Se la Giustizia “anormale” diventa “normale” di Massimo Krogh Il Mattino, 20 luglio 2020 In noi ha preso piede un fenomeno meno pericoloso: la Giustizia anormale è divenuta un fatto normale; anche per la cecità del legislatore, che non pone limiti allo sconfinamento dell’intervento penale, spiegato come una supplenza alla povertà degli altri canali statuali, ma in effetti stabilizzato a copertura delle inefficienze e divenuto la regola. Su ciò presiede l’obbligo di esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.), da cui una crescita inarrestabile e non gestibile dei processi. Queste anormalità sono divenute norme di giustizia nel Paese. Nella società di oggi, industrialmente avanzata, avanza pure, purtroppo, la criminalità, sia comune che organizzata ed economica, sicché cresce il bisogno di un Forte controllo di legalità. Questo, peraltro, stando alle regole della democrazia, dovrebbe essere bilanciato da un contropotere a garanzia di possibili invasioni e sbilanciamenti, con l’attenzione di non cadere in ipotesi di giustizialismo. In effetti, c’è una spinta giustizialista che viene dal basso, nascendo da una confusione di valori dovuta alla carenza di una guida politica attesa e non pervenuta dall’alto. Politica e giustizia sono campi che s’incontrano ma talvolta si scontrano, con risultati perdenti per tutti. In questo quadro, assume rilievo la terzietà del giudice, nello strano Paese (il nostro) in cui si va in prigione prima della condanna (custodia cautelare) per uscirne dopo la sentenza, anche per effetto della prescrizione. In questi giorni, la stampa ha informato sulle enormi cifre pagate dallo Stato quale effetto della ingiusta detenzione. In un paese con una giustizia normale si dovrebbe andare in carcere dopo la sentenza di condanna, non prima. Si diceva della terzietà del giudice, potrebbe essere un problema nel vigore della unicità di carriera giudice-pm. La separazione delle carriere, sempre invocata dall’avvocatura, ha il suo fondamento nella Magna Charta del 1215, ove si sanciva il principio che le parti dovessero comparire in contraddittorio davanti a un giudice terzo. L’articolo 111 della Costituzione stabilisce questo principio come elemento fondamentale del processo, ritenuto dalla dottrina compatibile con la unicità dì carriera giudice-pm. Sta, però, di fatto che alla carenza di una chiara parità orizzontale delle parti si supplisce con un percorso verticistico di reclami, che ovviamente allunga i tempi del processo. Bisogna anche dire che la politica, con le sue sviste, ha affidato ai magistrati una supplenza pericolosa, espressa attraverso l’interpretazione estensiva, dunque creativa, delle leggi. Non può sfuggire che tramutare un altissimo servizio di garanzia della legalità in quello di dettare, attraverso interpretazioni estensive, le regole necessarie per l’ordine della vita civile in un comune interesse, equivale a un percorso culturale che può condurre a imprevedibili derive. Il rapporto tra politica e giustizia deve ritrovare il senso dell’equilibrio; è indispensabile, nel campo penale, che il servizio giustizia non occupi un ruolo arbitrale, dovendo conservare il ruolo di rimedio residuale, senza trasformarsi in un’arma a disposizione di chiunque contro chiunque. In effetti, sarebbe un bene per il Paese ridurre al massimo l’area penale, limitando la criminalizzazione a fattispecie chiaramente definite e ritrovando, nell’economia politica della sanzione, le mediazioni che possono fornire gli altri rami del diritto. Insomma, va sempre tenuto presente che la tendenza alla penalizzazione, che caratterizza il momento sociale, ha un’espansione che dilata il binario della giustizia, innescando il penoso circuito dei ritardi che da noi affligge il funzionamento del servizio giudiziario fino a divenire ingiustizia. Csm, parità di genere e piccoli collegi. È pronta la riforma contro le correnti di Liana Milella La Repubblica, 20 luglio 2020 Il sottosegretario del Pd, Andrea Giorgis, dice: “Una riforma non contro la magistratura, ma per garantire la sua autonomia”. L’ultima limatura ci sarà giusto martedì. Tra le forze della maggioranza. Nello stesso giorno in cui a palazzo dei Marescialli, alle 14, comincia il processo disciplinare contro Luca Palamara. E proprio martedì il governo chiuderà l’accordo sulla riforma del Csm, sulla sua legge elettorale, sulle regole per nominare capi e vice capi degli uffici, ma anche sulla vita interna del Consiglio, ad esempio sul sistema di reclutamento e nomina dei magistrati segretari. Una riforma punitiva? Lo esclude il sottosegretario alla Giustizia, il costituzionalista torinese del Pd Andrea Giorgis, che alle toghe della sinistra di Area ha già detto: “Questa non sarà una riforma contro la magistratura e la sua autonomia, ma una riforma pensata e predisposta con l’esclusivo fine di preservarne la credibilità e l’autorevolezza”. Perché, aggiunge l’esponente dem che ha lavorato accanto al Guardasigilli Alfonso Bonafede, “se la fiducia nella magistratura, nella sua imparzialità e indipendenza, viene meno, ad entrare in crisi è l’intero impianto democratico costituzionale”. Vedremo se, fino a martedì, sarà superato un nodo che finora aveva ostacolato un accordo nella maggioranza: se, cioè, consentire anche ai parlamentari la possibilità di essere eletti come membri laici. Il Pd è favorevole; M5S assolutamente contrario. Ma le ultime indiscrezioni accreditano che alla fine dovrebbe passare la tesi del Pd, perché l’esclusione dei parlamentari potrebbe comportare un’ombra di incostituzionalità. Sono due i capisaldi su cui dovrebbe poggiare la riforma. Una nuova legge elettorale che, come dice Giorgis, “elimina il collegio unico nazionale” e lo sostituisce con piccoli colleghi, una ventina, in cui realizzare poi una prima votazione e un eventuale ballottaggio tra i più votati. Soppresso anche il meccanismo dei collegi riservati ai magistrati che esercitano funzioni di pubblico ministero rispetto ai magistrati che esercitano funzioni di giudice. Ma la novità decisamente più rilevante - per la prima volta nella storia del Csm - sarà quella di una parità di genere tra candidati uomini e candidate donne. Una proposta del Pd, come ha rivendicato più volte il responsabile Giustizia Walter Verini, ampiamente condivisa da Piero Grasso di Leu, che è stata accolta all’unanimità da tutti i partiti del governo, Italia viva compresa. Escluso il sistema sorteggio dei candidati per me leggere i membri togati, o anche solo un sorteggio temperato, che pure viene sollecitato da voci autorevoli della politica, come quella dell’ex presidente della Camera Luciano Violante. Giorgis invece taglia netto e dice: “Per introdurre il sorteggio sarebbe peraltro necessaria una riforma costituzionale”. Per la quale ovviamente non ci sono né i tempi, né soprattutto il consenso parlamentare. Sarà una riforma contro le correnti? Anche in questo caso Giorgis lo esclude perché ritiene che “non sia necessario cercare di eliminare il pluralismo associativo dei magistrati, che per alcuni versi riflette il carattere plurale della società e dell’ordinamento costituzionale, ma che sia necessario invece contrastarne le degenerazioni correntizie e il connesso impoverimento etico”. Per questo la riforma di Bonafede cambia anche le regole sul sistema delle carriere, sul conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi, infine sullo stesso giudizio disciplinare. Borsellino, Mattarella: “Da lui la via del coraggio. Non si arrese di fronte ai rischi” di Alberto Custodero La Repubblica, 20 luglio 2020 Ventottesimo anniversario della Strage di via D’Amelio. Casellati: “Cambiò per sempre la storia dell’Italia”. Bonafede: “È una vera e propria guerra”. Salvini: “Eroi italiani”. Meloni: “Paolo vive”. Il presidente della Repubblica, il mondo politico e la società civile commemorano oggi il ventottesimo anniversario della Strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli ed Emanuela Loi. “La limpida figura del giudice Borsellino - che affermava, che chi muore per la legalità, la giustizia, la liberazione dal giogo della criminalità, non muore invano - continuerà a indicare ai magistrati, ai cittadini, ai giovani la via del coraggio, dell’intransigenza morale, della fedeltà autentica ai valori della Repubblica”. Lo sottolinea il presidente Sergio Mattarella in una dichiarazione. “A distanza di tanti anni - scrive il presidente Sergio Mattarella - non si attenuano il dolore, lo sdegno e l’angoscia per quell’efferato attentato contro un magistrato simbolo dell’impegno contro la mafia, che condivise con l’amico inseparabile Giovanni Falcone ideali, obiettivi e metodi investigativi di grande successo”. “Borsellino rappresentava, con la sua personalità e i suoi comportamenti, tutto ciò che la mafia e i suoi accoliti detestano e temono di più: coraggio, determinazione, incorruttibilità, senso dello Stato, conoscenza dei fenomeni criminali, competenza professionale”. “È una vera e propria guerra - commenta il Guardasigilli, Alfonso Bonafede - che non deve conoscere pause nella consapevolezza che la mafia si è evoluta e ci pone di fronte a sfide sempre nuove: dalla lotta alla corruzione al voto di scambio politico mafioso; dalla necessaria legge sull’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario - anche a difesa del regime detentivo previsto dall’art. 41 bis - alla ricerca della verità sulle stragi e dei responsabili non ancora individuati”. “L’Associazione nazionale magistrati non dimentica la figura di Paolo Borsellino, che oggi e sempre rappresenta un modello di professionalità, coraggio e impegno civile per tutta la magistratura” dichiara la giunta dell’Anm. “‘Chi ha paura muore ogni giorno - dice Matteo Salvini - chi non ha paura muore una volta sola’. Eroi italiani, la cui memoria va tramandata ai più giovani e onorata nella lotta dura, senza se e senza ma, al cancro mafioso”. “Ventotto anni dopo, chiediamo ancora tutta la verità” dice il capogruppo Pd in Senato Andrea Marcucci. Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia: “Solo l’esplosivo lo fermò”. Vito Crimi, capo politico del M5S: “Lo Stato non ha saputo o voluto fare luce su una tragedia tra le più grandi del Paese”. Giorgia Meloni: “Paolo vive”. La presidente del Senato Elisabetta Casellati: “Cambiò per sempre la storia dell’Italia”. La potente macchina del dolore umano di Alessandro Barbano huffingtonpost.it, 20 luglio 2020 Più delle vittime di una giustizia feroce hanno sofferto solo loro: i figli delle vittime di una giustizia feroce. Per capire quale immenso carico di dolore, privazioni, lutti, ferite tra le famiglie e le generazioni si infligga per mano dello Stato, bisogna parlare con loro. Con Nicole, cresciuta senza il padre, Giovanni Guarischi, ex consigliere regionale di Forza Italia in Lombardia, condannato a cinque anni in quanto corruttore di Roberto Formigoni che, però, per lo stesso fatto è stato assolto con formula piena qualche giorno fa. Con Francesco, figlio dell’imprenditore di Gela Riccardo Greco, suicida dopo aver fatto condannare i mafiosi a cui pagava il pizzo ed essere stato perseguitato per anni dalla giustizia e dalla burocrazia prefettizia, fino al martirio. Sono i loro racconti a svelare l’orrore, che si nasconde in certi angoli oscuri delle democrazie e che produce frustrazione, rabbia, desiderio di vendetta e avvelena il clima di una comunità già esasperata dal declino economico e civile. Sono i loro racconti, a volerli ascoltare, che ci mostrano che cos’è diventata oggi la giustizia in Italia: una potente macchina di dolore umano non giustificabile. Il racconto di Nicole dice tutto l’assurdo logico di un processo capace di ribaltare quella che Hegel chiamerebbe la razionalità del reale. Valutando lo stesso fatto a Milano come corruzione, e a Cremona come irrilevante per il diritto penale. Si chiama contrasto di giudicati sulla stessa “res iudicanda”. Accade quando un processo viene stralciato e finisce davanti a due collegi diversi, ognuno dei quali chiamato a giudicare secondo il suo libero convincimento. Se però l’oggetto del contendere è una corruzione, si fa fatica a comprendere come possa esserci un corruttore senza un corrotto. Non dovrebbe accadere. Eppure accade. Un diritto liberale, consapevole dei suoi limiti, sa che la verità processuale non coincide sempre con la verità della vita. Per questo mitiga le sue asimmetrie con un principio di favore per l’imputato. Se due giudicati sullo stesso fatto non coincidono, in sede di revisione si applica quello meno afflittivo. Una giustizia sommaria invece punisce prima di condannare. E infligge una lunga custodia cautelare. Sentite come Nicole la racconta a Luca Fazzo del Giornale, che l’ha intervistata: “Avevo diciassette anni, vado per la prima volta a San Vittore, dove mio padre era stato recluso, e lo trovo distrutto. Mi dice: vogliono che faccia il nome di Formigoni, se li accontento in due giorni sono a casa, io non ho nomi da accusare perché non ho fatto niente di sbagliato. Però, se tu là fuori da sola non ce la fai, se hai bisogno di me, ti accontento”. Provate a riscrivere queste parole. A sentire tutto il carico di vergogna che portano con sé. È il paradigma di Tangentopoli. In un pamphlet intitolato “Mani Pulite”, uscito quasi trent’anni fa con il settimanale Panorama, così lo spiegava compiaciuto il procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli ad Antonio Carlucci, che lo intervistava: “È vero, c’è stato e c’è un approccio particolarmente convincente, che non significa ruvido e brutale, come qualcuno ha insinuato, ma che sa spiegare qual è la situazione di chi si siede davanti ai magistrati”. Accusi qualcuno e sei a casa, oggi come ieri. Oggi come ieri l’ingiusta detenzione continua a lievitare. Perché, nonostante tutte le leggi di riforma della custodia cautelare, siamo sempre il Paese europeo con più detenuti in attesa di giudizio. Un Paese di indagini preliminari “convincenti”, dove la pena precede la condanna. Un altro racconto, quello di Francesco Greco, ci spiega che vuol dire in Italia essere innocenti e insieme presunti colpevoli. Ventisette anni, ingegnere di Gela, l’hanno scorso ha trovato il padre che rantolava in un lago di sangue dopo essersi sparato un colpo di pistola in un container della sua azienda: “Nel lontano 2003 papà aveva denunciato il pizzo e fatto condannare i mafiosi che lo riscuotevano. Ma è rimasto per anni nel mirino di una Procura che lo considerava complice. Nonostante una sentenza di Cassazione lo avesse definito, senza dubbio alcuno, vittima. Nonostante un’altra sentenza di primo grado di un nuovo processo lo avesse assolto. La pervicacia della procura ha indotto un prefetto a spezzargli le gambe con un’interdittiva antimafia. Nel giro di qualche settimana ha perduto tutti gli appalti, ha chiuso la sua azienda, ha licenziato i suoi operai, ha disperatamente cercato di opporsi con i ricorsi a una condanna arbitraria, fondata sul sospetto, decisa da un oscuro burocrate senza che lui potesse difendersi. Poi, una mattina, ha scritto sul diario che da anni redigeva in segreto un biglietto per mamma e per noi figli: Io devo andare perché voi siate liberi. Aveva ragione. Dopo il suicidio la nostra azienda è stata riabilitata”. Bisogna chiedersi che è accaduto in una democrazia quando un padre dice a una figlia: “Se tu là fuori da sola non ce la fai, se hai bisogno di me, ti accontento”, cioè confesso non ciò che è vero, ma ciò che vogliono che io confessi. E quando un altro padre scrive a un figlio: “Io devo andare perché voi siate liberi”. E si spara in testa. Dedicato a chi pensa ancora che la giustizia in Italia sia un problema per Berlusconi. Omicidio stradale, il cellulare può diventare un’aggravante di Emilio Pucci Il Messaggero, 20 luglio 2020 Bonafede convoca oggi la maggioranza: subito stretta sulle regole e pene più severe. L’allora premier Renzi si batté per due ragazzi fiorentini, Lorenzo e Gabriele, vittime di un pirata della strada. L’attuale Guardasigilli Bonafede prende ad esempio, invece, la tragedia dell’11 luglio del 2019 quando a Vittoria, in Sicilia, due cuginetti di 11 e 12 anni persero la vita travolti da un Suv a tutta velocità. L’omicidio stradale è diventato un reato a sé il 2 marzo del 2016. Con l’articolo 589-bis non è stata modificata la pena (da 2 a 7 anni) per chi cagiona, per colpa, la morte di una persona a seguito della violazione delle norme che disciplinano la circolazione stradale. Pena che, però, durante il governo presieduto dall’attuale leader di Iv è stata aumentata da 8 a 12 anni per chi uccide una persona guidando in stato di ebbrezza grave, con un tasso alcolemico oltre 1,5 grammi per litro, o sotto effetto di droghe. E da 5 a 10 anni se l’omicida ha un tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l o ha causato l’incidente per condotte di particolare pericolosità (eccesso di velocità, guida contromano, infrazioni ai semafori, sorpassi e inversioni a rischio). A distanza di più di quattro anni il ministro della Giustizia vuole imporre un’ulteriore stretta. Ha convocato per oggi pomeriggio a via Arenula un tavolo di maggioranza per chiedere un veloce via libera ad un disegno di legge ad hoc. Una novità rilevante è che nel reato di omicidio stradale diventa un aggravante anche l’uso del cellulare alla guida, ovvero l’utilizzo di apparecchi radiotelefonici o cuffie sonore. Durante il governo giallo-verde si raggiunse un accordo per imporre multe salate ai trasgressori: ritiro della patente e multe fino a 2.500 euro ma con il Conte 2 la riforma del codice della strada è finita su un binario morto. Ora il responsabile della Giustizia vuole recuperare quella norma e dare un segnale. Il ddl amplia le condotte di particolare pericolosità punendo, per esempio, chi cagiona per colpa la morte di una persona oltrepassando una striscia longitudinale. Inasprisce le pene per chi causa un incidente mortale commettendo due o più violazioni della disciplina della circolazione stradale. Depotenzia il concorso di colpa: al momento l’articolo 589-bis c.p. prevede una circostanza attenuante, ovvero che la pena è diminuita fino alla metà nel caso in cui l’evento morte non derivi esclusivamente dall’azione o dall’omissione del colpevole. Ebbene quel comma (il numero 7) viene abrogato. Stretta soprattutto per chi omette di prestare assistenza o non si mette immediatamente a disposizione della polizia giudiziaria: al momento è previsto un aumento di pena di un terzo, ora diventa di due terzi, della metà e non più di un terzo se il conducente è in stato di ebbrezza alcolica. Si prevede inoltre che in caso di uccisione di più persone la pena debba essere aumentata almeno di un terzo. Per omissione di soccorso è previsto l’arresto obbligatorio, non più facoltativo. Si introduce l’arresto obbligatorio del conducente che, in caso di omicidio stradale e lesioni stradali aggravate ometta di collaborare, dandosi alla fuga o non prestando la necessaria assistenza alle persone ferite o non mettendosi a disposizione della polizia giudiziaria, si spiega nella motivazione del provvedimento. La proposta che Bonafede porterà al tavolo però non va nella direzione auspicata da Iv. “L’aggravante dell’uso del cellulare in macchina osserva per esempio il renziano Cucca è una stupidaggine. Impossibile verificarlo, meglio trattare con le case automobilistiche per inserire delle scatole nere”. Perplessità arrivano pure dal Pd, disponibile solo ad “interventi chirurgici” ma non ad appoggiare “provvedimenti populisti”. M5s insisterà, sarà braccio di ferro tra i rosso-gialli. Penale da remoto solo se ci sono imputati detenuti di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2020 L’udienza penale da remoto viene reintrodotta dall’articolo 221 del decreto legge 34 del 2020 per il periodo che andrà dalla pubblicazione della legge di conversione fino al 31 ottobre 2020. Ma rimane limitata alle ipotesi in cui vi siano imputati detenuti ed è condizionata al consenso delle parti. La nuova norma fa espressamente salve le ipotesi in cui è comunque prevista la partecipazione a distanza in base agli articoli 146-bis e 147-bis delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale (riguardanti per lo più i detenuti per reati particolarmente gravi, le persone sottoposte al regime previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario e i collaboratori di giustizia). Aggiunge poi che può essere assicurata la partecipazione “a qualsiasi udienza penale” mediante video-collegamenti agli imputati in stato di custodia cautelare in carcere o detenuti per altra causa e ai condannati detenuti; la norma quindi vale sia per i giudizi penali, sia per i procedimenti dinanzi al Tribunale di sorveglianza, sia ancora per quelli dinanzi alle sezioni misure di prevenzione. È necessario il consenso dell’imputato o del condannato, che deve essere espresso personalmente o a mezzo di procuratore speciale. La partecipazione a distanza deve essere possibile e deve assicurare - mediante i collegamenti audiovisivi, individuati e regolati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia - l’osservanza delle disposizioni dei commi 3, 4 e 5 del citato articolo 146-bis. Quindi deve essere garantita la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti nell’aula e nei luoghi di custodia dove si trovano gli imputati collegati e deve essere sempre consentito al difensore, se presente in aula, di consultarsi riservatamente con l’imputato per mezzo di strumenti tecnici idonei. L’udienza è tenuta con la presenza del giudice, del pubblico ministero e dell’ausiliario del giudice nell’ufficio giudiziario e si svolge con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti. Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai difensori delle parti, al pubblico ministero e agli altri soggetti di cui è prevista la partecipazione il giorno, l’ora e le modalità del collegamento. La nuova disposizione non stabilisce come il giudice debba accertare l’identità dei soggetti partecipanti a distanza e il richiamo all’articolo 146-bis sembra implicare la necessità che nei luoghi di custodia dai quali sono collegati gli imputati sia presente un cancelliere o altro pubblico ufficiale che attesti ogni circostanza utile a integrare il verbale di udienza. D’altronde - a differenza della disciplina delle udienze civili da remoto - vi è qui un ulteriore specifico richiamo alla disposizione secondo la quale il luogo da dove l’imputato si collega è equiparato all’aula di udienza. Dal tenore complessivo di questa disciplina, da ritenersi speciale e derogatoria delle regole ordinarie, si ricava che rimane definitamente esclusa la partecipazione mediante video-collegamento di imputati che non siano detenuti o di altre parti private. Indennizzo per reati violenti a tutte le vittime di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2020 Corte di giustizia Ue, sentenza 16 luglio 2020 nella causa C-129/19. Gli Stati componenti dell’Unione europea devono riconoscere un indennizzo a tutte le vittime di reati intenzionali violenti, anche a quelle residenti. Quanto all’importo, questo non deve necessariamente corrispondere al risarcimento integrale del danno, ma non deve essere solo simbolico. Queste le conclusioni della Corte di giustizia europea nella sentenza nella causa C-129/19 depositata ieri. La Corte, nell’affrontare un caso di violenza sessuale nel quale la vittima non aveva ottenuto dai colpevoli l’indennizzo deciso dai giudici nazionali, tenuto conto del tenore letterale della direttiva 2004/80, del suo contesto e dei suoi scopi, osserva che la scelta comunitaria è stata non per l’istituzione, da parte di ciascuno Stato membro, di un sistema di indennizzo specifico, limitato soltanto alle vittime di reati internazionali violenti che si trovano in una situazione transfrontaliera, quanto piuttosto per l’applicazione, a favore di tali vittime, di sistemi di indennizzo nazionali delle vittime dei delitti commessi nei rispettivi territori degli Stati membri. Da queste considerazioni la Corte conclude che la direttiva 2004/80 attribuisce il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato anche non solo alle vittime che si trovano in una situazione transfrontaliera, ma anche alle vittime che risiedono abitualmente nel territorio dello Stato membro nel quale il reato è stato commesso. Per quanto riguarda l’importo dell’indennizzo, la Corte ha dichiarato che, in assenza, nella direttiva 2004/80, di indicazioni specifiche è riconosciuto agli Stati membri un margine di discrezionalità. Tuttavia, se è vero che l’indennizzo non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale subito dalle vittime di reati intenzionali violenti, esso non può però essere puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato per tali vittime. Revisione del giudicato penale per nuove prove. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2020 Mezzi di impugnazione - Revisione - Natura e funzione dell’istituto - Casi - Nuove prove - Requisiti. L’istituto della revisione non si configura come un’impugnazione tardiva che permette di dedurre in ogni tempo ciò che nel processo, definitivamente concluso, non è stato rilevato o non è stato dedotto, o addirittura propugna una diversa valutazione delle prove raccolte, ma costituisce un mezzo straordinario di impugnazione che consente, nei casi tassativi, di rimuovere gli effetti della cosa giudicata, dando priorità alle esigenze di giustizia rispetto a quelle di certezza dei rapporti giuridici. Di conseguenza, la risoluzione del giudicato non può avere come presupposto una diversa valutazione del dedotto o un’inedita disamina del deducibile (il giudicato copre entrambi), bensì l’emergenza di nuovi elementi estranei e diversi da quelli definiti nel processo, e allorché tali nuove prove consistano in dichiarazioni testimoniali, esse debbono avere la forza di ribaltare il costrutto accusatorio. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 3 luglio 2020 n. 19996. Impugnazioni - Revisione - In genere - Giudizio rescissorio - Decisione di rigetto - Motivazione - Contenuti - Fattispecie. In tema di revisione, il giudice della cd. fase rescissoria ha l’obbligo di fornire adeguata giustificazione logica dell’esame delle risultanze processuali e, in caso di rigetto, deve indicare i motivi per i quali le “prove nuove” dedotte nel giudizio sono inidonee a incrinare il quadro probatorio posto alla base della sentenza di condanna. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato la decisione del giudice territoriale che aveva affermato apoditticamente la possibile, e non verificata, falsità o non riferibilità al ricorrente della documentazione sanitaria fornita per comprovare il ricovero del ricorrente in Albania nel giorno in cui veniva commesso, in territorio italiano, l’omicidio per il quale era stato condannato). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 24 ottobre 2019 n. 43565. Impugnazioni - Revisione - Casi - Prove nuove - Dichiarazioni testimoniali - Requisiti. In tema di giudizio di revisione, anche nella fase rescindente, sebbene ai limitati fini della formulazione di un giudizio astratto, le dichiarazioni testimoniali, dedotte quali nuove prove, devono risultare idonee, nella comparazione con quelle già raccolte nel giudizio di cognizione, a ribaltare il costrutto accusatorio. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 9 aprile 2019 n. 15652. Impugnazioni - Revisione - In genere - Revisione - Criteri di valutazione delle prove nuove - Valutazione unitaria e globale - Riconsiderazione del complessivo giudizio probatorio - Necessità. In tema di revisione, la comparazione fra le prove nuove e quelle sulle quali si fonda la condanna irrevocabile non richiede solo il confronto di ogni singola prova nuova, isolatamente considerata, con quelle già esaminate, occorrendo, altresì, una valutazione unitaria e globale della loro attitudine dimostrativa, da sole o congiunte a quelle del precedente giudizio, rispetto al risultato finale del proscioglimento; ne consegue che il rapporto tra prove pregresse e prove introdotte in sede di revisione deve essere espresso in termini di “riconsiderazione”, valorizzando la funzione dinamica del complessivo giudizio probatorio conseguente all’introduzione del “novum”. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 febbraio 2019 n. 7217. Impugnazioni - Revisione - Limiti - Fase rescindente - Valutazione delle nuove prove - Comparazione con quelle raccolte nel giudizio di cognizione - Necessità. In tema di revisione, anche nella fase rescindente le nuove prove dedotte, sebbene ai limitati fini della formulazione di un giudizio astratto, devono essere comparate con quelle già raccolte nel normale giudizio di cognizione per giungere, in una prospettiva complessiva, a una valutazione sulla loro effettiva attitudine a far dichiarare il proscioglimento o l’assoluzione dell’istante. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 28 settembre 2007 n. 35697. Genova. Diciannove anni fa: quando in Italia la democrazia fu sospesa di Nick Davies* globalist.it, 20 luglio 2020 Sono passati 19 anni dai fatti del G8 di Genova del 2001. Riproponiamo un reportage di Nick Davies, giornalista del Guardian, per non dimenticare quelle giornate che, come è stato detto da Amnesty International, sono state caratterizzate dalla più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale. Mancava poco a mezzanotte quando il primo poliziotto colpì Mark Covell con una manganellata sulla spalla sinistra. Covell cercò di urlare in italiano che era un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato dagli agenti in tenuta antisommossa che lo tempestarono di colpi. Per un po’ riuscì a restare in piedi, poi una bastonata sulle ginocchia lo fece crollare sul selciato. Mentre giaceva con la faccia a terra nel buio, contuso e spaventato, si rese conto che i poliziotti si stavano radunando per attaccare l’edificio della scuola Diaz, dove 93 ragazzi si erano sistemati per passare la notte. Mark sperò che rompessero subito la catena del cancello, così forse l’avrebbero lasciato in pace. Avrebbe potuto alzarsi e raggiungere la redazione di Indymedia dall’altra parte della strada, dove aveva passato gli ultimi tre giorni scrivendo articoli sul G8 e sulle violenze della polizia. Proprio in quel momento un agente gli saltò addosso e gli diede un calcio al petto con tanta violenza da incurvargli tutta la parte sinistra della gabbia toracica, rompendogli una mezza dozzina di costole. Le schegge gli lacerarono la pleura del polmone sinistro. Covell, che è alto 1,73 e pesa meno di 51 chili, venne scaraventato sulla strada. Sentì ridere un agente e pensò che non ne sarebbe uscito vivo. Mentre la squadra antisommossa cercava di forzare il cancello, per ingannare il tempo alcuni agenti cominciarono a colpire Covell come se fosse un pallone. La nuova scarica di calci gli ruppe la mano sinistra e gli danneggiò la spina dorsale. Alle sue spalle, Covell sentì un agente che urlava “Basta! Basta!” e poi il suo corpo che veniva trascinato via. Intanto un blindato della polizia aveva sfondato il cancello della scuola e 150 poliziotti avevano fatto irruzione nell’edificio con caschi, manganelli e scudi. Due poliziotti si fermarono accanto a Covell, uno lo colpì alla testa con il manganello e il secondo lo prese a calci sulla bocca, spaccandogli una dozzina di denti. Covell svenne. Ci sono diversi buoni motivi per non dimenticare cos’è successo a Mark Covell quella notte a Genova. Il primo è che fu solo l’inizio. A mezzanotte del 21 luglio 2001 i poliziotti occuparono i quattro piani della scuola Diaz imponendo il loro particolare tipo di disciplina ai suoi occupanti e riducendo i dormitori improvvisati in quella che in seguito un funzionario di polizia ha definito “una macelleria messicana”. Poi quegli stessi agenti e i loro colleghi incarcerarono illegalmente le vittime in un centro di detenzione che diventò un luogo di terrore. Il secondo motivo è che, sette anni dopo, Covell e i suoi compagni aspettano ancora giustizia. Il 14 luglio 2008 quindici poliziotti, guardie penitenziarie e medici carcerari sono stati condannati per il loro ruolo nelle violenze. Ma nessuno sconterà la pena. In Italia gli imputati non vanno in prigione fino alla conclusione dell’ultimo grado di giudizio, e le condanne per i fatti di Genova cadranno in prescrizione l’anno prossimo. I politici che all’epoca erano responsabili della polizia, delle guardie penitenziarie e dei medici carcerari non hanno mai dovuto dare spiegazioni. Le domande fondamentali su come tutto ciò sia potuto accadere rimangono senza risposta e rimandano al terzo e più importante motivo per ricordare Genova. Questa non è semplicemente una storia di poliziotti esaltati. Sotto c’è qualcosa di più grave e preoccupante. Questa storia può essere raccontata solo grazie al duro lavoro coordinato da un pubblico ministero appassionato e coraggioso, Enrico Zucca. Con l’aiuto di Covell e di una squadra di magistrati, Zucca ha raccolto centinaia di testimonianze e analizzato cinquemila ore di video e migliaia di fotografie. Tutte insieme raccontano una storia cominciata proprio mentre Covell giaceva a terra sanguinante. I poliziotti irruppero nella Diaz. Alcuni gridavano “Black bloc! Adesso vi ammazziamo”. Ma si sbagliavano di grosso se credevano di dover affrontare i black bloc che avevano scatenato i disordini in alcune zone della città durante le manifestazioni di quel giorno. La scuola era stata messa a disposizione dal comune di Genova a dei ragazzi che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano perfino organizzato un servizio di sicurezza per accertarsi che i black bloc non potessero entrare nello stabile. Uno dei primi ad accorgersi dell’irruzione fu Michael Gieser, un economista belga di 35 anni che si era appena messo il pigiama e stava facendo la fila davanti al bagno con lo spazzolino in mano. Gieser crede nel dialogo e in un primo momento si diresse verso gli agenti dicendo: “Dobbiamo parlare”. Vide i giubbotti imbottiti, gli sfollagente, i caschi e le bandane che nascondevano i volti dei poliziotti, cambiò idea e scappò di corsa per le scale. Gli altri furono più lenti. Erano ancora nei sacchi a pelo. I dieci spagnoli accampati nell’atrio della scuola si svegliarono sotto i colpi dei manganelli. Alzarono le mani in segno di resa, ma altri poliziotti cominciarono a picchiarli in testa, provocando tagli e ferite e fratturando il braccio a una donna di 65 anni. Nella stessa stanza alcuni ragazzi erano seduti davanti al computer e mandavano email a casa. Tra loro c’era Melanie Jonasch, 28 anni, studentessa di archeologia a Berlino, che si era offerta di lavorare nella scuola e non aveva neppure partecipato ai cortei. Melanie non riesce ancora a ricordare cosa accadde. Ma molti testimoni hanno raccontato che i poliziotti l’aggredirono e la colpirono alla testa con tanta violenza che perse subito conoscenza. Quando cadde a terra, gli agenti la circondarono continuando a picchiarla e a prenderla a calci, sbattendole la testa contro un armadio e alla fine lasciandola in una pozza di sangue. Katherina Ottoway, che vide la scena, ricorda: “Tremava tutta. Aveva gli occhi aperti ma rovesciati all’insù. Pensai che stesse morendo, che non sarebbe sopravvissuta”. Nessuno dei ragazzi che erano al piano terra sfuggì al pestaggio. Come ha scritto Zucca nella sua requisitoria: “Nell’arco di pochi minuti, tutti gli occupanti del piano terra furono ridotti all’impotenza. I gemiti dei feriti si univano agli appelli a chiamare un’ambulanza”. Per la paura, alcune vittime persero il controllo dello sfintere. Poi gli agenti si diressero verso le scale. Nel corridoio del primo piano trovarono un piccolo gruppo di persone, tra cui Gieser, che stringeva ancora il suo spazzolino: “Qualcuno suggerì di sdraiarsi, per dimostrare che non facevamo nessuna resistenza, così mi sdraiai. I poliziotti arrivarono e cominciarono a picchiarci, uno dopo l’altro. Io mi riparavo la testa con le mani e pensavo: “Devo resistere”. Sentivo gridare “basta, per favore” e lo ripetevo anch’io. Mi faceva pensare a quando si sgozzano i maiali. Ci stavano trattando come animali, come porci”. I poliziotti abbatterono le porte delle stanze che si affacciavano sui corridoi. In una trovarono Dan McQuillan e Norman Blair, arrivati in aereo da Stansted, vicino Londra, per manifestare a favore di “una società libera e giusta dove la gente possa vivere in armonia”, spiega McQuillan. Avevano sentito la polizia al piano terra e insieme a un amico neozelandese, Sam Buchanan, avevano cercato di nascondersi con le loro borse sotto dei tavoli in un angolo di una stanza buia. Una decina di agenti fece irruzione nel locale e li illuminò con una torcia. McQuillan scattò in piedi, alzò le mani e cominciò a ripetere “Calma, calma”, ma non servì a fermare i poliziotti. McQuillan ne uscì con un polso rotto. “Sentivo tutto il loro veleno e il loro odio”, ricorda Norman Blair. Gieser era in corridoio: “Intorno a me era tutto coperto di sangue. Un poliziotto gridò ‘Basta!’ e per un attimo sperammo che tutto sarebbe finito. Ma gli agenti non si fermarono, continuarono a picchiare di gusto. Alla fine ubbidirono all’ordine, ma erano come dei bambini a cui si toglie un giocattolo contro la loro volontà”. Ormai c’erano poliziotti in tutta la scuola. Picchiavano e davano calci. Secondo molte vittime c’era quasi del metodo nella loro violenza: gli agenti pestavano chiunque gli capitasse a tiro, poi passavano alla vittima successiva lasciando a un collega il compito di continuare a picchiare la prima. Sembrava importante che tutti fossero pestati a sangue. Nicola Doherty, un’assistente sociale di Londra di 26 anni, racconta che il suo compagno, Richard Moth, si sdraiò sopra di lei per proteggerla. “Sentivo i colpi sul suo corpo, uno dopo l’altro. I poliziotti si allungavano per raggiungere le parti del mio corpo che erano rimaste scoperte”. Nicola cercò di proteggersi la testa con il braccio. Le ruppero il polso. Un gruppo di uomini e donne fu costretto a inginocchiarsi in un corridoio in modo che i poliziotti potessero colpirli più facilmente sulla testa e sulle spalle. Daniel Albrecht, 21 anni, studente di violoncello a Berlino, fu colpito così violentemente che dovettero operarlo per fermare l’emorragia cerebrale. Fuori dall’edificio, i poliziotti tenevano i manganelli al contrario, usando il manico ad angolo retto come un martello. In questo crescendo di violenza ci furono momenti in cui i poliziotti scelsero l’umiliazione. Un agente si mise a gambe aperte davanti a una donna inginocchiata e ferita, si afferrò il pene e glielo avvicinò al viso. Poi si girò e fece la stessa cosa con Daniel Albrecht, che era inginocchiato lì accanto. Un altro poliziotto interruppe un pestaggio per prendere un coltello e tagliare i capelli alle vittime, tra cui Nicola Doherty. Un altro chiese a un gruppo di ragazzi se stavano bene e quando uno disse di no, partì un’altra scarica di botte. Alcuni riuscirono a sfuggire alla violenza, almeno per un po’. Karl Boro scappò sul tetto, ma poi fece l’errore di rientrare nella scuola e subì lo stesso trattamento degli altri. Riportò gravi lesioni alle braccia e alle gambe, una frattura cranica e un’emorragia toracica. Jaraslav Engel, polacco, riuscì a uscire dalla Diaz arrampicandosi sulle impalcature, ma fu preso sulla strada da alcuni autisti della polizia che gli spaccarono la testa, lo scaraventarono per terra e rimasero a fumare mentre il suo sangue scorreva sull’asfalto. Due studenti tedeschi, Lena Zuhlke, 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen, furono tra gli ultimi a essere presi. Si erano nascosti in un armadio usato dagli addetti alle pulizie all’ultimo piano. Sentirono la polizia che si avvicinava sbattendo i manganelli sulle pareti delle scale. La porta dell’armadio venne aperta, Martensen fu trascinato fuori e picchiato da una decina di poliziotti schierati a semicerchio intorno a lui. Zuhlke attraversò di corsa il corridoio e si nascose nel bagno. I poliziotti la videro, la seguirono e la trascinarono fuori per i capelli. In corridoio, l’aggredirono come cani addosso a un coniglio. Fu colpita alla testa e poi presa a calci da ogni parte finché sentì collassare la gabbia toracica. La rimisero in piedi appoggiandola a una parete dove un poliziotto le dette una ginocchiata all’inguine mentre gli altri continuarono a prenderla a manganellate. Scivolò giù, ma la picchiarono ancora: “Sembrava che si divertissero, quando gridavo di dolore sembrava che godessero ancora di più”. I poliziotti trovarono un estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite di Martensen. Zuhlke venne afferrata per i capelli e scaraventata per le scale a testa in giù. Alla fine, trascinarono la ragazza nell’ingresso del piano terra, dove avevano ammassato decine di prigionieri insanguinati e sporchi di escrementi. La gettarono sopra ad altre due persone. Non si muovevano e Zuhlke, tramortita, chiese se erano vivi. Nessuno rispose e lei rimase supina. Non muoveva più il braccio destro ma non riusciva a tenere fermi il braccio sinistro e le gambe, che si contraevano convulsamente. Il sangue le gocciolava dalle ferite alla testa. Un gruppo di poliziotti le passò accanto: uno dopo l’altro si sollevarono le bandane che gli coprivano il volto e le sputarono in faccia. Perché dei rappresentanti della legge si comportarono con tanto disprezzo della legge? La risposta più semplice può essere quella che ben presto venne urlata dai manifestanti fuori dalla Diaz: “Bastardi!”. Ma stava succedendo qualcos’altro, qualcosa che emerse più chiaramente nei giorni seguenti. Covell e decine di altre vittime dell’irruzione furono portati all’ospedale San Martino, dove i poliziotti camminavano su e giù per i corridoi, battendo il manganello sul palmo delle mani, ordinando ai feriti di non muoversi e di non guardare dalla finestra, lasciandoli ammanettati. Poi, senza che fossero stati medicati, li spedirono all’altro capo della città nel centro di detenzione di Bolzaneto, dove erano trattenute decine di altri manifestanti, presi alla Diaz e nei cortei. I primi segnali che c’era qualcosa di più grave possono sembrare banali. Alcuni poliziotti avevano vecchie canzoni fasciste come suoneria del cellulare e parlavano con ammirazione di Mussolini e Pinochet. Diverse volte ordinarono ai prigionieri di gridare “Viva il duce” e usarono le minacce per costringerli a intonare canzoni fasciste: “Uno, due, tre. Viva Pinochet!”. Le 222 persone detenute a Bolzaneto furono sottoposte a un trattamento che in seguito i pubblici ministeri hanno definito tortura. All’arrivo furono marchiati con dei segni di pennarello sulle guance e molti furono costretti a camminare tra due file di poliziotti che li bastonavano e li prendevano a calci. Una parte dei prigionieri fu trasferita in celle che contenevano fino a 30 persone. Qui furono costretti a restare fermi in piedi davanti al muro, con le braccia in alto e le gambe divaricate. Chi non riusciva a mantenere questa posizione veniva insultato, schiaffeggiato e picchiato. Mohammed Tabach, che ha una gamba artificiale e non riusciva a sopportare la fatica della posizione, crollò. Fu ricompensato con due spruzzate di spray al pepe e, più tardi, un pestaggio particolarmente feroce. Norman Blair ricorda che mentre era in piedi nella posizione che gli avevano ordinato una guardia gli chiese: “Chi è lo stato?”. “La persona davanti a me aveva risposto ‘Polizei’, così detti la stessa risposta. Avevo paura che mi pestassero”. Stefan Bauer osò dare un’altra risposta: quando una guardia che parlava tedesco gli chiese di dove era, rispose che veniva dall’Unione europea e aveva il diritto di andare dove voleva. Lo trascinarono fuori, lo riempirono di botte e di spray al pepe sulla faccia, lo spogliarono e lo misero sotto una doccia fredda. I suoi vestiti furono portati via e dovette tornare nella cella gelida con un camice d’ospedale. Tremanti sui pavimenti di marmo delle celle, i detenuti ebbero solo qualche coperta, furono tenuti svegli senza mangiare e gli venne negato il diritto di telefonare e a vedere un avvocato. Sentivano pianti e urla dalle altre celle. Uomini e donne con i capelli rasta vennero brutalmente rasati. Marco Bistacchia fu portato in un ufficio, denudato, costretto a mettersi a quattro zampe e ad abbaiare. Poi gli ordinarono di gridare “Viva la polizia italiana!”. Singhiozzava troppo per ubbidire. Un poliziotto anonimo ha dichiarato al quotidiano La Repubblica di aver visto dei colleghi che urinavano sui prigionieri e li picchiavano perché si rifiutavano di cantare Faccetta nera. Ester Percivati, una ragazza turca, ricorda che le guardie la chiamarono puttana mentre andava al bagno, dove una poliziotta le ficcò la testa nel water e un suo collega maschio le urlò: “Bel culo! Ti piacerebbe che ci infilassi dentro il manganello?”. Alcune donne hanno riferito di minacce di stupro, anale e vaginale. Perfino l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, che aveva difeso con il suo corpo la compagna, era coperto di tagli e lividi. Gli misero dei punti in testa e sulle gambe senza anestesia. “Fu un’esperienza molto dolorosa e traumatica. Dovevano tenermi fermo con la forza”, ricorda. Tra le persone condannate il 14 luglio ci sono anche alcuni medici della prigione. Tutti hanno dichiarato che non fu un tentativo di costringere i detenuti a confessare, ma solo un esercizio di terrore. E funzionò. Nelle loro testimonianze, i prigionieri hanno descritto la sensazione d’impotenza, di essere tagliati fuori dal mondo in un luogo senza legge e senza regole. La polizia costrinse i prigionieri a firmare delle dichiarazioni. Un francese, David Larroquelle, ebbe tre costole rotte perché non voleva firmare. Anche Percivati si rifiutò: gli sbatterono la faccia contro la parete dell’ufficio, rompendole gli occhiali e facendole sanguinare il naso. All’esterno arrivò una versione dei fatti molto distorta. Il giorno dopo il pestaggio Covell riprese conoscenza all’ospedale e si accorse che una donna gli stava scuotendo la spalla. Pensò che fosse dell’ambasciata inglese, poi quando l’uomo che era con lei cominciò a scattare foto si rese conto che era una giornalista. Il giorno dopo il Daily Mail pubblicò in prima pagina una storia inventata di sana pianta secondo cui Covell aveva contribuito a pianificare gli scontri (ci sono voluti quattro anni perché il Mail si scusasse e risarcisse Covell per aver violato la sua privacy). Mentre alcuni cittadini britannici venivano pestati e trattenuti illegalmente, i portavoce del primo ministro Tony Blair dichiararono: “La polizia italiana doveva fare un lavoro difficile. Il premier ritiene che lo abbia svolto”. Le forze dell’ordine italiane raccontarono ai mezzi d’informazione una serie di menzogne. Perfino mentre i corpi insanguinati venivano trasportati fuori dalla Diaz in barella, i poliziotti raccontavano ai giornali che le ambulanze allineate nella strada non avevano nulla a che fare con l’incursione, che le ferite dei ragazzi erano precedenti all’incursione, e che l’edificio era pieno di estremisti violenti che avevano attaccato gli agenti. Il giorno dopo, le forze dell’ordine tennero una conferenza stampa in cui annunciarono che tutte le persone presenti nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. Alla fine, i tribunali italiani hanno respinto tutti i capi di accusa contro ogni singolo imputato, Covell compreso. I tentativi della polizia d’incriminarlo per una serie di reati gravissimi sono stati definiti “grotteschi” dal pubblico ministero Enrico Zucca. Nella stessa conferenza stampa, furono esibite quelle che la polizia descrisse come armi: piedi di porco, martelli e chiodi che gli stessi agenti avevano preso in un cantiere accanto alla scuola, strutture in alluminio degli zaini, 17 macchine fotografiche, 13 paia di occhialini da nuoto, 10 coltellini e un flacone di lozione solare. Mostrarono anche due bombe molotov che, come ha concluso in seguito Zucca, erano state trovate in precedenza dalla polizia in un’altra zona della città e introdotte alla Diaz alla fine del blitz. Queste bugie facevano parte di un più ampio tentativo di inquinare i fatti. La notte dell’incursione, un gruppo di 59 poliziotti entrò nell’edificio di fronte alla Diaz dove c’era la redazione di Indymedia e dove, soprattutto, un gruppo di avvocati stava raccogliendo le prove degli attacchi della polizia ai manifestanti. Gli agenti andarono nella stanza degli avvocati, li minacciarono, spaccarono i computer e sequestrarono i dischi rigidi. Portarono via tutto ciò che conteneva fotografie e filmati. Poiché i magistrati rifiutavano di incriminare gli arrestati, la polizia riuscì a ottenere l’ordine di espellerli dal paese, con il divieto di tornare per cinque anni. In questo modo i testimoni furono allontanati dalla scena. In seguito i giudici hanno giudicato illegali tutti gli ordini di espulsione, così come i tentativi d’incriminazione. Zucca ha lottato per anni contro le bugie e gli insabbiamenti. Nella memoria che accompagna la richiesta di rinvio a giudizio ha dichiarato che tutti i dirigenti coinvolti negavano di aver avuto un ruolo nella vicenda: “Neppure un funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo sostanziale di comando per qualsiasi aspetto dell’operazione”. Un alto funzionario ripreso in video sulla scena ha dichiarato che quella notte era fuori servizio ed era passato alla Diaz solo per accertarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia cambiavano continuamente ed erano contraddittorie, e sono state platealmente smentite dalle prove fornite dalle vittime e da numerosi video. “Nessuno dei 150 poliziotti presenti all’operazione ha fornito informazioni precise su un singolo episodio”. Senza Zucca, senza la determinazione dei magistrati italiani, senza l’intenso lavoro di Covell per trovare i filmati sull’incursione alla Diaz, la polizia avrebbe potuto sottrarsi alle sue responsabilità e ottenere false incriminazioni e pene detentive contro decine di vittime. Oltre al processo per i fatti di Bolzaneto, che si è appena concluso, altri 28 agenti e dirigenti della polizia sono sotto accusa per il loro ruolo nell’incursione alla Diaz. Eppure, la giustizia è stata compromessa. Nessun politico italiano è stato chiamato a rendere conto dell’accaduto, anche se c’è il forte sospetto che la polizia abbia agito come se qualcuno le avesse promesso l’impunità. Un ministro visitò Bolzaneto mentre i detenuti venivano picchiati e a quanto sembra non vide nulla, o almeno nulla che ritenesse di dover impedire. Secondo molti giornalisti, Gianfranco Fini - ex segretario del partito neofascista Msi e all’epoca vicepremier - si trovava nel quartier generale della polizia. Nessuno gli ha mai chiesto di spiegare quali ordini abbia dato. Gran parte dei rappresentanti della legge coinvolti nelle vicende della scuola Diaz e di Bolzaneto - e sono centinaia - se l’è cavata senza sanzioni disciplinari e senza incriminazioni. Nessuno è stato sospeso, alcuni sono stati promossi. Nessuno dei funzionari processati per Bolzaneto è stato accusato di tortura: la legge italiana non prevede questo reato. Alcuni funzionari di polizia che all’inizio dovevano essere accusati per il blitz alla Diaz hanno evitato il processo perché Zucca non è riuscito a dimostrare che esisteva una catena di comando. Ancora oggi, il processo ai 28 funzionari incriminati è a rischio perché Silvio Berlusconi vorrebbe far approvare una legge per rinviare tutti i procedimenti giudiziari che riguardano fatti accaduti prima del giugno 2002. Nessuno è stato incriminato per le violenze inflitte a Covell. E come ha detto Massimo Pastore, uno degli avvocati delle vittime, “nessuno vuole ascoltare quello che questa storia ha da dire”. È una storia di fascismo. Circolano molte voci che poliziotti, carabinieri e personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non ci sono le prove. Secondo Pastore, però, così si rischia di perdere di vista la questione principale: “Non si tratta solo di qualche fascista esaltato. È un comportamento di massa della polizia. Nessuno ha detto no. Questa è la cultura del fascismo”. La requisitoria di Zucca parla di “sospensione dello stato di diritto”. Cinquantadue giorni dopo l’irruzione nella Diaz, diciannove uomini usarono degli aerei pieni di passeggeri per colpire al cuore le democrazie occidentali. Da quel momento, politici che non si definirebbero mai fascisti hanno autorizzato intercettazioni telefoniche a tappeto, controlli della posta elettronica, detenzioni senza processo, torture sistematiche sui detenuti e l’uccisione mirata di semplici sospetti, mentre la procedura dell’estradizione è stata sostituita dalla “consegna straordinaria” di prigionieri. Questo non è il fascismo dei dittatori con gli stivali militari e la schiuma alla bocca. È il pragmatismo dei nuovi politici dall’aria simpatica. Ma il risultato appare molto simile. Genova ci dice che quando il potere si sente minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso. Ovunque. *Giornalista britannico, scrive per il Guardian Porto Azzurro (Li). Gli orti del carcere, dove i detenuti coltivano la speranza Il Tirreno, 20 luglio 2020 “Non si può vivere senza speranza, è come se ti venisse tolto il respiro”. Francesco D’Anselmo, direttore della casa di reclusione Pasquale De Santis pronuncia questa frase davanti ai partecipanti a “Un’Altra Estate”, nell’orto coltivato dai detenuti della casa di reclusione. Intorno a lui c’è la terra curata con amore dai detenuti, da cui nasceranno fagiolini, pomodori, cipolle e melanzane che, dal carcere, saranno distribuiti ai ristoranti dell’isola d’Elba, mentre a poche decine di metri di distanza, ci sono le garitte presidiate dagli agenti della polizia penitenziaria e la struttura che ospita le celle dei circa 400 detenuti. Una sola immagine che, in fondo, cattura l’essenza stessa del carcere elbano, che non vuole essere un luogo dove chi ha sbagliato viene punito, ma una realtà che riesca a ricostruire dei percorsi di vita interrotti, in grado di restituire un futuro a chi teme di averlo perduto. “In questo orto e nei campi che abbiamo a Pianosa lavorano decine di detenuti, in tutto circa cento unità che lavorano all’esterno di questa struttura - racconta D’Anselmo durante la visita guidata negli spazi esterni al carcere, all’interno del Forte San Giacomo - abbiamo rimesso in sesto questi terreni e produciamo ortaggi di qualità. Non ci credete? Lo chef Vissani ha mangiato i fagiolini prodotti in carcere all’hotel Hermitage della Biodola: ha detto che erano i fagiolini più buoni che avesse mai mangiato. Il cantante Lionel Ritchie, dopo aver visitato Pianosa, ha riempito il suo yacht con i prodotti della terra che i detenuti coltivano sull’isola piatta. Per noi è un orgoglio”. D’Anselmo ha spiegato come il carcere di Porto Azzurro sia stato, anche in passato, all’avanguardia sotto l’aspetto del lavoro e della rieducazione. “Abbiamo anche una falegnameria e i detenuti producono borse di alta modo assieme all’azienda Dampaì - racconta - quello che vogliamo è formare decine di agricoltori, falegnami, artigiani che, una volta fuori da qui, possano avere una chance per ripartire”. Anche in quest’ottica D’Anselmo, assieme al Comune di Porto Azzurro, sta lavorando per recuperare e rendere visitabili le celle della “Polveriera”. Un reparto di punizione dove venivano rinchiusi i detenuti più indisciplinati, chiuso negli anni Settanta dall’allora direttore Raffaele Ciccotti che lo riteneva inumano. “Vogliamo far vedere ai cittadini cosa era la Polveriera, per far ricordare gli errori del passato in modo da non commetterli più”. Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem dedicato al 41bis nessunotocchicaino.it, 20 luglio 2020 Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem terrà un Consiglio Direttivo sabato 25 luglio 2020, dalle 9:30 alle 18:30 (con una pausa pranzo dalle 13:30 alle 15:00) sulla piattaforma Zoom. Il Consiglio Direttivo sarà trasmesso in diretta da Radio Radicale, sul canale YouTube e sulla pagina Facebook di Nessuno tocchi Caino. Come annunciato nella riunione del 20 giugno scorso, lo dedicheremo al 41bis e lo faremo a partire da un fascicolo della rivista giuridica Giurisprudenza Penale, curato dagli avvocati Lucilla Amerio, Veronica Manca e Guido Stampanoni Bassi e interamente dedicato al “carcere duro”. Nella riunione, cercheremo di tenere insieme l’aspetto tecnico-giuridico (di cui il fascicolo prevalentemente tratta) e quello umano del vissuto delle vittime di questo regime speciale che vige in Italia da quasi trent’anni e che nessuno pare voglia mettere in discussione. Prenderanno la parola ex detenuti al 41bis, avvocati difensori, magistrati di sorveglianza, giuristi. Ritorneremo sulla vicenda di Vincenzo Stranieri, di cui la figlia Anna ha raccontato in modo straziante nella ultima riunione. Parleremo della storia di Raffaele Cutolo, un uomo di quasi 80 anni vissuti in un tempo “equamente” diviso fra tre generazioni: la prima in libertà, la seconda nel carcere “normale”, la terza al “carcere duro”. Entrambi rischiano di morire nelle mani di uno Stato che ha abolito la pena di morte, ma non la morte per pena e la pena fino alla morte. Il monumento simbolo della lotta alla mafia si erge su una fossa di sepolti vivi, uomini privati di sensi umani fondamentali come la vista e l’udito, di facoltà sociali minime come la parola. Da regime speciale introdotto per tagliare le comunicazioni mafiose tra l’interno e l’esterno del carcere, il 41bis si è nel tempo involuto fino ad attorcigliarsi su sé stesso, si è incattivito fino ad accanirsi anche contro se stesso, con norme, disposizioni, circolari assurde che, al confronto, quelle in vigore a Guantánamo o nei campi di rieducazione cinesi appaiono regole libertarie. La mania securitaria ha spinto, ad esempio, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a percorrere tutti i gradi di ricorso fino alla Suprema Corte di Cassazione per ripristinare la sanzione disciplinare, che il Magistrato di Sorveglianza di Sassari aveva cancellato, nei confronti di due detenuti che da una cella all’altra, prima di cena, si erano scambiati un “buon appetito”. Se il “diritto penale del nemico” ha stravolto le regole basilari del giusto processo nelle aule di tribunale dove si trattano reati di mafia, il “codice penitenziario del nemico” applicato ai detenuti per mafia (anche a quelli in attesa di giudizio, quindi innocenti fino a prova contraria) ha travolto le regole minime del buon senso. Dire a quello della cella di fronte “buonanotte” prima di dormire o “buon appetito” prima di mangiare, costituisce grave minaccia all’ordine democratico e alla sicurezza pubblica, ordine e sicurezza non solo interni al carcere, anche esterni e, forse, anche internazionali. La Corte di Cassazione ha seppellito il ricorso del Dap con una risata. Ma c’è poco da ridere. Il 41bis è un regime di tortura, un dominio dell’uomo sull’uomo pieno e incontrollato, sempre più chiuso e ottuso. È la quintessenza del carcere, dell’isolamento, della privazione della libertà. Un giorno - che noi di Nessuno tocchi Caino, noi che siamo anche Spes contra Spem, faremo in modo non sia molto lontano - ci volgeremo indietro e guarderemo al carcere, nella sua versione “dura” e nella sua versione “morbida”, come si guarda a una rovina della storia, un resto archeologico dell’umanità. Ci volgeremo indietro e diremo a noi stessi: cosa abbiamo fatto? Siamo arrivati a giudicare, punire e chiudere le persone in una cella! A tenerle fuori dal tempo e fuori dal mondo. A volte senza pane e acqua, a volte con pane e acqua, interdette all’uso stesso della parola, all’usanza civile del dire “buon appetito”, alla buona maniera del dirsi “buongiorno” o “buonanotte”. La narrazione tossica che celebra l’ingiustizia sociale di Antonio Cipriani La Repubblica, 20 luglio 2020 Mancano le basi per comprendere quello che accade intorno a noi e quello che è accaduto negli ultimi decenni di follia economica e sociale. Se ti fermi a parlare con qualcuno di cose semplici e ovvie, tipo l’ingiustizia sociale radicata, la povertà crescente, la privatizzazione costante del bene comune, la narrazione tossica che sostiene ogni efferatezza, la cultura trasformata in intrattenimento sciocco, ti rendi conto di come dialetticamente sia impossibile affrontare le basi semplici di come funziona il sistema, perché questa discussione è fuori dalla narrazione principale e unica. Le persone agiscono e discutono partendo da un dogma: le regole della ferocia che delineano i rapporti umani asimmetrici sono pregiudizialmente misteriosamente accettate. Quel discutere del nulla mentre si perdono diritti. Gli sfruttati, in un modo o nell’altro, si battono per difendere gli interessi degli sfruttatori. I cittadini, ai quali viene sottratta la sanità pubblica di base, a favore di una sanità privata ad uso dei più agiati, ai quali viene tolta la scuola pubblica per finanziare la privata, discutono del niente, ma non si preoccupano di perdere diritti essenziali. Di vedere i propri figli in topaie scolastiche, di aspettare sei mesi per una Tac, di vedere un bosco trasformato in legname, un prato in una spianata di cemento. Felici in un mondo scintillante in cui l’avversario per tutti sembra essere il più povero, il precario, chi prova a capire e ad opporsi a questo fascismo così liberale e assoluto. L’assuefazione alla schiavitù mentale. Così, non arrendendomi di fronte all’evidenza della costruzione narrativa, riporto parti di un discorso bellissimo di Frei Betto (teologo, scrittore e politico brasiliano, n.d.r) datato 1996. Un discorso che mostra come l’assuefazione alla schiavitù mentale ci ha resi ciechi e indifferenti. “Nel liberismo parlavamo di marginalizzazione, si poteva sognare di tornare al centro. Il neoliberismo parla cinicamente di esclusione, se si è esclusi da un’istituzione non c’è nessuna possibilità di ritorno. La frase più cinica di questo secolo è quella del giornalista ed economista americano, Samuelson che ha scritto sul Newsweek: La guerra contro la povertà è terminata ed i poveri hanno perso. Cioè il capitalismo non deve mai preoccuparsi del problema della povertà, la povertà è un effetto naturale dell’avanzare del sistema capitalista. Cioè il processo di accumulazione sarà possibile solo se sarà accettato naturalmente il processo di esclusione”. Liberismo e neoliberismo. E ancora: “Nel liberismo parlavamo di produzione, nel neoliberismo parliamo di speculazione. Se si ha un capitale, non è importante sapere che cosa voi producete, ma come si moltiplica il capitale…” Con questa regola ferrea, non conta altro che la capacità di moltiplicazione. Il caso Narcos fa scuola. E dimostra un fatto indiscutibile: decenni di arresti e di lotta al traffico internazionale di stupefacenti, ma il sistema è più florido e intoccabile che mai. Un altro elemento chiave, in questa fase storica, è il mostrare continuamente e mediaticamente l’azione efferata come dolcemente necessaria. Il sistema delle ingiustizie. L’amplificare le guerre per finalità benefiche, quelle per rimuovere dittatori, o per distruggere i signori della droga o le mafie. Una variazione sul tema: destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico. Ora è: destabilizzare mediaticamente i teleutenti per meglio stabilizzare i mercati, quindi l’ordine, in ogni sua declinazione. E la chiave dell’assuefazione si percepisce nelle battaglie per i diritti civili, come dice Frei Betto: “… il cui contenuto è borghese”. Quindi l’opposizione alla ferocia si limita a una richiesta di diritti minimi che non incidono sull’essenza della crudeltà del sistema di ingiustizie. L’abbandono del concetto di cultura. Per meglio capire questa deriva, utile leggere ancora Frei Betto: “Il liberismo parlava di cultura, il neoliberismo abbandona il concetto di cultura per il concetto di intrattenimento. La televisione in molti dei nostri paesi fa solo intrattenimento e non cultura. L’intrattenimento è il risultato della logica di decontestualizzazione; quanto più io ignoro il contesto in cui vivo, tanto meglio è per il sistema; quanto più entro nella logica della frantumazione dei fatti, tanto meglio è per il sistema”. Una lunga parabola ottusa. Mi è piaciuto rileggere queste parole scritte 24 anni fa. In questi decenni abbiamo visto la società percorrere esattamente questa parabola ottusa fatta di privatizzazioni, false promesse, precarizzazione crescente, innalzamento di muri per dividere il mondo tra ricchi e poveri. Non solo sui confini, ma ovunque. Nelle città, nelle campagne. Muri talvolta invisibili e ancora più brutali. Perché indiscutibili. E noi, preoccupati dell’ultima polemica mediatica sul niente, continueremo ad accapigliarsi su questioncelle minori o proveremo a sottrarci dalla narrazione tossica per riprenderci la vita, i diritti, una giustizia sociale e ambientale che ci faccia pensare a un futuro diverso per i nostri figli? Omotransfobia, chi teme di non poter più odiare? di Monica Cirinnà Il Riformista, 20 luglio 2020 Con il deposito, nella giornata di giovedì, degli emendamenti in Commissione è entrata nel vivo la discussione sul testo unificato delle proposte di legge in materia di contrasto della misoginia e dell’omolesbobitransfobia. Una legge fortemente voluta dal Partito democratico che - dopo troppi tentativi andati a vuoto - non può e non deve perdere l’occasione di dare al paese un segnale importante, nel segno dell’eguaglianza, della dignità, dell’inclusione. E di farlo senza cedimenti, senza compromessi al ribasso, salvaguardando il lavoro fatto in questi mesi da tutte le forze di maggioranza. Il testo unificato depositato dal relatore Alessandro Zan getta il cuore oltre l’ostacolo, e si spinge oltre i molti tentativi falliti del passato: è infatti un testo consapevole del fatto che l’odio, la discriminazione e la violenza non si contrastano soltanto attraverso lo strumento penale, ma anche e soprattutto attraverso politiche sociali e culturali di prevenzione e concrete misure di sostegno delle vittime. In una democrazia matura - e riteniamo che l’Italia lo sia, e debba continuare ad esserlo - il diritto penale interviene solo quando non c’è alternativa: un diritto penale, dunque, minimo, residuale, ma non per questo meno necessario o efficace. Le due parti del testo unificato vanno dunque lette assieme: omolesbobitransfobia e misoginia si combattono anzitutto facendo cultura e prevenzione e, nei casi estremi (purtroppo ancora molto frequenti) si ricorre allo strumento penale. Nulla di nuovo, per il nostro ordinamento e per la nostra tradizione giuridica: la proposta Zan, infatti, interviene su una legge già esistente - la cosiddetta legge Reale-Mancino, in vigore dal 1975 e modificata nel 1993 e nel 2006 (dal governo Berlusconi) e ora confluita nel codice penale - per estendere all’istigazione e al compimento di atti discriminatori e violenti fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere le pene già previste per i crimini d’odio motivati da razza, etnia, nazionalità o religione. Lo fa sulla base di alcuni principi molto semplici. Il primo: riconoscere che l’identità sessuale delle persone - in tutte le sue dimensioni: sesso biologico, ruoli di genere, orientamento sessuale e identità di genere - è un bene prezioso, espressione della dignità individuale. Come tale, deve essere oggetto di riconoscimento e tutela, affinché tutte e tutti si sentano parte della comunità, e non debbano più aver paura di essere se stessi. Il secondo: una democrazia matura è capace di proteggere sé stessa dai discorsi d’odio, senza rinunciare al libero confronto delle idee. Una democrazia matura, infatti, sa distinguere tra libertà di manifestazione del pensiero e istigazione al compimento di atti discriminatori e violenti. Si è e si resta liberi di parlare, di esprimere opinioni o convinzioni religiose, di esprimere giudizi anche critici su esperienze e stili di vita: non si è liberi di odiare, incitare alla discriminazione e alla violenza, usare le parole come pietre capaci di colpire e ferire le persone, solo per ciò che sono. Questo confine non è incerto, né labile: è stato fissato da più di cinquant’anni di sentenze della Corte costituzionale e in sede di applicazione della legge Reale e della legge Mancino. Di cosa si ha paura, allora? Di non essere più liberi di odiare o discriminare? Non stiamo parlando di privilegi, ma di uguaglianza; non stiamo parlando di istituire una gerarchia tra individui o categorie di soggetti, ma di dare protezione ad una parte preziosa dell’identità personale. Le cronache non ci risparmiano, purtroppo, il racconto di innumerevoli episodi di offese, discriminazioni, violenze ai danni delle donne e delle persone Lgbt+: soggettività che vengono attaccate, derise, cancellate per il solo fatto di esistere. Giovedì, di fronte a Montecitorio, abbiamo addirittura dovuto assistere all’aggressione ai danni di due ragazze, proprio da parte di chi stava manifestando contro la legge: un fatto gravissimo, che dimostra l’urgenza di approvarla. C’è molto dolore, c’è un clima intollerabile di odio: di fronte a tutto questo non possiamo voltare la testa dall’altra parte. Come sempre, quando si tratta di approvare leggi che aumentano i diritti e allargano gli spazi della cittadinanza democratica, la domanda cui rispondere è una soltanto: che tipo di comunità vogliamo essere? Una comunità che esclude o una comunità che abbraccia? Una comunità che vive le differenze come pericoli, o come ricchezze? Non sono domande banali, in tempi di sovranismo e populismo; non sono domande banali, in un momento storico nel quale l’emergenza sanitaria ci ha ricordato il valore della coesione sociale e l’importanza di una comunità capace di prendersi cura di tutte e tutti, con solidarietà e senso di responsabilità. Ne va della qualità della nostra democrazia: ma la risposta è già contenuta nella Costituzione, nei suoi articoli 2 e 3 che dopo settant’anni continuano a parlarci, con la saggezza di un testo ancora vivo e pieno di futuro. Russia. Rischia 15 anni di carcere lo storico che scoprì le fosse comuni del Terrore staliniano di Marta Allevato agi.it, 20 luglio 2020 Accusato di pedofilia, in un processo ritenuto motivato politicamente, il caso di Yuri Dmitriev è l’ultimo episodio della “guerra” in atto in Russia sulla memoria delle vittime delle repressioni sovietiche. Arresti, perquisizioni e processi contro attivisti e giornalisti si sono intensificati in Russia dopo che il presidente Vladimir Putin, con un plebiscito popolare, si è assicurato una massiccia riforma della Costituzione che gli permetterà di rimanere al Cremlino, potenzialmente, fino al 2036. I difensori dei diritti umani e alcuni media sono tornati a parlare di “nuovo 1937”, un’espressione tirata fuori spesso in questi 20 anni di potere di Putin: si riferisce all’anno in cui le repressioni messe in atto da Stalin arrivarono all’apice. Nel mirino di questa nuova ondata vi è anche lo storico del Gulag Yuri Dmitriev, che il 22 luglio rischia di essere condannato da un tribunale di Petrozavodsk a 15 anni di carcere. Secondo i suoi sostenitori - tra cui la Ong Memorial di cui è membro e che porta avanti un prezioso lavoro di recupero della memoria delle repressioni politiche in Russia - la sua colpa è quella di aver scoperto e portato all’attenzione internazionale alcune fosse comuni come quella di Sandarmokh, nelle foreste della Carelia al confine con la Finlandia, dove negli Anni 30 furono fucilate e sepolte circa settemila vittime del Grande Terrore staliniano. Impegnata a rivalutare il ruolo del dittatore sovietico nella trasformazione della Russia in una potenza mondiale, la narrativa ufficiale si è affrettata a concludere che a Sandarmokh a essere uccise non fossero state solo le vittime di Stalin, ma anche soldati dell’Armata Rossa, giustiziati dall’esercito finlandese nella Seconda Guerra Mondiale. Ipotesi ritenuta infondata da decine di storici. Il caso Dmitriev risale al 2016, ma continua a rimanere emblematico della guerra in atto sulla memoria delle vittime delle repressioni politiche in Urss, tema tra i più sensibili per il Cremlino, preoccupato anche di non accendere tensioni sociali su un passato che ha visto vittime e carnefici spesso convivere nella stessa famiglia. Nel dicembre 2016, mentre stava completando un volume con i nomi di oltre 60 mila vittime di Stalin in Carelia, al confine con la Finlandia, lo studioso viene arrestato e accusato di produzione di materiale pedopornografico; viene poi assolto ad aprile 2018, dopo numerose testimonianze a suo favore e le perizie di esperti che hanno stabilito la sua innocenza. Pochi mesi dopo, a giugno, la Corte Suprema della Carelia annulla il verdetto e ordina un secondo processo, ma questa volta l’accusa è di molestie sessuali sulla figlia adottiva minorenne, che rilascia una testimonianza con molta probabilità estorta dagli inquirenti. Dmitriev viene arrestato e si trova ancora in carcere, in attesa di giudizio. In un Paese dove identità e luoghi di sepoltura delle vittime di centinaia di migliaia di processi sommari durante il Terrore staliniano sono ancora spesso sconosciuti, sarebbe sbagliato pensare che la questione della memoria riguardi solo una ristretta cerchia di studiosi ed esperti. Ed è questa convinzione che ha da sempre mosso la ricerca di Dmitriev, come spiega all’Agi Andrea Gullotta, professore di Lingue e culture moderne all’Università di Glasgow ed esperto di letteratura del Gulag, che con lui ha lavorato: “La storia del Gulag e delle repressioni sovietiche è la storia di uno Stato che decide cosa fare dei suoi cittadini. In una società sana, dovrebbe essere l’inverso; Dmitriev sostiene che se i russi capiranno meglio il loro passato, allora potrebbero rivedere completamente il loro atteggiamento verso lo Stato”. Gullotta riconosce che le autorità russe hanno fatto molto per la memoria del Gulag investendo in musei e contribuendo a non spegnere i riflettori su questa dolorosa pagina della storia nazionale, “ma negli ultimi anni alcuni tra i ricercatori e le Ong che non si uniformano all’idea che il passato è passato e ora è tempo di concentrarsi solo su un fulgido avvenire sono stati messi sotto pressione”. “C’è un tentativo di occupare gli spazi della memoria, togliendola dalle mani di Ong e ricercatori indipendenti”. Il caso Dmitriev, ora, rappresenta forse il più importante momento in questa ‘guerra’. Colombia. Il giallo del cooperante italiano morto e l’allarme dei Servizi: posti da evitare di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 20 luglio 2020 Il corpo di Mario Paciolla, il volontario dell’Onu trovato morto in Colombia, dovrebbe rientrare nei prossimi giorni in Italia. Sul cadavere del 33enne napoletano è stata già effettuata l’autopsia per stabilire se davvero - come hanno inizialmente sostenuto le autorità colombiane - il giovane possa essersi suicidato o se, secondo i sospetti della famiglia possa essere stato ucciso. Per stabilirlo nei prossimi giorni dovrebbero essere inviati a Bogotà anche agenti italiani dello Scip, il Servizio di cooperazione internazionale della Polizia. Intanto però che la situazione fosse mutata in Colombia negli ultimi mesi lo attestano anche alcuni recenti rapporti dell’intelligence italiana. Si tratta semplicemente di analisi effettuate dai nostri 007 per stabilire i mutamenti geopolitici in alcune zone del mondo, attività ordinarie che però adesso assumono tutta un’altra luce dopo la morte di Mario Paciolla. “Le misure restrittive introdotte in Colombia per contenere la diffusione del coronavirus - veniva scritto lo scorso maggio in un dossier degli analisti del Comparto - stanno esacerbando il livello di violenza tra i numerosi gruppi armati attivi nel paese, dove a quasi quattro anni dalla firma dell’accordo di pace con le Farc non si fermano le violenze delle formazioni armate in lotta per il controllo del territorio e delle rotte dei commerci illegali”. Il report spiega come la situazione in Colombia sia ulteriormente degenerata con numerosi episodi di violenza anche in base all’attività proprio dell’Onu nel Paese. “Alle ripetute denunce delle associazioni non governative - viene specificato nel report - si è aggiunta in questi giorni quella delle Nazioni Unite, che hanno parlato di una vera e propria “epidemia di violenza”, diretta in particolare contro leader sociali, difensori dei diritti umani ed ex combattenti delle Farc”. La stessa Onu spiegava che: “i gruppi armati stanno approfittando del fatto che la maggior parte delle persone è bloccata per espandere la propria presenza e il proprio controllo sul territorio”. Proprio alla luce di questi allarmi chi ora lavora al dossier di Paciolla non esclude che il giovane napoletano possa aver solidarizzato con gli ex militanti delle Fare indispettendo qualcuno dei loro avversari. Solo un’ipotesi, sospetti, che potranno essere approfonditi solo attraverso indagini mirate e individuando chi poteva avere questo interesse. Del resto Paciolla lavorava proprio ad un progetto delle Nazioni Unite che mirava a riconvertire gli ex combattenti al lavoro nei campi. Anche il territorio dove lavorava Paciolla, il dipartimento di Caquetà, era considerato altamente pericoloso e per questo sconsigliato per i viaggiatori o luoghi dove prestare particolari cautele. “Da fine 2019 - veniva osservato dagli analisti - nei dipartimenti di Antioquia, Notte de Santander, Cauca, Chocti, Narifio e proprio Caquetà si è registrato un aumento degli sfollamenti”. Non solo ma la situazione era definita “preoccupante” nel Sud-Ovest del paese. “Secondo dati diffusi dalla procura colombiana almeno 20 persone sono state uccise nel dipartimento dall’inizio della quarantena decretata lo scorso 25 marzo per contenere la diffusione del coronavirus. Il vice procuratore generale Martha Janeth Mancera (la stessa persona che sabato ha avuto una lunga videoconferenza con la famiglia di Mario) che la situazione di violenza è aumentata durante la quarantena decretata dal governo del presidente Ivan Duque”. Cina. Uiguri, Londra accusa Pechino: “Violazione eclatante dei diritti umani” di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 20 luglio 2020 Il governo britannico è in rotta di collisione con quello cinese dopo aver offerto la cittadinanza a milioni di residenti di Hong Kong e aver escluso Huawei dallo sviluppo della rete 5G. Sono immagini agghiaccianti. Riprese da un drone nello Xinjiang, la provincia musulmana occidentale cinese, mostrano decine, forse centinaia di uiguri (la minoranza locale) bendati e ammanettati, sorvegliati in ginocchio dagli agenti di Pechino, che aspettano di essere condotti a bordo di treni. Un video che ha fatto il giro del web e che ha provocato un nuovo scontro diplomatico fra Gran Bretagna e Cina: violazioni dei diritti umani “grossolane ed eclatanti”, le ha definite il ministro degli Esteri di Londra, Dominic Raab, che ha fatto anche riferimento ai racconti di sterilizzazioni forzate delle donne uigure e non ha escluso sanzioni contro i responsabili. Il governo britannico è già entrato in rotta di collisione con quello cinese dopo aver offerto la cittadinanza a milioni di residenti di Hong Kong, minacciati dalla stretta repressiva di Pechino, e aver deciso di escludere la cinese Huawei dallo sviluppo della propria rete di telecomunicazioni 5G: e quest’ultima uscita sugli uiguri si allinea alla nuova diplomazia post-Brexit, alla quale Londra ha deciso di dare una sterzata verso la difesa dei diritti umani nel mondo, tanto da imporre due settimane fa sanzioni unilaterali contro russi, sauditi, birmani e nordcoreani. I cinesi non sono però rimasti a guardare: l’ambasciatore di Pechino è andato ieri alla Bbcper definire “false” le accuse: “Non so cosa siano quelle immagini, non ci sono campi di concentramento nello Xinjiang”, ha sostenuto. E ha minacciato anche una “risposta risoluta” in caso di sanzioni anti-cinesi. Ma in realtà si ritiene che siano un milione gli uiguri detenuti in quelli che la Cina definisce semplicemente “campi di rieducazione” dal terrorismo. Stati Uniti. “Marking Time”, il MoMA PS1 espone le opere dei detenuti di Veronica Grazioli exibart.com, 20 luglio 2020 Il MoMA PS1 presenta “Marking Time”, una mostra di opere realizzate dai detenuti, per denunciare lo stato di oppressione delle carceri statunitensi. Dopo le proteste del mondo dell’arte contro la filantropia tossica del suo board, il MoMA PS1 prova a risollevare la propria immagine con “Marking Time: Art in the Age of Mass Incarceration”, un progetto socialmente impegnato e di alto impatto, che presenterà una serie di opere d’arte realizzate dai detenuti statunitensi. La mostra vuole inquadrare e raccontare tutte le questioni legate alla repressione, alla prigionia, all’isolamento e alla conseguente disumanizzazione che i carcerati vivono quotidianamente, per denunciare ingiustizie razziali, economiche e sociali proprie del sistema penitenziario americano. “In America ci sono oltre due milioni di persone dietro le sbarre”, scrive la curatrice Nicole R. Fleetwood, “Le prigioni sono una voce fondamentale per l’arte e la cultura contemporanea”. Fleetwood, docente di storia e storia dell’arte alla Rutgers University, in Marking Time, saggio recentemente pubblicato e omonimo della mostra, sottolinea come i detenuti siano esposti a livelli scioccanti di privazioni e abusi e siano sottoposti alla crudeltà del sistema di giustizia penale. Tuttavia, è bene mostrare anche che le carceri statunitensi sono luoghi in cui l’arte prolifera. Rilevante è la collaborazione del museo con la Rutgers University e con organizzazioni e attivisti anti-prison che hanno curato un progetto che esamina le condizioni delle prigioni di Long Island City, Astoria e del Queens. Lavorando con scarse risorse e nelle condizioni più complesse - incluso il confinamento solitario - questi detenuti rispondo alla brutalità e alla depravazione che le carceri generano. Le opere esposte riflettono le esperienze personali degli artisti-reclusi, mettendo in luce i vincoli concreti e materiali della creazione artistica. A guidare il lavoro degli artisti è l’analisi della quotidianità: tempo, spazio, materia fisica. Gli artisti mappano, visualizzano, rendono materialmente visibile l’impatto del sistema detentivo e le dimensioni della vita in carcere. Vi è un’acuta spinta verso nuove visioni estetiche della quotidianità ottenute attraverso una sperimentazione materiale e formale. Mentre i movimenti attivisti cercano di trasformare il sistema di giustizia penale, l’arte fornisce agli incarcerati una voce politica forte. Le opere si configurano come catalizzatori che denunciano ingiustizie sociali, economiche e razziali che sono alla base della punizione americana. “Marking Time: Art in the Age of Mass Incarceration” mostrerà anche opere realizzate da artisti usciti dalle prigioni, offrendo diverse prospettive sulla vita al di fuori delle condizioni carcerarie. Tra gli artisti, Mary Enoch Elizabeth Baxter alias Isis Tha Savior, Sara Bennett, Conor Broderick, Keith Calhoun, Russell Craig, Amber Daniel, Fiori Halim, Nereida García-Ferraz, Maria Gaspar, Dean Gillispie, GisMo (Jessica Gispert e Crystal Pearl Molinary), Ronnie Goodman. Ad accompagnare la mostra, una serie di eventi collaterali, laboratori didattici e workshop, organizzati da un collettivo composto da attivisti, educatori, attivisti e accademici.