Il carcere è ancora in fase uno: “Ricominciamo con le attività” Il Mattino di Padova, 1 luglio 2020 La protesta dei volontari. La programmazione in presenza è ferma dalla fine di febbraio. E quella in remoto è bloccata da ritardi nella traslazione del sistema di cablaggio. Si può andare in sauna e si può giocare a calcetto, in questa fase tre in cui tutti i divieti stanno cadendo. Ma le attività dei volontari nel carcere Due Palazzi sono ferme proprio come a fine febbraio. E quelle “in remoto” che dovrebbero riempire il vuoto sono anch’esse bloccate da problemi tecnici. Contro questa situazione kafkiana protestano tredici associazioni, supportate anche dalla Camera Penale di Padova e della Conferenza regionale Volontariato e giustizia. In una lettera al direttore della Casa di reclusione, Claudio Mazzeo, inviata anche al presidente della Regione Luca Zaia, al direttore dell’Usl Domenico Scibetta e a Garanti vari, chiedono formalmente di ripartire con le attività in presenza - che al Due Palazzi hanno una storia ultradecennale - per portare il carcere almeno nella fase due dell’emergenza Covid. E per tornare a garantire, attraverso la presenza dei volontari, il “mandato costituzionale della rieducazione”. “La direzione ci ha comunicato che “il protocollo interno anti Covid-19 elaborato di concerto con il medico competente prevede allo stato e fino al 31 agosto che le attività con la partecipazione della comunità esterna si possono svolgere con modalità in remoto”, spiegano le associazioni, “salvo poi non consentire neppure le attività in remoto, rimandandole a quando sarà portata a termine “la traslazione del vecchio sistema di cablaggio con il nuovo che consentirà a breve i collegamenti da remoto”. In presenza è proibito, insomma. E online non si può. “Chiediamo allora con urgenza di conoscere il protocollo”, insistono dunque le associazioni e le cooperative che fanno attività nella struttura. “E vorremmo avere la garanzia che anche le attività da remoto non scompariranno, perché rappresentano probabilmente il futuro, anche per il sistema penitenziario”. In attesa del cablaggio, altri problemi urgenti allungano la lista delle cose da chiarire. Per. esempio quali misure di quarantena spettano a chi torna da un permesso. Perché è importante ripristinare amnistia e indulto di Sofia Ciuffoletti Il Foglio, 1 luglio 2020 Quando la politica depotenzia la Costituzione. Nel nostro Paese le misure di clemenza nei confronti dei carcerati hanno sempre generato discussioni e divisioni. Ma gli Istituti penitenziari sono sovraffollati. Gli atti di clemenza generale come l’amnistia che estingue il reato e l’indulto che estingue la pena, nascono e si sviluppano, fin dal diritto romano, come prerogative regie. Strettamente connesse all’auctoritas, quindi, ma anche legate all’emenda, ossia alla possibilità di ravvedimento del reo: le “amnistie pasquali”, in epoca tardo-imperiale, sono, infatti, connesse con il miracolo della rinascita di tradizione cristiana che avrebbe magicamente comportato una resurrezione morale del reo. Questa qualità salvifica dell’atto di indulgentia principis sembra in qualche modo speculare al tocco dei re taumaturghi di Bloch che, in epoca medievale e fino alla fine delle monarchie assolute, guarivano dalle scrofole o dall’epilessia. La storia del common law inglese è forse quella che meglio permette di osservare le evoluzioni e trasformazioni del potere di “pardon” o “mercy” che nasce nella costituzione sassone (Leggi di re Ine del Wessex, 668-725 d.c.) come prerogativa del sovrano inglese, assoluta e illimitata e legata alla giustizia di equità. Da tale potere di equity e dalla prerogativa clemenziale del sovrano, tra l’altro, sembra discenda la tradizione del diritto penale minorile come basato su principi necessariamente diversi rispetto al diritto penale degli adulti (le condanne a morte dei fanciulli e delle fanciulle non venivano eseguite soltanto grazie ad atti di pardon). Tuttavia tale potere viene nel tempo limitato, prima dall’habeas corpus act (che proibisce atti di clemenza verso chi incorre nel reato di incarcerare i sudditi del re al di fuori del territorio inglese) e poi dal Bill of Rights (che rende illegale ogni atto di “sospensione” di leggi del Parlamento da parte del sovrano). Sarà Beccaria, durante l’età della riforma, nel passaggio dai supplizi alle pene e dalla forma di potere assolutistico all’illuminismo, a formulare una prima critica al potere clemenziale, affermando che: “il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti, e che la pena non n’è la necessaria conseguenza, è un fomentare la lusinga dell’impunità”. Durante il regime fascista si innesta un altro fronte di critica agli atti di clemenza, costituito dalla riflessione degli esuli antifascisti sul provvedimento di amnistia del 1934 (anno di nascita di Maria Pia di Savoia). Nella “sozza grossolanità mussoliniana”, come afferma l’articolo di fondo di Giustizia e Libertà del 28 settembre 1934, il provvedimento è diretto proprio, nelle parole di Mussolini, a “coloro che, forse più illusi che colpevoli, si sono lasciati attrarre da evanescenti miraggi, inducendosi ad abbandonare il sacro suolo della Patria senza l’osservanza d elle norme dalla legge stabilite”. “Oh gran finezza del tiranno paesano” commenta Giustizia e Libertà. “L’amnistia lascia immodificato l’ordinamento totalitario che rende impossibile ogni benché minima libertà e sicurezza”, scrive Carlo Rosselli a Gaetano Salvemini da Londra. Insomma, l’amnistia non modifica la realtà giuridica, penale, di un ordinamento, la falsa e, nella riflessione di Giustizia e Libertà serve quasi da esca politica: gli esuli devono stare attenti “a non commettere un delitto anche minimo nei prossimi 5 anni. Immantinente vi cadrebbero sulla testa - secondo dice il decreto- anche gli anni di galera amnistiati”. Mèmore anche di questo recente passato, la discussione in Assemblea costituente su amnistia e indulto è accesa. Due sono i protagonisti, da posizioni opposte, della contesa argomentativa, Giovanni Leone e Palmiro Togliatti. Leone, riecheggia Beccaria e mostra come l’amnistia “non risponda più alla struttura attuale dello Stato” per la sua natura arcaica legata alla regalità, non più ammissibile in un regime democratico e repubblicano. Togliatti, invece (che proprio della discussa “amnistia Togliatti” del 1946, atto di natura politica, tipico della giustizia di transizione, era stato promotore) rivendica, con argomento squisitamente politico, la necessità di collegare il potere di amnistia non alla regalità, bensì alla sovranità “e se in questo momento fosse tolto alla Repubblica questo attributo, una parte considerevole del popolo penserebbe che la Repubblica vale meno della monarchia”. Conosciamo l’esito della discussione in Assemblea costituente, la disputa sull’organo depositario della prerogativa (Assemblea nazionale, Parlamento o esecutivo e, se Parlamento: entrambe le camere o Parlamento in seduta comune) porta a una soluzione (impostasi tramite un emendamento di Bettiol) che tenta di conciliare il pericolo delle lungaggini tipiche dell’attività parlamentare con il rischio di uso strumentale degli atti di clemenza da parte del governo (“Vi sono degli esempi recenti, dei ricordi di recenti amnistie, che in verità non denunciano nel governo un’attitudine, alla elaborazione di amnistia e di indulti, molto tranquillante”, afferma Ghidini): amnistia e indulto sono concessi dal presidente della Repubblica su legge di delegazione delle Camere (art. 79 Costituzione). È qui che inizia la storia dell’amnistia e dell’indulto nell’Italia repubblicana. Storia lunga e articolata. È ancora Salvemini, nell’articolo “Anno santo e amnistia” (Il Ponte, 1949, V-11), a parlare di “Italia, paese delle amnistie” che, dopo le amnistie motivate da ricorrenze politiche, inaugura quelle a carattere religioso, cosicché “giuridicamente il condono dei delitti sarà associato al condono per i peccati”. L’articolo 79 della Costituzione è rimasto in vigore per quarantaquattro anni, nel corso dei quali sono state approvate più di 20 leggi di amnistia o di indulto. Fino agli albori di quel lungo sonno della ragione garantista che è stato Tangentopoli, quando, con il dichiarato intento di limitare il ricorso agli strumenti di clemenza, entra in vigore la legge costituzionale 6 marzo 1992, n. 1 che modifica l’art. 79, rimettendone la prerogativa piena in capo alle due camere del Parlamento e rendendo pressoché impossibile raggiungere le maggioranze parlamentari aggravate dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera (previste per la votazione di ogni articolo e nella votazione finale). Una maggioranza addirittura maggiore rispetto a quella richiesta per modificare il testo costituzionale attraverso leggi di revisione o altre leggi costituzionali (art. 138 Costituzione). Un quorum molto particolare, come afferma il senatore Labriola, nella discussione in Commissione: “Mai fino ad ora introdotto nel nostro ordinamento per la definizione di una legge. Si tratta di un quorum “super costituzionale”“ (o in-costituzionale, dato che ha contribuito ad annullare nei fatti, e nella riflessione pubblica, il ricorso a tale strumento, pur espressamente previsto nel testo costituzionale). Limitare la periodicità delle amnistie e degli indulti rispondeva, d’altronde, alla ratio insita nel nuovo codice di procedura penale appena approvato e in particolare alla nuova prospettiva dei riti abbreviati (quale vantaggio nello scegliere il processo rapido, con certa esecuzione della pena, rispetto all’attesa di una futura, ma sicura, estinzione del reato a seguito di amnistia, ovvero di una, anche parziale, estinzione della pena a seguito di indulto?). Il risultato, però, fu il totale annientamento di entrambi gli istituti. Non, quindi, una decisione politica che proclami la incompatibilità dell’amnistia con il regime democratico, sancisca la sopravvivenza del solo indulto e la possibilità di agire con leggi di abrogazione dei reati quando questi non rispondano più alla coscienza popolare, sulla scorta delle riflessioni dotte di Leone. Ma una vera e propria rimozione (Pugiotto parla di “amnistia amnesia”), una scelta di annullamento indiretta, in un sistema parlamentare frammentato e litigioso (e al momento abbastanza inconsistente) come quello italiano. E d’altra parte la vera rivoluzione nel senso dell’annullamento di ogni prospettiva di atti di clemenza non è stata mera conseguenza della scure del quorum dei 2/3, quanto prodotto di un vero e proprio cambiamento del paradigma culturale di riferimento. L’amnistia dopo Tangentopoli diventa concetto politicamente clandestino, innominabile, quasi una bestemmia ed è, invece, carica di consenso popolare ogni posizione contraria ad atti di clemenza. Nel corso della commissione parlamentare per le Riforme costituzionali del 1997, il tema viene affrontato nuovamente, con proposte emendative proprio del quorum richiesto dall’art. 79. L’onorevole Boato, estensore di un emendamento in tal senso, ricordò che la modifica costituzionale da cui era scaturita la formulazione dell’art. 79 ebbe luogo in un clima politico “emergenziale di allarme” che portò alla “blindatura” delle leggi di amnistia e indulto. E di blindatura si è, infatti, trattato. Dal 1992 a oggi, in 28 anni quindi, un solo indulto è stato approvato, monco della corrispettiva legge di amnistia, nel 2006. Questa sorta di damnatio memoriae si è legata, negli ultimi anni a un concetto di gran moda nella retorica politica: amnistia e indulto sarebbero incompatibili con la certezza della pena e ne minerebbero fatalmente le basi. Il punto, come correttamente notato da Pugiotto, è che il concetto di certezza della pena è (e continua a essere) strumentalmente frainteso, adoperato in modo atecnico a significare: certezza del fatto che la persona condannata resterà (marcirà?) in prigione fino all’ultimo giorno previsto nella pena comminata in sentenza… ma così non è. Certezza della pena sul piano costituzionale è una garanzia (che dovremmo aver cara perché riguarda tutte e tutti noi) che la pena è predeterminata per legge (principio di legalità della pena) e non sarà, quindi, frutto di arbitrio; mentre la sua esecuzione è retta dal principio rieducativo (sulla scorta del quale, per esempio, non è ammissibile un ergastolo non rivedibile, vedi alla voce sentenza di condanna Viola c. Italia, diretta proprio a sanzionare il nostro sistema di ergastolo ostativo). Se anche le varie posizioni, a voler conceder loro un fondamento teorico e storico, fossero basate sull’assunto di Beccaria per cui: “La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”, sarebbe da notare, da una parte che Beccaria ha una concezione della pena meramente general-preventiva (al contrario della nostra Costituzione che considera preminente la funzione rieducativa), dall’altra che, purtroppo, da noi il castigo (che è eminentemente detentivo) raramente è moderato, con buona pace del marchese di Gualdrasco e Villareggio. E proprio in questa prospettiva vale la pena analizzare la stretta correlazione, in un sistema panpenitenziario, come quello italiano, tra amnistia e sovraffollamento carcerario. Come accennato, la natura multiforme dell’amnistia, infatti, si è concretizzata, nella storia italiana, sia monarchica che repubblicana, in varie tipologie: dall’amnistia come manifestazione dell’indulgentia principis in occasione di eventi particolari di natura laica, ma anche religiosa (e in questo caso, cattolica, si pensi alle amnistie legate ai concili vaticani o ai giubilei): la cosiddetta “amnistia celebrativa”, alle amnistie eminentemente politiche o di transizione, cosiddette “pacificatrici”, volte a rimuovere le conseguenze di un periodo di lotte e tensioni sociali e civili (come la ricordata amnistia Togliatti del 1946 o la amnistia Nitti del 1919 diretta a condonare i crimini politici, in particolare la diserzione, commessi durante la prima guerra mondiale o ancora negli anni ‘70, strettamente legate ai sommovimenti politici post-sessantottini). Infine, l’amnistia è strumento riconosciuto di politica criminale che, in Italia, tristemente significa: riduzione del danno da sovraffollamento penitenziario. Insomma, attraverso le amnistie si è garantita quella valvola di salvezza (se di salvezza si può parlare) di un sistema penitenziario in stato di costante fibrillazione. Così è avvenuto che, anche a seguito della riforma costituzionale del 1992 e dell’introduzione di un quorum estremamente aggravato, la condizione di sovraffollamento delle patrie galere abbia prevalso sulle riserve politiche in un’unica, isolata e parziale occasione. Nel 2006, infatti, il livello di sovraffollamento penitenziario sfiora le 62.000 presenze (a fronte di una capienza regolamentare di circa 42.000 posti…), il Parlamento vota la legge di indulto, dopo che in commissione Giustizia alla Camera viene proposto lo stralcio dell’amnistia. Appariva, infatti, impossibile raggiungere il quorum previsto mantenendo amnistia e indulto appaiate e gli stessi proponenti scelgono di separare i due provvedimenti, ritenendo più urgente la necessità deflattiva nelle carceri (ottenibile anche con il solo indulto), rispetto all’esigenza di alleggerire il carico degli uffici giudiziari. D’altronde, come dice lo stesso proponente, Buemi, la discussione sull’amnistia deve andare avanti, dato che: “La concessione dell’indulto senza varare una amnistia costituisce un intervento zoppo, nonché irrazionale”. L’amnistia non si farà mai. L’indulto porterà a una riduzione significativa della popolazione penitenziaria (circa 25.000 detenuti escono nei primi 5 mesi che seguono l’approvazione della legge). Serviranno 3 anni perché la popolazione torni ad attestarsi e superare le 62.000 presenze, ma in assenza di altre riforme strutturali, il tasso di sovraffollamento ricomincia a salire costantemente già dalla fine del 2006 e porta alla prima eclatante condanna in sede europea, nel caso Sulejmanovic c. Italia. Lo smodato ricorso ad amnistia e indulto in età repubblicana e precedente alla riforma del 1992 aveva ingenerato una terza accusa rivolta agli atti di clemenza, nata nel campo dei critici del carcere e che riecheggiava il monito di Carlo Rosselli secondo cui l’amnistia era una valvola di sfogo del sistema che non modificava il paradigma sanzionatorio e consentiva all’ordinamento di mantenersi inalterato. La vera sfida al dogma carcerario, fatta di depenalizzazione e di interventi di ampliamento dell’accesso alle misure alternative, così come la costruzione di una prospettiva sanzionatoria non carceraria, non traeva altro che detrimento da amnistie e indulti che, inoltre, interrompevano bruscamente gli interventi riabilitativi, con conseguente probabile ricaduta nel reato. Su quest’ultimo punto, come analizzato da Luigi Manconi e Giovanni Torrente, in un articolo del 2007, i numeri sembrano smentire la previsione. La ricerca condotta nei primi 6 mesi dalla legge mostrava, infatti, come l’indulto non avesse aumentato il tasso di recidiva, che si mantenne relativamente basso. Da quell’intervento del 2006 molta acqua è passata sotto i ponti del sistema penitenziario italiano. Molte condanne della Cedu all’Italia per trattamento disumano e degradante collegato al sovraffollamento e alle condizioni detentive, un intervento del 2010 (tornato oggi alla ribalta) dell’allora ministro della giustizia Alfano, cosiddetto “svuota-carceri” (che non seppe mantener fede al soprannome), una procedura pilota sempre in sede europea contro l’Italia nel 2013: la arcinota sentenza Torreggiani, gli Stati Generali per l’Esecuzione Penale, il messaggio alle Camere del Presidente Napolitano (che invocava anche mirati provvedimenti di clemenza generale), l’introduzione della tutela rimediale per compensare i detenuti e le detenute per trattamenti disumani e degradanti e prevenire le lesioni dei loro diritti, una riforma dell’ordinamento penitenziario falcidiata nello spirito e negli intenti. Una sola cosa è rimasta pressoché costante, ossia costante nell’aumento (con una leggera flessione nel 2014 e nel 2015, principalmente dovuta agli interventi sulla custodia cautelare e alla sentenza della Corte costituzionale sull’illegittimità della Fini-Giovanardi, a riprova del fatto che una depenalizzazione in ambito di reati di droga sarebbe, da sola, una riforma capace di assorbire grande parte della popolazione detenuta attuale): il tasso di sovraffollamento nelle patrie galere. Oggi l’emergenza penitenziaria lo ha fatto scendere drasticamente, dalle 63.000 presenze di fine febbraio alle circa 53.000 attuali, in 3 mesi (sempre 3.000 in più della capienza regolamentare che andrebbe comunque rivista secondo le necessità che il Covid-19 impone). Più di un indulto, più di un’amnistia. Eppure, i cancelli delle galere si stanno riaprendo e, senza interventi normativi adeguati, il sovraffollamento è destinato a risalire vertiginosamente. Così come vertiginosamente salirà il carico di lavoro degli uffici giudiziari nella fase 3 della giustizia in Italia. In questo contesto, il 2 aprile è stata presentata alla Camera la proposta di legge n. 2454, d’iniziativa dei deputati Magi di +Europa, Bruno Bossio del Pd, Giachetti e Migliore di Italia viva, non per proclamare un’amnistia o un indulto, ma per riformare il testo dell’art. 79 della Costituzione. La riforma costituisce quello che, in un volume curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto è stato definito “un rinnovato statuto di amnistia e indulto”. Il “rinnovato statuto” consiste in una delimitazione del campo di azione dei provvedimenti clemenziali che, da una parte, risponde alle interpretazioni della Corte Costituzionale e relative a questi strumenti, dall’altra pone un limite espresso alle amnistie cosiddette “celebrative”. La proposta, infatti, riprende una discussione già svolta in sede di assemblea costituente e legata alla necessità di cesura rispetto al passato monarchico, proprio in relazione alle amnistie “celebrative” che cercava di assicurare il carattere “eccezionale” dei provvedimenti. E in effetti tutti gli interventi e le proposte modificative (in senso restrittivo) in età repubblicana giocano su due fronti: l’espressa previsione di un campo di eccezionalità e straordinarietà dell’operatività dei provvedimenti di clemenza attraverso un’espressa dizione oppure la previsione di quorum qualificati o iperqualificati (e in fondo squalificanti), come nella proposta, divenuta poi legge costituzionale, del 1992. L’attuale proposta di legge sceglie di utilizzare entrambe le strategie: da una parte, infatti, propone di delimitare espressamente l’ambito di operatività di amnistia e indulto attraverso il riferimento alle “situazioni straordinarie” e quindi imprevedibili e alle “ragioni eccezionali” connesse all’interpretazione e alla decisione politica. Dall’altro prevede un quorum qualificato: la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera, pari a quello richiesto (in seconda votazione) per modificare la Costituzione. Il nuovo statuto, nelle parole del primo firmatario, Riccardo Magi, che ha risposto ad alcune nostre domande in un colloquio per questo articolo, permette di garantire che il testo costituzionale (che, lo ricordiamo, mantiene espressamente il potere di clemenza) non sia reso ineffettivo, nella prassi, dalla previsione di un quorum impossibile da raggiungere e al contempo avvince la fattispecie nell’alveo della straordinarietà ed eccezionalità contestuale. L’abbassamento del quorum, insomma, serve a restituire effettività alla scelta costituzionale di prevedere, come strumenti di politica criminale, sia l’amnistia che l’indulto. La previsione di un quorum così alto (conviene specificare che a livello globale, secondo uno studio del 2015 sul potere di amnistia nei paesi membri delle Nazioni Unite, sono solo 14 su 186, gli stati che prevedono maggioranze qualificate per le leggi di amnistia e, per la precisione: Albania, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador Egitto, Grecia, Moldavia, Filippine Romania, Serbia, Turchia e Uruguay, oltre l’Italia…), infatti, non è coerente con la stessa materia degli atti di clemenza in cui si sono da sempre manifestate, in Italia, forti resistenze identitarie, non necessariamente partitiche, ma trasversali e talvolta manifestatesi all’interno degli stessi gruppi parlamentari. Come correttamente nota la relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale, presentato al Senato nel 2016 (primo firmatario Luigi Manconi), paradossalmente, a normativa vigente, proprio il quorum così aggravato potrebbe portare, in sede di adozione di un provvedimento di amnistia o indulto, al ritorno di un “effetto ‘consociativo’ in cui in cui ciascuna parte lo approva pro domo sua”. Possiamo anche ipotizzare che, nel quadro normativo attuale, non sia affatto annullato il rischio di amnistie celebrative, anzi sembra che queste ultime siano le uniche verosimili, legate, come sono, a un consensus trasversale, impolitico (o a-politico), volubile e bonaccione. L’assoggettamento a quorum possibili permette invece di riferirsi a una maggioranza “non occasionale, capace di esprimere una intellegibile politica del diritto”. Anche a queste considerazioni si rifà l’odierna proposta di legge costituzionale che ha l’intento precipuo, come afferma Magi, da una parte, di restaurare l’ordine costituzionale in tema di amnistia e indulto, rendendo nuovamente possibili questi strumenti, dall’altro di limitarne la portata e l’attuabilità, eliminando le cosiddette amnistie celebrative (di matrice laica o religiosa). D’altronde anche gli organi internazionali hanno recentemente rivalutato il ruolo delle leggi di amnistia nel necessario compito di agire repentinamente sul sovraffollamento penitenziario. Una raccomandazione del 1999 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa mostrava, infatti, di accogliere la critica agli strumenti di clemenza come mezzi efficaci per combattere il sovraffollamento, suggerendo l’uso di strumenti personalizzati, come le misure alternative. Così ancora il Libro Bianco sul sovraffollamento penitenziario del Consiglio d’Europa del 2016, indicava chiaramente la preferenza per depenalizzazione e misure alternative al carcere, riportando una critica all’uso delle amnistie formulata dal Cpt (il Comitato per la Prevenzione della Tortura) e relativa al rischio di recidiva in caso di amnistie non accompagnate da adeguata preparazione e da strutture di supporto esterne. La pandemia di Covid-19 ha portato il Consiglio d’Europa a riconsiderare l’amnistia come una delle alternative possibili per sanare un sovraffollamento penitenziario europeo che costituisce un nervo scoperto nella gestione sistematica e sostenibile del virus. D’altra parte, quando si commette una violazione di una norma internazionale di valore assoluto come l’art. 3 della Convenzione Edu, ossia il divieto di trattamenti disumani e degradanti (e l’Italia è pluri-recidiva, pluri-condannata e pluri-criminale), uno strumento di immediata interruzione della violazione in atto deve essere possibile. In Italia, la storia recente mostra come a fronte di tutti gli interventi sopra ricordati, un vero sfollamento delle carceri si è avuto solo a seguito di una pandemia dilagante. Ora, però, le pandemie non si possono calendarizzare o sottoporre a quorum qualificati, gli interventi di politica del diritto sì. Per aggiungere un ultimo argomento, di natura squisitamente utilitaristica, il Next Generation EU, il documento presentato dalla Commissione Europea sul recovery plan da 750 miliardi di euro tra prestiti e sussidi in quattro anni, di cui lo stato italiano sarà uno dei principali beneficiari, è sottoposto ad alcune condizioni; una su tutte qui interessa: la risoluzione della lentezza della giustizia. Civile, amministrativa e penale. Non sfuggirà come il rendere politicamente concepibile non solo l’indulto, ma anche l’amnistia (che, estinguendo il reato, porta nel Dna proprio l’alleggerimento del carico di lavoro degli uffici giudiziari) sembra, contro-fattualmente rispetto a ogni ragionamento di cultura politica (o meglio di ideologia panpunitiva) oggi dominante, particolarmente appetibile. E anche se siamo ben consce del fatto che quello dell’homo economicus, perfettamente razionale e utilitarista, sia un mito bello e buono, forse questo è il momento più adatto per ragionare intorno alla rifondazione costituzionale di amnistia e indulto. Il Garante dei detenuti: “Serve la Commissione per i diritti umani” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 luglio 2020 Esiste da due anni una proposta di legge per dare attuazione alla Risoluzione Onu che impegna gli stati a istituire organismi nazionali indipendenti. Da oramai due anni, nonostante il sollecito da parte del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, è rimasta nel cassetto la proposta di legge per istituire la Commissione nazionale per la promozione e la protezione dei diritti umani con la finalità di dare attuazione alla risoluzione n. 48/134 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, del 20 dicembre 1993, che impegna tutti gli Stati firmatari, tra cui l’Italia, a istituire organismi nazionali, autorevoli e indipendenti, per la promozione e la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Lo ha ricordato il Garante Nazionale nel suo rapporto annuale presentato in Parlamento. Ha spiegato, infatti, che il 2019 è stato l’anno della terza Revisione periodica universale dell’Italia, un esame da parte del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite che avviene con cadenza ciclica di quattro anni e mezzo ed è finalizzato ad analizzare lo stato di salute dei diritti nei diversi Paesi. L’Italia aveva affrontato il suo primo ciclo di revisione nel 2010 e il secondo nel 2014. Ben centoventuno Stati hanno formulato delle dichiarazioni e complessivamente l’Italia ha ricevuto 306 raccomandazioni. Nel 2014, ricordiamo, l’Italia aveva ricevuto la raccomandazione di istituire un Meccanismo nazionale di prevenzione (Npm) della tortura indipendente ed efficace, all’epoca adempiuto solo in parte perché era stato previsto dalla legge ma non ancora istituito. Sappiamo che, finalmente, nel 2016 il governo ha messo in pratica la raccomandazione, anche se a scoppio ritardato, è ha istituito la figura del Garante Nazionale. Però rimane il discorso della mancata attuazione del National human rights institution (Nhri), ovvero la Commissione nazionale indipendente per la promozione e protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Come detto, non ha ancora visto la luce a distanza di ben ventisette anni dall’approvazione della Risoluzione dell’Onu. Il Garante racconta che la delegazione italiana, l’anno scorso, ha preso un impegno davanti al working group del Consiglio dei diritti umani: nella presentazione iniziale come primo punto è stata “riaffermata la volontà” da parte del “governo italiano di stabilire una Istituzione nazionale indipendente dei diritti umani in conformità con i Principi di Parigi”. A tal proposito - sottolinea il Garante nella relazione - la delegazione ha citato la proposta di legge attualmente pendente alla Camera dei deputati sull’istituzione di un organismo indipendente, al momento - e da molto tempo - all’esame in Commissione. “Anche se dopo ventisette anni dall’adozione dei “Principi di Parigi” - scrive il Garante - e dopo quattordici anni di progetti di legge mai giunti all’approvazione - per non citare le dichiarazioni d’intenti già espresse, e mai attuate, al Consiglio dei diritti umani - rinviare a una proposta di legge non sembra operazione sufficiente per tranquillizzare gli Organi di controllo”. L’auspicio del Garante nazionale, in linea di continuità con le osservazioni già espresse l’anno scorso, consiste nel raccomandare l’adozione di una norma primaria istitutiva di un Organismo indipendente per la promozione e la protezione dei diritti umani, nel segno della salvaguardia delle esperienze delle Autorità indipendenti in carica. Come è il caso del Meccanismo nazionale di prevenzione in ambito Opcat, cioè il Garante nazionale, che, come ha mostrato anche il rapporto del Consiglio dei diritti umani, gode di una posizione di positivo accreditamento presso la comunità internazionale. “Il carcere è l’inferno in terra” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 1 luglio 2020 Carmelo Musumeci, primo ergastolano ostativo: “l’ergastolo è una pena di morte viva. Alla società non serve il dolore di chi commette il reato, né allevia il dolore delle vittime”. “Se qualcuno mi chiede se mi sono perdonato rispondo di no, ma cerco di scontare la mia pena in maniera utile per la società”. Sono le parole di Carmelo Musumeci, arrestato nel 1991 e condannato all’ergastolo ostativo per omicidio e associazione mafiosa. Da circa due anni è in liberazione condizionale e fa volontariato in una casa famiglia umbra: “La prima volta che mi sono sentito colpevole è stato di fronte a persone buone, non di fronte a una guardia che chiudeva il cancello”. Quando lo raggiungiamo nella Comunità Papa Giovanni XXIII capiamo il senso delle sue parole: “il bene è contagioso”, spiega, mostrandoci quei luoghi di relazione sociale che gli hanno permesso di cambiare vita. La sua storia si divide in due parti, la prima determinata da una “cultura deviante e criminale”: dopo l’adolescenza in un istituto minorile, viene condannato all’ergastolo ostativo - pena che si applica a reati di particolare gravità e che non prevede la concessione di benefici penitenziari - in seguito a una sanguinosa lotta per il territorio in Toscana tra clan rivali. Quando entra in carcere ha la licenza elementare, è conosciuto come il “boss della Versilia”. Seguono gli anni all’Asinara, dove è sottoposto al “regime di tortura” del 41bis. Trascorre recluso un terzo della sua vita, passando da un istituto all’altro. Oggi, all’età di 64 anni, Musumeci è uno scrittore, autore tra gli altri di “L’urlo di un uomo ombra. Vita da ergastolano ostativo”, e ha tre lauree: in giurisprudenza, sociologia e filosofia. Nel 2014 il suo ergastolo è passato da ostativo a “ordinario” e dopo due anni in regime di semilibertà nel carcere di Perugia, viene scarcerato nel 2018 con la liberazione condizionale. Da allora prosegue la sua battaglia contro il fine pena mai avviata dalle mura del carcere con l’appoggio esterno di esponenti della cultura e politica italiana. “Il carcere non è la medicina ma la malattia - spiega Musumeci - sono le relazioni sociali ad avermi veramente cambiato”. La sua ribellione contro il sistema penitenziario nasce per rabbia, non vede “la differenza tra i colpevoli che sono dentro e quelli che ti tengono recluso”. “Non hanno neanche l’umanità di ammazzarci ma ci murano vivi”, si ripeteva con gli altri detenuti all’Asinara. La consapevolezza, il senso di colpa che lo ha portato a un cammino doloroso di trasformazione, arriva anni dopo con l’incontro con Agnese Moro e Nadia Bizzotto, con cui condivide il progetto “Oltre le sbarre”. Dal carcere comincia a tessere rapporti con l’esterno e diventa un “detenuto ingombrante”: “Lo Stato ha paura del prigioniero che studia, pensa e sogna”, accusa. E “ha paura anche dell’amore”: in regime di 41bis, infatti, ogni contatto fisico con i familiari è impedito, i colloqui si svolgono con un vetro divisorio. “Ma le mogli e i figli dei detenuti non hanno commesso alcun reato”, sottolinea Musumeci. Il suo racconto è doloroso, non è mai facile - spiega - mettere a nudo la parte peggiore della propria vita. Proprio nella testimonianza e nella qualità dell’informazione, però, riconosce il valore fondamentale della sua battaglia culturale. “L’ergastolo è una pena di morte viva - prosegue. Alla società non serve a nulla il dolore di chi commette il reato, né allevia il dolore delle vittime. Io credo che sia molto più produttivo far emergere il senso di colpa di chi ha commesso del male. Una pena detentiva, in un certo senso, non ti assolve dal male che hai fatto perché pensi solo a quello che ricevi ogni giorno”. Così come uno “Stato che lascia morire in carcere boss malati di settanta- ottant’anni produce un messaggio sbagliato: alimentando in certi ambienti la costruzione del mito e la mentalità criminale”. Per spiegare gli effetti positivi delle misure alternative al carcere, ci presenta il suo esempio. Nella comunità di Papa Giovanni XXIII, dove fa volontariato con persone disabili, ci sono 300 detenuti che scontano la pena in maniera utile: il tasso di recidiva è del 5%, mentre per chi proviene dal carcere è del 70%. “La legalità prima di pretenderla, va data”, spiega ancora: “Il carcere è l’inferno in terra”. Se il fine pena mai, sottraendo ogni speranza di uscire, non incoraggia al cambiamento, a perderci è prima di tutto la società. Una società che riflette sé stessa in un luogo di sofferenza sottotratto alla conoscenza, “una discarica sociale” dove “puoi trovare di tutto”: barboni, tossicodipendenti e stranieri che affollano le sezioni di media sicurezza di tutte le carceri italiane. “Bisogna pensare a una pena che fa bene. La vera vendetta - conclude Musumeci - è dare a chi ha sbagliato affetto sociale, gli strumenti per stimolare il senso di colpa. È soltanto il perdono che ferisce e disarma”. Bambini in carcere, un dramma che deve finire di Chiara Caraboni urbanpost.it, 1 luglio 2020 Ci sono bambini che nascono e crescono in carcere. Lontani dal mondo. E non per colpa loro. In Italia le madri detenute che dividono la cella con i propri figli sono 34, e sembra assurdo che non si riesca a trovare una via alternativa a questa. Solo in Campania, si contano sette mamme e nove bambini, tutti privati del diritto all’infanzia. Una situazione degradante, che li costringe a una detenzione punitiva fin dai primi giorni di vita. “Risulta davvero difficile pensare che non si riescano a trovare luoghi alternativi al carcere”, si legge nel rapporto annuale sulle condizioni di detenzione elaborato dall’associazione Antigone. I numeri non sono così eclatanti, ma abbastanza da far discutere: 34 madri dietro alle sbarre, con a seguito i propri bambini (40), costretti a crescere in un istituto penitenziario. Privati di ogni affetto, del diritto all’infanzia, sviluppano ovviamente dei traumi con cui poi dovranno convivere per sempre. Come sottolinea Francesco Caraudo, esperto di medicina penitenziaria e autore del libro “il medico degli ultimi”, infatti, “un bambino in carcere è un fatto intollerabile per l’opinione pubblica in quanto il carcere è un’istituzione punitiva. Resta facilmente intuibile che il carcere appare come l’ambiente più insano dal punto di vista dell’igiene mentale e dello sviluppo fisico per un bambino”. La realtà però è questa: tra l’Istituto di Lauro e quello di Salerno, i due che in Campania sono attrezzati per ospitare anche i più piccoli, risiedono sette detenute madri e nove bambini. Un totale di 16 persone che non vengono considerate altro che un numero per il bilancio che periodicamente il Ministero della Giustizia stila per fare il punto della situazione penitenziaria. Anche con il lockdown e la crisi sanitaria, quasi tutte le detenute e i loro bambini sono state costrette a rimanere nelle loro celle. Nonostante tutto. Su trentaquattro, infatti, solo una ha avuto la possibilità, insieme ai suoi due bambini, di lasciare la prigione. Alcuni bambini, quindi, crescono conoscendo una sola realtà: quella del carcere. Come confermano alcuni studi, questo crea dei veri e propri traumi nei più piccoli. Per esempio, le prime parole che imparano a pronunciare sono “apri”, “fuori”, oppure “aria”. La prigione è l’unico mondo che conoscono, insieme agli ambienti limitati, alle restrizioni, alle guardie. Un mondo in cui non c’è spazio per giocare con gli altri bambini, per scoprire la natura. Per correre. “In carcere il bambino subisce inenarrabili costrizioni poiché vive e cresce secondo i tempi e i ritmi, i suoni e gli odori della prigione. L’ambiente è innaturale, confinato da una serie successiva di muri, sbarre, porte e cancelli”, spiega Ceraudo. E di conseguenza si abituano anche alle persone, ai gesti che caratterizzano le prigioni. Tramite altri studi, inoltre, è stato dimostrato come il rischio di devianza sia più altro per quei bambini che hanno vissuto i primi anni di vita in carcere con la propria mamma. E non è difficile comprendere il perché. La possibilità di lasciare i figli tra le braccia delle mamme detenute trova le sue radici in una legge del 1975. Varata con lo scopo di evitare, o per lo meno ritardare, il distacco dei piccoli dalla propria madre, si è sviluppata in una vera e propria detenzione anche per i neonati. La 62 del 2011, poi, recante modifiche in materia di detenute madri, sono stati introdotti degli istituti volti a favorire il rapporto fra madre e figlio. Si tratta di case famiglia protette e istituti di custodia attenuata per le detenute madri (Icam). Il dramma dei bambini in carcere non è però risolto. E questo rischia di creare degli effetti devastanti e permanenti. “Maternità e reclusione sono due condizioni in conflitto tra loro, e la seconda comunque sembra negare la possibilità alla prima di esprimersi, se non in situazioni di estremo disagio”, sottolinea Ceraudo. In questa situazione così già di partenza drammatica, che risulta essere borderline tra la scelta di allontanare un figlio dalla propria madre e quella di costringerlo a crescere in carcere, sicuramente si potrebbero migliorare gli ambienti. Colorare le celle, riempire gli asili di giocattoli, organizzare delle attività. Almeno finché non si riuscirà a evitare situazioni del genere. Secondo Careaudo, infatti, “il vero obiettivo da perseguire non è il miglioramento dell’ambiente nel quale il bambino vivo, ma neutralizzare sin dall’inizio l’operazione carceraria che costringe il bambino a vivere in un carcere vero e proprio”. Salvini e la feroce ostilità per una società basata sui diritti di tutti, specialmente dei più deboli di Piero Sansonetti Il Dubbio, 1 luglio 2020 Matteo Salvini ha definito Mauro Palma, “garante dei delinquenti”. Palma è in realtà da qualche anno “il garante dei detenuti e delle persone private della libertà”. È un istituto che esiste in Italia da quattro anni, è di nomina governativa e serve soprattutto a tutelare i diritti delle persone in prigione. Esiste in altri 23 paesi dell’Unione Europea e anche in Svizzera. In Svezia esiste dal 1809. Salvini ha lanciato la sua polemica contro Mauro Palma dopo la presentazione, da parte di Palma, del rapporto annuale in Parlamento. In questo rapporto il Garante critica severamente i decreti sicurezza voluti da Salvini. Era scontata la reazione di Salvini. Non era scontata la furia di questa reazione che, per colpire Palma, colpisce e umilia circa 50mila detenuti, molti dei quali (circa un terzo) in attesa di giudizio, e dunque innocenti, che non vengono definiti detenuti ma, offensivamente, delinquenti. La discussione politica e la lotta politica spesso portano a forti asprezze. Non solo non ci indigniamo, ma ci piace rendere ai nostri lettori l’ampiezza della discussione. Per questo siamo contenti di offrirvi oggi sia una intervista a Palma sia una a Salvini, i quali espongono liberamente le loro idee, i loro programmi, le loro proposte. Le interviste sono precedenti allo scontro tra Salvini e Palma e tuttavia mi pare che esprimano in modo compiuto due modi molto diversi di vedere il mondo e i problemi della società. È giusto che queste due visioni del mondo si scontrino in modo trasparente e dentro i confini della democrazia politica? Io penso di sì. Penso che qualunque idea, anche quelle che trovo lontanissime da me e che talvolta mi inorridiscono, abbiano diritto di esprimersi e di cercare consensi, e di trasformarsi in idea politica e eventualmente in governo. Sento ovviamente nelle parole di Salvini una feroce ostilità per una società basata sui diritti di tutti, specialmente dei più deboli. Sento una pulsione alla repressione come strumento per l’affermazione della giustizia. Abbiamo pubblicato in questi giorni alcuni articoli di mons. Paglia, il quale ci ha illustrato l’idea cristiana di società: aperta, fondata sulla carità, sul perdono, sulla fratellanza, sulla solidarietà. Dove non esistono giusti e reprobi. Ricchi e poveri. Italiani e stranieri. Liberi e detenuti: esiste l’essere umano. Capisco benissimo come quella di Paglia sia un’idea che non può piacere a tutti. So che esiste una idea che fa invece della competizione e della selezione del migliore - o del più forte o del più dotato - il motore del progresso. Per questo sono convinto che sia giusto che due idee molto diverse si contrappongano e confliggano tra loro. Per quel che mi riguarda, sono dalla parte dei diritti. Il riformismo per me è questo: diritti, libertà, inclusione. Carceri, delegazione di Garanti detenuti incontra il nuovo Capo del Dap askanews.it, 1 luglio 2020 Il punto sulla fase 2 dell’emergenza Covid-19. Ieri pomeriggio, presso la sede del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, una delegazione della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, composta dal Portavoce Stefano Anastasia (Garante per le Regioni Lazio e Umbria) e da Bruno Mellano (Regione Piemonte), Piero Rossi (Regione Puglia), Paolo Mocci (Comune di Oristano) e Gabriella Stramaccioni (Roma Capitale), ha incontrato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia. L’incontro, finalizzato a presentare al Capo del Dap l’attività della Conferenza e il modus operandi dei Garanti nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, è stata l’occasione per fare il punto sulle principali urgenze del sistema penitenziario nella fase 2 dell’emergenza Covid-19, a partire dalla riapertura delle attività trattamentali e del volontariato. Toghe contro il nuovo abuso d’ufficio. “Così il reato diventa inapplicabile” di Liana Milella La Repubblica, 1 luglio 2020 “Meglio cancellarlo del tutto, che renderlo di fatto inapplicabile”. È questa la prima reazione delle toghe sulla riforma dell’abuso d’ufficio prevista dal decreto Semplificazioni. Un mezzo colpo di spugna che complica più che risolvere il problema. Perché se il reato ricorre solo se ogni interpretazione “discrezionale” è esclusa, si ottiene un solo risultato, rendere l’abuso d’ufficio o inapplicabile, o ancora più pericoloso. L’intento di Conte era tutt’altro, tant’è che appena qualche giorno fa diceva che “non si tratta di abolire il reato ma di circoscriverlo meglio”. Ma il governo va verso una formula ambigua. Laddove nel testo in vigore è scritto che si dà il reato “in violazione di norme di legge o di regolamento”, ecco la nuova frase, almeno a ieri sera: si dà il reato “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino discrezionalità”. La parola magica diventa “discrezionalità”. Non è la strada che suggeriva l’ex procuratore di Roma Pignatone: abolire il reato e sostituirlo con reati specifici. Ma ecco le reazioni di due magistrati che sanno bene cosa significa l’abuso d’ufficio. Dice Alfonso Sabella, ex pm antimafia a Palermo ed ex assessore alla Trasparenza a Roma dopo Mafia Capitale: “Limitare l’abuso d’ufficio alla sola violazione di una legge che non lasci margini di discrezionalità al pubblico ufficiale significa, di fatto, abrogare il reato perché nessuna norma può essere interpretata rigidamente in un solo modo: per questo esiste la magistratura”. “Il problema - aggiunge - non sta nell’attuale formulazione, che finisce per punire solo le condotte realmente gravi e caratterizzate dal dolo specifico, ma nelle conseguenze che, erroneamente, facciamo derivare dall’avvio di indagini per accertarne la presunta violazione”. L’anticipo di bocciatura arriva anche da Alfonso D’Avino, oggi procuratore di Parma, ma a Napoli pm del pool che scoprì il tesoro di Duilio Poggiolini. Che dice: “La bozza sembra andare in una direzione eccessivamente riduttiva dello spazio di intervento penale, con il rischio di una sostanziale eliminazione della figura dell’abuso di ufficio”. D’Avino affronta il punto cruciale: “Richiedere la violazione di specifiche regole di condotta (che dovranno essere elencate in dettaglio) rischia di lasciarne fuori molte altre che potrebbero essere fonte di illecito”. L’unica notizia positiva, per la maggioranza, è che Forza Italia è a favore, come dice il responsabile Giustizia Costa che già nel 2017, con la commissione Nordio, voleva cancellare l’abuso di ufficio, ma oggi ironizza sulla “rimodulazione” della norma da parte del governo, “per giunta per decreto”, dove potrebbe nascondersi “un intervento su misura per qualche loro amministratore, vogliono far dormire sonni tranquilli a qualche sindaco o sindaca malauguratamente accusati di questo reato”. Un riferimento alla prima cittadina di Torino Chiara Appendino? Alla quale però, come reato principale, è stato contestato il falso. Abuso d’ufficio, più certezza nelle regole di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2020 Migliaia e migliaia di procedimenti aperti ogni anno e poi solo poche decine di condanne. Con l’effetto collaterale di un irrigidimento della burocrazia pubblica, che piuttosto di prendersi il rischio di una contestazione penale si adagia in una più tranquilla inerzia. Questa la realtà prodotta dall’attuale versione del reato di abuso d’ufficio, peraltro esito anche in passato di continue riforme e aggiustamenti, che ora il decreto semplificazioni si accinge a modificare. La bozza messa a punto si muove nella direzione di una più rigida determinazione del perimetro di tassatività penale della norma. E lo fa cambiando in maniera significativa l’attuale articolo 323 del Codice penale. Se quest’ultimo fa riferimento alla generica violazione di norme di legge, al dolo intenzionale, al danno ingiusto, il progetto in corso di elaborazione è concentrato invece sulla precisazione più puntuale delle regole di condotta oggetto della violazione, che dovranno essere costituite da norme di legge oppure da atti con forza equivalente a quella di legge. L’intervento poi attribuirà una particolare rilevanza al fatto che la disposizione trasgredita poco spazio lasciasse all’esercizio della discrezionalità, che rappresenta pur sempre un criterio importante di esercizio, seppure non di arbitrio, nell’esercizio delle funzioni da parte della pubblica amministrazione. Di conseguenza il rigoroso rispetto delle regole dovrebbe mettere al riparo dagli effetti penali. Da valutare c’è ancora un’eventuale modifica dei massimi di pena, perché, per effetto della riforma del 1997 (Governo Prodi), l’abbassamento della sanzione da 5 a 4 anni nell’ipotesi standard del reato, rese di fatto impossibile l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche. Problema non da poco e che non è stato risolto neppure con l’ultimo e assai recente intervento, varato dal Governo Lega-5 Stelle, con la legge anticorruzione, che pure ha sdoganato l’utilizzo dei trojan per alcuni gravi delitti contro la pubblica amministrazione. Anche l’intervento del ‘97, tra l’altro, mise mano all’area del penalmente rilevante, delineando la fattispecie oggi in vigore, introducendo il dolo intenzionale, con le relative difficoltà a provarlo in una fattispecie così complessa che spesso coinvolge una pluralità di soggetti, ed escludendo il vantaggio di natura non patrimoniale. Quello che si vuole evitare è, come testimoniato dal Sole 24 Ore del lunedì del 15 giugno, il proliferare di denunce che poi non reggono al dibattimento e, spesso, neppure alle indagini. Il rischio cioè di ritenere che esista un profilo di rilevanza penale in ogni (asserita) illegittimità di un atto amministrativo. Tanto per avere un’ida dei numeri, secondo quanto emerge dagli ultimi dati Istat-ministero della Giustizia, nel 2017, ultimo anno disponibile, a fronte di 6.582 procedimenti aperti, le condanne sono state in tutto 57; negli anni precedenti il saldo non si discosta poi molto (per esempio, nel 2016 a fronte di 6.970 procedimenti avviati, le condanne erano state 46). Le conseguenze però possono essere diverse e in gran parte negative, come segnalato più volte nel dibattito che ha visto coinvolti sia i magistrati sia gli avvocati, ma anche gli amministratori pubblici, per i quali ormai la contestazione dell’abuso d’ufficio è vissuta come un fisiologico “incidente di percorso”. Dall’ingolfamento degli uffici giudiziari, alla paralisi della macchina amministrativa, al danno reputazionale di chi si vede comunque esposto all’azione penale per diverso tempo. Limiti all’abuso d’ufficio, svolta di Conte nel Dl Semplificazioni di Errico Novi Il Dubbio, 1 luglio 2020 Ci voleva una pandemia. Un fatto sconvolgente. Ma alla fine il totem dell’abuso d’ufficio sta finalmente per essere piegato, se non abbattuto del tutto. Lo si capirà forse già domani, quando il premier Giuseppe Conte confida di ottenere il via libera, in Consiglio dei ministri, sul decreto Semplificazioni. Un intervento ampio - persino troppo, forse - che coinvolge una mezza dozzina di dicasteri, ma al cui interno c’è una decisiva modifica all’articolo 323 del codice penale. La norma che disciplina, appunto, l’abuso commesso dal pubblico amministratore: il reato non potrà più essere contestato nei casi in cui la legge di cui si può invocare, a legislazione vigente, la violazione consenta comunque al decisore un margine discrezionale. Se il sindaco del caso si avvale di una prevista libertà di azione “residuata” dalla norma relativa all’atto compiuto, il pm non potrà più ottenerne il rinvio a giudizio. Vuol dire anche allontanare l’incubo della condanna, anche solo in primo grado, che per chi amministra un ente locale si traduce nella sospensione dall’incarico, come impone la legge Severino. Non solo. Perché nel pacchetto di misure specificamente rivolte all’attività dei decisori pubblici compare anche una rimodulazione del danno erariale. L’azione di responsabilità verrà limitata al dolo per le sole “azioni” e non anche per le “omissioni”. Si può essere perseguiti per il fare solo se si è deliberatamente agito in danno dell’interesse pubblico. Se invece non si è agito, lo spettro della responsabilità resterebbe meno definito e dunque più ampio. Cioè l’inerzia diventerebbe più rischiosa. Una rivoluzione per certi aspetti ancora più dirompente. Non a caso, mentre le novità relative all’articolo 323 sono destinate a limitare definitivamente le azioni penali possibili nei confronti degli amministratori pubblici, rispetto al danno erariale la rimodulazione che avvantaggia l’attivismo è riferita, dal decreto, a un periodo che si concluderebbe il 31 luglio 2021. Vale, al momento, per un anno. Quasi come se si trattasse di istituire una zona franca temporanea, necessaria per superare la crisi da pandemia anche con un maggiore coraggio decisionista delle strutture pubbliche. E ancora: si ipotizza il commissariamento da parte delle sezioni di controllo della Corte dei conti in tutti quei casi in cui l’amministrazione, statale o locale, faccia melina nei procedimenti per l’assegnazione di risorse e fondi. Si potrà arrivare a un commissario ad acta che decide al posto del dirigente del ministero o del capo dipartimento della Regione. Una ipotesi costruita anche per sbloccare l’utilizzo di fondi Ue, spesso rallentato dalla burocrazia. Sul piano politico si tratta di passi avanti enormi. Vanno considerate le figure chiave con le quali il premier Conte ha messo a punto il riordino delle responsabilità pubbliche. Uno è il segretario generale della presidenza del Consiglio Roberto Chieppa, magistrato amministrativo di grande competenza, non connotabile sul piano dell’appartenenza politica. L’altro perno attorno cui si sono sviluppate le decisioni è invece il sottosegretario alla Programmazione economica Mario Turco, che la connotazione ce l’ha: è stato eletto al Senato per il Movimento 5 Stelle. Professore di Economia all’ateneo UniSalento, ha contribuito, in particolare, a spingere verso l’ultima delle tre modifiche richiamate, quella che prevede l’intervento di un commissario ad acta dinanzi a burocrati dormienti in materia di finanziamenti pubblici. Peserà, sul destino del Dl Semplificazioni (o “Libera Italia”, come già ama definirlo Conte), la capacità dei 5 Stelle di affrancarsi dal riflesso general preventivo in campo penale. Non sarà facile, anche perché dalla minoranza, in particolare da Forza Italia, già arriva una singolare forma di provocazione: “Il governo, con decreto legge, vuole mettere mano alla fattispecie dell’abuso d’ufficio, senza peraltro cancellarla”, chiosa in una nota Enrico Costa, responsabile Giustizia degli azzurri. A suo giudizio il caso è “tipico della ipocrisia grillina: cancellare una norma penale sarebbe inammissibile, rimodularla su misura di qualche loro amministratore è invece assolutamente digeribile. Vogliono far dormire sonni tranquilli a qualche loro sindaco malauguratamente accusato di questo reato? A pensar male...”. Dopodiché Costa sfida così i 5 Stelle, in particolare il guardasigilli Alfonso Bonafede, che è il capo della delegazione pentastellata nell’esecutivo: “Pur di picconare questo sciagurato reato siamo comunque disposti a votare la loro proposta”, dice il forzista, che però chiede al ministro, in un’interrogazione, di “fare chiarezza e spiegarci: perché i grillini un tempo volevano addirittura aumentare la pena dell’abuso d’ufficio, e oggi hanno cambiato idea, ridimensionandola?”. La schermaglia politica ci sta. Andrà verificato se avrà come conseguenza una pur parziale retromarcia sulle modifiche. Nella relazione tecnica messa a punto a Palazzo Chigi, l’intervento viene così descritto: “Si interviene sulla disciplina dettata dall’articolo 323 del codice penale, attribuendo rilevanza alla violazione da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, attribuendo, al contempo rilevanza alla circostanza che da tali specifiche regole non residuino margini di discrezionalità per il soggetto, in luogo della vigente previsione che fa generico riferimento alla violazione di norme di legge o di regolamento. Ciò al fine di definire”, si aggiunge nell’illustrare la modifica, “in maniera più compiuta la condotta rilevante ai fini del reato di abuso di ufficio”. È un ritaglio minuzioso, puntuale. Difficile che anche il più securitario dei grillini possa intravedervi un favore a sindaci sotto minaccia penale. Ieri la Stampa ha raccolto, in un’intervista, il sì spassionato alla svolta da parte del sindaco di Parma Federico Pizzarotti, ex 5 Stelle. Servirebbe una rivendicazione esplicita da chi nel Movimento milita ancora. Conte la dà per certa. Scatta l’incauto acquisto se c’è sproporzione tra valore del bene somma pagata di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2020 L’incauto acquisto sussiste solo quando viene accertata una differenza sproporzionata tra il valore del bene e la somma corrisposta per l’acquisto. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 19548/20. La mossa della Corte. I Supremi giudici hanno respinto la richiesta della Procura che chiedeva l’applicazione dell’incauto acquisto (ex articolo 712 del Cp) e non la particolare tenuità del fatto. Il ricorrente lamentava che la motivazione dei giudici di merito era gravemente lacunosa e carente, che appariva del tutto privo di rilievo il dato relativo alla mancata identificazione dei proprietari dei beni e che il tribunale non aveva considerato la circostanza che si trattava di beni di significativo valore (due city bike di marche prestigiose) acquistate a prezzi irrisori. La difesa, tuttavia, ha evidenziato come nel frattempo (Dlgs 16 marzo 2015 n. 28) è stato introdotta nel sistema di diritto penale la regola della non punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 11-bis del Cp). Il giudice di merito - peraltro - con una motivazione stringata e sintetica aveva stabilito un valore non particolarmente elevato delle due biciclette. Conclusioni. La difesa, infatti, mette in risalto “il significato valore commerciale” dei beni che non emerge da alcun atto di prova. In definitiva ricorso della Procura rigettato. Calabria. Al via nelle carceri una campagna di prevenzione contro l’Epatite C lacnews24.it, 1 luglio 2020 Scopo dell’iniziativa è quello di fornire ai detenuti le giuste informazioni sull’Hcv. Saranno eseguiti screening su sangue capillare e chi risulterà positivo sarà avviato alla terapia. Partirà a breve nelle carceri calabresi una campagna di prevenzione contro l’Epatite C (HCV). Si tratta del “Progetto ESP - Eliminazione nelle Special Populations”, un’iniziativa dedicata alla popolazione carceraria della regione Calabria, ideata e pianificata dall’Agenzia Improve e supportata da Gilead Sciences. Scopo dell’iniziativa, al via in questi giorni, è fornire ai detenuti la giusta formazione sull’HCV, offrire informazioni di approfondimento sulla patologia ed effettuare un rapido screening su sangue capillare. Le persone che risulteranno positive saranno avviate alla terapia: un trattamento in grado di portare alla guarigione del paziente in poche settimane. Il test sarà effettuato gratuitamente negli istituti penitenziari da operatori sanitari di comprovata esperienza e fornirà un risultato entro pochi minuti. Gli specialisti che scenderanno in campo saranno a disposizione dell’utenza per eventuali dubbi o domande e distribuiranno materiale informativo sull’Epatite C. Un’azione concreta e di grande valenza sociale poiché la popolazione carceraria è, per molte ragioni, tra le più esposte al rischio di malattie infettive. Per questo la Regione Calabria è impegnata nella realizzazione di un Piano di Eliminazione dell’HCV attraverso la costituzione di una Cabina di Regia con funzione di coordinamento delle attività degli specialisti dei Centri per cure e operazioni di screening sulla popolazione. Prevenzione e diagnosi precoce dell’HCV sono necessarie e costituiscono l’anticamera di una cura tempestiva, utile a evitare la degenerazione dell’infezione verso gravi patologie del fegato. Un semplice test che, eseguito sul sangue capillare attraverso la puntura a un dito, consentirà di individuare i soggetti positivi all’Epatite C e programmare interventi finalizzati all’eliminazione del virus. Napoli. Suicida in cella a Poggioreale, gli mancavano due anni al fine pena di Luigi Nicolosi stylo24.it, 1 luglio 2020 Ancora una tragedia nel penitenziario napoletano, l’appello del Garante Ioia: “Possiamo salvare queste persone, segnalateci tutti i casi a rischio”. Una tragedia annunciata. È così che si configura la scomparsa di Antonio Uccello, 39 anni, morto suicida la scorsa notte nel carcere di Poggioreale. Il detenuto, che stava scontando una condanna per maltrattamenti in famiglia, qualche tempo fa aveva già tentato l’estremo gesto, ma in quel caso era stato salvato dal provvidenziale intervento degli agenti della polizia penitenziaria. Da quel momento Uccello è rimasto sotto osservazione. Le precauzioni del caso non sono però bastate a salvargli la vita una seconda volta. Il 39enne originario del rione Sanità tra poco meno di due anni avrebbe potuto chiedere l’affidamento in prova. Appresa la drammatica notizia, il garante comunale dei detenuti Pietro Ioia ha subito lanciato un appello: “Molte di queste persone possono essere salvate. È però necessario che parenti e detenuti ci segnalino tempestivamente tutti i casi a rischio, in modo tale che noi possiamo seguirli. Se necessario andremo a Poggioreale un giorno sì e uno, ma aiutateci a scongiurare altre tragedie come questa”. Ioia non fa però mistero della sua storica convinzione: “Nonostante i passi in avanti fatti in questi anni, Poggioreale continua a essere il “mostro di cemento”. Speravo che almeno per quest’estate non si registrasse alcun suicidio e invece mi sono già dovuto ricredere”. Considerazioni amare anche da parte di Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti, che stamattina, nell’istituto di pena partenopeo, ha preso parte alle celebrazioni per la ricorrenza di San Basilide, patrono degli agenti di polizia penitenziaria: “Durante la Santa Messa - ha detto Ciambriello - abbiamo pregato per Antonio, detenuto trentanovenne, che si è suicidato questa notte nella sua cella, occupata con altre sei persone, al terzo piano del padiglione “Roma”. Quarto suicidio in Campania dall’inizio dell’anno, 23 in tutta Italia. Ogni morte in carcere e di carcere è un fallimento per tutti noi (politica, magistratura, operatori penitenziari, società civile)”. Como. Detenuto di 33 anni si toglie la vita in carcere, aperta un’inchiesta Il Giorno, 1 luglio 2020 Si è impiccato durante la notte, utilizzando la cintura di corda della tuta da ginnastica. La vittima, trovata ieri mattina dai compagni di cella, è un detenuto di 33 anni di origine tunisina del Bassone. Un uomo che pare non avesse mai dato segnali di criticità in questi ultimi tempi, tali da dover essere attenzionato con maggiore scrupolo dalla Polizia penitenziaria. Gli stessi compagni di cella non hanno sospettato nulla, non si sono svegliati quando l’uomo è andato in bagno e si è tolto la vita. Forse all’alba di ieri, ma è stato trovato solo quando i compagni di cella si sono alzati e hanno dato l’allarme. I controlli da parte della Polizia penitenziaria avvengono costantemente, ma la possibilità di monitorare con attenzione cosa accade nelle celle, anche in orario notturno, da tempo deve fare i conti con la carenza di personale. Il magistrato di turno della Procura di Como, Massimo Astori, valuterà ora quali accertamenti disporre per ricostruire come si avvenuto il suicidio, e se dare incarico per l’autopsia, anche se la causa del decesso appare chiara. Al Bassone sono detenute circa 450 persone, tra uomini e donne, di il 60 per cento di origine straniera, a fronte di una capienza regolare di circa 220. Numeri ridimensionati rispetto ad alcuni anni fa, quando la casa circondariale comasca era arrivata, più volte, a superare i 600 detenuti, in condizioni abitative e di sovraffollamento molto critiche. Ma anche con i numeri attuali, l’ultimo rapporto Antigone ha attribuito al Bassone un tasso di sovraffollamento del 207 per cento, uno dei più alti d’Italia. Firenze. Sollicciano, condannato dopo 15 anni per aver picchiato un detenuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 luglio 2020 Carcere di Sollicciano, condannato un poliziotto che aveva picchiato un detenuto prendendolo a bastonate sulla schiena. Alcuni appartenenti alla Polizia penitenziaria del carcere di Sollicciano avevano colpito un detenuto con calci e pugni con un manico di scopa, spezzandoglielo sulla schiena. Un fatto accaduto nel 2005 e ora, dopo 15 anni, dalla quinta sezione penale della Cassazione, arriva la condanna definitiva per lesioni personali aggravate dall’uso di arma e dall’abuso della funzione pubblica nei confronti dell’unico agente identificato. Si tratta di M.S., originario di Mondragone (Caserta), all’epoca Ispettore capo di Polizia penitenziaria, responsabile dell’Unità operativa “Reparto giudiziario” della Casa circondariale di Firenze Sollicciano. I fatti avvennero proprio nel Reparto giudiziario dell’Istituto all’interno dell’Ufficio del capoposto e ad esserne vittima fu El Rezgui Walid, un giovane detenuto straniero. Una notizia resa pubblica dall’attivista Emilio Quintieri, sempre in prima fila per quanto riguarda i dritti delle persone detenute. La sentenza di condanna - Il Dubbio ha potuto visionare la sentenza definitiva. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Firenze aveva confermato, anche agli effetti civili, la condanna di M.S. in ordine il reato di lesioni personali aggravate dall’uso di un’arma e dall’abuso della funzione pubblica, per avere, nella qualità di ispettore della polizia penitenziaria del carcere di Firenze Sollicciano, in concorso con altri, cagionato al detenuto El Rezgui Walid lesioni personali lievi, consistite in “aree eritematose al dorso e in legione lombare sinistra”, giudicate guaribili in due giorni; mentre ha escluso la circostanza aggravante del nesso teleologico (che è pensato come ordinato secondo un fine), apportando la conseguente riduzione alla pena inflitta. M.S. ha proposto ricorso, ma la Cassazione lo ha dichiarato inammissibile partendo dal fatto che le motivazioni presentate ripropongono, senza sostanziali elementi di novità, le censure di gravame e sollecitano una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità. I giudici della Corte suprema sottolineano che “l’impianto argomentativo della sentenza impugnata è immune da vizi logici, esprime valutazioni adeguatamente motivate come tali insindacabili in questa sede: le lesioni accertate dalla certificazione contenuta nel registro delle visite attesta lesioni assolutamente compatibili con le modalità delle percosse descritte dalla persona offesa e, in particolare con i colpi di bastone ricevuti sulla schiena. Le lesioni costituite dalle aree erimatose sul dorso e in regione lombare sono state obiettivamente rilevate e risultano compatibili con le modalità delle percosse descritte dalla persona offesa e, in particolare, con i colpi datigli con il bastone, e non altrettanto con la versione alternativa fornita dagli imputati nella relazione di servizio, circa l’impiego di una manovra di forza per la sottrazione di una lametta dalle mani di El Rezgui”. Pestaggi nel carcere di Sollicciano - La Cassazione, oltre a dichiarare inammissibile il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende. La vicenda venne portata alla luce con un documento, “Pestaggi a Sollicciano”, sottoscritto da dieci associazioni (e don Alessandro Santoro, sacerdote della comunità Le Piagge) che operavano dentro e fuori il carcere toscano, raccogliendo alcuni fatti sui quali è stato possibile effettuare un minimo di verifica incrociata. Puntavano il dito proprio contro l’ex ispettore Marcello Santoro, sottolineando che “le tendenze violente dell’ispettore erano note nel carcere”. A seguito di quelle denunce la procura di Firenze aprì un’inchiesta e scaturirono i processi finiti con una condanna. Ora la Cassazione l’ha suggellata. Ferrara. Fine mandato per la Garante dei diritti dei detenuti di Pietro Perelli estense.com, 1 luglio 2020 Stefania Carnevale al Consiglio comunale: “Assenza di supporto amministrativo, ma miglioramenti per allenare il muscolo della responsabilità”. Il Consiglio comunale ha visto la relazione della garante delle persone private della libertà personale Stefania Carnevale, in carica dal maggio 2017 fino allo scorso 2 maggio. La relazione fa riferimento in particolare all’intervallo che da fine 2018 arriva alla scadenza del mandato. Un mandato per il quale la dott.ssa Carnevale non ripropone la candidatura a causa, si legge nella relazione, “dell’assenza di supporto amministrativo che mi ha costretta a svolgere da sola l’ingente e complessa entità dei compiti affidati all’istituzione” oltre alla coabitazione di due incarichi lavorativi. Supporto amministrativo mancato in termini di personale e, spiega l’ormai ex garante, “se l’amministrazione comunale crede nella figura di garanzia che ho avuto l’onore di rappresentare negli ultimi tre anni, è indispensabile che l’organo sia nuovamente dotato delle risorse necessarie ad espletare con prontezza ed efficacia i suoi numerosi e delicati compiti”. Proprio per questo l’assessora competente Cristina Coletti esplicita l’intento dell’amministrazione di trovare una figura “che possa essere di supporto prima dell’insediamento del nuovo garante”. La relazione, apprezzata da molti consiglieri e definita “un saggio”, consta di 163 pagine nelle quali la dott.ssa Carnevale non si limita a dare un riscontro della sua esperienza presso la casa circondariale di Ferrara ma la pone all’interno del contesto nazionale. Un periodo, quest’ultimo, nel quale “ho riscontrato - dice - molti miglioramenti”, questo grazie alle numerose attività avviate. Tra queste il laboratorio di teatro, il giornale Astrolabio e Artenuti, un laboratorio di bricolage e artigianato che attraverso la “vocazione ecologica nel recupero degli oggetti cerca di recuperare vite”. Tutte attività fatte per allenare “il muscolo della responsabilità”, un muscolo fondamentale per il reinserimento del detenuto a fine pena. Insiste molto su questo tema la garante parlando anche di Dimittendi, progetto “volto ad accompagnare il reinserimento sociale dei detenuti”. “Le dimissioni - continua - sono un momento delicatissimo e grazie a questo progetto si cerca di promuovere il reinserimento a partire da 12 mesi prima attraverso percorsi guidati”. Per concludere Carnevale, richiamando la Corte Costituzionale, ricorda che “la personalità delle persone condannate non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato e continua a restare aperta a un possibile cambiamento”. Macomer (Nu). Al Cpr le Consigliere progressiste con loro il Garante dei detenuti La Nuova Sardegna, 1 luglio 2020 Visita ieri mattina al Cpr di Macomer di due Consigliere regionali del Gruppo dei progressisti, Maria Laura Orrù e Laura Caddeo, e del garante per i detenuti di Oristano Paolo Mocci. La delegazione ha dovuto fare a meno dei rappresentanti della campagna LasciateCIEntrare e di Asce, per i quali Ministero e Prefettura non hanno autorizzato l’accesso. Al vaglio la situazione interna della struttura che ospita i migranti in attesa di rimpatrio, funestata in questi mesi da episodi allarmanti. Intanto dalla Prefettura di Nuoro arriva la notizia della costituzione dell’organismo di monitoraggio previsto dai “Patti per la sicurezza” firmati nel 2018 tra Prefettura, Regione Sardegna, Comuni di Nuoro e Macomer, Anci Sardegna e consiglio delle autonomie locali allo scopo di vigilare sulle condizioni di sicurezza dei trattenuti, degli operatori e della collettività ospitante. A coordinare l’organismo, delegato dalla Prefettura, sarà Luca Dessì. A rappresentare la Regione Sardegna Maria Grazia Vivarelli, il Comune di Macomer ha delegato il capogruppo di maggioranza Gianfranco Congiu e la società che gestisce il Cpr, la Ors Italia, il dottor Antonio Repucci. Napoli. Centro per il recupero di rifiuti a Secondigliano napolicittasolidale.it, 1 luglio 2020 Un progetto circolare avveniristico che coinvolge Secondigliano che va dal riutilizzo dei rifiuti organici, passando per il lavoro sociale dei detenuti, al benessere del quartiere. A proporlo il gruppo di Imprese Sociali Gesco con la direzione del centro penitenziario “P. Mandato” di Secondigliano, grazie ad una convenzione per il conferimento dei rifiuti tra Gesco e il Comune di Napoli, l’ASIA Napoli S.p.a, l’ATO Napoli I, il Ministero della Giustizia. Il piano sarà presentato venerdì 3 luglio alle 11 in diretta web su Ricicla TV (riciclatv.it). Totalmente biologico, a impatto zero (zero inquinamento, zero odori e zero percolato) produrrà concime. L’impianto di compostaggio verrà realizzato in una zona pianeggiante adiacente al carcere di Secondigliano gestita dallo stesso organo di vigilanza e sarà in grado di trattare, nella sua potenzialità massima, una quantità di circa 5.000 t/anno, di cui circa 4.000 saranno scarti organici e almeno 900 scarti verdi di origine vegetale, coprendo così il fabbisogno di raccolta della componente umida dell’intero quartiere. Inoltre verranno riutilizzate circa 5mila tonnellate per gli imballaggi che verranno inserite in un circuito di riconversione dei materiali da utilizzare per l’arredo urbano di Secondigliano. Dopo la fase di start up e un’accurata formazione si spera di coinvolgere circa 20 detenuti che abbiano le caratteristiche adatte per accedere alle misure alternative di detenzione. L’impianto prevede una dotazione 23 biocelle che potranno essere installate con il metodo della progressiva realizzazione, in modo da arrivare in tempi brevi all’autosufficienza impiantistica nel trattamento della frazione dei rifiuti considerata. La costruzione dell’impianto sarà realizzata secondo una razionale distribuzione delle diverse sezioni che costituiscono l’intero apparato e quindi una sezione di ricezione delle frazioni umide e degli scarti legnosi, una sezione di biossidazione dove avvengono i processi ossidativi (zona biocelle) e una sezione di maturazione finale con annesso sistema di raffinazione e insaccaggio con arricchimento e condizionamento del prodotto per usi speciali nel settore agricolo. Il trattamento dei rifiuti organici biodegradabili, rifiuti che costituiscono la frazione umida di tutti gli scarti provenienti dalla raccolta praticata dal servizio pubblico, mediante il processo di compostaggio non solo assume un’importanza dal punto di vista ambientale, ma diviene indispensabile considerando che le attuali direttive Europee e il conseguente recepimento da parte degli Stati Membri non permette più lo smaltimento di tale frazione in discarica. Per tale ragione, conoscendo la situazione dei rifiuti nel territorio Napoletano la realizzazione di un impianto come quello proposto potrà aprire un percorso finalizzato a migliorare la gestione dei rifiuti soprattutto in termini di recupero delle risorse e garanzie igienico sanitarie. Alla presentazione prenderanno parte: il presidente di Gesco Sergio D’Angelo, il responsabile del progetto per Gesco Luigi Peluso, il direttore generale dell’ATO 1 Napoli Carlo Lupoli, la presidente dell’Asia Maria De Marco, il direttore del Penitenziario “P. Mandato” di Secondigliano Giulia Russo, l’assessore all’Ambiente del Comune di Napoli Raffaele Del Giudice. Modererà l’incontro il direttore di Ricicla Tv Luigi Palumbo. Il dibattito sarà aperto a tutti gli utenti che vorranno intervenire via social. Bergamo. L’arte spiegata ai detenuti. Le video-lezioni della Gamec primabergamo.it, 1 luglio 2020 Da oggi inizia “Artisti domiciliari” con gli esperti della Galleria d’arte moderna e contemporanea. Dialoghi in tempo reale con gli ospiti della Casa circondariale e i loro familiari. Giovanna Brambilla è responsabile dei Servizi educativi della Gamec, oltre che docente universitaria di Storia dell’arte. Durante il lockdown ci ha deliziato con le sue lezioni #iorestoacasa: un’opera al giorno spiegata come solo lei sa fare. È stato bellissimo accostarsi all’arte in questo modo e scoprire dipinti famosi e meno con la perizia della docente che farebbe amare l’arte anche ai sassi. Ora se n’è inventata un’altra, rispondendo a chi, nonostante la riapertura dei musei, non può raggiungerli fisicamente. Riguarda gli ospiti della Casa circondariale. Così nasce la serie “Artisti domiciliari” e Brambilla spiega che oggi “inizia una nuova avventura. Abbiamo risposto alla chiamata della Casa Circondariale, chiusa ai contatti per preservare la salute dei detenuti. Nasce così la serie “Artisti domiciliari”, sono videolezioni in tempo reale per dialogare con i detenuti e le loro famiglie. Grazie all’organizzazione del Carcere ci collegheremo con i detenuti e le persone da loro indicate, che ovviamente sono nelle loro abitazioni. Il programma l’hanno fatto loro indicandoci le opere di cui ci vogliono parlare. Michelangelo, Klimt, de Chirico, e tanti altri. Ovviamente ci sarà sempre un dialogo tra moderno e contemporaneo, un dialogo tra noi e loro, la costruzione di un senso condiviso. Alla Gamec - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo (ufficiale) ci si va, ma quando non ci si può andare, siamo noi a spostarci. Sempre. perché l’arte è di tutti, un terreno che non discrimina ma che include e promuove”. Al progetto parteciperanno anche Francesca Calogero, Ylenia Lo Faro, Morgana Bressan e Camilla Rancati. Una nuova storia. E che storia. Prato. Mons. Nerbini: “tendere la mano ai detenuti, può cambiare il corso di una vita” agensir.it, 1 luglio 2020 Giornata di festa per la Polizia penitenziaria, che oggi ha festeggiato il suo patrono, San Basilide martire. La cerimonia, in forma ristretta in ottemperanza alle normative anti-contagio, si è svolta nel piazzale esterno della Casa circondariale della Dogaia con una messa celebrata dal vescovo di Prato, mons. Giovanni Nerbini, e concelebrata dal cappellano, don Enzo Pacini, e dal cappellano storico del carcere, don Leonardo Basilissi. Presenti il direttore della casa circondariale di Prato Vincenzo Tedeschi, il comandante della Polizia penitenziaria di Prato Barbara D’Orefice e alcuni agenti. Nel corso dell’omelia il vescovo si è rivolto direttamente al personale della Polizia penitenziaria per ringraziarli del lavoro svolto quotidianamente e in particolare in questo delicato periodo legato all’emergenza coronavirus. “Il vostro è un lavoro spesso irto di difficoltà e talvolta povero di soddisfazioni e gratificazioni, sia professionali sia economiche. Anche in questi mesi l’emergenza coronavirus ha messo a dura prova la vostra struttura carceraria e la sua organizzazione - ha detto il presule. Il vostro servizio è stato messo sotto pressione costringendovi ad affrontare, anche mettendo a rischio le vostre persone, il tentativo di rivolta poi fortunatamente risoltosi in maniera pacifica grazie al vostro impegno. Grazie per la vostra professionalità e dedizione”. Mons. Nerbini poi ha voluto rivolgere un messaggio alle famiglie del personale impegnato nella casa circondariale: “Portate loro il mio più caro saluto, comprensione e affetto per quello che hanno fatto incoraggiandovi e supportandovi in questo delicato momento”. Rivolgendosi nuovamente agli agenti ha concluso: “Vi auguro di riscoprire il valore della vostra umanità e della vostra professionalità e di essere immagine viva del vostro lavoro. Capisco quanto sia difficile, spesso vi trovate di fronte a persone che vi si rivoltano contro e magari vi guardano con disprezzo e rabbia sfogando su di voi le frustrazioni delle loro sofferenze o di una vita spesa male. Ricordatevi che tendere la mano verso l’altro può davvero cambiare il corso della vita e della storia di una persona”. Presente alla celebrazione il cappellano, don Enzo, che non ha mai mancato di far sentire la propria vicinanza ai detenuti e al personale di Polizia penitenziaria. Nel periodo legato all’emergenza coronavirus le celebrazioni delle messe con il popolo erano sospese, ma, ha raccontato, “ho continuato nell’assistenza di base e sono proseguiti i colloqui con i detenuti. È necessario non dimenticarsi mai di quanto sia logorante e impegnativo il lavoro degli agenti”. Milano. Agente Ulisse-detenuto Samuele, se l’amicizia sconfigge tempo e pregiudizi di Raul Leoni gnewsonline.it, 1 luglio 2020 “Mi chiamo Samuele e vivo a Milano. Dal 1985 al 1988 sono stato detenuto presso la casa penale di Massa”: comincia così, con una mail indirizzata al ministero, la storia di un’amicizia ritrovata dopo più di trent’anni. I protagonisti sono Ulisse e Samuele, all’epoca entrambi 25enni, il primo appuntato degli agenti di custodia - come si chiamavano allora - e l’altro rapinatore “per vocazione”, convinto di essere una specie di Robin Hood che sottrae alle banche il “maltolto”. Ulisse, l’appuntato, è un sardo tutto d’un pezzo: gli stessi colleghi lo considerano troppo riservato, i detenuti un ‘duro’ dal quale è meglio stare alla larga. Samuele, il rapinatore, viene da Petrizzi, Calabria interna: ma da quando aveva cinque o sei anni la famiglia si è trasferita a Milano e lui si è scontrato con una realtà da emigrante difficile da accettare, soprattutto da uno che sente di avere capacità e il futuro davanti. Il sipario si apre nella Casa di reclusione di Massa, ufficio magazzino e “buca pranzi”: quello che i detenuti vedono solitamente come un muro, al quale andare a chiedere i periodici ricambi delle lenzuola e i pacchi viveri arrivati dai familiari. L’appuntato Ulisse: “Ero arrivato a Massa nel 1980, appena ultimato il servizio militare da agente ausiliario: ci sarei rimasto fino al giugno 1999, nonostante fosse sempre vivo il desiderio di tornare a casa”. Il detenuto Samuele: “Ero stato condannato in primo grado a 11 anni di reclusione, poi ridotti a sette in appello: tradito dalle intercettazioni telefoniche con i miei complici, perché in fondo eravamo solo… tre amici al bar”. Ulisse: “Ero il responsabile del servizio, ma al massimo avevo solo due lavoranti. Era normale che ci si affidasse a un rapporto di collaborazione e di fiducia con i reclusi: e con Samuele in particolare”. Samuele: “Quando mi hanno assegnato al magazzino ero tentato di rinunciare, per la ‘fama’ di Ulisse. Poi, anche per carattere, ho affrontato l’incarico senza pregiudizi: e in poco tempo ho cominciato ad apprezzarlo, nei limiti imposti dai nostri ruoli”. Ulisse: “Il magazzino era un settore molto delicato, una specie di barriera per i detenuti. Io affrontavo il mio lavoro con grande rigore, sono fatto così: niente di più facile che dall’esterno mi considerassero un po’ troppo rigido”. Samuele: “Io ho una mentalità aperta: una volta presa confidenza con Ulisse, ci siamo confrontati su come organizzare il servizio con maggior efficienza: è andata benissimo”. Ulisse: “È vero, il comandante mi chiamò per elogiarmi: io dissi che il merito era anche di Samuele”. Samuele: “Il comandante era un’ottima persona e le relazioni sul mio comportamento, grazie anche alle valutazioni espresse da Ulisse, mi hanno aiutato a reinserirmi quando sono uscito”. Ulisse: “Massa era una specie di gioiello del sistema penitenziario, additata ad esempio per come riuscisse a coniugare le esigenze della custodia con gli obiettivi del recupero dei reclusi”. Samuele: “Grazie alle credenziali del mio servizio in magazzino, prima del rilascio mi hanno assegnato al bar, che aveva una porta comunicante con l’esterno: in pratica una finestra sul mondo libero”. Ulisse: “Dopo vent’anni sono tornato in Sardegna, al carcere di Buoncammino a Cagliari: ma nonostante l’aria di casa, in un ambiente dalle responsabilità tanto differenti ha pesato per converso l’esperienza di Massa, così positiva e gratificante. E nel 2002, dopo solo tre anni, sono andato in pensione con il grado di sovrintendente”. Samuele: “Sono uscito da Massa, da uomo libero, come un’altra persona: avevo famiglia a Milano e ho subito cercato lavoro, facendo prima le consegne in moto-taxi, poi l’autotrasportatore, anche su tratte all’estero, e infine l’idraulico”. Passano trent’anni, senza nessun ulteriore contatto. E poi è arrivato il Covid-19. Samuele: “Ripensavo spesso a quella ‘guardia’ che tanto aveva contribuito a ricostruirmi una vita. Allora ho pensato che, in un momento così difficile per tutti, era giusto cercarlo e fargli sapere tutto il bene che aveva fatto per me”. Ulisse: “Ricordavo Samuele, ma di certo non pensavo di aver lasciato un segno così importante nella vita di un’altra persona: è stato bello riprendere i contatti”. Ulisse e Samuele, in tempi di lockdown, si sono ritrovati prima per mail e poi per telefono: una volta passato il periodo dell’emergenza si sono promessi reciprocamente di rivedersi, per riallacciare un’amicizia nata sui due fronti del carcere, al di là dei pregiudizi. Probabilmente in Sardegna, che per Samuele sono la meta preferita delle vacanze e dove si è recentemente sposato il suo figlio maggiore, quello che lo aspettava ai tempi della reclusione. Volterra (Pi). Teatro nel carcere: consegnato il cantiere, pronto a partire pisatoday.it, 1 luglio 2020 Investimento da 1,2 milioni di euro per realizzare la struttura stabile con protagonisti gli ospiti del penitenziario. Comincia con la consegna del cantiere di oggi, 30 giugno, e lunedì prossimo con il via ai saggi archeologici, la realizzazione del Teatro stabile nel carcere di Volterra. Entra nel vivo il progetto per assicurare ad un’esperienza trentennale e unica in Italia, che vede protagonisti diretti dell’esperienza teatrale gli ospiti del penitenziario. “È passato meno di un anno da quando, con il concorso di tutte le istituzioni coinvolte, abbiamo rilanciato questo grande progetto e oggi - commenta con soddisfazione la vicepresidente della Regione e assessore alla cultura Monica Barni - siamo ad un ulteriore, cruciale passaggio per raggiungere l’obiettivo. È un impegno che parla non solo alla Toscana, ma a tutto il paese”. Migranti. Decreti sicurezza, sì alla revisione. Il Viminale: “Un codice per le Ong” di Michela Allegri Il Messaggero, 1 luglio 2020 L’unico braccio di ferro è sulle sanzioni per le Ong che effettueranno salvataggi senza avvisare lo Stato di bandiera e il centro di coordinamento e soccorso. Il M5S vuole che le multe restino, mentre nel testo proposto dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese non se ne trova più traccia. Il Movimento, comunque, chiede una rimodulazione dell’entità della sanzione: non più la cifra di un milione di euro decisa in sede di conversione del decreto Salvini bis, ma da 10 a 50mila euro. In caso di reiterazione, invece, viene chiesta la confisca dell’imbarcazione. Ieri si è tenuta la terza riunione al Viminale del tavolo di maggioranza di governo chiamato a riscrivere i decreti sicurezza, dopo i rilievi mossi dal Capo dello Stato. L’ok definitivo non è ancora arrivato, ma la soluzione condivisa è stata praticamente trovata e verrà proposta nella prossima riunione, il 9 luglio. Mentre Pd, Leu e Iv vorrebbero portare in Cdm il nuovo testo prima della chiusura estiva, il M5S preferirebbe rimandare la riforma in autunno. I Cinque Stelle hanno presentato le loro proposte in un documento di 7 pagine consegnato al ministro: sono favorevoli alla riforma del sistema di accoglienza con il ritorno agli Sprar, all’ampliamento delle protezioni speciali e sussidiarie con la possibilità di convertirle in permessi di lavoro, al ripristino delle attività di integrazione anche per i richiedenti asilo e a ulteriori protezioni per i minori non accompagnati. Nel documento si fa riferimento anche alla riduzione dei tempi di detenzione nei Centri per il rimpatrio dei migranti destinati all’espulsione: si torna da 180 a 90 giorni in mancanza di un accordo bilaterale con il Paese di rimpatrio. Viene proposta anche una revisione dei criteri di revoca della cittadinanza con il parere obbligatorio del Consiglio di Stato. Ora Lamorgese dovrà redigere un nuovo testo, da presentare al tavolo il 9 luglio. Intanto la Lega insorge e parla di “regali ai trafficanti”. Giuseppe Brescia, che sta seguendo il tavolo per i Cinque Stelle, spiega invece: “Solo ordine e integrazione creano vera sicurezza”. Si dice soddisfatto, a nome del Pd, il viceministro dell’Interno, Matteo Mauri: “Si è sancita in modo definitivo la volontà di tutte le forze di maggioranza di andare ben oltre i rilievi espressi dal capo dello Stato sui dl Salvini, intervenendo in profondità per azzerare gli effetti negativi che hanno determinato”. Anche Federico Fornaro (Leu), parla di “significativi passi avanti” fatti “senza veti e con la disponibilità all’ascolto e al confronto”. Pure Davide Faraone (Iv), parla di “passi avanti”, ma li giudica “non sufficienti” e spinge sull’introduzione dello “Ius culturae”. Nel frattempo continuano le partenze dal Nord Africa, mentre sulla Mare Jonio e sulla Ocean Viking viaggiano 160 persone in attesa di un porto. Lamorgese pressa l’Europa: servono “regole precise e comuni” per le navi umanitarie, con la responsabilizzazione degli Stati di bandiera e un meccanismo di ricollocamento obbligatorio. “Abbiamo inviato a Bruxelles - fa sapere - idee e proposte con l’obiettivo di superare il principio di responsabilità del Paese di primo approdo e promuovere regole per gli Stati bandiera”. La scommessa è varare un di Codice per le ong: le navi dovranno avere dotazioni adeguate ed equipaggi formati, gli interventi dovranno essere coordinati dal Centro marittimo competente - nel caso anche quello libico, gli Stati di bandiera dovranno indicare il porto sicuro e accogliere i migranti che sbarcano in altri Paesi. Migranti. Decreti sicurezza, resta l’ostacolo delle multe alle ong di Carlo Lania Il Manifesto, 1 luglio 2020 I 5 Stelle insistono per mantenerle, ma aprono sulla revisione del sistema di accoglienza. Uno dei punti sui quali l’accordo ancora non c’è riguarda le multe alle navi delle ong, che il Movimento 5 Stelle vorrebbe mantenere - anche se nella versione originaria del decreto sicurezza bis (non più maxi, bensì sanzioni comprese tra i 10 mila e i 50 mila euro) - mentre Pd, LeU e Italia Viva vorrebbero invece cancellare del tutto. Punto non certo secondario, ma che al momento sembra essere l’unico vero ostacolo a una riscrittura pressoché totale dei decreti da parte della maggioranza giallorossa convocata ieri al Viminale dalla ministra Luciana Lamorgese. Riscrittura che “non sarà un’operazione di micro belletto”, assicura ancora una volta il capogruppo di LeU alla Camera Federico Fornaro al termine dell’incontro. La novità del giorno è un documento presentato lunedì sera dai 5 stelle e che, contrariamente a quanto affermato finora dai grillini, va molto oltre le modifiche richieste in passato dal Quirinale. Con in più il vantaggio di rappresentare tutte le anime del movimento, cosa che metterebbe in salvo un eventuale accordo da futuri dissensi interni. Cuore del documento è una revisione del sistema di accoglienza dei migranti che punta a una drastica riduzione del numero dei Cas, i centri di accoglienza straordinaria il cui numero negli anni è cresciuto a dismisura (oggi sono 4.963 nei quali trovano posto 62.613 persone) a vantaggio di un sistema Sprar capace di convogliare sia la prima che la seconda accoglienza in centri piccoli in grado di garantire una maggiore integrazione. Ma anche un ampliamento dei casi in cui è possibile accedere alla protezione umanitaria e una riduzione dei tempi di detenzione nei Centri per i rimpatri (Cpr), che passerebbero dagli attuali 180 giorni a 90 (eventualmente rinnovabili per altri 90). Inoltre i permessi di soggiorno, “anche quelli per protezione speciali e per cure mediche” dovrebbero essere convertiti “in permessi di soggiorno per motivi di lavoro al fine di favorire i processi di integrazione”. Novità anche per i minori non accompagnati insieme alla possibilità per i richiedenti asilo di partecipare a corsi di formazione professionale e alla richiesta di introdurre anche il parere del Consiglio di Stato nei procedimenti di revoca della cittadinanza. “Vogliamo un decreto ordine e integrazione, perché solo ordine e integrazione creano vera sicurezza”, spiega il presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, il grillino Giuseppe Brescia. Resta, come detto, il nodo delle multe alle ong sul quale anche il presidente della repubblica Sergio Mattarella aveva sollevato dubbi. “Per noi sono inaccettabili”, spiega la senatrice Loredana De Petris (LeU). “Esiste un codice di navigazione e qualora ci fosse un reato è già tutto scritto e disciplinato. Basta accanimento e pregiudizi verso chi fa attività di soccorso in mare”. Sul punto la riscrittura fatta dai tecnici del Viminale dell’articolo riguardante il divieto di transito e sosta delle navi in acque territoriali italiane prevede che la competenza - ora del ministero dell’Interno - torni al dicastero dei Trasporti, ma soprattutto che eventuali provvedimenti non vengano adottati se le operazioni di soccorso si siano svolte in coordinamento con i Mrcc di competenza (i centri di coordinamento dei soccorsi) e con gli Stati di bandiera nel rispetto, è scritto, “delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e soccorso in mare emesse in base agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in materia di diritto del mare nonché dello statuto dei rifugiati”. Formula che, con il richiamo ai trattati internazionali, lascia presupporre un maggiore rispetto per i diritti di quanti fuggono dalla Libia ma che però non esclude che, se i soccorsi vengono eseguiti nella cosiddetta area Sar (ricerca e salvataggio) libica, il coordinamento spetti a Tripoli. Cosa che nessuna ong finora ha mai accettato. Egitto. Il caso Zaki, vergogna italiana di Umberto De Giovannangeli globalist.it, 1 luglio 2020 Al-Sisi rilascerà 530 detenuti, misura di contrasto al Covid-19 nelle affollatissime carceri del paese dove solo i prigionieri politici sono 60mila. Non c’è Zaki ed è l’ennesimo schiaffo all’Italia. “In Egitto, senza un ruolo italiano, politico ed economico, il caso Regeni verrebbe archiviato. Per questo non c’è contraddizione tra il mantenere cooperazione con l’Egitto e un impegno forte e determinato per ottenere verità sull’omicidio di Giulio Regeni”. Così il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, nella sua relazione alla Direzione dem dedicata alla politica estera; un campo che Zingaretti conosce bene per essere stato responsabile esteri del Pds ed europarlamentare. Sul rischio archiviazione, la storia di questi anni ci dice che c’è modo e modo di “archiviare”. Quella scelta dalle autorità egiziane è una sorta di archiviazione “mascherata”, camuffata, cioè, con una sequela infinita di depistaggi, bugie spacciate per verità, omissioni, prove promesse alla procura di Roma ma centellinate se non manipolate. Archiviazione alla al-Sisi - Zingaretti, come Conte e Di Maio, esprime l’idea che se sei sul campo puoi pesare di più, condizionare l’azione di regimi come quelli egiziano e turco. Che presidenti autocrati come sono al-Sisi ed Erdogan si lascino condizionare dall’Italia, è una tesi alquanto ardita, per usare un eufemismo. In realtà, e la guerra in Libia ne è un clamoroso attestato, egiziani e turchi, schierati su fronti opposti, dell’Italia se ne fregano, scusate il francesismo, altamente. Ma per restare sull’Egitto. Globalist ha documentato con più articoli cosa sia il Paese delle Piramidi oggi: uno Stato di polizia in cui la tortura è la normalità, e il numero dei desaparecidos (almeno 43mila) è superiore a quello dell’Argentina ai tempi dei generali al potere. Ora, al-Sisi rilascerà 530 detenuti, misura di contrasto al Covid-19 nelle affollatissime carceri del paese. Una goccia del mare (solo i prigionieri politici sono 60mila). Ma una porta si apre e Amnesty lo fa presente al governo italiano: “È un’opportunità unica”, rimarca il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury, per chiedere il rilascio “di Alaa Abdel Fattah, icona della rivoluzione del 2011, l’avvocata Mahienour el-Masry, Sanaa Seif. Naturalmente penso a Patrick Zaki. Conte e Di Maio esercitino i loro buoni rapporti più volte dichiarati e ostentati con al-Sisi”.. Un appello ripreso da Sinistra italiana: “È necessario e urgente che il governo italiano ne approfitti per rivendicare la liberazione dello studente all’università di Bologna Patrick Zaki”. Il caso Zaki - Ma questa speranza, a quanto consta a Globalist, rischia di restare tale. Lo studente dell’Università di Bologna, arrestato il 7 febbraio, è tenuto in carcere senza un processo, con la detenzione prolungata in automatico di 15 giorni in 15 giorni. “La situazione dei diritti in Egitto ci preoccupa molto -ed è necessario agire con decisione, per fare chiarezza. Per Patrick, ma anche per la giustizia che è dovuta alla memoria di Giulio Regeni e Sara Hegazy, attivista lesbica egiziana, morta suicida in Canada, dove si era rifugiata per sfuggire a un’assurda condanna inflittale per aver sventolato una bandiera arcobaleno durante un concerto. È allora quanto mai urgente che i ministri Di Maio e Bonafede si attivino su tutti i fronti per far cessare questa incertezza, che è pura negazione del rispetto dei diritti umani e del diritto alla difesa. È necessario che Zaki esca immediatamente da questo incubo per poter tornare a studiare a Bologna”, dichiara la senatrice Monica Cirinnà, responsabile nazionale Diritti del Pd. Il rettore dell’Università, Fancesco Ubertini, si è appellato al governo italiano, alla Commissione europea e “alle numerosissime istituzioni che hanno aderito alla nostra mozione e a tutte le università del mondo che hanno sottoscritto i principi della Magna Charta affinché facciano sentire la propria voce: è l’occasione per mettere fine a questa assurda vicenda e poter restituire Patrick alla sua vita e ai suoi studi, spero di poterlo riabbracciare presto qui a Bologna”. Alla richiesta si sono uniti esponenti del Pd come Lia Quartapelle, e Giuseppe Civati, fondatore di Possibile: “Nei giorni scorsi Conte ha garantito l’impegno per arrivare alla verità sull’omicidio di Giulio Regeni. Ora si sforzi per la liberazione di Patrick. È una priorità, molto più della presunta realpolitik che porta a rifornire di armi l’Egitto”. Il riferimento è al contratto per la vendita di due fregate Fremm, più altre 4 in opzione, alla Marina egiziana. L’accordo è concluso e delinea una collaborazione militare a tutto campo, con la possibile fornitura anche di satelliti, elicotteri e altro materiale ad alta tecnologia. Ma nei partiti di governo ci sono forti dubbi. Il segretario del Pd ha proposto un “lodo” che prevede il via libera definitivo soltanto se emergeranno sviluppi positivi dalla riunione del primo luglio al Cairo fra i magistrati italiani che indagano su Regeni e i colleghi egiziani. L’inchiesta - L’Italia chiede che i 5 ufficiali delle forze di sicurezza indagati, compreso il generale Sabir Tareq, vadano a processo. Finora il muro di gomma opposto dagli apparati militari non ha mai ceduto. Le possibilità che si apra una breccia adesso sono scarse, ma è anche vero che l’Egitto ha bisogno delle nostre navi, e subito, perché le tensioni con la Turchia in Libia sono a un punto di non ritorno, e al-Sisi non esclude un confronto diretto. Deve però arrivarci preparato e con mezzi adeguati. Questo aspetto pesa forse più delle pressioni internazionali, concordano analisti militari e fonti della Farnesina. Ma se così fosse, si aprirebbe un’altra falla per la disastrata politica estera italiana. In sintesi: per ottenere il processo a quei 5 ufficiali, l’Italia vende armi all’Egitto. Armi che al-Sisi potrebbe utilizzare in Libia a sostegno del suo protetto: il generale di Bengasi, Khalifa Haftar. Ora, si dà il caso che l’Italia sostenga il nemico giurato di Haftar, il primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna, l’unico riconosciuto internazionalmente), Fayez al-Sarraj, a sua volta armato dalla Turchia. Ha scritto Carlo Verdelli sul Corriere della Sera: “Patrick è asmatico: un’infezione polmonare, già debilitato com’è, gli sarebbe fatale. Stiamo facendo qualcosa per lui? Stiamo continuando a fare qualcosa per Giulio Regeni? Doppio zero. Una democrazia, la nostra, che lascia che due giovani di 28 anni, entrambi impegnati nello studio e nella pratica dei diritti civili, vengano inghiottiti da una ex repubblica socialista guidata da un presidente padrone e supinamente ne accetta l’insolenza, non brilla né per forza né per decenza. Ma anche se magari non sembra, è un problema che non riguarda solo la coscienza di un Paese. Riguarda il peso che abbiamo, e soprattutto che dovremmo avere, nelle complicate trattative finanziarie che ci attendono al varco a Bruxelles e dintorni...”. Così è. “E una piccola storia ignobile come quella di Patrick Zaki, gemella, speriamo non negli esiti, con la fine martoriata e mai spiegata di Giulio Regeni - annota ancora Verdelli - rappresentano due ombre che non aiutano l’immagine di un Paese che dovrebbe fare rispettare, oltre al proprio onore, anche i propri cittadini, naturali o acquisiti che siano”. Giggino lo smemorato - “Andate a vedere che cosa ha detto Di Maio nel 2016 su Giulio quando era all’opposizione e che cosa dice in questi giorni da ministro su Zaki. È vergognoso”. Queste le parole pronunciate da Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, alla presentazione del libro Giulio fa cose scritto da lei stessa insieme al marito Claudio in collaborazione con l’avvocata Alessandra Ballerini. Claudio, il padre di Giulio, ha parlato dopo la moglie ed ha rincarato la dose: “La resistenza della politica italiana nella ricerca di verità su Giulio la sentiamo, se è stato rimandato al Cairo l’ambasciatore è proprio perché ci sono gli interessi dell’Italia nei confronti dell’Egitto, aspetti economici, investimenti, giacimenti e turismo”. E infine: “Si è messa da parte la verità e la giustizia, l’ambasciatore non viene richiamato, cosa che stiamo chiedendo da tempo, il Governo egiziano non sta rispondendo alla rogatoria, quindi c’è una debolezza della politica italiana che non ci aiuta. Ci sono delle persone che ci sono vicine, il presidente della Camera Roberto Fico ci è molto vicino e siamo molto grati a queste persone, però manca il passo decisivo, il mettere davanti al Governo egiziano una posizione ferma, il nostro Governo è un po’ ballerino su da che parte stare”. E con questi chiari di luna, forse il presidente-generale potrà “concedere” la liberazione di Zaki, ma quanto alla verità sulla morte di Giulio Regeni, il capo di uno Stato di polizia non liquida gli esecutori, probabili, di un assassinio di Stato. Un quotidiano del Cairo, Akhbar al Youm, riporta l’opinione di Nashat al Dihy, presentatore del programma Carta e penna trasmesso dalla tv satellitare egiziana Ten: Al Dihy pensa che l’organizzazione per i diritti umani Iniziativa egiziana per i diritti individuali serve a “diffondere l’omosessualità” e spiega in diretta che “questa faccenda è puramente interna all’Egitto”, approfittandone per fare un discutibile ritratto dello studente: “Questo Patrick è un omosessuale (l’omosessualità in Egitto è un crimine, ndr) che è andato a studiare per un master sull’omosessualità all’estero e che lavora per un’organizzazione di promozione dell’omosessualità”. Dopo avere anche insinuato che si tratta “sicuramente di un terrorista”, conclude: “È un cittadino egiziano, e il suo arresto è dunque una procedura al 100 per cento egiziana”. Il parallelo con un altro studente torturato a morte è inquietante: anche contro Regeni i mezzi d’informazione di regime egiziani avevano costruito una campagna di stampa con il pretesto dell’omosessualità. Una campagna che ha avuto il visto del “Faraone” al-Sisi. Germania. “Piene di militari razzisti”. Berlino ristruttura le teste di cuoio di Paolo Valentino Corriere della Sera, 1 luglio 2020 Choc nell’esercito tedesco, un’unità delle forze speciali viene sciolta. AKK: “Rotto il muro del silenzio”. Le KSK, le forze speciali dell’esercito tedesco, verranno radicalmente ristrutturate, una delle loro compagnie dissolta e le altre tre sottoposte a stretta osservazione, dopo la conferma di una forte presenza nelle loro file di elementi dell’estrema destra radicale e ultranazionalista, sia tra i soldati che tra gli ufficiali. Lo ha annunciato il ministro della Difesa, Annegret Kramp-Karrenbauer, secondo cui “l’unità d’élite si è parzialmente resa autonoma” dal resto della Bundeswehr a causa della “cultura tossica di certe persone alla loro guida”. Di conseguenza, secondo la ministra, le KSK “non possono più continuare a esistere nella loro forma attuale”. Il neonazista e il politico - Nell’immediato la seconda compagnia, quella dove la deriva neo-nazista è apparsa più grave e diffusa, verrà disciolta e non sarà rimpiazzata. Ma fino a quando la verifica interna e l’operazione di rinnovamento non verranno completate, probabilmente in ottobre, le teste di cuoio tedesche rimarranno in quarantena, col divieto assoluto di partecipare a esercitazioni e tantomeno alle missioni internazionali. Create nel 1996 sul modello delle SAS britanniche, forti di circa 1700 uomini, le Kommando Spezialkräfte sono da anni al centro di polemiche. Già nel 2003 il loro primo comandante, Reinhard Günzel, fu costretto a dimettersi, dopo un discorso nel quale aveva definito gli ebrei “popolo assassino”. Ma le scoperte più inquietanti risalgono agli ultimi anni, in coincidenza con l’ondata di violenze neo-naziste registrata in Germania. Nel 2017 alla festa d’addio per un ufficiale, erano state lanciate in aria teste di maiale e tutti i partecipanti si erano congedati col saluto nazista. A gennaio scorso, un rapporto riservato dei servizi militari ha rivelato che 20 membri delle KSK sono sotto inchiesta, sospettati di essere estremisti di destra, una percentuale 5 volte più grande che nel resto della Bundeswehr. Mentre in maggio si è scoperto che dai depositi delle forze speciali sono spariti 48 mila munizioni e 62 chili di esplosivo, mentre negli appartamenti di due soldati sono stati trovati veri e propri arsenali illegali di armi da combattimento. “Il muro del silenzio sta per rompersi”, ha detto Kramp-Karrenbauer, che oggi terrà una conferenza stampa. La ministra ha avvertito che se in autunno “le KSK non avranno colto questo avviso preventivo, allora una riorganizzazione più vasta dell’unità sarebbe inevitabile”. Iran. Le forche della vergogna di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 1 luglio 2020 Un altro militante curdo, imprigionato e torturato da agenti dei servizi segreti, rischia di essere impiccato in Iran. L’appello urgente viene da Amnesty International. Si tratta di Kamal Hassan Ramezan Soulo, originario del Rojava (Kurdistan sotto amministrazione siriana). Rinchiuso nel carcere centrale di Urmia (Urmiye in curdo, Azerbaigian occidentale), rischia la pena capitale per quello che ha tutta l’aria di uno scambio di persona. Ma i servizi segreti, rifiutandosi di ammettere l’errore, lo hanno sottoposto negli ultimi tre anni a torture e maltrattamenti. Lo scopo era quello di ottenere una “confessione” in merito a una azione armata a cui Kamal non ha mai preso parte. Secondo gli uomini dei servizi Kamal Hassan Ramezan Soulo sarebbe in realtà “Kamal Soor”, già condannato a morte in contumacia nel 2011 per un’azione armata risalente al 2006 (azione attribuita al PJAK, una delle principali organizzazioni dell’opposizione curda in Iran). Nonostante la camera del tribunale rivoluzionario di Urmia abbia stabilito (in ben due occasioni: settembre 2017 e giugno 2020) che Kamal Hassan Ramezan Soulo non è “Kamal Soor”, gli agenti dei servizi iraniani insistono perché venga giustiziato. Il giovane curdo era stato arrestato nell’agosto 2014 sui Monti Qandil in prossimità della frontiera tra Iran e Iraq. Nel 2015 veniva condannato a dieci anni, pena poi ridotta a sette anni e mezzo, per appartenenza al PKK. Poi, nel maggio 2017, mentre si trovava in carcere, gli venne comunicato che su di lui pendeva una condanna a morte. Impedendo, di fatto, che potesse usufruire di un indulto che lo avrebbe rimesso in libertà nell’ottobre 2019. Sempre da A.I. si apprende che il giovane curdo siriano è stato torturato anche recentemente, dopo il suo trasferimento (il 13 giugno 2020) in un centro di detenzione del ministero dell’Intelligence. Luogo in cui è rimasto segregato, senza comunicarlo ai difensori o a i famigliari, per circa una settimana. Yemen. Centinaia di persone fatte sparire e torturate in carcere nena-news.it, 1 luglio 2020 Il rapporto di un’organizzazione yemenita per i diritti umani, Mwatana, documenta oltre 1.600 casi di detenzioni arbitrarie e centinaia di torture e morti nelle prigioni segrete che le due parti in guerra gestiscono dal 2016. Numeri impressionanti che si uniscono a quelli terribili che la guerra in Yemen consegna al mondo da cinque anni di crisi umanitaria senza precedenti: secondo l’organizzazione yemenita per i diritti umani Mwatana, entrambe le parti in guerra - il movimento Houthi e le forze governative filo-saudite - gestiscono prigioni segrete e ufficiose nel paese. È lì dentro che dal 2016 vengono fatte sparire centinaia di persone, sottoposte a brutali abusi. Nel rapporto di 87 pagine presentato ieri, che parla di almeno undici centri di detenzione non ufficiali in Yemen, sono documentati oltre 1.600 casi di detenzioni arbitrarie, 770 casi di sparizioni forzate, 344 di tortura e almeno 66 decessi. “Torture e forme di maltrattamento crudeli, disumane e degradanti”, scrive Mwatana. “Il numero e la gravità degli abusi hanno avuto un impatto sociale significativo”, aggiunge l’organizzazione che spiega come intere famiglie non abbiano saputo per lunghi periodi di tempo dove i loro casi fossero detenuti. Secondo il rapporto, intitolato “In the Darkness: Abusive Detention, Disappearance and Torture in Yemen’s Unofficial Prisons”, basato su 2.566 interviste a ex prigionieri, familiari, attivisti e avvocati, i responsabili delle carceri sono sia il movimento Houthi che le milizie pagate e addestrate dagli Emirati Arabi Uniti, una delle due petromonarchie (insieme all’Arabia Saudita) a controllare de facto il sud del paese, dove è presente il governo del presidente Hadi e numerosi gruppi armati separatisti in rotta costante con Riyadh. Nello specifico gli Houthi avrebbero carceri non ufficiali nel quartier generale dei servizi segreti e a Taiz in edifici residenziali, mentre le forse emiratine gestirebbero campi nella provincia di Aden e il governo in quella di Ma’rib. Nel settembre dello scorso anno, un comitato di esperti delle Nazioni Unite, denominato Group of Regional and International Eminent Experts on Yemen, aveva denunciato almeno 37 casi di abusi sessuali su detenute da parte delle forze emiratine in prigioni segrete nel sud dello Yemen. Alla base “600 testimonianze e numerosi documenti”, spiegavano gli esperti del comitato creato nel dicembre 2017 dall’Alto Commissariato Onu per i diritti umani. La denuncia si inserisce all’interno di una delle peggiori guerre contemporanee e in quella che l’Onu ha più volte definito la peggiore crisi umanitaria mai vista da decessi: oltre 100mila morti - di guerre, fame e malattie - tre milioni di sfollati interni, 21 milioni privi di cibo e acqua potabile a sufficienza. Risale invece alla metà di giugno la rivelazione fatta da “Mujtahidd”, attivista saudita anonimo, che su Twitter ha denunciato l’esistenza di una prigione segreta gestita da Riyadh nella provincia orientale di Hadhramout, negli anni passati parzialmente occupata e gestita da al Qaeda nella Penisola Arabica, con il beneplacito delle tribù locali. “Ho ricevuto un rapporto da ex detenuti in una prigione gestita dalle forze saudite in Yemen”, ha scritto in un tweet, aggiungendo che il carcere sconosciuto non è ovviamente rispettoso degli standard internazionali. Sarebbero migliaia gli yemeniti detenuti lì negli ultimi anni. Filippine. Almeno 122 bambini sono stati uccisi nella dissennata guerra di Duterte alla droga La Repubblica, 1 luglio 2020 È la denuncia di due Ong. Un piccolo di 7 anni giustiziato per aver assistito all’uccisione di un uomo. Il più giovane aveva 20 mesi. Le Filippine al centro della 44ma sessione del Consiglio Onu per i diritti umani. Nella campagna sanguinosa contro la droga lanciata dal presidente filippino Rodrigo Duterte sono stati uccisi almeno 122 bambini, parte dei quali ammazzati deliberatamente. È la denuncia lanciata ieri da due Ong che si appellano alle Nazioni Unite, perché prendano provvedimenti urgenti contro Manila a tutela dell’infanzia e dei diritti delle persone. Ventisettemila omicidi extragiudiziali nella battaglia al narcotraffico. Lanciata nel 2016, nei primi tempi della presidenza, la campagna contro il narcotraffico ha già provocato migliaia di vittime (fino a 27mila omicidi extragiudiziali secondo alcune fonti), in un contesto diffuso di utilizzo della forza contro semplici sospetti. Il rapporto, intitolato “Come posso aver fatto questo al mio bambino?”, è frutto del lavoro congiunto dell’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct) e dal Centro filippino per lo sviluppo e i diritti giuridici dei bambini (Clrdc Filippine). Dall’inchiesta emergono 122 casi di minori da uno a 17 anni uccisi fra il luglio 2016 e il dicembre 2019. Almeno sei i casi di particolare gravità, fra i quali la vicenda di un bambino di soli sette anni giustiziato per aver visto le autorità locali uccidere un uomo. “I 122 sono solo la punta dell’iceberg - sottolinea il segretario generale Omct Gerald Staberock - e ve ne sono molti altri nel Paese”. Gli attacchi di Duderte ai vescovi. La Chiesa cattolica - riferisce Asianews - “è tra le poche voci che denunciano la violenza della guerra di Duterte alla droga. In risposta alle critiche sulle uccisioni extragiudiziali, Duterte ha più volte lanciato duri attacchi a vescovi e sacerdoti. Nel luglio dello scorso anno, i presuli hanno accolto con favore la decisione delle Nazioni Unite di avviare un’inchiesta sulle migliaia di morti. L’arcivescovo ausiliare di Manila, mons. Broderick Pabillo, ha dichiarato che l’indagine aiuterà a mettere fine agli omicidi extragiudiziali e garantirà giustizia alle vittime e alle loro famiglie”. Alle Nazioni Unite la “Questione Filippine”. La questione inerente i diritti umani nelle Filippine sarà oggetto di indagine durante la 44ma sessione del Consiglio Onu per i diritti umani, che si apre oggi a Ginevra. Durante la seduta verrà presentato anche un rapporto elaborato dall’Alto commissario Michelle Bachelet, cui seguirà un approfondimento sui passi da intraprendere per affrontare l’emergenza. Dal rapporto emerge che la guerra alla droga ha creato un contesto di uccisioni diffuso e sistematico, nella più totale impunità per gli autori. La vittima più giovane di questa guerra voluta da Duterte aveva solo 20 mesi; fra gennaio e marzo di quest’anno sono stati uccisi sette bambini, molti altri sono stati arrestati e sono tuttora in carcere. Hong Kong, addio libertà. In carcere chi protesta di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 1 luglio 2020 È in vigore la legge sulla sicurezza voluta dal presidente cinese Xi Jinping. Il leader della rivolta Joshua Wong scioglie il partito Demosisto: “Comincia lo stato di polizia segreta”. “Una spada affilata puntata contro una minoranza che mette in pericolo la sicurezza nazionale e l’ordine costituzionale”. Così il governo di Pechino ha presentato la Legge spedita ieri a Hong Kong con voto all’unanimità da parte dei 162 membri del Comitato permanente del Congresso, riunito in Piazza Tienanmen. La Repubblica popolare aveva fretta di varare la legislazione cinese che punisce sedizione, secessione, terrorismo, collusione con lo straniero in tempo per la celebrazione di questo 1 luglio, 23° anniversario della restituzione dell’ex colonia britannica alla Madrepatria. “È il secondo e vero ritorno di Hong Kong alla Cina”, esulta la stampa di Pechino. La nuova legge deve scoraggiare ogni protesta, pacifica o violenta che sia. Xi Jinping l’ha promulgata subito, il governo di Hong Kong l’ha pubblicata in gazzetta alle 23, è in vigore da mezzanotte. Sono rimasti ancora incerti i metodi di applicazione, ma definite le pene: tra dieci anni di carcere e l’ergastolo per i trasgressori. Le autorità cinesi sostengono che “solo una piccola minoranza” incorrerà nel rigore della Legge nazionale e “pochi casi di crimini commessi a Hong Kong saranno giudicati fuori dal territorio da magistrati cinesi”, il grosso del lavoro sarà lasciato ai tribunali della città. I giudici però saranno scelti dal governo locale, scavalcando l’indipendenza del sistema giudiziario. I legislatori cinesi sono maestri nel lasciare i contenuti delle norme abbozzati all’interno delle cornici. Pechino insedierà nella City una sua Agenzia di sicurezza e intelligence che “collaborerà con le autorità del territorio autonomo”. Ma di quale collaborazione si tratta, se la governatrice Carrie Lam, ringraziando Pechino, ancora ieri rifiutava di commentare la portata della svolta “perché non ho letto i termini”? È chiaro che Xi Jinping era stanco e frustrato di fronte alle scene di lotta continua e anche di violenze gravi arrivate da Hong Kong per tutto il 2019, prima dell’anestesia causata dal coronavirus. Ha deciso di chiudere la partita dando scacco matto. A Hong Kong il 6 settembre si vota per il rinnovo del Legislative Council: ora i candidati di opposizione come il giovane Joshua Wong potranno essere squalificati preventivamente e processati per “sovversione” o “collusione con forze straniere”. Joshua e i suoi compagni hanno accusato il colpo: il giovane che guidò nel 2014 la Rivolta degli Ombrelli e poi è diventato una sorta di ministro degli Esteri del movimento democratico ha detto che “Hong Kong libera è finita, comincia lo stato di polizia segreta” e ha sciolto Demosisto, il partito che aveva fondato e ora potrebbe essere dichiarato sovversivo e secessionista. Joshua in passato è stato a Washington, ha chiesto per anni aiuto al mondo, è stato in copertina su tutta la stampa occidentale, trattato da icona. Ora potrebbe essere accusato anche di collusione con forze straniere, per quegli incontri e quelle interviste. Dal 1997 Hong Kong è stata retta dal principio “Un Paese due sistemi”. Secondo l’opposizione democratica “era retta”. Per questa fine dell’eccezionalità, gli Stati Uniti revocano lo status commerciale distinto e preferenziale per Hong Kong: Mike Pompeo ha dichiarato il blocco delle forniture di high-tech “sensibile” al territorio. Londra ha offerto il passaporto a tre milioni di hongkonghesi, se vorranno andarsene. L’unione europea minaccia “gravi conseguenze” (ma intanto tutti trattano con Pechino per i propri interessi economici). Oggi Carrie Lam celebrerà l’anniversario della restituzione. Alte reti protettive sono state piazzate intorno alla Bauhinia Square dove si svolgerà l’alzabandiera. Vietata la consueta contromanifestazione degli oppositori. Il fronte democratico ha chiamato comunque all’adunata la sua gente, al Victoria Park. Ci vorrà molto coraggio per sfidare questa Legge di Pechino, che prevede a scelta l’accusa di sedizione, separatismo, terrorismo, collusione con lo straniero. Oltre alle manganellate della polizia, oggi i manifestanti rischiano il carcere a vita.