Linee guida per la tutela della salute dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 luglio 2020 Redatte da Legance Avvocati Associati, in collaborazione con Msd Italia e Antigone. Dettate dai principi che prendono le mosse dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali della Ue. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Così recita la nostra Costituzione che garantisce la tutela alla salute quale diritto inviolabile a tutti gli individui, a prescindere dalle condizioni personali e non soltanto ai cittadini italiani. Quindi anche per chi è in carcere e gli stranieri irregolari. Lo Stato si assume il dovere inderogabile di esercitare tale tutela. Per questo motivo è stata redatta una Linea Guida da Legance Avvocati Associati, con la collaborazione della Direzione Legal & Compliance di Msd Italia S.r.l. e dell’associazione no profit Antigone, attiva nel settore della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. C’è il capitolo dedicato ai diritti insindacabili dei detenuti. Tutti i reclusi e internati hanno pari diritti dei cittadini in stato di libertà per prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previsti nei Lea. Quest’ultimi sono i Livelli Essenziali di Assistenza, da ultimo aggiornati con D.P.C.M. 12 gennaio 2017, che comprendono le prestazioni e i servizi che il servizio sanitario nazionale deve fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento del ticket. Anche nel caso in cui per un detenuto si instauri un regime di sorveglianza particolare, le restrizioni applicate in tale circostanza non possono riguardare le esigenze di salute del recluso. I detenuti hanno - come ribadisce la Guida - il diritto all’integrità psico-fisica, a un luogo di detenzione adeguato allo stato di salute, diritto all’informazione con diagnosi, prognosi, benefici, rischi, alternative, conseguenze di rifiuto/rinunci. C’è anche il diritto all’autodeterminazione sanitaria che si esplica attraverso la volontarietà degli interventi sanitari, salvo i casi di accertamenti sanitari obbligatori, generali e penitenziari; il diritto alla scelta del luogo di cura e il diritto alla scelta del medico di fiducia. Che cosa succede quando si entra in carcere? La Guida spiega che, espletate le procedure amministrative previste al momento dell’ingresso in carcere, il detenuto - senza ritardo e comunque non oltre il giorno successivo - è sottoposto a visita medica generale e riceve dal medico informazioni complete sul proprio stato di salute. Al detenuto di nuovo ingresso deve riservarsi una valutazione medico- psicologica, compiuta per il lasso di tempo necessario. Possono essere svolti anche accertamenti diagnostici, per evidenziare eventuali patologie infettive. All’ingresso vanno applicate le misure di accoglienza atte a mitigare il trauma della privazione della libertà e a prevenire atti di autolesionismo. Entro le 36 ore successive all’ingresso il detenuto deve essere valutato da un punto di vista psicologico per misurare il livello di rischio auto/eterolesionistico - e da specialisti di cui si rende necessaria la consulenza, con particolare riguardo allo psichiatra, laddove sia sospettata o individuata una patologia mentale. Se la persona ha problemi di tossicodipendenza, è segnalata al Ser.T. dell’istituto penitenziario. Deve essere permessa la continuità terapeutica e una visita quotidiana da parte del medico. Il detenuto deve inoltre ricevere informazioni complete sul proprio stato di salute durante la detenzione e al momento di rimessione in libertà. Ma gioca anche il ruolo della prevenzione. Anche il detenuto deve vivere in un luogo dove non rischia patologie. Vanno implementati progetti specifici per patologie e ambiti differenziati della popolazione carceraria, in rapporto all’età, al genere e alle caratteristiche socio culturali, con riferimento anche alla popolazione degli immigrati. La Guida è chiara, perché dettata dai principi che trova il proprio fondamento in una pluralità di fonti normative nazionali ed europee, prendendo le mosse dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Ma nelle carceri è così? I 5 Stelle bloccano la legge sulla separazione delle carriere di Piero Sansonetti Il Riformista, 21 luglio 2020 La Commissione affari costituzionali non mette in discussione la legge popolare per evitare che possa andare in aula a luglio. Intanto i dem annunciano gioiosi una riforma del Csm che neppure sfiora lo strapotere dei Pm. E le correnti esultano. Anche nel suo momento più difficile, la magistratura vince facilmente la partita con la politica. A mani basse e persino umiliando e sbeffeggiando un po’ l’avversario. Due a zero: no alla separazione delle carriere, sì alla riforma truffa del Csm. Sebbene discretamente sputtanata, esposta al ludibrio per via di magistratopoli, con la propria credibilità in caduta verticale, con i nomi eccellenti del suo firmamento sospettati di atteggiamenti sicuramente non professionali e probabilmente illegali, la magistratura italiana resta il potere inattaccabile di sempre, la casta in grado di dire al popolo: “Io sono io, e voi…”. La politica forse, stavolta, poteva approfittare della debolezza della magistratura nel giudizio dell’opinione pubblica, e tentare un riequilibrio dei poteri. Una piccola rimonta. Ha preferito piegarsi, trattando forse, sottobanco, un pochino di indulgenza in più rispetto al passato. Vediamo i fatti di questa settimana che si apre. Due soprattutto: la battaglia per la separazione delle carriere e la riforma del Csm (ci sarebbe poi l’avvio del processo a Palamara, ma sarà rinviato). La proposta di separazione delle carriere era giunta in Parlamento non grazie ai partiti politici ma per iniziativa delle Camere Penali che hanno raccolto più di 70 mila firme in calce a un disegno di legge popolare. Di che si tratta? Di una legge di attuazione dell’articolo 111 della Costituzione. L’articolo 111 prevede il giusto processo, prevede che sia svolto nel confronto paritario tra accusa e difesa, e prevede che a giudicare sia un giudice terzo. Cosa vuol dire terzo? C’è l’accusa, che cerca di provare la colpevolezza dell’imputato. C’è la difesa, che cerca di smontare l’accusa. C’è il giudice, diciamo l’arbitro - terzo appunto - che valuta e decide. Cioè decide se dare ragione all’accusa o alla difesa. Può il giudice far parte della stessa squadra dell’accusa? Può essere un collega e magari un amico del rappresentante dell’accusa? Può avere il suo ufficio porta a porta con quello dell’accusatore? Può vederlo spesso al bar, talvolta a pranzo, qualche volta anche a cena con amici? Un giudice così, può essere definito terzo? Magari lo è pure, perché ha incredibili doti personali di rigore e di imparzialità, ma certo l’imputato non può essere sicuro di questo. E certo finché le carriere di chi accusa e di chi giudica restano un’unica carriera, l’articolo 111 della Costituzione resta inattuato. Potremmo anche dire, spingendo appena un po’ più in là la polemica, che ogni volta che si svolge un processo si viola un articolo della Costituzione, potremmo anche dire che la mancata separazione delle carriere tiene tutto il sistema- giustizia in una condizione di sostanziale illegalità. Come è possibile che la politica non abbia ancora pensato, in tanti anni, di riparare a questo scempio? È possibile per la semplice ragione che la politica, da circa un quarto di secolo, vive una condizione di totale subalternità alla magistratura, e che la magistratura vive in una condizione di totale subalternità ai Pm, alle loro lobby e alle loro organizzazioni (compresa l’Anm. E i Pm, e le lobby e il partito dei Pm, sono assolutamente contrari alla separazione delle carriere perché la separazione avrebbe due conseguenze: la riduzione del potere dei Pm, che non potrebbero esercitare nessun condizionamento sui giudici e sulle loro carriere; l’estrema complicazione del mestiere dei Pm, che per ottenere una condanna dovrebbero scarpinare, cercare le prove, confidare solo sulla forza dei propri argomenti e dei fatti oggettivi e non su qualche accondiscendenza da parte del giudice loro collega. E così c’è stato bisogno di una legge di iniziativa popolare, portata in Parlamento dai penalisti. Ora che succede? Che i Cinque Stelle pensano a un emendamento soppressivo della proposta di legge, da approvare in commissione, in modo da evitare che il Parlamento persino ne discuta di questa legge. Perché lo fanno? Beh, i Cinque Stelle fanno parte organica del partito dei Pm, e i Pm, probabilmente, hanno paura persino che si discuta della separazione, tanto deboli e inesistenti sono i loro argomenti per opporsi. Come fai ad opporti a una legge di attuazione della Costituzione? Come fai a dire pubblicamente: “io voglio che il giudice sia subalterno all’accusa”? Nel frattempo però la conferenza dei capigruppo della Camera ha fissato l’avvio della discussione in aula sulla proposta di legge per il 27 luglio. E ha chiesto alla commissione affari costituzionali di esaminarla nei tempi giusti. La commissione affari costituzionali, su iniziativa del suo presidente, Giuseppe Brescia, se ne è infischiata del calendario d’aula e non ha messo all’ordine del giorno la proposta di legge di iniziativa popolare. Chi è Giuseppe Brescia? Un Cinque Stelle. I giornalisti parlamentari che conoscono bene queste cose dicono che sia un uomo molto vicino al Presidente della Camera Fico. I Cinque Stelle erano quelli della democrazia diretta, delle leggi popolari, vi ricordate? Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia, ha scritto a Fico per chiedere spiegazioni. Aspettiamo... Mentre si consuma questo ennesimo attacco alla democrazia e al Parlamento, e mentre si lavora per affondare la legge, e insieme alla legge la Costituzione, e per impedire che il sistema giustizia torni a funzionare in un clima di legalità, le forze politiche annunciano, pomposamente, che è pronta la riforma del Csm. Finalmente. La riforma del Csm è molto importante, in tempi di Palamaragate. Perché? Perché Magistratopoli ci ha dimostrato che il Csm, e quindi il governo della giustizia, è in mano alle correnti nelle quali si radunano, e si dividono, e poi si alleano, i Pm. I giuristi hanno spiegato che questo sistema è del tutto illegale - così illegale che Luca Palamara, accusato di avere fatto una riunione con altri magistrati e politici, ora sarà processato per questo e forse espulso dalla magistratura - e che bisogna trovare un sistema diverso per governare uno dei poteri dello stato. Naturalmente è molto difficile governare il Csm se non si fa la separazione delle carriere. La quale separazione prevedrebbe due Csm, uno per i Pm e uno per i giudici. Sottraendo i giudici ai poteri e ai ricatti dell’Anm. E quindi già l’idea di fare una riforma del Csm che non riformi la struttura della giustizia è un po’ insensato. Uno però potrebbe immaginare che comunque si proceda a una riforma che riduca il potere delle correnti, cioè il potere dei magistrati, e aumenti la componente laica del Csm, portandola in maggioranza. E cioè stabilendo che la magistratura - che finora ha agito al di fuori di ogni controllo come un potere esterno a qualunque regola della democrazia e dello Stato di diritto - torni a dover rispondere al Paese del proprio funzionamento e delle proprie regole. E invece no. La riforma del Csm consiste nel nulla. C’è solo una novità: la parità di genere. Cioè l’aumento del numero delle donne nel Csm. Il che è un’ottima cosa, naturalmente, ma non ha quasi niente a che fare col problema che ha posto magistratopoli: il governo delle camarille. Naturalmente è assolutamente probabile che le donne siano meno affascinate degli uomini dal potere e dalla camarilla. Io penso che sia così. Ma non credo che si possa pensare di ridurre il tasso di illegalità semplicemente aumentando il numero delle donne. E la cosa che colpisce è che sono i politici, e non i giudici, quelli che stanno mettendo a punto la riforma del Csm. Andrea Giorgis, che è il sottosegretario alla Giustizia - e che sicuramente è una brava persona e sicurissimamente capisce di queste cose più del suo povero ministro - ha dichiarato soddisfatto e trionfante che non sarà una riforma che punisce i magistrati. Hai capito? Uno fa una riforma perché sappiamo che i magistrati si sono autogovernati in modo un po’ farabutto, e la prima cosa che dice è: giuro che vi lasciamo tutto il potere che volete. O mammamia, dove siamo arrivati: proprio alla resa senza condizioni e con sberleffo. Csm, l’unica fedeltà è alla Costituzione di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2020 Il capo dello Stato ha definito di “modestia etica” i tempi che stiamo vivendo. Chiaro il riferimento anche alle traversie della magistratura. Va detto peraltro che pure prima del caso Palamara si erano registrati episodi sconcertanti, ancorché non riconducibili all’andazzo generalizzato e dilagante che emerge dall’inchiesta di Perugia. Mi limito ad alcuni esempi. Il programma della loggia P2 - sciolta per legge nel 1982 - parlava di “una forza interna alla magistratura (la corrente di Magistratura indipendente) che raggruppa oltre il 40% dei magistrati italiani su posizioni moderate”. Sosteneva che “un raccordo sul piano morale e programmatico” insieme a “concreti aiuti materiali” avrebbe assicurato “un prezioso strumento già operativo all’interno del corpo”. Come si vede, la degenerazione delle correnti, pur nella sua gravità, non è assimilabile alle trame di “venerabili maestri” che assoldano magistrati. E non si tratta di semplici progetti, perché proprio per l’adesione alla P2 e i finanziamenti ricevuti, il Csm (intervenendo responsabilmente) ha radiato dall’ordine giudiziario, nel 1983, l’allora segretario della corrente in questione. Secondo. L’impareggiabile professionalità di Giovanni Falcone fu sacrificata dal Csm (1988) sull’altare della maggiore anzianità, a vantaggio di un candidato (Antonino Meli) che di processi di mafia non ne aveva visti mai. Ed era lo stesso Csm che per la nomina dei dirigenti in terra di mafia si era dato la direttiva di valorizzare le attitudini specifiche. Direttiva applicata per la nomina di Borsellino a procuratore capo di Marsala, ma pochi mesi dopo aggirata con nonchalance per Falcone. Il “gioco” delle correnti fu smaccato, tanto che Borsellino parlerà di “giuda”. Come a dire che anche allora le regole potevano valere a intermittenza se c’erano certi obiettivi da raggiungere. Non solo la nomina di un dirigente, ma pure spalancare le porte a uno come Meli, convinto che il pool di Falcone fosse una infruttuosa inutilità da demolire, arretrando l’antimafia di una cinquantina d’anni. Rassicurando nel contempo chi di Falcone temeva il pericoloso “maccartismo”, in ragione della dichiarata propensione a occuparsi anche della “convergenza di interessi col potere mafioso [...], che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere” (1987, ordinanza-sentenza del “maxi ter”). Terzo (un caso vissuto sulla mia pelle, ma che trascende il personale). Il concorso bandito dal Csm nel 2005 per la nomina del nuovo Procuratore nazionale antimafia (Pna) ha come principali candidati Piero Grasso e il sottoscritto. Contro di me si scatena una campagna con l’obiettivo esplicito di farmi “pagare” il processo Andreotti (sullo sfondo incombe pure Dell’Utri). Tal Luigi Bobbio, magistrato prestato alla politica, senatore di Alleanza nazionale, propone una leggina che impedisce di diventare Pna a chi sia over 66. Guarda caso, l’età che io avevo appena raggiunto per cui la leggina viene subito battezzata “anti Caselli”. Intanto al Csm la commissione competente vota: 3 per Grasso e 3 per me. Ma in plenum, al voto definitivo, arriva soltanto Grasso. Otto giorni dopo il pareggio in Commissione, viene approvata la leggina escogitata da Bobbio e io vengo “tagliato”. Grasso, rimasto solo, è il nuovo Pna. Il “gioco” delle correnti questa volta si manifesta col fatto che le componenti del Csm favorevoli a Grasso - invece di puntare i piedi in difesa della loro autonomia - volentieri accettano di essere espropriate dal potere legislativo con un’iniziativa palesemente incostituzionale. E prima ancora si sintonizzano supinamente con le aspettative della maggioranza politica, arrivando a scrivere cose assurde. Tipo che mi ero affacciato alle funzioni requirenti solo dal 1993 (anno del mio trasferimento a Palermo), cancellando con un colpo di mano anni di indagini sul terrorismo brigatista; liquidando poi la mia esperienza palermitana trascurandone i risultati ottenuti: dalla caterva di latitanti arrestati ai 650 ergastoli inflitti, ai 5,5 milioni di euro di beni confiscati. Come per Falcone (si parva licet...): correnti impegnate in un “gioco” che per nominare i dirigenti giudiziari si ispira anche all’immaginifico criterio del colpirne uno per educarne cento. Conviene tenere a mente questi episodi anche oggi, perché la scelta dei componenti del Csm e dei dirigenti non è mai fine a sé stessa, ma incide sulla capacità della magistratura tutta e dei singoli uffici di essere fedeli soltanto alla Costituzione: l’unica fedeltà (ammonisce il presidente Mattarella) richiesta ai servitori dello Stato a tutela della democrazia. Omicidio stradale, riforma rinviata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2020 Tramonta dopo il vertice di maggioranza di ieri pomeriggio il disegno di legge di riforma del Codice della strada per inasprire il trattamento sanzionatorio soprattutto sul versante penale. Resta però l’intenzione di procedere appena sarà possibile, ma in questo momento, si è preso atto, l’intervento non è certo una priorità. Eppure un testo era già stato messo a punto perché la spinta arriva dallo stesso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Così sul tappeto erano finite misure come l’arresto obbligatorio per il conducente che, colpevole di omicidio o lesioni gravissime, non presta soccorso e si dà alla fuga. Nessuno sconto di pena poi ci sarebbe stato per effetto della cancellazione dell’attenuante del concorso di colpa, quando l’evento non è stato provocato esclusivamente dalla condotta del guidatore. Spazio poi ad aumenti di pena se il conducente in stato di ebbrezza non presta assistenza alle vittime e non si mette a disposizione della polizia giudiziaria. Un’attenzione particolare poi veniva dedicata al comportamento di chi telefona pur essendo alla guida. L’uso del cellulare avrebbe potuto provocare il ritiro della patente e una sanzione pecuniaria fino a 2.500 euro. Nuovo ddl sull’omicidio stradale. Vince la linea restrittiva del M5S di Errico Novi Il Dubbio, 21 luglio 2020 Vani i tentativi renziani di cambiare la rotta in materia di giustizia. La giustizia vive di ondate, di cicli. E così, dopo che per alcuni mesi la tragedia del Covid ha limitato l’attività legislativa alle sole questioni legate all’emergenza (il carcere e le regole per i processi durante il lockdown), si presenta sul tavolo una sventagliata di dossier. Nelle stesse ore in cui si celebra al Csm il primo atto del processo disciplinare a Luca Palamara, fissato per oggi pomeriggio, la maggioranza ha in rampa di lancio vari fascicoli. Uno decisivo, ossia la riforma del Csm, un ampio ddl delega messo a punto dal guardasigilli Alfonso Bonafede con gli alleati, a cominciare dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, del Pd, che ha indirizzato la riforma verso soluzioni mirate in materia di incarichi direttivi e funzionamento del Consiglio. Altri pure destinati ad arroventare il clima in Parlamento, come il ddl sul processo civile (che muove i primi passi in Senato) e quello sul penale (“partito” a Montecitorio con all’interno norme contestatissime dall’Anm, innanzitutto sulle sanzioni ai giudici “lenti”). Ieri si è aggiunta una novità in apparenza di minor significato: un disegno di legge che innalza le pene sull’omicidio stradale, elimina alcune attenuanti, introduce nuove aggravanti (ad esempio per chi provoca la morte di un passante anche perché distratto dal cellulare) e che è stato presentato da Bonafede alla task force giustizia della maggioranza in una riunione tenuta ieri Iin videoconferenza. Si va nella solita, abusata direzione delle leggi concepite in risposta a pur legittime ansie diffuse tra i cittadini. Nello specifico, il guardasigilli ha assunto un impegno innanzitutto con le famiglie di Alessio e Simone D’Alessio, i due cuginetti uccisi poco più di un anno fa a Vittoria, in Sicilia, da un uomo, alla guida di un suv, condannato in primo grado a 9 anni di carcere. Le nuove norme non modificheranno le successive fasi del processo. Ma com’è avvenuto in parte con la legge sulla prescrizione rispetto alla strage di Viareggio, anche col nuovo ddl si intende dare risposta ex post a un moto d’indignazione dell’opinione pubblica. Politicamente è il segno che l’iniziativa sulla giustizia è e resta innanzitutto nelle mani del ministro Cinque Stelle, nonostante le periodiche offensive di Matteo Renzi. L’impronta della legislatura resta “general preventiva”. Lo dimostra il fatto, per esempio, che sulla prescrizione non ha avuto alcun seguito la richiesta, avanzata da Italia viva, di istituire una commissione ministeriale per rivedere i contenuti della riforma, in vigore dal 1° gennaio. Lo scorso 20 maggio proprio Bonafede aveva assicurato la creazione dell’organismo, che Renzi aveva chiesto esplicitamente di affidare alla guida di Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali e tra le figure più autorevolmente critiche della legge. Ma Bonafede si è mostrato disponibile solo in quel momento di sua particolare difficoltà, cioè nel dibattito sulla sfiducia proposta contro di lui dall’opposizione per le scarcerazioni di alcune centinaia di detenuti in piena emergenza Covid. D’altra parte già in quella sede il ministro aveva lasciato intendere che la commissione non sarebbe andata molto oltre un mero monitoraggio sugli effetti della nuova prescrizione. Caiazza, giustamente, ha declinato l’invito, e del progetto non si è saputo più nulla. Venerdì si va a Palazzo Chigi col ddl sul Csm. Giusto tre giorni prima della data, lunedì 27 luglio, in cui si dovrebbe discutere in aula sulla separazione delle carriere. Tema altrettanto caro all’Ucpi, ma destinato ancora una volta a restare in stand-by, visto che in realtà la commissione Giustizia non ha ancora completato il proprio esame. Da oggi la stessa commissione presieduta da Francesca Businarolo prenderà atto che la legge sull’omofobia è gravata da troppi emendamenti, e probabilmente si rassegnerà a un rinvio. Ma la circostanza non sembra destinata ad aprire spazi per le carriere dei magistrati, che non hanno mai scaldato Bonafede e paiono destinate a far registrare un nuovo insuccesso, per i tentativi renziani di cambiare la rotta in materia di giustizia. Rispetto alle incursioni dell’ex premier, sembra più efficace la dialettica instaurata dal Pd per limitare i danni. Certo il bilancio degli ultimi mesi parla chiaro: dal carcere alla prescrizione, dalle leggi mirate come il codice rosso e ora l’omicidio stradale fino ai grandi progetti come la separazione delle carriere, gli alleati difficilmente impongono al ministro soluzioni a lui sgradite. E sarà sempre più difficile pretendere di raccontare il contrario agli elettori. Il Tribunale non chiude per ferie di Simona Musco Il Dubbio, 21 luglio 2020 Nelle Marche si proverà a celebrare oltre 300 udienze in piena estate per rimediare al lockdown. Può diventare un modello. Il tribunale di Ancona ci prova: processi anche ad agosto per recuperare i ritardi creati dal lockdown. Con un calendario (possibile) di 363 udienze, purché siano le parti a decidere di rinunciare al periodo di sospensione feriale, previsto dal primo al 31 agosto. Un’idea che, per un momento, anche il ministro della Giustizia aveva coltivato, salvo poi abbandonarla. Ma l’avvocatura marchigiana frena: “Apprezzabile l’attenzione nei confronti dei tempi del processo, ma è difficile immaginare che si possa recuperare il tempo perso: le udienze sono già state rinviate al 2021”. Processi anche ad agosto per recuperare i tre mesi persi a causa dell’emergenza Covid. A voler tentare l’esperimento è il presidente del Tribunale di Ancona, Giovanni Spinosa - anche lui tra i giudici disponibili - che riprende un’idea in passato presa in considerazione anche dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede - ma poi non abbandonata - per colmare l’enorme ritardo causato dalla sospensione dei processi durante il lockdown. E proprio ad Ancona, stando al dossier stilato qualche settimana fa dall’Unione delle Camere penali, la Fase 2 aveva causato non pochi rallentamenti, con una media di sole 20 udienze su 200. Durante tutto il mese di agosto, dunque, sarà possibile trattare non solo le attività più urgenti, ma ulteriori 363 processi, sia penali sia civili, grazie “alla disponibilità del personale e dei giudici”. Ma dovranno essere le parti, ovvero, Procura e avvocati, a chiedere la fissazione delle udienze durante la sospensione dei termini processuali, dal primo al 31 agosto. Sull’ipotesi di non chiudere il palazzo di giustizia per ferie sono già d’accordo giudici e cancellieri, mentre si attende in settimana il nulla osta da parte della Procura e dell’avvocatura. Ma è proprio la sospensione dei termini processuali il punto critico di un provvedimento che, in ogni caso, spiega al Dubbio Maurizio Miranda, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Ancona, dimostra l’attenzione del presidente del Tribunale nei confronti dei tempi del processo. “Siamo perplessi - sottolinea Miranda -, perché i termini processuali sono sospesi per legge e non si può fare a meno di questa sospensione, a meno che si non intervenga con un provvedimento legislativo. La questione è dunque rimessa alla discrezionalità delle parti. Ma di fatto mi sembra poca cosa: le udienze che si sarebbero dovute tenere durante il lockdown sono già state oggetto di rinvii abbastanza lunghi. E se un’udienza è fissata ad ottobre, anticiparla ad agosto non risolverà molto”. Il problema, infatti, sono le udienze previste ad aprile e maggio scorso e slittate, appunto, al 2021 inoltrato. “Sarà difficile metterci una pezza - continua Miranda - nella misura in cui i ruoli dei magistrati sono calendarizzati in avanti, con un allungamento di circa un anno. Ovviamente non è colpa di nessuno e sicuramente il presidente del Tribunale dimostra attenzione ai diritti delle persone, alla tempistica del processo e alla sua durata, attenzione che come ordine apprezziamo. Ma come ordine non possiamo esprimere un parere vincolante: sarà il singolo avvocato a stabilire cosa sia giusto fare nel proprio specifico caso”. Quello che non è piaciuto, spiega il presidente del CoA, “è stato il disinteresse ai problemi della Giustizia a livello centrale, perché non ci si è accorti subito delle difficoltà che riguardano l’attività dei Tribunali e ci si è arrivati soltanto dopo, a colpi di correzione dei vari decreti”. Senza contare che i problemi legati alla regolare riattivazione della macchina della Giustizia sono anche altri. Attualmente ad Ancona le udienze si stanno svolgendo in presenza, “ma c’è un po’ di scollamento, perché il processo non è solo l’udienza ma anche il rapporto con le cancellerie, che continuano ad avere comunque orario e personale ridotto. Si va a fare udienza, ma magari non c’è il cancelliere disponibile se serve un documento che sta in un fascicolo o se si ha bisogno del rilascio di una copia”. Stando al decreto del presidente del Tribunale, la grave carenza di organico impedirà di garantire ad agosto l’assistenza anche alle udienze penali dei giudici onorari e del collegio penale, salvo che per le cause penali con imputati detenuti o a reati che possono prescriversi o che presentano carattere di urgenza. Piena funzionalità è prevista invece per il Tribunale del Riesame, per il quale, conclude Spinosa, “auspico che le parti che intendono compulsare tale giudice ne approfittino, anche per evitare l’abituale sovraccarico di udienze nel mese di settembre”. Al processo farebbe bene ridefinire l’ambito della discussione orale, per aiutare il giudice di Renato Luparini Il Dubbio, 21 luglio 2020 La notizia delle sentenze scritte il giorno prima dell’udienza di discussione si è sparsa nelle calli di Venezia e da lì si è divulgata in tutta Italia. Venezia è sempre stata, anche in tempi non sospetti, la città delle maschere ma quest’anno il Carnevale è finito due giorni prima del Martedì Grasso e certi segreti sono venuti allo scoperto. Come in una commedia dell’avvocato Carlo Goldoni le virtù non proprio eroiche di una signora sposata si sono risapute in giro e, anche per tutelare il buon nome di famiglia, si è gridato giustamente allo scandalo. Ma certe abitudini non sono solo venete e non sono neppure nuove: ricordo che i miei maestri mettevano una spilla o un tocco di colla tra le pagine dei loro atti per controllare che il giudice li avesse effettivamente letti; qualche volta li ritiravano dalla cancelleria intonsi, come erano usciti dallo studio. Oggi l’informatica non consente più certe astuzie, ma alcune sentenze uscite velocemente come Minerva dalla testa di Giove il giorno dopo la scadenza dei termini o addirittura miracolosamente estese contestualmente in ambito penale dopo una brevissima Camera di Consiglio muovono gli incalliti scettici a dubitare della verginità del convincimento del Collegio giudicante prima della udienza di discussione. Rammento però il monito mistico di un grande laico, come Piero Calamandrei affisso a mo’ di incoraggiamento all’uscita della Corte fiorentina: “Come tutte le divinità la Giustizia appare solo a chi crede”. Occorre allora conciliare fede e ragione e cercare di valutare il valore teologico del dogma della verginità del convincimento del giudice. La posizione ortodossa è quella che vuole che l’organo giudicante, sia uno o trino o più ampiamente composto (ferma restando la sostanza della unità del suo convincimento pur nella diversità delle nature umane di chi lo compone) arrivi immacolato in udienza e concepisca la sua convinzione sui fatti di causa solo dalla bocca purissima del Pubblico Ministero e da quella più rotonda dei difensori ovvero se la trattazione scritta, solo attraverso la virtuosa impollinazione dell’inchiostro degli atti difensivi. È una concezione bellissima che rappresenta l’apoteosi del difensore, che sente su di sé e sulle sue fragili spalle il peso del destino; dall’aggettivo che sceglie o dal tono stesso con cui enuncia la sua tesi può dipendere l’esito ultimo: dannazione o salvezza. Ma spesso la Giustizia odierna è meno casta di quella idealizzata da Calamandrei nei suoi anni; del resto allora il modello sociale di riferimento era Santa Maria Goretti (lo restò per molti anni tanto che fu proposta da Berlinguer come modello per le donne comuniste), mentre ora siamo passati a Lady Gaga. Non è detto che sia necessariamente un male. Fuori di metafora, anche solo trent’anni fa il numero di avvocati era dieci volte più basso di oggi e i reati erano ancora quelli del Decalogo di Mosè. Oggi l’ampliamento delle condotte criminose, dai reati ambientali a quelli tributari, ha fatto aumentare a dismisura il carico di lavoro dei giudici. Quando ho iniziato la professione il massimo della tecnologia erano i registratori e le cassette vhs; oggi minuscole chiavette usb condensano migliaia di intercettazioni telefoniche che trascritte occuperebbero stanze intere. È evidente che il Giudice non può farsi neppure un’idea del processo che decide senza aver avuto qualche esperienza di contatto con il materiale probatorio. A questo punto sarebbe molto più onesto prendere atto di questa evoluzione del costume giudiziario e ridefinire l’ambito della discussione orale. Invece di “dare per letta “la relazione introduttiva o ridurla a una asettica esposizione delle ragioni delle parti e quindi costringere in pochi minuti l’avvocato a dire tutto con il rischio di non dire niente e soprattutto di trascurare l’aspetto sul quale ci sono ancora margini di dubbio, sarebbe preferibile che il Giudice dichiarasse di aver raggiunto una convinzione di massima su alcuni punti e di indicare quelli sui quali le parti possano dare un contributo. Cadrebbe il mito dell’immacolata concezione delle sentenze, ma forse ne beneficerebbe il lavoro di tutti. Del resto quello che ho esposto è un’idea di Calamandrei; evidentemente anche negli anni suoi le verginità giudiziarie erano rare. Quell’arresto spettacolo che indigna i penalisti di Trapani di Valentina Stella Il Dubbio, 21 luglio 2020 Una emittente locale siciliana ha pubblicato qualche giorno fa le immagini dell’arresto - per una accusa di corruzione - di Giuseppe Pagoto, che proprio ieri ha consegnato la sua lettera di dimissioni da primo cittadino di Favignana. “Sebbene nel video non sia in manette - scrive il direttivo della Camera penale di Trapani - l’uomo è ritratto mentre esce dal palazzo comunale scortato dai finanzieri. Una emittente locale siciliana ha pubblicato qualche giorno fa le immagini dell’arresto - per una accusa di corruzione - di Giuseppe Pagoto, che proprio ieri ha consegnato la sua lettera di dimissioni da primo cittadino di Favignana. “Sebbene nel video non sia in manette - scrive il direttivo della Camera penale di Trapani - l’uomo è ritratto mentre esce dal palazzo comunale scortato dai finanzieri. Lo si vede mentre viene fatto accomodare sui sedili posteriori della Fiat Brava in stato di custodia”. Come raccontato più volte da queste pagine, non è di certo il primo episodio di questo genere, anzi ogni settimana in qualche trasmissione tv assistiamo alla ripetuta messa in onda dell’arresto di qualcuno. Ne abbiamo parlato proprio con il presidente dei penalisti trapanesi, l’avvocato Salvatore Alagna: “Il problema non è se una persona sia colpevole oppure no, ma il rispetto dell’indagato come persona. Anche colui che è accusato dei delitti più aberranti deve essere trattato con umanità, seconda norma”. Come ricordano, infatti, sulla loro pagina Facebook i penalisti di Trapani, esiste l’articolo 114 del cpp che vieta la pubblicazione dell’immagine delle persone privata della libertà personale: “Chi viene arrestato - prosegue Alagna - ha diritto per legge a non essere ripreso a meno che non presti il consenso. Si tratta di un momento particolare della vita di una persona: sebbene il sindaco non fosse ammanettato era tra due agenti di polizia giudiziaria che lo hanno posto comunque in uno stato di soggezione materiale e psicologica dal quale non ci si può sottrarre. Avere o no le manette fa poca differenza quando l’obiettivo è la tutela della dignità della persona”. E poi c’è un altro fattore da considerare, che è il difetto della maggior parte della stampa che si occupa di cronaca giudiziaria: “Sarebbe auspicabile che la stessa attenzione mediatica venisse riservata alla persona qualora risultasse poi innocente. Purtroppo a questo Paese giustizialista importa solo ciò che sostiene l’accusa. Essere destinatari di una ordinanza di custodia cautelare significa per molti già essere automaticamente colpevoli. Come penalisti crediamo fortemente che invece ognuno debba essere giudicato secondo le garanzie previste dall’articolo 111 della Costituzione”. Sarebbe altresì importante sensibilizzare i giornalisti su questi aspetti: “Il diritto di cronaca è sacrosanto - conclude Alagna - ma non bisogna alimentare la morbosità del pubblico; al contrario è necessario rispettare la cultura delle garanzie e dello Stato di diritto”. Alla revoca dei lavori di pubblica utilità non può seguire la sospensione condizionale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 20 luglio 2020 n. 21547. Il giudice dell’esecuzione, dopo aver disposto la revoca dei lavori di pubblica utilità e ripristinato la pena inflitta in origine in fase di cognizione, non può concedere la sospensione condizionale della pena. La Corte di cassazione, con la sentenza 21547, accoglie il ricorso della pubblica accusa, contro la decisione di far seguire alla revoca del lavoro di pubblica utilità il beneficio della sospensione condizionale del trattamento sanzionatorio, deciso in prima battuta, e fissato in 4 mesi di arresto e 1000 euro di ammenda. Per il Pm, come per la Suprema corte, è una scelta sbagliata. La Cassazione ricorda che il principio generale di intangibilità del giudicato impedisce, tendenzialmente, al giudice dell’esecuzione di cambiare le decisioni prese in sede di cognizione, che devono considerarsi definitive perché non più impugnabili in via ordinaria. Una regola che conosce poche ed espresse eccezioni, come l’abolizione del reato, la dichiarazione di incostituzionalità, il riconoscimento della continuazione ecc. E nessuna di queste ipotesi riguardava il caso esaminato. I giudici di legittimità ribadiscono che il procedimento di esecuzione non si può usare per ottenere, in via surrogatoria, provvedimenti che il giudice di cognizione avrebbe potuto adottare, se l’istanza arriva in tempo utile. Nello specifico il condannato aveva chiesto di essere ammesso, come pena sostitutiva, al lavoro di pubblica utilità. Un passo, ricorda la Cassazione, che comporta la tacita rinuncia al beneficio della sospensione condizionale pena, vista l’incompatibilità tra i due istituti Piemonte. Il Garante Mellano: “107 detenuti positivi al coronavirus” torinoggi.it, 21 luglio 2020 Sono stati 107 i detenuti risultati positivi al Covid-19 nelle 13 carceri del Piemonte, più di un terzo del dato complessivo nazionale (287). Lo scrive Bruno Mellano, garante piemontese dei detenuti. A Torino 78 positivi, a Saluzzo (Cuneo) 25, altri 4 nella casa circondariale di Alessandria don Soria. “Nell’ambito della comunità penitenziaria italiana - prosegue Mellano - si sono registrate, purtroppo, anche delle morti: sia fra i detenuti (2, escludendo i 13 decessi successivi alle rivolte del 7-8-9 marzo), sia tra gli agenti e gli altri operatori anche sanitari. In Piemonte nessun morto per fortuna, fra i detenuti e gli agenti e la gran parte dei casi è stata asintomatica o paucisintomatica. Ma si è dovuta registrare la morte del medico che da anni era attivo nel presidio sanitario dell’Asl Cn2 nel carcere di Alba: Dominique Musafiri (65 anni), medico di famiglia di Bra, morto all’ospedale San Lazzaro di Alba, dove è stato ricoverato per alcuni giorni in quanto colpito da Covid-19. Musafiri, originario di Lubumbashi, nel Katanga, dopo la laurea a Padova, era tornato nella Repubblica democratica del Congo, per esercitare la sua professione, collaborando anche con Amnesty International e organizzazioni per i diritti umani. Dal 2001 era tornato in Italia, aveva uno studio professionale ed era stato molto apprezzato nel suo lavoro anche in carcere”. Sardegna. Il Capo della Dap in visita agli istituti di Cagliari e Nuoro L’Unione Sarda, 21 luglio 2020 La Uil-Pa chiede rassicurazioni sull’arrivo di 100 detenuti al 41bis a Uta. Il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia - successore del dimissionario Francesco Basentini - annuncia l’imminente visita agli istituti della Sardegna. Nel dettaglio, visiterà gli istituti di Cagliari e Nuoro, insieme ad altri di tutta Italia. La Uil-Pa Polizia Penitenziaria per voce del segretario generale della Sardegna Michele Cireddu auspica che possa essere l’occasione per un suo incontro con le organizzazioni sindacali del settore. “Chiederemo un incontro per esplicitare le difficoltà che il personale di Polizia Penitenziaria è costretto ad affrontare. Intanto l’annosa mancata consegna dei repartini detentivi ospedalieri e la mancata attivazione dei posti di Polizia Penitenziaria nei principali aeroporti dell’Isola. Se davvero come è emerso dai mass media, l’arrivo nell’Istituto di Cagliari di ulteriori 100 detenuti appartenenti al circuito 41 bis è imminente, tali consegne sono ancor più di estrema importanza, si rischia altrimenti di dover “militarizzare” interi ospedali in caso di ricoveri esterni”, ha dichiarato Cireddu. “Per quanto riguarda invece le dinamiche all’interno degli Istituti chiederemo al nuovo Capo del Dipartimento di voler concretizzare quegli interventi annunciati per la Sardegna dal suo predecessore ma rimasti semplici promesse. Continuano infatti le aggressioni a danno del personale, mancano le dotazioni ed i presidi di sicurezza individuale, le strutture malgrado siano di recente costruzione sono già fatiscenti e presentano numerose anomalie e gli interventi di manutenzione sono solo un miraggio. Così come nonostante i numerosi ritrovamenti di sostanze stupefacenti e dei micro cellulari che vengono occultati nei luoghi più impensabili, non si interviene per dotare ogni Istituto di un distaccamento del reparto cinofili e per fornire gli strumenti di rilevamento dei cellulari”, fa sapere ancora il sindacalista. “Ancora nell’Istituto di Sassari non è stato assegnato un Comandante titolare così come a Oristano, Tempio, Isili, Is Arenas, Lanusei non è stato assegnato un Direttore in pianta stabile, malgrado in organico ci sia la possibilità di colmare tali lacune. Anche gli organici della Polizia Penitenziaria sono drammaticamente carenti, l’organico previsto è infatti pari a 1834 unità ma ne sono presenti in regione poco più di 1.300”, ha detto ancora Cireddu. “Auspichiamo quindi che il nuovo Capo del Dap voglia mettere la Sardegna al centro delle priorità di intervento, con la stessa solerzia con cui vengono inviati detenuti che nella penisola sono risultati ingestibili e soprattutto considerando che il presunto invio di ulteriori 100 detenuti al 41 bis creerà ulteriori criticità”, ha concluso. Trieste. Tragedia al Coroneo: “Mio figlio morto in cella, voglio la verità” Il Piccolo, 21 luglio 2020 Parla la madre di Nicola Buro: “L’ultima volta l’ho visto con un occhio nero. Mi disse che altri detenuti l’avevano picchiato”. “Voglio venga fatta chiarezza sulla morte di mio figlio e su cosa gli è successo in carcere nelle sue ultime settimane di vita”. Patrizia è una madre affranta dal dolore. Lo scorso venerdì pomeriggio una telefonata l’ha avvertita che il suo Nicola non c’era più, che era morto da solo, in una cella. Ma lei, affiancata dalla sorella dello stesso Nicola, non si rassegna al fatto che quella morte venga archiviata come un decesso per arresto cardiaco, e pretende la verità. “La gente è stufa di queste “morti nel sonno”, dichiara Patrizia: “Voglio sapere che cosa gli ha provocato quell’arresto cardiaco e, nel caso si sia trattato di un abuso di farmaci o altro, come abbia potuto procurarseli. So per certo che, per terapia, gli veniva somministrato il metadone, non soffriva di altre gravi malattie”. Nicola Buro, 38 anni, residente a San Giacomo, era in carcere da pochi mesi. La madre spiega che “per lui erano stati disposti i domiciliari, ma mio figlio, per futili motivi, era uscito dall’abitazione e per questo è stata disposta la misura del carcere”. Della sua morte si sa poco. È emerso solo che lo scorso venerdì pomeriggio, in regime di celle aperte, il giovane era stato chiamato per un incontro già stabilito da giorni. Il suo cognome era riecheggiato più volte lungo i corridoi, ma Nicola non si era palesato alla porta che delimita la sua sezione. A quel punto è scattato il controllo degli agenti della penitenziaria. Poi la triste scoperta. Invano i sanitari hanno tentato di rianimarlo. Ma c’è un fatto inquietante che emerge dai racconti della madre e che impone maggiore chiarezza sulla detenzione in carcere di quell’uomo dalla vita spericolata, che lottava contro la sua tossicodipendenza e viveva spesso di espedienti. “Lo scorso 4 luglio sono andata a trovarlo in carcere - racconta ancora Patrizia - e lui si è presentato al colloquio con un occhio nero, gonfio. Ci aveva spalmato sopra della crema, ma si capiva dal travaso di sangue attorno all’occhio e dal colore della tumefazione che “l’incidente” gli era successo qualche giorno prima”. Nicola, alla madre, quel giorno aveva raccontato che era stato “picchiato con calci e pugni da più persone, mi sembra di aver capito da altri detenuti. Aveva avvisato anche il suo avvocato di questo episodio e so che il legale si sta già muovendo perché venga fatta chiarezza sulla fine di mio figlio”. Durante il periodo passato in carcere, Buro ha anche scritto delle lettere alla madre, “e in tutte mi ribadiva che aveva paura - riferisce la donna - perché c’era della gente cattiva attorno a lui”. Circostanze, episodi che impongono alla madre di non mollare, e di pretendere trasparenza su quanto accaduto a Nicola. Il legale che ha difeso Buro nell’ultimo periodo, l’avvocato Leonardo Brizzi, per ora preferisce non rilasciare dichiarazioni, ma si riserva di farlo tra qualche giorno. Ferrara. Il Consiglio comunale sceglie l’ex direttore del carcere come Garante dei detenuti estense.com, 21 luglio 2020 Baraldi (Pd): “Perplessi da questa nomina, difficile garantire la neutralità”. I consiglieri per la prima volta a confronto dal vivo dopo il lockdown. Sarà Francesco Cacciola, ex direttore del carcere di Ferrara in pensione dalla fine del 2012, il nuovo garante dei detenuti votato dal consiglio comunale, al termine di una discussione che ha visto il Partito Democratico esprimere diverse perplessità in merito alla sua “neutralità”, proprio a causa del ruolo diametralmente opposto che Cacciola ha ricoperto nella casa circondariale. È stata questa la decisione più dibattuta durante l’ultima riunione del consiglio comunale, che si è svolta all’interno del palazzo municipale dopo il periodo in video-collegamento dettato dall’emergenza Coronavirus. Un passo verso la normalità che forse rasserena anche gli animi dei consiglieri comunali, senza particolari scintille tra maggioranza e opposizione che si ritrovano anche a votare insieme alcuni provvedimenti, come la proroga fino alla fine dell’anno del contratto di gestione alla società Farmacie Comunali (Afm) dell’omonimo servizio e il rinnovo della convenzione con altri comuni del Ferrarese per gestire la redazione locale del Sistema Informativo Regionale per il Turista (Situr). Il dibattito più acceso, come premesso, è quello relativo alla nomina del nuovo garante dei detenuti in carcere, dopo il termine dell’incarico di Stefania Carnevale. Proprio la relazione finale di Carnevale infatti segnala al consiglio comunale una serie di problemi relativi ai disagi dei detenuti e alle difficoltà di gestione all’interno della casa circondariale, e spinge diversi consiglieri di maggioranza e opposizione a una riflessione sul ruolo stesso del garante. Il leghista Ciriaco Minichiello citando anche la propria esperienza di avvocato afferma che “la figura del garante oggi ha troppe competenze, considerate le risorse a sua disposizione. L’aspetto economico è poco gratificante e si ritrova a svolgere un ruolo quasi di volontariato, mentre per poter davvero svolgere la sua funzione dovrebbe essere sul posto almeno due o tre volte alla settimana. Forse è anche per questo che abbiamo ricevuto solamente due candidature”. Concetti in parte sottolineati anche da Ilaria Baraldi (Pd), che spiega come la figura del garante (che in origine percepiva 6mila euro all’anno dal Comune e altrettanti dalla Provincia) sia stata gradualmente depotenziata “anche a causa delle modifiche e delle riforme all’interno dei vari enti pubblici”, fino alla situazione attuale che vede una retribuzione di circa 2mila euro all’anno. Ma la vera perplessità riguarda proprio la candidatura di Francesco Cacciola, che secondo Baraldi “difficilmente potrebbe ricoprire quel ruolo di neutralità del garante dei detenuti, visto che è stato direttore dello stesso carcere”. Una perplessità condivisa da Dario Maresca (Gente a Modo) che anche alla luce delle considerazioni di Minichiello propone di riaprire la procedura di selezione con un nuovo e più alto compenso economico per il garante, per favorire l’arrivo di altre candidature. Una proposta che viene tuttavia bocciata dal consiglio, che subito dopo procede con la scelta del garante: a Cacciola 12 voti da parte della maggioranza, mentre a Valentina Masieri cinque voti dall’opposizione. Confermata quindi la nomina per l’ex direttore del carcere, contrariamente a quanto accaduto in altri precedenti simili, come nel 2011 a Bologna quando la candidatura a garante dei detenuti dell’ex direttore del carcere Dozza, Nello Cesari, fallì proprio a causa del suo precedente ruolo e delle polemiche politiche sollevate dalle associazioni. Altra piccola polemica in un consiglio comunale tutto sommato pacato rispetto agli standard recenti è quella che vede protagonisti Davide Bertolasi (Pd) e l’assessore all’ambiente Alessandro Balboni (Fratelli d’Italia), con Bertolasi a chiedere il motivo per cui un’interpellanza relativa al canile comunale è rimasta senza risposta per oltre cinque mesi e l’assessore che replica parlando di episodi analoghi a parti invertite quando prima delle scorse elezioni occupava i banchi dell’opposizione. “Spero di non dover più rispondere a question time di questo tipo - afferma Balboni - che sono strumentali solo alle polemiche politiche”. E Bertolasi che replica: “È paradossale citare fatti della scorsa amministrazione per non rispondere. Farò un question time ogni volta che ci sarà una violazione dei diritti dei consiglieri”. Siracusa. Al carcere di Cavadonna la visita del Capo del Dap onlinesiracusa.it, 21 luglio 2020 Nei giorni scorsi l’istituto di Cavadonna ha ricevuto la visita del Capo del D.A.P. (dipartimento amministrazione penitenziaria) Bernardo Petralia, accompagnato da Cinzia Calandrino, dirigente generale del Prap Sicilia unitamente a Giuseppe Pannuti, direttore dell’Ufficio Risorse materiali e Contabilità, e la dirigente dell’Ufficio Personale e Formazione, Milena Marino. Presente tra le figure istituzionali anche il Garante dei detenuti del comune di Siracusa, Giovanni Villari. La visita, prima di un vasto programma che coinvolge molti istituti di pena, è stata anche occasione per visionare gli ambienti del penitenziario, e soprattutto i lavori effettuati nel blocco 50 interessato dalla rivolta di marzo scorso. I lavori di ristrutturazione del secondo piano, quello visitato, sono stati recentemente completati e a breve anche il primo sarà nuovamente fruibile. Rimarranno i lavori di manutenzione straordinaria al terzo piano, attualmente occupato e destinato alla sezione dei protetti. Sono stati visitati, con il compiacimento del capo del Dap, i luoghi di lavoro e di produzione all’interno dell’istituto, primo di tutti il biscottificio Dolci Evasioni che in realtà è un versatile laboratorio di produzioni alimentari assortite tutte rigorosamente biologiche e tipicamente siciliane. I detenuti lavoravano alle fasi della preparazione e del confezionamento di vasetti di pesto di basilico, coordinati da maestranze esperte e sotto la direzione dei responsabili della cooperativa Arcolaio presente all’interno dell’istituto da molti anni. Si è poi passati al laboratorio di tessitoria, con le macchine per produrre tessuto in cotone erano in piena funzione Anche in questo caso la visione dell’operato dei detenuti e della loro gestione ha generato soddisfazione negli ospiti ai quali sono state illustrate le fasi del processo di produzione. Questo laboratorio ha recentemente realizzato 15.000 mascherine in tessuto di cotone auto-prodotto. Dopo la rassegna dei laboratori, nella sala riunione della direzione il momento d’incontro e di confronto con tutti gli attori presenti: direttore, Aldo Tiralongo, il comandante e il vice comandante, il comandante nucleo traduzione il commissario coordinatore Elisa Buscema personale dell’area educativa, agenti e ispettori compresi quelli dell’unità cinofila che già all’ingresso in istituto avevano al seguito due esemplari di cani addestrati. Il commissario capo Giuseppe Colombo ha ufficialmente presenziato nel nuovo ruolo di comandante di reparto, subentrando al commissario Davide Militello che assume l’incarico di vice comandante. Bernardo Petralia si è distinto per il corretto e chiarissimo discorso introduttivo, nel corso del quale ha manifestato la sua intenzione a essere attento alla voce del corpo della polizia penitenziaria, da lungo tempo in difficoltà per problemi legati al drastico dimensionamento dell’organico. La profonda empatia, l’autorevolezza professionale unite alla disponibilità all’ascolto del capo del Dap hanno permesso un dialogo a più voci con numerosi agenti lodati per la dedizione al loro lavoro e la sincerità nell’esprimere le varie criticità. In più di un’occasione è stata inoltre ribadita, alla presenza del garante, una tra le più importanti finalità istituzionali del carcere, cioè quella della rieducazione del detenuto, a cui il contributo della polizia penitenziaria può risultare fondamentale. Il garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Siracusa, Giovanni Villari, nel corso del brevissimo colloquio personale con Petralia ha sinteticamente espresso due criticità significative che riguardano la situazione dei detenuti di Cavadonna, che emergono più di altre e richiedono provvedimenti urgenti: i ritardi nell’erogazione delle cure mediche e ospedaliere; la carenza assoluta di colloqui con il magistrato di sorveglianza preposto. Torino. Inchiesta per violenze sui detenuti, indagato il direttore di Irene Famà e Lodovico Poletto La Stampa, 21 luglio 2020 Avrebbe coperto i soprusi in cella di cui sono accusati ventuno agenti. “Noi siamo pronti a farci interrogare subito dai magistrati”. Domenico Minervini, il direttore del carcere Lorusso e Cutugno, non vuole andare oltre adesso che la questione delle violenze all’interno del penitenziario di via Pianezza è diventata più grossa e più grave. Non vuole dire di più ora che il suo nome è stato iscritto nel registro degli indagati assieme a quello del comandante del reparto di polizia penitenziaria che opera all’interno della struttura, Giovanni Battista Alberotanza. “Siamo pronti a spiegare tutto ciò che sappiamo. Ci mettiamo a disposizione della magistratura, nella quale abbiamo piena fiducia” insiste Minervini adesso che è tutto ufficiale, dopo mesi di chiacchiere di voci e di “si dice” dentro e fuori dal carcere. La questione delle violenze all’interno del Lorusso e Cotugno e che riguarderebbe in linea di massima i detenuti per reati a sfondo sessuale, si arricchisce di un altro capitolo. Che investe in pieno i vertici della struttura. Uno scandalo che venuto alla luce qualche mese fa quando la magistratura - nel corso di una indagine condotta dai Pm Francesco Saverio Pelosi ed Enrica Gabetta - ordinò l’arresto di sei agenti. Altri diciannove vennero indagati. I reati erano gravissimi: tortura, primo fra tutti. Tutto era iniziato con una segnalazione del Garante dei detenuti, Monica Gallo, che aveva raccolto testimonianze e voci che circolavano all’interno della struttura. L’inchiesta, condotta dal Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, facendo ricorso anche a numerose intercettazioni telefoniche, aveva preso il via dal racconto di un detenuto durante un colloquio. Un altro degli aspetti da chiarire, stando a quanto si apprende, sarebbe quello di una presunta fuga di notizie: sarebbe giunta la segnalazione che il comandante della polizia penitenziaria fosse sotto intercettazione. Nel corso dell’indagine erano scattate numerose perquisizioni durante le quali erano stati sequestrati i cellulari del personale penitenziario. Vittime predestinate di pestaggi, umiliazioni, violenze sarebbero stati i detenuti finiti dietro le sbarre per reati sessuali. A rileggere oggi le dichiarazioni rese i racconti appaiono agghiaccianti. C’era chi veniva prelevato nel cuore della notte e portato al primo piano per essere picchiato dagli agenti. E chi, invece, era costretto a subire umiliazioni di varia natura. Gli episodi contestati sarebbero avvenuti tra aprile 2017 e novembre 2018. Oltre alle aggressioni fisiche - calci, pugni, schiaffi - gli agenti indagati avrebbero utilizzato anche violenza psicologica. “Tu devi morire qui”, “Per quello che hai fatto ti ammazzerei. E invece devo tutelarti”. Al carcere di Torino sarebbe, inoltre, giunta la segnalazione che il comandante della Polizia penitenziaria fosse sotto intercettazione. Ora la svolta. Con il direttore Minervini indagato. Secondo la magistratura il responsabile della struttura poteva essere a conoscenza di ciò accadeva. Una tesi che Domenico Minervini respinge: “Io sono pronto a chiarire tutto. Voglio essere interrogato subito. Non ho nulla da nascondere”. Ma sulle violenze che portarono agli arresti di un anno fa, non si pronuncia. Torino. Botte ai detenuti, indagato il direttore del carcere di Massimiliano Nerozzi Corriere Torino, 21 luglio 2020 Avrebbero fatto finta di non sapere, o di non vedere, nonostante i racconti di alcuni detenuti e le relazioni dell’allora Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà, Monica Cristina Gallo: per questo, il direttore e il comandante degli agenti del carcere “Lorusso e Cutugno” sono indagati per favoreggiamento (entrambi) e omessa denuncia (solo il primo). Avrebbero insomma coperto gli atti di violenza e vessazione di cui sono accusati una ventina di agenti della Polizia penitenziaria, sei dei quali arrestati nell’ottobre dello scorso anno. Questa, almeno, è l’ipotesi della Procura. La svolta è arrivata grazie agli accertamenti del Nucleo investigativo di Torino della stessa polizia penitenziaria, che è riuscita a ricostruire la vicenda tra confidenze, sussurri, false piste e dicerie, che si aggiravano tra le mura del carcere già dall’ottobre 2018. Un’indagine complessa e complicata, in un ambiente molto difficile, sia per i detenuti che per chi, tra le celle, ci deve lavorare. L’inchiesta - coordinata dal pubblico ministero Francesco Pelosi - ha messo in fila gli episodi, almeno una decina, accaduti nel braccio C. C’è chi era costretto a ripetere in continuazione “sono un pezzo di m…”, chi veniva obbligato a spogliarsi e a subire in silenzio schiaffi, calci, pugni. E poi minacce, di continuo: “Tu adesso devi firmare un foglio, dove dici che sei un figlio di p…, altrimenti prendi il resto”. E ancora: “Per quello che hai fatto, tu qui ci devi morire. Ti renderemo la vita molto dura, te la faremo pagare, ti faremo passare la voglia di stare qui dentro”. Botte, insulti, perquisizioni a vanvera, devastazioni delle celle erano diventati una routine. Davanti alla quale - sempre secondo la ricostruzione degli uomini del Nucleo investigativo - il direttore Domenico Minervini e il capo degli agenti non avrebbero preso i dovuti provvedimenti. Il direttore - che ha nominato come difensore l’avvocato Michela Malerba - non avrebbe agito nonostante avesse ricevuto più di una segnalazione dal garante per i detenuti. E il comandante delle guardie - tutelato dall’avvocato Antonio Genovese - dopo essere stato informato di quanto accaduto, avrebbe aiutato i colleghi indagati. Tra le ipotesi d’accusa, anche quella di aver condotto un’indagine interna arrivata a incolpare però due detenuti. Per alcuni agenti, a suo tempo messi agli arresti domiciliari, è contestato anche il reato di tortura, modificato invece nei confronti di altri. Alcuni, invece, sono accusati di lesioni. Tutte le “persone offese” individuate dagli investigatori, sono detenute per reati a sfondo sessuale Non è un mistero per nessuno - spiegò un inquirente - che all’interno dei penitenziari reati come questi destino una certa ostilità: ma qui ci sarebbero stati “trattamenti inumani e degradanti per la dignità della persona detenuta”, come riassunto nell’avviso di fine indagini notificato ai due. Comportamenti che sarebbe stati “ricorrenti”: si mormorava che, alla sera, nel padiglione C, qualche divisa si dedicasse con regolarità alla cura dei detenuti. Vercelli. Revocati i fondi per ristrutturare il carcere infovercelli24.it, 21 luglio 2020 Flaibani (ex garante dei detenuti) e Manfredi all’attacco: “Convenzione mai firmata dal responsabile del progetto”. Sul sito istituzionale del Ministero di Giustizia è stata pubblicata una delibera della Cassa delle Ammende (l’ente deputato anche a finanziare interventi nelle carceri attingendo dai proventi delle multe giudiziarie) del 24 giugno scorso, con cui sono stati revocati i finanziamenti a sei istituti penitenziari italiani, fra cui due piemontesi, Vercelli e Verbania. In particolare, il finanziamento assegnato il 29 gennaio 2019 a Vercelli (pari a 132.498 euro) era finalizzato alla “ristrutturazione V Piano Blocco C Ordinario”. Nella premessa della delibera (firmata del Presidente della Cassa Ammende, l’ex magistrato Gherardo Colombo) è scritto testualmente che “pur trattandosi di progetti per i quali è stata manifestata l’attualità dell’interesse alla prosecuzione del progetto mediante l’intenzione di sottoscrivere la convenzione per la concessione del finanziamento, tuttavia tale convenzione non si è perfezionata in quanto mai firmata dal responsabile del progetto, nonostante ripetuti solleciti inoltrati agli Istituti Penitenziari da parte della Cassa delle Ammende”. Da quasi vent’anni Radicali Italiani (in particolare la radicale piemontese Iolanda Casigliani) cerca di portare all’attenzione dell’opinione pubblica l’esistenza e le funzioni della Cassa delle Ammende (il cui bilancio di previsione per il 2020 riporta una dotazione di oltre 108 milioni di euro), con l’obiettivo di utilizzare al meglio le sue ingenti risorse in un settore, quello delle carceri, che costituisce da sempre l’ultima ruota del carro, l’ultima posta di bilancio da finanziare da parte di tutti i governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi. È, quindi, ancor più sorprendente e francamente intollerabile vedere revocati finanziamenti così preziosi, soprattutto nel contesto attuale. Chiediamo al Provveditorato Regionale e alla Direzione dell’istituto di Vercelli di spiegare pubblicamente le cause che hanno determinato la perdita del finanziamento. Firenze. Salute in carcere, presentati i corsi per i detenuti di Solliciano e Gozzini controradio.it, 21 luglio 2020 L’assessore Vannucci: “Arriva in due strutture penitenziarie della città un progetto importante grazie alla sinergia tra Comune, Regione, Società Salute, Asl e al lavoro della Uisp”. Da settembre nel carcere di Sollicciano e nella Casa circondariale a custodia attenuata per tossicodipendenti Gozzini prenderanno il via i corsi di attività fisica adattata (Afa) per i detenuti. Il progetto sperimentale “Salute in carcere - Attività Fisica Adattata (Afa) in carcere presso Ncp Sollicciano e CC Gozzini di Firenze” è stato presentato a Palazzo Vecchio dall’assessore a Welfare e presidente della Società della salute di Firenze Andrea Vannucci, dall’assessore regionale a Diritto alla salute e Welfare Stefania Saccardi, dal direttore Società della Salute Marco Nerattini, dal direttore Salute carcere presidi penitenziari fiorentini Sandra Rogialli, dal direttore del Dipartimento Medicina fisica e riabilitazione Bruna Lombardi, dal direttore della Casa Circondariale Ncp Sollicciano Fabio Prestopino e dal presidente dell’Associazione UISP Firenze Marco Ceccantini. Il progetto affianca i percorsi di salute messi in atto dalla Regione Toscana, dall’Azienda Usl Toscana Centro, dalla Società della salute di Firenze e i programmi di sorveglianza sanitaria rivolti all’individuazione di eventuali fattori di rischio, con particolare riferimento alle malattie cardiovascolari, respiratorie, metaboliche e degenerative osteo-articolari. Tutto in un’ottica di ampliamento del concetto di salute in carcere e a sostegno di interventi innovativi di prevenzione, promozione della salute e riduzione delle disuguaglianze. “Quella che prende il via in due strutture penitenziarie della nostra città è un’iniziativa importante che mette a disposizione di detenute e detenuti la possibilità di fare attività fisica assieme a tecnici formati e professionalità di livello - ha detto l’assessore Vannucci. Un progetto che già abbiamo attivato in altri contesti, un’opportunità fondamentale per il benessere e la salute di tutti e risultato di una efficace sinergia tra le istituzioni, Comune, Regione, Società della Salute, Asl e che ha trovato in Uisp un interprete con grande esperienza sul campo in questo settore”. “Abbiamo accolto con favore e sostenuto questo progetto volto a introdurre la possibilità di svolgere attività fisica nelle strutture penitenziarie - ha fatto presente l’assessore regionale Saccardi - Quello del carcere è un ambito sul quale la Regione Toscana è impegnata su diversi fronti, ora appunto anche su quello dell’attività fisica che sappiamo bene riveste una funzione preventiva importante. La Regione peraltro ha ancora la responsabilità delle politiche della salute all’interno del carcere, a maggior ragione risulta cruciale il ruolo di questo progetto nell’ottica di prevenire problematiche sanitarie”. Sandra Rogialli, direttore Salute carcere presidi penitenziari fiorentini, ha sottolineato “l’importanza di un progetto come questo all’interno del carcere” e la dottoressa Lombardi ha spiegato: “in termini di salute l’attività fisica è il farmaco più a basso costo, fondamentale quindi promuoverlo a tutti i livelli”. “È un progetto in cui crediamo moltissimo e sul quale siamo da tempo impegnati come Società della Salute - ha commentato Nerattini. Riattivare stili di vita positivi all’interno del carcere porta indubbiamente benefici e risultati e di questo non possiamo che essere davvero soddisfatti”. “Il progetto Afa carcere vedrà coinvolti sei gruppi di detenuti a Sollicciano e al Gozzini, che avranno quindi risposta ai loro problemi di sedentarietà e al tempo stesso di socializzazione attraverso il lavoro della Uisp - ha spiegato Ceccantini. Stiamo vivendo un momento difficile ma non ci siamo tirati indietro come associazione nell’accettare questa nuova sfida, credendo che alla certezza della pena si debbano aggiungere occasioni di riscatto per i detenuti al fine di consentire loro di vivere il carcere in maniera “positiva” e di preparare il rientro nella società civile e il reinserimento come persone”. A partire da settembre saranno attivati da 6 a 10 corsi completamente gratuiti per i detenuti, che per motivi di sicurezza, saranno divisi in gruppi numericamente limitati: saranno formati 5 gruppi a Sollicciano e un gruppo all’istituto Gozzini. Le sedute di esercizio dureranno un’ora e si svolgeranno due volte a settimana. Durante i corsi, che avrebbero dovuto iniziare a febbraio scorso ma sono stati rinviati a causa del lockdown, saranno rispettate le misure per il contenimento del contagio del Covid-19. I corsi di attività fisica adattata, organizzati dalla Società della Salute di Firenze e finanziati con il contributo della Regione Toscana, saranno svolti da istruttori della Uisp Firenze. La Uisp metterà a disposizione istruttori Afa in possesso dei requisiti richiesti dalla Regione Toscana per tale attività e debitamente formati rispetto alle necessità dell’ambiente carcerario. Imperia. Gli studenti-detenuti concludono studi grazie alle nuove tecnologie imperiapost.it, 21 luglio 2020 “Percorso di riscatto sociale necessario per loro riabilitazione in società”. La connessione on-line ha consentito agli studenti di presentare i loro lavori ai Docenti e alla Dirigente Scolastica, Prof. ssa Rosaria Scotti, e di interloquire utilizzando il video. Anche gli studenti ristretti di Imperia e Sanremo concludono il loro percorso didattico utilizzando le nuove tecnologie. Nonostante le difficoltà dovute all’emergenza Covid e al lungo lockdown che ha interrotto le lezioni in presenza, gli studenti delle sezioni carcerarie di Imperia e Sanremo hanno potuto continuare a studiare grazie alla collaborazione tra le due aree educative delle Case Circondariali di Imperia e Sanremo-Bussana e il C.P.I.A. Provincia di Imperia. Da un’iniziale consegna di materiale didattico in formato cartaceo si è passati all’utilizzo di piattaforme informatiche che hanno consentito l’erogazione di lezioni on line, con la funzione anche di supporto psicologico, e la presentazione dell’elaborato finale da parte degli studenti della secondaria di primo grado, giunti al termine del loro percorso. Si ringraziano il Direttore della Casa Circondariale di Imperia e la Direttrice della Casa Circondariale di Sanremo-Bussana e tutto il personale che ha contribuito alla realizzazione di quanto descritto. In particolare va un ringraziamento alle Aree Educative che in un momento grave e difficile hanno collaborato efficacemente con la scuola. Grazie anche al personale di Polizia Penitenziaria che ha collaborato all’attivazione della piattaforma per il collegamento on-line, che ha permesso a studenti e Professori di rivedersi attraverso un video dopo mesi di silenzio, ricreando l’emozione di entrare in contatto con la classe. Grazie infine alla competenza e alla pazienza dei Bibliotecari delle Case Circondariali che hanno supportato in presenza gli studenti, fornendo loro sostegno pratico e psicologico, oltre all’aiuto concreto nello studio. “Da soli noi Docenti avremmo potuto fare poco - scrivono i Docenti del C.P.I.A. Provincia di Imperia della Sezione Carceraria -Invece con la collaborazione del personale della Casa Circondariale siamo riusciti a superare le difficoltà iniziali derivanti dal dover lavorare a distanza in una situazione emergenziale, continuando a proporre attività formative e così consentendo agli studenti della scuola secondaria di primo grado di concludere con successo il percorso intrapreso. Solo la condivisione del problema, il sentire comune e il lavoro di gruppo consentono di andare oltre il limite individuale, soprattutto in situazioni di emergenza. Auspichiamo che l’avvio di certe buone pratiche di collaborazione non venga interrotto con la fine dell’emergenza, ma anzi implementato con l’inizio del nuovo anno scolastico, perché la scuola sia sempre all’altezza della situazione e rappresenti un faro e una guida per le migliori prassi di educazione, accoglienza, condivisione e sviluppo interpersonale, in particolar modo in carcere dove è anche attraverso la scuola che le persone detenute possono realizzare quel percorso di riscatto sociale necessario per la loro riabilitazione in società”. Livorno. Associazione culturale “adotta” l’Isola di Gorgona gazzettadilivorno.it, 21 luglio 2020 La proposta dell’adozione culturale dell’Isola è arrivata dopo una collaborazione, attiva da diversi mesi, con l’Istituto penitenziario. “Durante il lockdown - spiega la presidente dell’associazione Giulia Morello - abbiamo deciso di lanciare gratuitamente il progetto Per un’ora d’autore, per mandare un messaggio di vicinanza ai detenuti in un momento così difficile per tutto il Paese. I detenuti hanno così potuto collegarsi e confrontarsi settimanalmente con autori e cantautori, tra i quali: Francesco Baccini, Giulio Cavalli, Erica Mou, Salvatore Striano, Darwin Pastorin, Davide Mazzocco. Dopo diversi mesi di collaborazione attiva, abbiamo proposto alla Direzione dell’Istituto Penitenziario di poter adottare culturalmente l’Isola di Gorgona, così da continuare a dare il nostro contributo a quella che riteniamo l’Isola dei Diritti Umani attraverso il nostro linguaggio: l’arte e la cultura”. La Casa circondariale di Livorno e Gorgona è tra i primi firmatari del Manifesto per la Cultura Bene Comune e Sostenibile promosso da Dire Fare Cambiare, ad oggi firmato da 66 organizzazioni provenienti dal mondo della cultura, del sociale e dell’ambiente e da molti artisti tra cui Ambra Angiolini, Flavio Insinna, l’Orchestra di Piazza Vittorio, Paolo Crepet, Paola Minaccioni, Corrado Guzzanti, Claudia Gerini, Maya Sansa, Pino Strabioli, Dolcenera, Francesco Baccini, Sabrina Impacciatore, Alessandro Haber e molti/e altri/e. “Dopo aver conosciuto l’Associazione Chiave di Svolta con il suo progetto principale Dire Fare Cambiare e aver sottoscritto il Manifesto per la cultura come bene sostenibile e condivisibile - dichiara Carlo Mazzerbo, Direttore dell’Istituto Penitenziario di Livorno e Gorgona - abbiamo avvertito sempre più concretamente l’esigenza di collaborare fattivamente per la realizzazione di progetti che fossero in grado di produrre “cultura” a 360 gradi all’interno del contesto penitenziario. Da qui l’idea del progetto “Per un’ora d’autore” avviato durante il periodo di sospensione delle attività trattamentali all’interno dei nostri istituti a causa del Covid e che ha consentito ai detenuti di avere sempre una finestra aperta sul mondo della cultura. Adesso l’ulteriore passo in avanti è quello di sostenere l’adozione culturale dell’isola di Gorgona, sezione distaccata di Livorno, da parte dell’Associazione Dire Fare Cambiare affinché quella che è una realtà unica nel suo genere, si trasformi a tutti gli effetti in un modello all’interno del quale i detenuti possano trovare uno spazio fisico e mentale per vivere e produrre cultura nel rispetto dei loro diritti e in sinergia con l’ambiente che li circonda”. Napoli. “Il Colloquio”, al Teatro Festival va in scena il dramma delle mogli dei detenuti progettoitalianews.net, 21 luglio 2020 L’edizione 2020 del Napoli Teatro Festival ha messo in scena, con grande successo di pubblico e di critica, “Il Colloquio”, che il 12 luglio, nell’incantevole scenario del giardino romantico di Palazzo Reale, ha raccontato il dramma del carcere, scegliendo un punto di vista originale e coraggioso. Il colloquio accoglie e rilancia il punto di vista dei parenti dei detenuti, racconta il giovane regista Eduardo Di Pietro: “L’idea dello spettacolo prende le mosse da un fatto di cronaca di cui sono venuto a conoscenza qualche tempo fa grazie ad un documentario di Gaetano Di Vaio e cioè il sistema di accesso al carcere di Poggioreale che fino a qualche anno fa richiedeva un grande sforzo un grande sacrificio da parte dei parenti dei detenuti, quasi sempre donne, che per poter accedere al colloquio settimanale erano costrette molte ore prima a fare la fila all’esterno del carcere per poter poi pian piano entrare, esposte alle intemperie e senza alcun tipo di tutela, in un contesto dove spesso si verificavano tafferugli dove la tensione era forte la sofferenza era tangibile”. Sulla scena, tre attori interpretano altrettante mogli dei detenuti del carcere di Poggioreale, assurto ad emblema delle carceri di tutto il mondo. Assistiamo quindi alle tante piccole e grandi difficoltà che queste signore devono affrontare quotidianamente, dai farraginosi e tragicomici protocolli per introdurre oggetti da recapitare all’interno, al dolore per l’insensibilità con cui talvolta le istituzioni ostacolano la comunicazione tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’. La scelta di far interpretare dei ruoli femminili a Renato Bisogni, Alessandro Errico e Marco Montecatino, risponde all’esigenza di sottolineare quanto la vita di queste donne battagliere venga in vari modi condizionata e assorbita dalla condizione dei loro parenti in cella, e quanto la dura battaglia per riuscire a conservare legami umani autentici finisca per condizionare ogni ambito della loro quotidianità, fino a modificarle nella carne e nello spirito, in un gioco di specchi e di rimandi in cui mentre la vita cerca di entrare nelle celle, è piuttosto la dimensione carceraria a contaminare le esistenze monche delle famiglie separate dai propri cari. “Il colloquio”, è prodotto dal Teatro Bellini e dalla Fondazione teatro di Napoli. L’apporto femminile allo spettacolo non manca, grazie anche all’aiuto regia di Cecilia Lupoli e all’organizzazione di Martina Di Leva. Roma. Santo Stefano, appello per il carcere che ospitò Pertini: “Sta cadendo a pezzi” leggo.it, 21 luglio 2020 Il carcere dell’isola di Santo Stefano rischia di crollare. A lanciare l’allarme è Salvatore Schiano di Colella, 19 anni di studi alle spalle, unica voce in grado di illustrare ai visitatori la storia del carcere borbonico, patrimonio nazionale dal 2008 e storico-artistico dal 2013. “Il carcere di Santo Stefano è stato chiuso nel 1965. In 50 anni sono stati fatti solo due interventi: uno di messa in sicurezza dell’ingresso e uno della parte centrale. Ma si tratta di interventi scollegati e non funzionali, il che equivale a dire che non è stato fatto nulla”. Il carcere dove per decisione del regime fascista fu incarcerato Sandro Pertini, si trova in una piccola parte dell’isola, l’unica in mano al demanio. I restanti tre quarti sono di proprietà di privati che tentano invano da anni di venderla per circa 20 milioni. Anche perché è sottoposta a vari vincoli: non arriva neanche l’acqua. Avrebbe potuto salvarla lo Stato, ma non lo ha mai fatto. “Il degrado? Innanzitutto i turisti non possono visitare l’interno del carcere ma sono costretti a guardarlo dall’esterno perché da un momento all’altro potrebbe crollare. L’isola, poi, è in mare aperto e inutilizzabile turisticamente: si può visitare solo con il mare calmo. Dopo circa 200 scalini non totalmente sicuri da superare - che mettono a prova molti visitatori - quello che appare è un abbandono totale. Le abitazioni dove c’era il direttore del carcere o i non carcerati sono in condizioni di rovina e difficile recupero. Paradossalmente la parte che ha retto meglio al passare del tempo è quella più antica, del ‘700. Le pertinenze e le officine tecniche o degli agenti di custodia hanno subito i danni maggiori: cadono letteralmente a pezzi”. Ma c’è una speranza. Pare che la voce sia arrivata al Ministro della Cultura Franceschini e che nei prossimi giorni si terrà un tavolo tecnico per discutere della possibilità di salvare il carcere di Santo Stefano tramite fondi europei. “Ma - conclude Salvatore - occorre un progetto definitivo da parte dello Stato di recupero. Non si può pensare all’isola senza pensare al carcere né al carcere senza pensare all’isola. Servirebbero 35-40 milioni di euro. Ma si salverebbe un pezzo di storia italiana”. La lotta di Genova non finisce di Lorenzo Guadagnucci* Il Manifesto, 21 luglio 2020 Al G8 del luglio 2001 la polizia tornò a sparare in piazza, la tortura fu praticata su larga scala, le garanzie costituzionali furono sospese. Ma quel patrimonio di lotte non si dimentica. E continua. “Lavora- consuma-crepa”, quello slogan dei movimenti, beffardo, svela che in realtà sta crepando un modello di società. La storia non è finita, ma si deve rompere la congiura del silenzio. In questo smemorato e superficiale paese, il ricordo - la lezione - del G8 di Genova del 2001 non fa parte del discorso pubblico. Non se ne parla, non se ne discute. Eppure, nella calda estate di 19 anni fa si consumò un’esperienza politica dalle molte facce, che dice ancora molto, moltissimo del nostro presente e del nostro futuro. Nel luglio 2001 fu interrotta sul nascere un’esperienza nuova, originale, promettente: un movimento di movimenti che criticava con competenza e su scala globale il modello neoliberale. Era la prima, importante critica alla globalizzazione economica dilagante. Pur di stroncare quell’esperienza che cresceva fra le persone e attraversava le frontiere, fu accantonato lo stato di diritto. A Genova le forze di polizia tornarono a sparare in piazza e un carabiniere uccise un ragazzo disarmato, Carlo Giuliani; la tortura fu praticata su larga scala (leggi la sentenza della Corte di Strasburgo sulle torture alla Diaz) e per più giorni; le garanzie costituzionali e l’habeas corpus furono sospesi. Fu un’apparente vittoria dei poteri costituiti, ma in realtà una caporetto della politica istituzionale, un drammatico punto di caduta delle democrazie occidentali, che in Italia come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti non ascoltarono le critiche e anzi le criminalizzarono, prima di annegarle nel sangue. Stiamo ancora pagando quel tragico errore. Il collasso climatico in corso, le crescenti diseguaglianze sociali, lo svuotamento delle democrazie e da ultimo l’esplosione della pandemia da coronavirus - effetto diretto dell’attacco agli ecosistemi e alla dignità della vita animale - dimostrano quanto abbiamo bisogno di un radicale cambio di rotta. Di pensieri nuovi, di modelli sociali diversi, fuori dall’ottuso perimetro disegnato dall’ideologia neoliberale con le sue consunte parole d’ordine: crescita, mercato, deregulation, meritocrazia, traducibili nel beffardo e amaro controslogan “lavora-consuma-crepa”. Stiamo davvero crepando. Crepano gli “scarti” della storia, i profughi di guerra e i rifugiati ambientali, crepano gli esclusi dal banchetto allestito dai finanzieri e dai tecnocrati del neoliberismo tuttora dominante, crepano anche gli sfortunati - perfino nel primo mondo - colti dal contagio e poco o mal curati da sistemi sanitari svuotati e privatizzati. In realtà sta crepando un modello di società, e tutti o quasi tutti lo sappiamo, ma è in atto un tentativo di rianimazione. I poteri forti, cioè i poteri reali, non intendono cedere alcunché: vogliono che tutto continui come sempre e che ogni crisi sia superata. Anche al prezzo di contraddire i propri dogmi: salvando le banche private con fiumi di denaro pubblico nel 2008, eliminando vincoli di bilancio e ogni altro impaccio al tempo della pandemia, pur di ricominciare come prima più di prima, quindi più consumi, più viaggi, più crescita, più disuguaglianze, più scarti della storia e al diavolo il clima, i virus, la cura della vita sul pianeta. Destra e (ex) sinistra sul punto sono concordi. Perciò non si parla, non si discute, non si ricorda il G8 di Genova. Perché in quel tempo, a cavallo del millennio, il modello neoliberale fu messo finalmente a nudo e milioni di persone, attraverso i continenti, scesero in piazza per dire che un altro mondo era possibile. Cominciarono anche a praticarlo, a sperimentarlo, quel mondo, e a proporre soluzioni concrete, perché non erano - non eravamo - degli ingenui sognatori, e tanto meno degli sciocchi teppisti, come si tentò di far intendere. A Genova nel 2001 per giorni nei seminari e negli incontri pubblici si parlò della crisi del debito pubblico e dei possibili rimedi, di una tassa sulle speculazioni finanziarie, dello strapotere di una “troika” al tempo sconosciuta (Banca mondiale - Fondo monetario internazionale - Organizzazione mondiale per il commercio), di sovranità alimentare e agricoltura contadina, di diritto d’espatrio e di migrazioni, di guerre incombenti, dell’acqua come bene comune e di esclusione dei brevetti dai farmaci essenziali per affrontare le malattie epidemiche. Questo patrimonio di esperienze e di idee è ancora a disposizione. Nuovi movimenti potranno - dovranno - farne tesoro, rompendo la congiura del silenzio che le classi dirigenti stanno calando, più ottuse e violente che mai, sul pensiero divergente. La storia non è finita, tutto deve cambiare e quindi tutto dobbiamo ricordare, anche come è andata a finire: con le democrazie che mettono da parte costituzioni e libertà civili. Il resto, cioè tutto, è lotta politica da condurre sul piano delle idee e facendo tesoro di quanto imparato in questi anni: la forza delle reti sociali, la creatività dei movimenti, la generosità delle persone. La memoria, diceva uno slogan in voga negli anni seguenti il G8 genovese, è un ingranaggio collettivo. Oggi possiamo aggiungere: e una risorsa preziosa. *Comitato Verità e Giustizia per Genova Parlamento “coeso” sulle missioni neocoloniali di Manlio Dinucci Il Manifesto, 21 luglio 2020 Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd) ha espresso grande soddisfazione per la votazione “coesa” del parlamento sulle missioni internazionali. Salvo qualche dissenso sul sostegno alla Guardia costiera di Tripoli, maggioranza e opposizione hanno approvato in modo compatto, con nessun voto contrario e pochi astenuti, 40 missioni militari italiane in Europa, Africa, Medio Oriente e Asia. Sono state prorogate le principali “missioni di pace” in corso da decenni sulla scia delle guerre Usa/Nato (cui ha partecipato l’Italia) nei Balcani, in Afghanistan e in Libia, e di quella israeliana in Libano facente parte della stessa strategia. A queste ne sono state aggiunte alcune nuove: l’Operazione militare dell’Unione europea nel Mediterraneo, formalmente per “prevenire il traffico di armi in Libia”; la Missione dell’Unione europea di “appoggio all’apparato di sicurezza in Iraq”; la Missione Nato di potenziamento del sostegno a paesi situati sul Fianco Sud dell’Alleanza. Viene accresciuto fortemente l’impegno militare italiano nell’Africa subsahariana. Forze speciali italiane partecipano alla Task Force Takuba, schierata in Mali sotto comando francese. Essa opera anche in Niger, Ciad e Burkina Faso, nell’ambito dell’operazione Barkhane in cui sono impegnati 4.500 militari francesi, con blindati e bombardieri, ufficialmente solo contro le milizie jihadiste. In Mali l’Italia partecipa anche alla Missione dell’Unione Europea Eutm, che fornisce addestramento militare e “consulenza” alle forze armate di questo e altri paesi limitrofi. In Niger l’Italia ha una propria missione bilaterale di supporto alle forze armate e, allo stesso tempo, partecipa alla missione dell’Unione europea Eucap Sahel Niger, in un’area geografica che comprende anche Nigeria, Mali, Mauritania, Chad, Burkina Faso e Benin. Il Parlamento italiano ha inoltre approvato l’impiego di “un dispositivo aeronavale nazionale per attività di presenza, sorveglianza e sicurezza nel Golfo di Guinea”. Scopo dichiarato è “tutelare in quest’area gli interessi strategici nazionali (leggi quelli dell’Eni), supportando il naviglio mercantile nazionale in transito”. Non a caso le aree africane, in cui si concentrano le “missioni di pace”, sono le più ricche di materie prime strategiche - petrolio, gas naturale, uranio, coltan, oro, diamanti, manganese, fosfati e altre - sfruttate da multinazionali statunitensi ed europee. Il loro oligopolio è però ora messo a rischio dalla crescente presenza economica cinese. Non riuscendo a contrastarla solo con mezzi economici, e vedendo allo stesso tempo diminuire la propria influenza all’interno dei paesi africani, gli Stati uniti e le potenze europee ricorrono alla vecchia ma ancora efficace strategia coloniale: garantire i propri interessi economici con mezzi militari, compreso il sostegno a élite locali che basano il loro potere sulle forze armate. Il contrasto alle milizie jihadiste, motivazione ufficiale di operazioni come quella della Task Force Takuba, è la cortina fumogena dietro cui si nascondono i veri scopi strategici. Il Governo italiano dichiara che le missioni internazionali servono a “garantire la pace e la sicurezza di queste zone, per la protezione e la tutela delle popolazioni”. In realtà gli interventi militari espongono le popolazioni a ulteriori rischi e, rafforzando i meccanismi di sfruttamento, aggravano il loro impoverimento, con un conseguente aumento dei flussi migratori verso l’Europa. Per mantenere migliaia di uomini e mezzi impegnati nelle missioni militari, l’Italia spende direttamente in un anno oltre un miliardo di euro, forniti (con denaro pubblico) non solo dal ministero della Difesa, ma anche da quelli dell’Interno, dell’Economia e Finanze, e dalla Presidenza del Consiglio. Tale somma è però solo la punta dell’iceberg della crescente spesa militare (oltre 25 miliardi l’anno), dovuta all’adeguamento delle intere forze armate a tale strategia. Approvata dal Parlamento con unanime consenso bipartisan. La parola “negra” non è un’offesa? di Dacia Maraini Corriere della Sera, 21 luglio 2020 Si definisce una persona per il mestiere che fa, per le cose che dice e da come agisce, soprattutto se si tratta di un politico. Chiedo scusa a nome dei tanti italiani che sono contro ogni discriminazione, un saluto solidale a Cécile Kyenge. Il tribunale di Macerata assolve il vicesindaco di Civitanova, Fausto Troiano dall’accusa di avere usato la parola “negra” nei confronti della ex deputata Cécile Kyenge. Secondo la difesa la definizione negra non sarebbe una offesa bensì una semplice constatazione. Ma le parole sono pietre, come diceva Carlo Levi. Altrimenti non si spiegherebbe come mai in tutto il mondo al posto di negro oggi si usi la parola “di colore”. Per la semplice ragione che la parola negro per secoli si è accompagnata a una idea di inferiorità sociale, accompagnata da disprezzo e disistima. “Sporco negro” infatti è l’offesa più comune. Le parole hanno una storia, un corpo, una vita politica e culturale di cui non si può non tenere conto. Non a caso si è deciso, con l’avvento della democrazia, di sostituire, tanto per fare un esempio, la parola “serva” con collaboratrice domestica. Certamente il cambio non elimina la servitù, ma fa capire che il rapporto padrone-servo come era inteso in tempi di feudalesimo, è ormai socialmente inammissibile oltre che vetusto e inattuale. Il pensiero che si nasconde dietro una parola è sempre significativo e comprende l’uso che se ne è fatto nella storia. Anche la parola puttana per esempio, si potrebbe dire che rappresenti una professione, ma guarda caso viene usata ogni volta che si vuole insultare una donna. Per cui una prostituta preferisce chiamarsi “escort” o “lavoratrice del sesso”, per sfuggire alla pesantezza moralistica della parola puttana. Per quanto riguarda Cécile Kyenge quanti si sono rivoltati quando Roberto Calderoli l’ha paragonata pubblicante a un orango? E quanti si sono indignati quando il consigliere circoscrizionale di Trento, Paolo Serafini ha scritto su Facebook “che Cécile Kyenge se ne torni nella giungla dalla quale è uscita”? Che ci siano dei razzisti ostinati lo sappiamo, ma che tanti italiani non prendano le distanze da questi tristi individui, è grave. A parte il fatto che non si capisce perché si debba definire una persona dal suo aspetto fisico. È come chiamare pubblicamente un deputato lo zoppo, il sordo, il gobbo, eccetera. Lo può fare un ignorante al bar, ma non un rappresentante pubblico. Si definisce una persona per il mestiere che fa, per le cose che dice e da come agisce, soprattutto se si tratta di un politico. Chiedo scusa a nome dei tanti italiani che sono contro ogni discriminazione, un saluto solidale a Cécile Kyenge. Egitto. Il coronavirus fa strage in carcere, Al Sisi sotto accusa di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 21 luglio 2020 Il rapporto dell’Ong “Human Right Watch”. “Le autorità egiziane dovrebbero adottare misure immediate per fornire ai detenuti adeguate cure mediche e misure per contenere l’epidemia di Covid-19”. È il commento di Joe Stork, vicedirettore per il Medio Oriente e Nord Africa per l’organizzazione umanitaria internazionale Human Rights Watch, dopo che ieri è stato pubblicato un rapporto relativo alla diffusione dell’epidemia di Covid- 19 all’interno degli istituti penitenziari dell’Egitto. Il quadro dipinto dallo studio è allarmante, nel periodo preso in considerazione che si ferma al 15 luglio è stata infatti registrata la morte di 14 detenuti proprio inseguito alle complicanze derivate dall’infezione da coronavirus. Hrw ha basato la sua denuncia su resoconti di testimoni, lettere trapelate da almeno 10 carceri e rapporti rilasciati da gruppi locali impegnati nella difesa dei diritti umani. Secondo l’organizzazione umanitaria “anche se decine di prigionieri e detenuti, come minimo, avevano mostrato sintomi Covid-19 da lievi a gravi, le carceri non hanno provveduto a cure sufficienti e praticamente non è stato predisposto nessun accesso ai test per il virus o lo screening dei sintomi”. Alla mancanza di misure di tracciamento dei contatti e procedure per isolare i detenuti che presentano sintomi, si aggiunge il fatto che in alcuni casi (si parla di 3 carceri) le guardie si sono rifiutate di consentire ai detenuti di procurarsi maschere. Inoltre esiste una palese difficoltà nel reperire informazioni verificate visto che in Egitto la situazione delle carceri, compresa quella sanitaria, è sottoposta ad un ferreo controllo del governo che difficilmente si distingue per un atteggiamento trasparente. Nonostante a febbraio l’Egitto abbia liberato 13mila prigionieri per decongestionare il sovraffollamento dei centri di detenzione, la misura sembra essere stata insufficiente. Ad essere rilasciati sono stati i detenuti accusati di reati comuni mentre i politici e prigionieri per crimini di opinione continuano a riempire le celle in maniera significativa. Lo dimostra la vicenda del giornalista Mohamed Monir morto il 13 luglio per aver contratto il Covid-19. In realtà era stato rilasciato il giorno dopo essere stato arrestato per la sua apparizione sugli schermi di Al Jazira. La rete è stata bandita dal presidente egiziano al- Sisi. La morte di Monir assume contorni inquietanti; il 65enne soffriva di diabete, ipertensione e gravi problemi cardiaci, ma a causa del divieto delle visite da parte di parenti e amici, promulgato dal Ministero dell’Interno egiziano, la sua condizione è rimasta per almeno un mese sconosciuta all’opinione pubblica. Stati Uniti. Il coronavirus ha causato 39 morti nelle prigioni della California nessunotocchicaino.it, 21 luglio 2020 Un articolo del San Francisco Examiner critica il governatore Gavin Newsom per il poco che sta facendo per affrontare l’epidemia di Covid-19 nelle carceri dello stato. L’articolo ricorsa le parole con cui Newsom, nel marzo 2019 aveva firmato un ordine esecutivo che metteva in moratoria le esecuzioni nello stato: “Le condanne a morte sono applicate in modo diseguale e ingiusto a persone di colore, persone con disabilità mentali e persone che non possono permettersi costose rappresentanze legali. Fin che dura il mio mandato, non autorizzerò nessuna esecuzione” (vedi NtC 12/03/2019). Ma, scrive il giornale, nel mezzo di una pandemia globale, la detenzione è diventata una condanna a morte crudele e applicata in modo casuale Dal 17 luglio nelle carceri della California sono già morte 39 persone. Per fare un confronto, tra il 1978 e il 2006 nel braccio della morte dello stato sono state compiute 13 esecuzioni. La California ha il sistema carcerario più popoloso del paese: 240.000 persone sono rinchiuse nelle carceri statali, locali, o nei centri di detenzione per immigrati. È confermato che i casi di positività al Coronavirus sono almeno 6.000, cifra che nella realtà è probabilmente molto più alta, visto il basso numero di tamponi effettuati. A San Quintino, dove tra l’altro è ospitato anche il braccio della morte, i detenuti positivi sono oltre 1.100, e 12 le morti accertate. La percentuale di positivi in carcere è 125 volte più alta rispetto alla popolazione “fuori”. Da mesi, le associazioni per i diritti umani stanno chiedendo al governatore Newsom di ridurre drasticamente la popolazione carceraria della California. Ma le scarcerazioni sono state troppo poche. Dopo 6 mesi di pandemia, il sistema carcerario opera ancora al 118% della sua capacità. Il 10 l’Amministrazione Penitenziaria ha annunciato che avrebbe scarcerato 8.000 persone dalle carceri più colpite da Covid-19. Tuttavia, tali scarcerazioni rappresentano meno del 5% della popolazione carceraria dello stato, molto al di sotto delle riduzioni raccomandate da Amend, un gruppo di consulenti sanitari per il sistema carcerario, e i requisiti fissati dall’Amministrazione per le scarcerazioni sono troppo severi, ed escludono troppo persone. Tali gesti superficiali non possono rallentare un virus pandemico. Il governatore Newsom e l’Amministrazione Penitenziaria devono iniziare scarcerazioni di massa, senza precedenti, per proteggere coloro che possono ancora essere protetti, e porre fine a questa nuova crudele pena di morte. Agire in ritardo sarà comunque sempre meglio che non agire per niente, conclude l’articolo. Brasile. Nelle carceri il Covid corre veloce: a giugno +800% dei casi di Luigi Spera Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2020 La gravità della situazione ha spinto 200 Ong attive nella difesa dei diritti umani a inviare un documento all’Onu, alla Commissione interamericana dei diritti umani e alla stessa Oms, per denunciare le mancanze del governo. Nel limbo tra periferie e carcere, dove i confini tra dentro e fuori si confondono lungo perimetri estremamente porosi che dividono l’interno delle celle sovraffollate dal degrado esterno fatto di crimine, povertà e ingiustizia sociale, il coronavirus si diffonde rapido. Sfuggendo alle statistiche. Secondo una ricerca del Consiglio nazionale di giustizia del Brasile, soltanto a giugno nelle carceri del Paese è stato registrato un aumento del’800 per cento rispetto a maggio dei casi di infezione da coronavirus. Una situazione che preoccupa l’organo legato al sistema giudiziario del Paese, dal momento che gli 8.924 detenuti sottoposti al test dall’inizio della pandemia, rappresentano solo l’1,2 per cento della popolazione carceraria che alla data del 31 dicembre 2019 era costituita da 748.009 persone a fronte di una disponibilità di 435.884 posti. Secondo i dati del Dipartimento penitenziario nazionale (Depen), a 2.351 carcerati è stato diagnosticato il Covid-19, mentre quasi mille casi sospetti sono in attesa di conferma. Non è un caso che lo stesso Depen stimi che la mortalità per coronavirus in carcere sia 5 volte maggiore rispetto a quella del Paese. All’inizio della pandemia 32mila e cinquecento detenuti in regime di carcere semi-aperto o con situazioni di salute compromessa, hanno lasciato le unità carcerarie per disposizione del governo che ha accolto una raccomandazione della Cnj. Numeri irrisori di una misura che comunque non rappresenta la soluzione. A offrire uno spaccato della situazione carceraria brasiliana, è il ricercatore italiano Sergio Grossi, profondo conoscitore della realtà che per l’Università di Padova ha realizzato una ricerca sul sistema educativo nei penitenziari brasiliani. “La tubercolosi e altre malattie erano già endemiche e non adeguatamente trattate in carcere, anche io nel corso della ricerca sono stato infettato. Tutte le persone che lavorano in queste strutture fatiscenti sono a rischio, come lo sono le loro famiglie e la società in generale. La precarietà della risposta medica sta uccidendo molti giovani”, afferma Grossi. “A causa del coronavirus la settimana scorsa è deceduto un ragazzo di 28 anni che era stato arrestato per il possesso di 10 grammi di marijuana. Le celle sembrano esplodere. Nella penombra sono ammassate decine di persone che fanno i turni per dormire e si imbottiscono di psicofarmaci per resistere alla violenza strutturale. Difficile proteggersi in queste condizioni disumane”. Lo stato di abbandono in cui versano i penitenziari del Paese in un momento così drammatico come quello della pandemia è fotografato dal sondaggio “Agenti carcerari e la pandemia Covid-19”, condotto dall’istituto di ricerca Fondazione Getulio Vargas pubblicato a giugno, secondo cui solo il 32,6 per cento degli agenti ha dichiarato di aver ricevuto dispositivi di protezione individuale al lavoro e solo il 9,3 per cento ha dichiarato di avere una minima formazione per affrontare la pandemia. Più della metà dei 301 agenti intervistati, il 54,8 per cento, ha raccontato di avere un collega o un familiare infettato dal virus. La stragrande maggioranza degli agenti, l’82,4, per cento, ha affermato di aver paura di contrarre covid-19 in carcere. Di fronte a questa situazione drammatica il presidente del Brasile Jair Bolsonaro ha posto il veto su alcuni articoli della legge che regola l’obbligo dell’uso di mascherine protettive negli spazi pubblici di tutto il Paese, cancellando l’obbligatorietà delle mascherine proprio per agenti penitenziari e detenuti. “Questa misura avrà l’effetto di accelerare il contagio delle persone che il governo considera sacrificabili come i detenuti”, afferma Grossi “ma anche i lavoratori delle carceri e le loro famiglie, che pure sono in gran parte espressione delle fasce meno abbienti della popolazione, afro-discendenti e residenti delle periferie”. Secondo il ricercatore, “la necropolitica neoliberale del governo che riapre le attività economiche con gli ospedali pubblici al collasso, sembra volerci comunicare esplicitamente: morite presto per favore, infettati mentre noi stiamo lavorando su zoom, vogliamo ritornare a bere Caipirinha nelle spiagge di Copacabana. Il governo sembra perseguire con astuzia comunicativa le scellerate politiche che aspirano alle immunità di gregge. Ovvio, il gregge appartiene ad una certa classe sociale e una razza”. La gravità della situazione carceraria in Brasile ha spinto 200 organizzazioni non governative attive nella difesa dei diritti umani a inviare un documento all’Onu, alla Commissione interamericana dei diritti umani e alla stessa Organizzazione mondiale della sanità, per denunciare le mancanze del governo. Tra le misure entrate nel mirino delle Ong, la proposta di istallare container all’esterno dei padiglioni carcerari dove posizionare temporaneamente i detenuti ammalati di Covid. Una misura discutibile che mina ancora una volta il principio stesso della detenzione. “Il carcere si legittima con l’idea di educare le persone a non commettere infrazioni. Come può essere efficace se la stessa istituzione commette illegalità”, si chiede Sergio Grossi, che sottolinea “come si può educare qualcuno attraverso la violenza e la violazione della dignità umana? Le ricerche più interessanti disponibili vedono il carcere al centro di una serie di meccanismi che stanno portando avanti una politica genocidaria delle persone che non si sottomettono docilmente all’avanzare della precarizzazione delle condizioni lavorative. In Brasile ogni giorno ci sono decine di Floyd: cosa succederebbe se le più di 800.000 persone attualmente incarcerate si sommassero alle 600.000 persone morte per omicidio negli ultimi dieci anni? Bolsonaro riuscirebbe ancora a dormire tranquillamente? Purtroppo siamo noi - difensori dei diritti umani - che abbiamo visto e non riusciamo a dormire”. Iran. Giustiziato il traduttore accusato di aver favorito l’uccisione di Soleimani di Giordano Stabile La Stampa, 21 luglio 2020 Lavorava in Siria con i consiglieri militari inviati dai Pasdaran, ma potrebbe essere un capro espiatorio. L’Iran ha giustiziato un ex traduttore, condannato per spionaggio per conto degli Stati Uniti e Israele. Era accusato di aver aiutato i Servizi stranieri a localizzare il comandante dei Pasdaran Qasem Soleimani, ucciso in un raid di un drone americano lo scorso 3 gennaio. Soleimani era appena atterrato a Baghdad con un volo da Damasco e il traduttore iraniano, Mahmoud Mousavi Majd lavorava da molti anni in Siria. È probabile che sia stato sospettato di aver aiutato a identificare il generale nella capitale siriana e confermato così il suo arrivo in Iraq, dove è scattato il blitz. Ma sulla vicenda non c’è trasparenza. Il sito web della magistratura, Mizan Online, ha dichiarato che la morte di Majd è avvenuta “lunedì mattina, in modo che il caso del suo tradimento sarà chiuso per sempre”. Il portavoce dell’autorità giudiziaria Gholamhossein Esmaili ha dichiarato Majd colpevole di aver ricevuto “ingenti somme di denaro” sia dalla Cia statunitense che dal Mossad israeliano. Un’altra dichiarazione della autorità giudiziarie, dello scorso giugno, sembrava però escludere il coinvolgimento del traduttore, in quanto sarebbe stato arrestato due anni fa. Il sospetto è che sia un capro espiatorio. Majd era emigrato in Siria negli Anni Settanta con la famiglia e lavorava come traduttore dall’arabo al persiano e dall’inglese al persiano. Quando è esplosa la guerra civile, nel 2011, ha fatto tornare i famigliari in Iran ma lui è rimasto per continuare a lavorare. La sua conoscenza della Siria e della lingua araba gli hanno procurato impieghi sempre più frequenti con i consiglieri militari inviati da Teheran in appoggio al rais Bashar al-Assad, tanto che aveva “la responsabilità dei gruppi che soggiornavano nelle province di Idlib e Lattakia”, vicino alla linea del fronte. Questa posizione, secondo l’accusa, gli ha permesso di “infiltrarsi in molte aree sensibili sotto la copertura del suo lavoro di traduttore”. Per questo sarebbe stato avvicinato dagli americani e avrebbe fornito “informazioni sui convogli dei consiglieri militari, l’equipaggiamento, i sistemi di comunicazione, i comandanti e i loro movimenti, codici segreti e password”. Nel 2018 ha cominciato a destare sospetti. Prima gli sono stati tolti gli accessi privilegiati, poi è stato arrestato. Teheran ha anche confermato l’esecuzione di un’altra “spia della Cia”, che avrebbe venduto agli americani informazioni sul programma dei missili balistici. Si chiamava Reza Asgari e lavorava per il ministero della Difesa e si era dimesso quattro anni fa. Anche lui avrebbe ricevuto “grosse somme di denaro”. La magistratura iraniana dipende però dalle autorità politiche e religiose ed è quindi difficile valutare il grado di attendibilità delle accuse. Di certo la Repubblica islamica vuole dare un segnale chiaro all’opinione pubblica: Soleimani, una figura molto popolare, è stato “venduto” da spie e traditori e per questo Washington è riuscita a eliminarlo. La guida suprema Ali Khamenei ha promesso che la sua morte sarebbe stata “vendicata” ma finora l’unica reazione è stato il raid del 9 gennaio sulla base americana in Iraq ad Ayn Al-Asad, che fece danni materiali ma nessuna vittima fra i militari statunitensi. Turchia. In carcere il giornalista d’inchiesta Mehmet Baransu agenzianova.com, 21 luglio 2020 Le autorità giudiziarie della Turchia hanno condannato il giornalista investigativo Mehmet Baransu a 19 anni e sei mesi di carcere per pubblicazione di documenti coperti da segreto di Stato e per legami al gruppo terroristico Feto. Lo riferisce il portale d’informazione turco “Ahval”. Baransu è stato condannato a due anni di detenzione per “violazione della privacy”, quattro anni per “pubblicazione di informazioni classificate” e 13 anni e sei mesi per “appartenenza a un’organizzazione terroristica armata”. Baransu ha lavorato per il quotidiano liberale “Taraf” (chiuso nel 2016 a seguito della pubblicazione di notizie sugli apparati statali ritenute da esperti parzialmente inventate) e si trova in carcere dal marzo 2015. L’organizzazione Feto - dell’appartenenza alla quale Baransu è stato accusato - è ritenuta da Ankara il gruppo terroristico dietro il fallito tentativo di colpo di Stato del 2016.