenti del carcere l’immediatezza delle prestazioni unita all’azzeramento dei disagi legati al trasferimento, spesso in condizioni di sofferenza fisica, verso l’ospedale. Il direttore generale Asp, Alessandro Mazzara, ed il direttore sanitario, Gaetano Mancuso, hanno sostenuto sin da subito l’iniziativa, permettendo l’upgrade dell’apparecchiatura radiologica e della tecnologica necessaria. Fondamentale, nell’attivazione del servizio, anche l’impegno profuso dal direttore del Distretto sanitario di Agrigento, Giuseppe Amico. Migranti. Espulso perché aveva il passaporto scaduto, muore nel Centro di rimpatrio di Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 22 luglio 2020 La vittima, Orgest Turia, 28enne albanese, era stata arrestata a Merano a inizio luglio per resistenza. In carcere, era stata accertata la scadenza del suo permesso di soggiorno, ed era scattato il trasferimento nel Centro per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo, dove è stato trovato senza vita. Arrestato a Merano per resistenza, era stato trovato col passaporto scaduto e per questo spedito al centro di rimpatrio di Gardisca d’Isonzo. Ma la sera prima dell’udienza davanti al giudice è stato trovato morto, e il compagno semi incosciente. Oggi l’autopsia. Nettis: “Tante perplessità”. Gli operatori del centro per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo lo hanno trovato senza vita martedì scorso, mentre il compagno di stanza, in stato di semi incoscienza, è stato ricoverato d’urgenza in ospedale. Sta meglio, ma ancora non è stato in grado di chiarire che cosa sia accaduto. Per far luce sulla vicenda che, nei suoi contorni iniziali, appare davvero inquietante, il pm Laura Collini, della Procura di Gorizia, ha incaricato un perito di condurre l’autopsia sul corpo di Orgest Turia, 28enne albanese arrestato una decina di giorni fa a Merano per resistenza a pubblico ufficiale. L’esame sarà eseguito questa mattina alle 9.30. A occuparsi del caso è l’avvocato Nicola Nettis. “Il mio assistito - spiega - era arrivato in Italia con un passaporto valido tre mesi. Alla scadenza, è rimasto in Alto Adige per cercare lavoro. Un ragazzo giovane, senza precedenti e in salute”. Una decina di giorni fa ha partecipato a una festa di compleanno a Merano, durante la quale ha alzato un po’ troppo il gomito. Tanto che, per strada, “si è appropriato di una bicicletta che non era stata chiusa con il lucchetto - riprende il legale. A quel punto, sono intervenuti i Carabinieri. Turia ha opposto resistenza, pur passiva, ed è stato arrestato”. Di qui la nomina di Nettis come suo difensore. “Sono andato a trovarlo in carcere, e durante l’incontro è apparso subito pentito. Si è reso conto di aver compiuto una sciocchezza”. Dopo due giorni l’udienza di convalida dell’arresto, durante la quale ha patteggiato un anno con liberazione immediata e sospensione della pena. Solo che, nel frattempo, è stata accertata l’irregolarità della sua presenza sul territorio italiano, il che ha fatto scattare il trasferimento nel centro per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, dove è rimasto un paio di giorni. Poi, la doccia gelata: la telefonata con la comunicazione del decesso di Turia, proprio la sera prima dell’udienza fissata davanti al giudice per la convalida dell’espulsione. E un giallo che si apre: “La situazione appare strana, per lo meno nelle sue battute iniziali - sostiene il legale. Molte le perplessità: sul corpo non sono stati trovati segni di ferite, e l’ipotesi più plausibile sembra essere quella che i due possano avere assunto qualche sostanza stupefacente. Ma come se la sarebbero procurata? Il mio assistito proveniva da un carcere, e, così come il compagno di stanza, non poteva certo uscire dalla struttura”. Si attende ora l’esito dell’autopsia che cercherà di far luce sulla causa del decesso di Turia e del malessere dell’altro uomo. Droghe. Aumenta il consumo e il Governo è latitante di Marco Perduca Il Manifesto, 22 luglio 2020 “Il movimento di massa di persone dalle campagne alle città - oltre metà della popolazione mondiale vive in aree urbane rispetto al 34% nel 1960 - sta rivoluzionando anche il mercato degli stupefacenti”. Questo uno dei nuovi “allarmi” lanciati dal World Drug Report 2020 (rapporto mondiale sulla droga) presentato dalle Nazioni unite a giugno con dati del 2018 raccolti da circa 90 paesi su 193. L’inurbamento ha fatto sì che le sostanze a base vegetale come cannabis, cocaina ed eroina convivano con centinaia di prodotti sintetici, molti dei quali non appaiono nelle tabelle delle Convenzioni internazionali. Malgrado una stretta sui precursori chimici, queste pasticche, prodotte principalmente in Asia e in nord Europa, si trovano dappertutto a prezzi molto bassi. All’aumento del consumo illegale si aggiunge un incremento impressionante dell’uso non medico di farmaci legali. Il Rapporto, preparato dall’Ufficio dell’Onu su droghe e crimine (Unodc), conferma che circa 269 milioni di persone usano sostanze sottoposte al controllo internazionale, un aumento del 30% rispetto al 2009. Circa 35 milioni di persone, il 13% del totale, avrebbero sviluppato disturbi alla salute. Per quanto riguarda l’offerta, un’analisi relativa al 2017- 2018 segnala che l’area destinata alla produzione di oppio (240.800 ettari) è in diminuzione per il secondo anno consecutivo, soprattutto in Afghanistan e Myanmar. Conseguentemente le quantità di oppiacei sequestrate nel 2018 (704 tonnellate) risultano notevolmente diminuite rispetto all’anno precedente. La coltivazione di piante di coca continua ai massimi livelli mai registrati (244.200 ettari) e risulta stabile rispetto ai dati degli ultimi due anni. Si stima quindi che la produzione globale di cocaina abbia raggiunto il record storico di 1723 tonnellate! I sequestri di metanfetamina hanno toccato le 228 tonnellate. Niente di più lontano da “un mondo senza droga”. Il rapporto analizza in parte anche l’impatto del Covid-19 sui mercati; sebbene sia presto per uno studio approfondito su cosa sia avvenuto nei mesi del lockdown, la chiusura generale delle frontiere e le altre restrizioni legate alla pandemia hanno causato carenze di prodotti sulle strade di mezzo mondo, il che ha fatto salire i prezzi e diminuire la qualità delle sostanze. La cannabis resta la sostanza più diffusa nel mondo con circa 192 milioni di consumatori. I derivati dell’oppio sono consumati da oltre 58 milioni divisi quasi equamente tra legali e illegali. Quello degli oppiacei è il consumo più rischioso per la salute, soprattutto per le donne. Le anfetamine interessano 27 milioni di persone, l’ecstasy 21 milioni, la cocaina 19 milioni. Si “denuncia” inoltre che Uruguay, Canada, e 11 giurisdizioni negli USA hanno legalizzato la produzione e il commercio di cannabis e che ciò ha fatto aumentare il consumo della pianta e dei suoi derivati. La fine del mese di giugno sarebbe anche il termine entro cui, a norma di legge, il governo italiano dovrebbe inviare al Parlamento la sua Relazione annuale sulle “droghe”. Non solo anche quest’anno non l’ha fatto, ma in occasione della giornata mondiale per la lotta a dipendenze e narcotraffico del 26 giugno non ha annunciato quando lo farà. L’XI Libro Bianco sulle Droghe, pubblicato qualche settimana fa da molte associazioni della società civile, ha comunque presentato dati, problemi e prospettive confermando che il mercato resta sotto il controllo della criminalità con i morti e le violenze che ne conseguono. Il contorno e le implicazioni del fenomeno sono noti, quel che da anni resta totalmente inesistente è come s’intenda adeguare leggi e politiche a un fenomeno che non accenna a diminuire e si trasforma in continuazione radicandosi nella cultura popolare. Egitto. I genitori di Regeni: “Il governo gli vende armi, scegliere tra commercio e giustizia” La Repubblica, 22 luglio 2020 Puntano il dito contro la “lentezza delle istituzioni” nell’esigere la collaborazione della magistratura del Cairo per far luce sulla morte del figlio rapito, torturato e ucciso quatto anni fa. “Siamo persone normalissime che in pochi secondi si sono trovate in una situazione che ha cambiato la nostra vita e di chi ci sta intorno. Per Giulio, invece, la vita è stata addirittura interrotta. Se qualcuno pensava però che il dolore avrebbe affievolito le nostre menti si sbagliava: la nostra lotta per la verità prosegue. Sono stati però quattro anni duri e vorremmo sapere se l’unione europea sta con noi”. Lo ha detto Paola Effendi, madre di Giulio Regeni, il ricercatore di Cambridge trovato morto nel 2016 lungo l’autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria. Effendi è intervenuta nel corso della presentazione online del libro “Giulio fa cose” scritto insieme al marito Claudio ed edito da Feltrinelli. La mamma dello studente parla di una lotta determinata da “una reazione contro un’ingiustizia indicibile verso Giulio e i tanti Giulio in Egitto e nel mondo”. La morte del figlio “ha svelato una verità scomoda. Avremmo potuto accettare per comodità che quello che era successo fosse un caso isolato, ma la nostra coscienza non ce lo ha permesso. Sarebbe stato più semplice però: oggi attraversiamo la strada con una certa paura”. Effendi punta poi il dito contro la “lentezza delle istituzioni” nell’esigere la collaborazione della magistratura egiziana per far luce sulla morte di Giulio, e solleva il problema “dell’Italia che vende armi all’Egitto, un fatto grave che non aiuta noi e tante altre persone”. Claudio Regeni, il papà di Giulio Aggiunge: “nelle indagini ci aspettiamo un ulteriore passo. L’attuale governo non si sta facendo rispettare abbastanza” anche in seno alle istituzioni europee, e questo fa sì che “manchi nella difesa della dignità dei propri cittadini”. Ma secondo il papà dello studente, bisogna fare una scelta: “mettere al primo posto i rapporti economici e commerciali oppure battersi per la giustizia”. Infine, quanto al libro scritto insieme alla moglie, Claudio Regeni spiega: “descriviamo quello che Giulio continua a fare: creare connessioni tra persone che, ascoltando la sua storia e la nostra lotta, si trovano in linea con i nostri valori”, certo che il figlio stia continuando “a portare i diritti umani nel mondo”. Brasile. Le carceri ai tempi del coronavirus assomigliano all’inferno radiocittafujiko.it, 22 luglio 2020 Le carceri brasiliane ai tempi del coronavirus hanno l’aspetto di un girone dantesco. È questa l’immagine che restituisce Sergio Grossi, ricercatore dell’Università di Padova e dell’Universidade Federal Fluminense di Rio de Janeiro, specializzato in Educazione e Carcere. Tornato in fretta e furia in Italia a causa del collasso del sistema sanitario, pubblico e privato, del Paese - che finora ha registrato più di due milioni di contagiati da coronavirus e più di 80mila morti - il ricercatore racconta ai nostri microfoni la situazione nelle carceri brasiliane. Carceri Brasile: una situazione drammatica - Nelle carceri brasiliane sono rinchiuse 800mila persone e l’assistenza sanitaria era assente già prima dell’arrivo della pandemia. Malattie come la tubercolosi sono endemiche e ad ammalarsi sono sia i detenuti che le guardie carcerarie. La malattia del sistema respiratorio rappresenta un fattore di rischio ulteriore per il Covid-19 e le statistiche sulla diffusione nelle carceri non sono incoraggianti. Solo a giugno negli istituti penitenziari brasiliani i contagi sono cresciuti dell’800%. Quanto a numeri, sono più di 2.351 i detenuti risultati positivi ai test, ma la quota è destinata a crescere perché ci sono quasi altri mille casi sospetti in attesa di conferma. Secondo il Dipartimento penitenziario nazionale (Depen) la mortalità per coronavirus in carcere sia 5 volte maggiore rispetto a quella del Paese. “Due settimane fa - osserva Grossi ai nostri microfoni - è morto un ragazzo di 28 anni che era stato arrestato perché trovato in possesso di pochi grammi di marijuana”. Il sovraffollamento nelle carceri brasiliane supera il 200%. Le persone vivono ammassate ed è impossibile mantenere il distanziamento sociale prescritto dall’Oms per ridurre il rischio dei contagi. Ad aggravare questa situazione ci sono le politiche del presidente Jair Bolsonaro, che da tempo parla della possibilità per gli agenti di polizia penitenziaria di non indossare la mascherina. Classe, razza e genere: perché si finisce in carcere in Brasile - Il ricercatore ha svolto una ricerca etnografica all’interno delle carceri brasiliane ed ha riscontrato quanto succede più a nord, negli Stati Uniti, ma in generale in molti contesti del mondo. I detenuti, infatti, sono principalmente poveri ed afrodiscendenti. “Troviamo quella che si chiama selettività penale - osserva Grossi - quindi la classe sociale conta, la razza conta e conta anche il genere. La gestione della pandemia, del resto, in Brasile è un vero e proprio disastro, al punto che c’è chi parla apertamente di “genocidio”. È il caso di Frei Betto, il celebre teologo della liberazione, che cinque giorni fa ha scritto una lettera aperta in cui sostiene che ““questo genocidio non scaturisce dall’indifferenza del governo Bolsonaro. È intenzionale. Bolsonaro si compiace dell’altrui morte”. “Del resto - aggiunge Grossi - il presidente brasiliano ha ripetuto più volte che l’errore della dittatura militare è stata quella di aver torturato e non ucciso”. La gravità della situazione carceraria in Brasile ha indotto 200 ong attive nella difesa dei diritti umani a inviare un documento alla Commissione interamericana dei diritti umani dell’Onu e alla stessa Organizzazione mondiale della sanità, per denunciare le mancanze del governo. Stati Uniti. Le mamme con l’elmetto in piazza contro la polizia di Anna Lombardi La Repubblica, 22 luglio 2020 In prima linea nella protesta anti-Trump a Portland: “Difendiamo i ragazzi dai federali”. Hanno trasformato lo slogan che da 56 giorni rimbalza nelle piazze di mezza America in una sorta di ninna-nanna: “Hands up, don’t shoot”, mani in alto, non sparate. Si sono inventate una divisa composta da maglia gialla e casco da ciclista in testa che gli ha già procurato il soprannome di Mothers in helmets, mamme con l’elmetto. E quando domenica la polizia federale ha caricato per l’ennesima volta i rivoltosi che presidiavano il tribunale di Portland, hanno formato uno scudo umano gridando: “Siamo le mamme, federali andate via”. A spingere centinaia di donne in piazza nella metropoli più popolosa dell’Oregon - quella “rose city” considerata capitale della cultura alternativa, cui è dedicata pure una serie tv satirica, l’esilarante “Portlandia” - sono stati i troppi raid violenti condotti da agenti federali in assetto di guerra, a partire dal 12 luglio. Entrati in città su mandato di Donald Trump, innervosito dalla protesta che lì prosegue, ininterrotta, dalla morte dell’afroamericano George Floyd. Per intimorire i contestatori, gli agenti hanno perpetrato attacchi sempre più violenti e con metodi ai limiti della legalità. Come gli arresti condotti da agenti col volto coperto e privi di targhette di riconoscimento, che trascinavano i fermati su furgoncini senza contrassegni: secondo le tante denunce delle autorità locali. Con la governatrice democratica dell’Oregon Kate Brown a parlare di “spudorato abuso di potere”. E il sindaco Ted Wheeler, democratico pure lui, ha intimato a Trump: “Porta le tue truppe fuori dalla mia città”. Mentre Ellen Rosenblum, procuratore generale dello Stato ha annunciato che il locale dipartimento di Giustizia farà causa al governo federale per gli arresti di manifestanti senza motivo, accusandolo di sequestro di persona. Proprio per proteggere il diritto a manifestare dei loro ragazzi, le mamme sono scese in strada rispondendo all’appello pubblicato su Facebook da una di loro, Bev Barnum, responsabile di un’azienda di servizi online. Indignata da quel che vedeva in tv, è stata lei ad avere l’idea di formare “un muro umano” di mamme fra contestatori e agenti. Al debutto, sabato scorso, erano appena cinquanta. Domenica già più di 200, fra i 40 e i 70 anni: “Non possiamo lasciare i ragazzi da soli. La strada è ormai zona di guerra”, ha spiegato Barnum a Cnn. Le nuove proteste hanno però irritato ulteriormente President Trump. Che ora non solo non intende richiamare le truppe da Portland. Ma minaccia di dispiegarne altre in città come New York, Chicago, Philadelphia, Detroit, Baltimora e Oakland. Tutte, guarda caso, guidate da democratici: “Sono fuori controllo”, tuona The Donald. “Situazioni peggiori dell’Afghanistan”. In calo nei sondaggi, il presidente, d’altronde, già da tempo prova ad accreditarsi come nuovo paladino di quel Law & Order un tempo slogan di Richard Nixon: “Se vincerà Biden, l’intero Paese sarà un inferno”, insiste. Ma i federali rischiano di trovare nuove moms ovunque. Il gruppo online di Portland ha già raggiunto 2000 iscritte e iniziative analoghe stanno nascendo pure in altre città. Centinaia di mamme con l’elmetto, pronte a cantare la ninna-nanna agli agenti: “Mani in alto, non sparate”. Iran. L’ultima richiesta d’aiuto di Narges, l’attivista condannata a 16 anni ha il Covid di Roberta Zunini Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2020 Ci vorrebbe davvero l’uomo ragno per ridare ai gemellini Kiana e Alì la loro mamma, la paladina dei diritti umani Narges Mohamadi, 48 anni, imprigionata dal 2015 nel famigerato carcere di Zanjan. Nonostante sia stata contagiata dal Covid, assieme ad altre 11 detenute, l’avvocata non è stata scarcerata come invece è accaduto a molti delinquenti comuni (specialmente maschi) rinchiusi nello stesso istituto di pena. Nella foto che accompagna la lettera-appello di Mohamadi, pubblicata sui social dal marito Taghi Rahmani - esule con i figli a Londra - uno dei gemelli gioca con la maschera dell’eroe dei fumetti come fosse l’ultima speranza. Anzi, la penultima. I due bimbi chiedono infatti all’opinione pubblica mondiale di unirsi alla loro voce, per poter almeno risentire, dopo 11 mesi, la voce della madre. Il testo della lettera è stato diffuso anche dalla Fondazione Alexander Langer che nel 2009 premiò l’attivista per il suo operato a favore “dell’uguaglianza di tutti i cittadini, indipendentemente dall’appartenenza di genere e dalle opinioni politiche o religiose”. L’appello inizia con queste parole: “Siamo 12 donne contagiate dal coronavirus. La settimana scorsa, viste le nostre condizioni di salute e su insistenza delle nostre famiglie, ci hanno fatto il test. Non abbiamo comunque ricevuto fino a oggi i risultati... Una donna in condizioni cliniche preoccupanti è stata trasferita giovedì scorso in ospedale e successivamente rilasciata su cauzione a seguito della diagnosi di Covid. Nel giro di un mese in questo carcere sono entrate 30 persone di cui alcune con sintomi da coronavirus e almeno una di loro con diagnosi certa di Covid, che è stata successivamente rilasciata a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute. Noi 12 presentiamo sintomi di affaticamento eccessivo e dolore addominale, diarrea, vomito, perdita di olfatto. Non abbiamo accesso alle cure adeguate né a una alimentazione corretta... In questo periodo, per l’esplicita richiesta del ministero dell’Intelligenza e della Magistratura, non mi viene permesso né di comprare carne a mie spese né di sentire i miei figli per telefono”. Le condizioni di salute della donna sono precarie da molto tempo. Dopo varie pressioni dei medici, nel maggio del 2019 fu autorizzata a essere sottoposta a un intervento per l’asportazione dell’utero. Nel 2012 Narges Mohammadi era stata condannata a sei anni di carcere ma era stata rilasciata per le sue condizioni di salute. “Proprio per questo motivo, non avrebbe mai dovuto trascorrere un giorno in più in carcere. Invece, nel 2016 le è stata inflitta un’altra condanna, stavolta di 16 anni”, denuncia Riccardo Noury portavoce di Amnesty International. La “colpa” di Narges Mohammadi è di aver invocato l’abolizione della pena di morte, aver parlato di diritti umani con rappresentanti di istituzioni internazionali e aver preso parte a manifestazioni pacifiche per i diritti delle donne. Medio Oriente. Il premier palestinese Shtayyeh: “Non ci arrenderemo, l’Europa si schieri” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 22 luglio 2020 “La comunità internazionale è chiamata a scegliere da che parte stare: avallare il Piano israeliano di annessione, sancendo così la morte della soluzione a due Stati, o riconoscere il diritto del popolo palestinese a uno Stato indipendente, pienamente sovrano sul suo territorio nazionale, con Gerusalemme Est per capitale. Non è più tempo di ambiguità e reticenze. Trump ha scelto, lo faccia anche l’Europa, ma in una direzione opposta a quella americana”. A sostenerlo, a Il Riformista, è il Primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mohammad Shtayyeh. E sulle prossime elezioni presidenziali americane, il premier palestinese fa un, sia pur indiretto, endorsement: “Conosco personalmente il senatore Biden e so che non intende venir meno a una pace fondata sulla soluzione a due Stati. E poi, è difficile che possa far peggio del signor Trump”. Signor Primo ministro, l’1 luglio, giorno in cui sarebbe dovuto scattare il piano israeliano di annessione di parti della Cisgiordania, è passato senza che accadesse nulla. È l’avvisaglia di un possibile ripensamento israeliano? Ripensamento? Magari fosse così! Ma la realtà è un’altra: gli israeliani stanno trattando con gli americani sulle dimensioni dell’annessione e non su un suo accantonamento. Ma la legalità internazionale non si misura in chilometri. Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, il più deciso fautore dell’annessione, può contare sul sostegno del presidente Usa Donald Trump. Il 3 novembre prossimo, gli americani andranno a votare per decidere chi sarà il loro presidente per i prossimi quattro anni. I palestinesi fanno il tifo per Joe Biden? Non si tratta di “tifare”, ma di valutare le posizioni dei due candidati riguardo al processo di pace israelo-palestinese e sul Medio Oriente. Vede, al presidente Trump va riconosciuta la coerenza: non c’è stato un solo atto della sua presidenza che non sia stato a favore d’Israele e del suo amico Netanyahu: il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, il sostegno alla politica di colonizzazione della Cisgiordania, l’azzeramento del contributo americano all’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ndr), come suggello finale, il “Piano del secolo” che è a fondamento dell’annessione. Nei suoi quattro anni di presidenza, il signor Trump non ha mai vestito i panni del facilitatore di un compromesso fra le due parti, ma ha sempre indossato la maglia israeliana. È stato un player di parte, non certo un arbitro imparziale. Non voglio glissare la sua domanda: diciamo che sarebbe difficile fare peggio del presidente Trump. Mi lasci aggiungere che ho avuto modo di conoscere personalmente il senatore Biden quando era vice presidente degli Stati Uniti (con la presidenza Obama, ndr). So che conosce bene il dossier palestinese e che resta sostenitore di una soluzione a due Stati. Sappiamo bene che gli Usa hanno da sempre un legame strettissimo con Israele. Noi non aspettiamo un presidente filopalestinese, ma un onesto difensore della legalità internazionale. È chiedere troppo? C’è chi vi suggerisce di non sottrarvi ad una discussione di merito del piano Trump che, rimarcano gli assertori di questa linea, non esclude la nascita di uno stato palestinese Ma di quale “Stato” si parla! Uno Stato per essere considerato tale deve avere una piena sovranità sul suo territorio nazionale, esercitare il controllo di confini riconosciuti internazionalmente e delle risorse idriche. Altrimenti si tratta di una finzione, di un bantustan spacciato per “Stato”. Noi non ci battiamo solo contro l’occupazione israeliana ma per il rispetto della legalità e del diritto internazionale. Per questo e non per un astratto concetto di giustizia che oggi chiediamo al mondo di scegliere da che parte stare. È un’assunzione di responsabilità inderogabile. Noi non stiamo chiedendo la luna, ma di vedere finalmente attuate quelle risoluzioni Onu che Israele ha sempre calpestato. A chi ci dà lezioni di pragmatismo, rispondo che non c’è in Medio Oriente una leadership più pragmatica di quella palestinese. Ma essere pragmatici non significa rinunciare ai nostri diritti. Questa si chiama resa. E noi, mi creda, non ci arrenderemo mai. Se accettassimo di negoziare il piano Trump che annienta le nostre aspirazioni nazionali saremmo un mucchio di traditori. Non c’è un dirigente palestinese, anche il più moderato e propenso al compromesso, che sia disposto a svendere la nostra causa nazionale, quella per la quale intere generazioni hanno combattuto e molti sono caduti da martiri. Ma nel “Piano del secolo” è previsto un importante sostegno all’economia palestinese. Perché rifiutarlo? Perché la nostra libertà non è in vendita e i nostri diritti nazionali non hanno prezzo. Noi sosteniamo con forza il principio “pace in cambio dei Territori”. E non intendiamo che esso venga stravolto in “pace in cambio di dollari”. È vero, la nostra economia è in difficoltà, soprattutto ora che dobbiamo fare i conti con la crisi pandemica, ma alla base di queste difficoltà c’è l’occupazione israeliana. Non nascondo i nostri errori, ma sfido chiunque a realizzare progetti di sviluppo quando Gaza è sotto assedio da oltre 11 anni e in Cisgiordania le risorse idriche necessarie per supportare la nostra agricoltura, sono nelle mani dei coloni. Abbiamo idee e risorse umane di primo livello per ricostruire la nostra economia e migliorare le condizioni di vita della popolazione palestinese. Chiediamo solo di essere messi nelle condizioni di poterlo fare. Un’accusa ricorrente alla dirigenza palestinese è saper dire solo dei “no”… È una accusa pretestuosa, totalmente infondata. Non siamo stati certo noi a venir meno a rispetto degli accordi di Washington o a sabotare la soluzione “a due stati”. Agli inizi di giugno, l’Autorità Palestinese ha presentato ai membri del Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Onu, Eu, ndr) una controproposta al Piano Trump per uno stato in grado di sostenersi, entro le linee del 1967, con Gerusalemme Est per capitale, ma non ci siamo fermati a questo. Israele teme per la sua sicurezza? Se questo è il problema, noi abbiamo proposto che questo stato indipendente e sovrano sia smilitarizzato. E siamo anche pronti ad accettare, per il tempo necessario, il dispiegamento di una forza internazionale sotto egida Onu ai confini tra i due stati. Ma la realtà sul terreno oggi, non è quella del 1967… Ne siamo consapevoli, anche se le modifiche a cui lei si riferisce sono il prodotto della colonizzazione in Cisgiordania che Israele ha portato avanti senza soluzioni di continuità. Ma guardando al futuro con uno spirito costruttivo, dico che noi palestinesi siamo pronti anche ad accettare aggiustamenti minimi dei confini con Israele, con scambi di territori esattamente eguali, sulla base di un principio di reciprocità da concretizzare in una Conferenza internazionale di pace. Quando fa riferimento ad una forza di interposizione internazionale, può essere un modello quello di Unifil 2, la missione Onu, a guida italiana, ai confini tra Israele e il Libano? È una possibilità. Quel modello ha funzionato e potrebbe essere riproposto in Palestina. Per farlo, però, c’è bisogno di un vasto consenso internazionale e delle due parti interessate. Noi siamo pronti a discuterne, ma la stessa domanda dovrebbe essere posta al signor Netanyahu. E non credo che la risposta sarebbe la stessa. Signor Primo ministro cosa si sente di chiedere oggi all’Europa? Coraggio, coerenza, lungimiranza. In questo momento cruciale non solo per il futuro dei palestinesi ma per l’intero Medio Oriente, occorre esercitare pressioni sulle autorità israeliane perché deflettano all’annessione. Riconoscere oggi lo Stato di Palestina sarebbe un atto di grande valenza politica, e un segnale a Israele perché non proceda sulla strada dell’annessione. In gioco non sono solo i diritti nazionali dei palestinesi ma la stabilità del Medio Oriente. Al Fatah e Hamas sembrano aver raggiunto una intesa per un’azione comune contro l’annessione. È solo una unità di facciata? Mi auguro e credo di no. Il passato ci ha insegnato che le divisioni interne al nostro campo, hanno finito per indebolire la causa palestinese. A trarre vantaggio da queste divisioni è stato Israele. Siamo a un passaggio cruciale della nostra storia: affrontarlo divisi sarebbe un tradimento che il popolo palestinese non perdonerebbe mai. Si è detto e scritto che la “guerra” al Covid-19 avrebbe unito i popoli e sviluppato una cooperazione globale contro il virus. È stato così anche in Palestina? Assolutamente no. Con il pretesto del Coronavirus, le autorità israeliane hanno impedito ai lavoratori palestinesi di accedere al territorio israeliano e questo ha aggravato ancor più le condizioni di vita in Cisgiordania. Quanto a Gaza, la situazione è drammatica. Non disponiamo delle strutture sanitarie di terapia intensiva in grado di fronteggiare una epidemia. L’emergenza sanitaria ha reso ancora più dura l’occupazione. L’assedio israeliano a Gaza, che dura da 13 anni, ha fatto della Striscia una prigione a cielo aperto isolata dal mondo, esponendo la popolazione (oltre 1,9 milioni di abitanti, il 53% sotto i 18 anni, con la più alta densità di popolazione al mondo, 4.500 abitanti per km quadrato ndr), a un contagio potenzialmente devastante. Mi lasci aggiungere che in quanto potenza occupante, Israele è obbligata a fornire assistenza sanitaria ai palestinesi, come previsto dalla Quarta Convenzione di Ginevra (art. 56). Ma questo obbligo è disatteso, come tanti altri da chi sembra conoscere solo il linguaggio della forza. Sì alle truppe egiziane in Libia, all’orizzonte lo scontro con i turchi di Roberto Prinzi Il Manifesto, 22 luglio 2020 Il parlamento del Cairo autorizza al-Sisi a dispiegare l’esercito a sostegno di Tobruk. Haftar, in ritirata, ci spera. Ma si aprirebbe una guerra regionale difficilmente gestibile. Dopo il voto dell’altro giorno della Camera dei rappresentanti egiziani a favore dell’invio di truppe all’estero, l’escalation militare in Libia sembra essere ormai sempre più vicina. “Nel corso della storia, l’azione egiziana ha sempre invocato pace, ma non accetta alcuna aggressione né rinuncia ai suoi diritti - si legge nel testo approvato dalla Camera egiziana due giorni fa - Le forze armate e la sua leadership hanno la licenza legale e costituzionale per determinare il tempo e il luogo di risposta contro queste minacce e pericoli”. La palla passa ora nelle mani del presidente golpista egiziano al-Sisi che la scorsa settimana era stato chiaro: il Cairo è pronto a intervenire direttamente in Libia “su richiesta dei libici” previo via libera del Parlamento del Cairo. Ottenuta la luce verde dai deputati e anche quella di al-Azhar (centro del mondo sunnita), resta ora da capire se al-Sisi farà davvero sul serio e sarà pronto a scontrarsi con la Turchia che appoggia direttamente le forze del Governo di Accordo nazionale (Gna) di Tripoli. A Tobruk ci sperano: “L’invasore turco” va cacciato. Ieri la Camera dei rappresentanti della città cirenaica ha detto che la decisione parlamentare egiziana “contribuisce a raggiungere la stabilità nel Paese e preserva la sicurezza nazionale libica ed egiziana”. Tobruk sa da tempo che senza sostegno esterno il suo braccio armato, l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) guidato dal generale Haftar, è destinato a perdere anche la città di Sirte (strategica perché apre alla Mezzaluna petrolifera) e la base aerea di al-Jufra, “linee rosse” per al-Sisi. Ma secondo la rete al-Hadath pro-Tobruk, il Cairo ha chiarito in queste ore che non armerà le tribù libiche, ma solo l’Enl perché “si rifiuta categoricamente di trattare con qualsiasi milizia o gruppo informale”. L’esercito di Haftar ringrazia e si mostra fiducioso: “L’Egitto è significativamente superiore alla sua controparte turca ed è in grado di ribaltare gli equilibri sul terreno in Libia”. Tesi dubbia, ma comprensibile visto che l’Enl ormai da mesi non fa che incassare brucianti sconfitte militari: l’arrivo degli egiziani sarebbe comunque una boccata di ossigeno. La tensione, intanto, si fa sempre più alta a Sirte dove fonti locali confermano che le forze del Gna e quelle di Tobruk stanno consolidando le rispettive posizioni inviando batterie missilistiche e pezzi di artiglieria pesante. Ai venti di guerra che spirano sempre più forti, per ora Tripoli si mostra imperturbabile, conscia di poter contare sul sostegno indefesso della Turchia. Il presidente turco Erdogan ha ribadito ieri che “non permetterà (ad Haftar e alleati) di avere la meglio”. Il suo ministro alla difesa Akar ha poi specificato: “Continueremo le attività di addestramento, cooperazione e consulenza militare” per Tripoli. Sul fronte pro-Gna, non va dimenticato il contributo dei mercenari provenienti dalla Siria: oltre 10mila secondo l’Osservatorio siriano, 3.800 secondo un rapporto del Dipartimento della Difesa Usa pubblicato l’altro giorno e che considera però solo i primi tre mesi del 2020. Contro mercenari e violazioni dell’embargo dell’Onu sulle armi alle parti in conflitto in Libia, si è scagliato due giorni fa il ministro degli Esteri tedesco Maas che ha illustrato le sanzioni che Italia, Germania e Francia hanno minacciato domenica di adottare contro chi farà arrivare armamenti nel Paese nordafricano. Parole di un’ipocrisia imbarazzante se si pensa che Berlino, come Roma e Parigi, finanzia la guerra libica. Un rapporto del ministero dell’economia tedesco di metà maggio metteva nero su bianco la complicità tedesca: la Germania aveva venduto fino ad allora armi per un valore di 331 milioni di euro a entrambi gli schieramenti. Sudan. Nuovo processo per l’ex dittatore Bashir: rischia la pena di morte La Repubblica, 22 luglio 2020 Il presidente, spodestato nel 2019, è già in carcere, condannato per corruzione: ora verrà giudicato anche per il colpo di Stato del 1989. L’ex “uomo forte” del Sudan, Omar al-Bashir, deposto con una rivolta popolare lo scorso anno, è sotto processo per il colpo di Stato militare che lo ha portato al potere più di tre decenni fa. Bashir, 76 anni, è già dietro le sbarre per corruzione. Ma stavolta potrebbe essere condannato alla pena di morte per il suo golpe del 1989 contro il governo democraticamente eletto del premier Sadek al-Mahdi. Il processo si è aperto stamattina nella capitale contro l’ex capo di Stato e altri 16 accusati: arriva mentre il governo di transizione ha avviato una serie di riforme per consolidare la democrazia e riportare pienamente Khartoum nella comunità internazionale. Il Sudan è in gravi difficoltà, dopo anni di isolamento totale, e secondo le agenzie dell’Onu (Fao e Wfp) è fra i Paesi più a rischio di crisi alimentare per le conseguenze della pandemia. Il governo sudanese si è impegnato a consegnare Bashir alla Corte penale internazionale perché risponda delle accuse di crimini di guerra e genocidio legate al conflitto in Darfur, che ha causato la morte di 300.000 persone e milioni di sfollati. È la prima volta nella storia moderna del mondo arabo che il protagonista di un colpo di Stato viene processato, anche se l’uomo considerato il vero ideatore del golpe, Hassan al Turabi, è morto nel 2016. Bashir e gli altri imputati, dieci militari e sei civili, sono accusati di aver pianificato il colpo di Stato del 30 giugno 1989 quando l’esercito arrestò i leader politici del Sudan, sospese il Parlamento e altri organi statali, chiuse l’aeroporto e annunciò il putsch alla radio. Bashir, in seguito elevato al rango di generale, rimase al potere per 30 anni prima di essere rovesciato l’11 aprile dell’anno scorso dopo diversi mesi di dimostrazioni di strada. Sierra Leone. Notizie di reato a Freetown di Jacopo Lentini Il Manifesto, 22 luglio 2020 I giornalisti possono finire in cella per “diffamazione” grazie a una vecchia legge che umilia la libertà d’informazione. È successo anche a Sylvia Blyden, che ora sfida il presidente Bio. Nei pressi della rotatoria di Walpole street, su cui si erge l’albero del cotone, simbolo della città, fanno ritrovo quotidiano decine di amputati della guerra civile, in cerca di elemosina. Qui, nel cuore della capitale Freetown, oltre a questo, quasi nulla ricorda le vicende che hanno reso la Sierra Leone tristemente nota alle cronache. Dalla fine del decennale conflitto, nel 2002, il Paese ha visto svolgersi 4 elezioni democratiche ed è oggi stabile, seppur con tensioni politiche occasionali. Attorno alla stessa rotatoria stazionano gli strilloni che vendono i giornali, e la loro assenza saltuaria non passa inosservata. “Può capitare che a volte i giornali non escano, per lo scetticismo dei proprietari delle stamperie commerciali che temono di incorrere in azioni penali se pubblicano materiale troppo critico” spiega Francis H. Murray, cronista della testata locale Politico. Se da un lato le istituzioni del Paese si rafforzano positivamente, dall’altro la libertà di espressione rimane ancora molto limitata, stavolta per legge, e non per violazioni della stessa, come accade di frequente nel continente africano. Lo scorso 1 maggio, la giornalista ed ex ministro degli Affari sociali Sylvia Olayinka Blyden, è stata arrestata per aver criticato il governo su Facebook e ha trascorso più di 40 giorni in detenzione, la metà dei quali senza aver ricevuto accuse formali. La questione è dibattuta da tempo nel Paese: la legge sull’Ordine pubblico del 1965 contiene una distorta interpretazione della diffamazione. Tra le dichiarazioni poi contestate a Blyden in via ufficiale, si legge: “Non ho mai creduto nell’incantesimo collettivo del nostro presidente, che negli anni ‘90, sotto la giunta militare, ha abusato dell’autorità politica, disobbedendo alla Costituzione”. La critica è rivolta a Julius Maada Bio, attuale presidente da aprile 2018, fautore dei colpi di stato del ‘92 e del ‘96, dei quali poi si scusò, riabilitando la propria immagine. E ancora: “È indiscutibile che il presidente abbia una propensione a viaggiare all’estero senza preavviso”. Blyden, dichiarata oppositrice di Bio, e informalmente aspirante alla presidenza, ha inoltre contestato i maltrattamenti ricevuti dall’ex ministro della Difesa, del partito di opposizione, detenuto per un presunto tradimento istituzionale, un altro caso dal movente politico piuttosto che penale. L’arresto di Blyden è sopraggiunto poche ore dopo la pubblicazione di un audio in cui Fatmata Swaneh, una leader del partito di governo, dichiara che la giornalista “non avrà tregua per le sue critiche oltraggiose”. Blyden attende ora il processo per una decina di reati diffamatori, che prevedono fino a 7 anni di carcere. La legge del 1965 che regola la diffamazione, tra le altre oscenità, sancisce che: “La veridicità delle dichiarazioni pubblicate non costituisce una difesa per l’imputato. La veridicità è pertinente solo nella misura in cui si dimostri che il contenuto in questione sia stato pubblicato a beneficio del pubblico”. Di conseguenza, un commento accurato ma critico può innescare azioni penali, se ritenuto (spesso sotto pressioni politiche) lesivo della pace pubblica. E sia chiaro che nessun caso di giornalista arrestato nel Paese ha mai avuto per oggetto la pubblicazione di contenuti attinenti alla sfera privata delle persone citate. “È una vergogna che questa legge preveda persino la misura della detenzione preventiva. La mia intera carriera di giornalista si basa sulla ferma volontà di farla cancellare” spiega Umaru Fofana, corrispondente della Bbc nel Paese. Il Governo Bio però sembra aver intrapreso azioni concrete per abolire la legge contestata. Un disegno per l’abrogazione è stato approvato dal consiglio dei ministri e presentato in Parlamento. Ora tocca a quest’ultimo convertirlo in legge, ma è tutto da vedere. Da quando la legge è stata importata dal Ghana (che però l’ha abrogata nel 2001), e approvata in Sierra Leone, i governi e numerosi politici l’hanno utilizzata principalmente contro i media. “Durante lo stato di emergenza 2014-16 dell’epidemia di ebola, la minaccia di accuse di diffamazione è stata ampiamente utilizzata per imbavagliare i giornalisti costringendoli a censurarsi o, in alcuni casi, persino a nascondersi”, sostiene Reporter senza frontiere (Rsf). Il paese si classifica 85esimo nel mondo per libertà di stampa, i suoi media sono pluralisti e anche piuttosto indipendenti, ma fare informazione rimane un campo minato. Nel novembre 2019, Sallieu T. Jalloh, giornalista del quotidiano Times di Freetown è stato arrestato per 24 ore con l’accusa di diffamazione per una storia non ancora scritta, solo per aver chiesto al primo ministro David Francis spiegazioni sul presunto versamento di una somma sul suo conto personale, da parte di una compagnia mineraria la cui concessione era stata recentemente sospesa dal governo. Anche altri Paesi africani adottano leggi “improprie” sulla diffamazione, come lo Zimbabwe, il Gambia e lo Zambia, ma magari la Sierra Leone abbandonerà per prima le cattive compagnie.