La Caporetto delle toghe ma la politica non sa che fare di Alberto Cisterna Il Riformista, 19 luglio 2020 La partita sulla giustizia si sta disputando in un acquitrino mefitico. Non che prima i giocatori brillassero di far play o che il campo fosse immune da buche e trabocchetti. Anzi. Dal caso Tortora in poi - da oltre 30 anni - la disputa sui temi della giurisdizione è stata un susseguirsi di agguati mediatici, di piccoli e grandi scandali, di incarcerazioni e scarcerazioni eccellenti, di assoluzioni e condanne da prima pagina. Sia chiaro: nulla di particolarmente doloroso o di irreparabile. Scaramucce, qualche insulto, qualche bastonata a casaccio, ma convinti i duellanti che niente di irreversibile sarebbe accaduto e che nessuno rischiava di perdere davvero. Anche oggi sarebbe facile dire: “nihil sub sole novum”. Perché questo, in effetti, sembra l’atteggiamento di molti dei protagonisti in questi mesi. In tanti pensano che, a ben guardare, non c’è nulla di (più) grave (del solito), che anche questa buriana passerà e che si tornerà a guerreggiare come prima, acconciando le trincee al meglio, sistemando un cecchino qua e là per sparare a qualche sprovveduto che si avventurasse nella “terra di nessuno” del dialogo, ma sempre guardandosi bene dal dare troppo filo da torcere al nemico. Una classica guerra di posizione che, come tutte le ostilità di lunga durata, consente enormi rendite per entrambi i contendenti. Giustizialisti irriducibili e garantisti à la page avrebbero avuto ben poco di cui campare se, di colpo, lo scontro avesse avuto fine e se le armi fossero state deposte in nome di un’equilibrata riforma della macchina giudiziaria. Oggi, come altre volte, l’intento è quello di acconciare una soluzione, di trovare un “tavolo di accomodamento” come direbbero in Sicilia. In genere per attenuare le polemiche e per scrollarsi di dosso le troppe critiche non vi era nulla di più utile che una bella sequenza di convegni, congressi, documenti, confronti televisivi, articoli di stampa, esortazioni autorevoli. Insomma tanti auspicano che sia solo l’ennesimo scontro in una guerra a bassa intensità in cui molti hanno troppo da perdere e pochi hanno troppo da guadagnare. Perché, come i fatti dimostrano, nessuno vuole davvero tagliare i ponti, nessuno auspica una netta separazione tra giustizia e politica, nessuno intende veramente ergere muri. I pontieri delle due parti sono all’opera da decenni, sono i mediatori degli incarichi fuori ruolo, delle nomine, delle leggine all’acqua di rosa. Sono quelli su cui converge il sostegno delle toghe e dei loro (sedicenti) avversari. Se non fosse. Se non fosse che tutta questa ammuina si fonda sulla capacità dei contendenti di orientare - a fasi alternate e secondo le necessità - la pubblica opinione sospingendola a destra e manca in un moto pendolare continuo che dura da un paio di decenni. In altre parole, le toghe saranno pure cattive, ma non troppo, ma non tutte. Poi, al prossimo scandalo, alla prossima ingiustizia, alla prossima vittima da risarcire, la scoperta che di quelle toghe non si può fare a meno per ripristinare l’ordine infranto dal reo. È così da decenni. Avanzate e arretramenti con le cadenze di un metronomo regolato a convenienza. Finora tutto bene. Qualche riformetta, qualche piccolo aggiustamento, qualche graffio alla carrozzeria lucente della fuoriserie giudiziaria. Ma nulla di decisivo e nulla cui non possa porsi rimedio con un prossimo governo con cui stringere legami e patti. Però ora si insinua pericolosa l’impressione che si sia andati d’improvviso ai tempi supplementari e che la clessidra stia rapidamente dissipando la sabbia a disposizione. Avanza il timore che la lunga guerra di trincea potrebbe esaurirsi in fretta e i contendenti iniziano a dar segni di un’ansia sinora mai veramente messa in mostra. Hanno forte la sensazione gli strateghi dei due campi che, questa volta, potrebbe ingaggiarsi una battaglia decisiva per le sorti del conflitto istituzionale e politico che si consuma sui temi della giustizia penale. Si badi bene: pure Stalingrado o Midway furono battaglie decisive anche se poi sono occorsi anni per giungere alle fine. Si sta profilando, inaspettato, un lento ma inesorabile mutamento dei rapporti di forza tra magistratura e politica, un capovolgimento tra assedianti e assediati con le toghe chiamate a rendere conto non di questa o quell’ingiustizia o di questo o quel fallimento investigativo, ma di una complessiva gestione della giustizia. Con il paradosso che la Caporetto del fronte togato ha colto del tutto alla sprovvista l’altra parte della barricata incapace di far altro che dolersi e lamentarsi di qualche asserita ingiustizia patita, ma del tutto priva di una visione complessiva della nuova situazione che si sta venendo a consolidare. Galli della Loggia, a proposito, ha adoperato parole chiare e condivisibili quando ricorda che i magistrati sono investiti da un “giudizio ingiustamente sommario, se si vuole, ma inevitabile dal momento che la gravità dei fatti cancella fatalmente i pur necessari distinguo” (Corriere della sera del 29 giugno). Non si tratta più di separare le toghe perbene da quelle disoneste, né di dolersi dell’incidenza di qualche scandalo su una pubblica opinione, paternalisticamente descritta come “disorientata e sgomenta”, quanto di prendere atto che si sta sedimentando e amplificando un sentimento di complessiva messa in stato d’accusa della corporazione che esige - nell’interesse degli stessi giudici - una risposta rapida e risolutiva. L’idea di una restaurazione che porti indietro le lancette dell’orologio a prima dell’affaire Palamara e dei suoi recenti corollari è possibile alla sola condizione che si ceda alla tentazione di una guerriglia strada per strada, ossia di adoperare la massa delle informazioni disponibili per criticare questa o quella nomina, questo o quell’inciucio, questo o quel processo. Chi ha interesse a ciò ha i mezzi a disposizione per far valere le proprie ragioni e molti lo faranno (ben tre ricorsi contro la designazione del procuratore di Roma sono un evento senza precedenti, o quasi, nella storia del Csm). Compito di chi ha a cuore il destino dei cittadini nelle aule di giustizia - la sola cosa che conti, ben prima delle carriere dei giudici e delle parcelle degli avvocati - è quello di denunciare che un intero modello di regolamentazione della giustizia mostra crepe insanabili e che i Costituenti hanno compiuto un’opera, al tempo sublime, ma che tuttavia non ha retto all’urto dell’evoluzione sociale e politica della magistratura in Italia. Senza questa visione le acque, separate dallo scandalo, torneranno a chiudersi sui fondali limacciosi e tutto si placherà, come sempre. Un grande esperto in pensione di analisi strategica alla domanda su cosa ne pensasse delle vicende di queste settimane ha risposto: “il problema non è capire cosa abbia fatto Palamara, ma comprendere chi o cosa ne abbia preso il posto”. Troppo pessimista. Troppo umano. Le amministrazioni più libere dai Pm con la riforma dell’abuso d’ufficio di Gabriele Esposito Il Riformista, 19 luglio 2020 Il decreto Semplificazioni ha riformato il delitto di abuso d’ufficio sostituendo, alla generica “violazione di norme di legge o regolamento”, la formula più nitida “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Così si è innescato l’ennesimo dibattito intorno a una delle figure di reato più controverse e discusse. Dall’antica formulazione del codice Rocco sino a quella attuale (provvisoria, in quanto soggetta a conversione in legge ed eventualmente emendabile) i numerosissimi interventi, giurisprudenziali, dottrinali e politici, ruotano in particolare intorno al tema della “discrezionalità” della pubblica amministrazione “assoggettata” a quella del sindacato giurisdizionale. Le esigenze, dunque, del potere amministrativo mai si sono conciliate con quelle, legittime ma radicalmente opposte, di accertamento della legalità ravvisandosi in quest’ultimo, spesso, l’esercizio di funzioni di controllo dell’indirizzo politico e dell’autonomia del potere politico-amministrativo. Sia ben accolta, dunque, nel dibattito parlamentare che seguirà in fase di conversione, questa novella legislativa (l’unica degna di nota dell’attuale compagine governativa in tema di giustizia) che sottrae alla giurisdizione penale il controllo sulla discrezionalità dei pubblici funzionari che, altrimenti, continuerebbero a vedere limitate le proprie prerogative per il timore di sostenere, dovendo assumersene le responsabilità, iniziative di carattere amministrativo o politico. La restrizione dell’ambito di operatività dell’abuso d’ufficio, disposta con il riferimento alla violazione di regole previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, appare necessaria alla luce dell’ampia discrezionalità concessa dai provvedimenti legislativi (in particolare dagli atti aventi forza di legge che rivestono carattere di urgenza) i quali impongono ai pubblici amministratori di non sottrarsi dal prendere decisioni che, spesso, divengono oggetto di imputazioni. Penso, quindi, che sia arrivato il momento di chiudere una lunghissima stagione di inchieste giudiziarie sfociate, in modestissima percentuale, in sentenze di condanna rispetto a decine di migliaia di procedimenti conclusi con assoluzione o archiviazione. La nozione di “merito amministrativo”, costruita in decenni di interventi giurisprudenziali, ha fatto sì che il processo decisionale dei pubblici funzionari, soggetto a criteri generali di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, fosse limitato nel suo svolgimento dal sindacato giurisdizionale, con la conseguenza di un reale stallo della tutela degli interessi collettivi e dell’economia. Appare assolutamente comprensibile, difatti, che - a fronte del rischio di una iscrizione nel registro degli indagati, del pubblico disprezzo, della perdita di eventuali chance e della sospensione dalle funzioni se imputati - la scelta dei pubblici funzionari, specialmente se organi politici e collegiali, ricadesse sul “male minore”: la cosiddetta “fuga dal potere di firma”. Ciò si verifica in quanto la funzione della giurisdizione, anche a livello mediatico, è da tanto tempo intesa e percepita non come funzione di ricerca delle patologie e delle avvenute violazioni della legalità ma come controllo preventivo della legalità; è intesa, quindi, non come accertamento di un illecito denunciato (sua naturale funzione) ma come preventiva “ricerca” dello stesso in una condotta e in un determinato fatto storico rientranti in un più ampio contesto avulso da quello oggetto dell’indagine penale. Ritengo, dunque, che la riformulazione dell’articolo 323 del codice penale possa contemperare le esigenze di chi vorrebbe vedere abrogata questa norma e chi, invece, sostiene il precedente dettato normativo e che risponda a più concrete esigenze di giustizia limitando la pervasività del potere giudiziario nelle scelte di quello politico e amministrativo. Patrocinio a spese dello Stato, dal dl Rilancio 20 milioni di euro Il Dubbio, 19 luglio 2020 Previste 5mila assunzioni e interventi per la digitalizzazione dei processi. Messi in campo 55 miliardi di euro. Ma l’Uspp protesta: “un flop, mancano ancora 17mila agenti penitenziari a fronte dei 54mila previsti”. Venti milioni di euro per il 2020 per gli avvocati che hanno prestato assistenza legale con il patrocinio a spese dello Stato, da destinare alla corresponsione “dei crediti maturati e non pagati relativi alle predette prestazioni professionali, in riferimento agli anni pregressi”. È quanto si legge all’articolo 220 bis del Decreto Rilancio, approvato in via definitiva dal Senato, che dunque va a sanare una delle falle del sistema Giustizia. Un intervento che si associa, poi, all’assunzione di 650 nuovi agenti della polizia penitenziaria e quasi 5mila assunzioni di personale, tra amministrativo e giudiziario, e interventi per la digitalizzazione dei processi. “Il decreto Rilancio mette in campo 55 miliardi per sostenere famiglie, imprese, liberi professionisti, dipendenti, e anche il sistema giustizia, con interventi di vitale importanza - ha commentato il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi - La giustizia potrà così tornare alla sua piena funzionalità e avere maggiori risorse a disposizione dell’amministrazione penitenziaria e dell’organizzazione giudiziaria”. Tra le principali misure l’assunzione di 650 allievi agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria, 488 uomini e 162 donne, mediante scorrimento della graduatoria, per continuare con l’operazione di riempimento degli organici (ulteriori rispetto ai concorsi ordinari), misure finalizzate a digitalizzare il processo civile e penale, rendendo più rapide ed efficaci le procedure e tenendo conto delle nuove esigenze di tutela sanitaria, con l’assunzione di 1.000 amministrativi che consentiranno di attuare un programma straordinario per la velocizzazione dei procedimenti giudiziari pendenti. Previsto anche il reclutamento di 400 direttori dell’amministrazione giudiziaria, 150 unità di personale amministrativo, 2.700 cancellieri esperti e 500 giudici ausiliari di Corte d’appello destinati allo smaltimento dell’arretrato penale. Il decreto stabilisce anche la proroga fino al 31 dicembre dello smart working per il 50% dei dipendenti della pubblica amministrazione con mansioni che possono essere svolte da casa. Una percentuale che, dal primo gennaio del 2021, salirà almeno al 60%, con la modifica che introduce il “Piano organizzativo del lavoro agile”. Le nuove misure non lasciano però soddisfatto il sindacato di polizia, che giorni fa aveva chiesto con una manifestazione in piazza Montecitorio la proclamazione dello stato di emergenza. “L’annuncio di 650 assunzioni non ha alcuna incidenza positiva sulla carenza organica del personale di polizia penitenziaria - ha dichiarato il presidente dell’Uspp Giuseppe Moretti - che oggi si attesta ad oltre 17mila unità (dovrebbero esserne in servizio 54mila a fronte di una effettiva presenza di non oltre 37mila agenti)”. Palamara: “Nulla si muove all’interno della magistratura se la corrente non lo vuole” Il Dubbio, 19 luglio 2020 L’ex presidente dell’Anm a Radio Radicale: “È arrivato il momento di pensare a chi con quel sistema non c’entra”. “I fatti di cui sono incolpato non si sono verificati”. A dirlo è l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, intervenuto questa mattina a Radio Radicale. “I testi che indico sono funzionali alle incolpazioni che mi sono state formulate e ognuno di loro può dimostrare quello che realmente è accaduto”. “Non voglio credere alle anticipazioni di giudizio - afferma Palamara -, io sono determinato a chiarire tutti i fatti. Non intendo né sottrarmi né arretrare, è mio dovere difendere la mia dignità e la mia storia professionale. E proprio perché amo la magistratura sento il dovere di chiarire ma anche di fornire il mio contributo per il miglioramento di un sistema che ha dimostrato che oramai è superato e necessita di ulteriori meccanismi, al netto dell’impegno di coloro che ne fanno parte. E penso di essere in grado di fornire notizie, fatti e circostanze importanti nella storia recente della magistratura. Sono determinato a chiarire tutto”. “Sono sempre stato convinto che quel sistema dovesse cambiare. Ci sono due anime: una che ritiene che tutto si possa risolvere con un’autoriforma e chi ritiene che non sia sufficiente a risolvere tutti i problemi. Il che significa che è la politica a dover riformare il sistema. Nessuno ha la ricetta migliore, penso sia l’occasione per discutere - continua Palamara. Il meccanismo dell’autoriforma non è la soluzione a tutti i problemi, ma abbiamo una politica poco incisiva. Al centro va messo sempre il tema dell’indipendenza della magistratura, che mai può essere messa in discussione. Se sono contro questo sistema? Le vicende emerse hanno segnato un punto di non ritorno. Questo sistema è nato a metà anni 60, il mondo è cambiato da allora. E il sistema delle correnti è nato con le migliori intenzioni, ma nel 2007, con la riforma dell’ordinamento giudiziario, è stato segnato un punto di non ritorno, con l’introduzione di un carrierismo sfrenato, che ha fatto perdere la bussola, probabilmente anche a me, su come dovessero orientarsi le correnti”. Luca Palamara davanti al procedimento disciplinare vuole “contestare che le interferenze” a lui attribuite “non sono tali avendo parte fatto parte di un sistema, quello delle correnti, che a torto a ragione caratterizza l’organizzazione interna alla magistratura. Non è mio intendimento fare “muoia Sansone con tutti i Filistei” ma piuttosto un ragionamento serio e approfondito di come il potere delle correnti abbia influenzato non solo la vita interna della magistratura ma la vita politica del Paese”. “Le correnti sono state il motore della vita interna della magistratura da quando sono nate, ancora di più dal 2007. Nulla si muove all’interno della magistratura se la corrente non lo vuole. Ma è arrivato il momento di guardare chi in questo meccanismo non ci è mai entrato”. Nel corso del programma è intervenuto anche il magistrato Alfonso Sabella, secondo cui è “ipocrita che Palamara debba presentare una lista di testi per dimostrare qualcosa che si sa da decenni”. E ha aggiunto: “Abbiamo il dovere di apparire onesti, oltre che di esserlo. Ma le degenerazioni del correntismo non ci consentono di apparire tali. E non è una cosa che risale al 2007: Palamara doveva dirlo 10 anni fa, quando ne faceva parte. E questa è la critica che gli muovo, per il resto sta dicendo cose sacrosante”. La difesa di Palamara: “Il sistema delle correnti è a un punto di non ritorno” di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 luglio 2020 L’ex presidente dell’Anm anticipa, a Radio Radicale, la linea difensiva di martedì 21 luglio quando sarà giudicato dalla sezione disciplinare del Csm. “C’è un sistema di proprietà all’interno della magistratura, le correnti sono proprietarie della magistratura. È un sistema superato? È un sistema che indubbiamente penalizza chi è esterno”. Ora però “le vicende che sono emerse, che vedo con dolore legate al mio nome, hanno segnato un punto di non ritorno” per quel sistema. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, intervistato ieri da Radio Radicale, anticipa così la sua linea difensiva dell’udienza di martedì prossimo, 21 luglio, quando davanti alla sezione disciplinare del Csm dovrà rispondere alle accuse di aver tentato di condizionare le nomine di importanti vertici giudiziari e di aver pianificato una strategia per screditare alcuni magistrati come l’ex procuratore capo di Roma Pignatone. È una linea difensiva, quella dell’ex togato del Csm, che trova porte sfondate ovunque ormai: tutta colpa delle correnti. “Non è mio intendimento fare “muoia Sansone con tutti i Filistei” - chiarisce - ma piuttosto un ragionamento serio e approfondito di come il potere delle correnti abbia influenzato non solo la magistratura ma la vita politica del Paese”. Eppure, come ha scritto Livio Pepino qualche settimana fa su queste colonne, “i riferimenti non sono più, da tempo, le correnti ma gli esponenti più forti e potenti di un indifferenziato “correntone” nel quale le idee e le impostazioni culturali non contano più nulla”. Palamara invece intende contestare le interferenze attribuitegli perché, dice, “non sono tali, avendo parte fatto parte di un sistema, quello delle correnti, che a torto o a ragione caratterizza l’organizzazione interna alla magistratura”. A questo fine, l’esponente di Unicost, che ha già anticipato di non avere alcuna intenzione di lasciare la magistratura, ha proposto alla sezione disciplinare del Csm una lista di 133 testimoni al fine di “dimostrare che i fatti di cui sono incolpato non si sono verificati”. Una tale mole di testi, “funzionali a esplicare il mio sacrosanto diritto alla difesa”, oltre alla (legittima) strategia di intralcio punta senz’altro a dimostrare che “nulla si muove all’interno della magistratura se la corrente non lo vuole”. Assodato questo concetto, c’è anche posto per una critica al “carrierismo sfrenato che ha fatto perdere la bussola anche a me”. Il magistrato Stefano Guizzi che difenderà Palamara in udienza ha anche chiesto di escludere Piercamillo Davigo dalla corte giudicante, in quanto l’ex pm di Mani pulite è nella lista dei testimoni “a discarico dell’incolpato”. “Una condizione - si legge nell’istanza inviata a Palazzo dei Marescialli - davvero sui generis, tale da consigliarne l’astensione oppure da indurre sin d’ora questa difesa a formulare istanza di ricusazione” per Davigo che, secondo la memoria difensiva presentata da Guizzi, sarebbe stato tra gli oppositori di Pignatone, come lo stesso Palamara. Nulla di strano, però. Stavolta l’ex presidente dell’Anm invita a riflettere sul ruolo dei procuratori capo perché, dice a Radio Radicale, “accentuare i poteri di una sola persona, pensando che si potessero risolvere i problemi” non ha fatto altro che aumentarne “l’incidenza e l’influenza nella vita politica del Paese”. La falsa antimafia delle ricorrenze di Attilio Bolzoni La Repubblica, 19 luglio 2020 È una provocazione contro quell’antimafia in posa perenne, ma è anche un invito a non guardare più indietro agitando le foto dei magistrati uccisi come santini, è un appello contro l’ipocrisia delle celebrazioni e le messe in suffragio degli “eroi”. A cominciare da suo padre, Pippo Fava, giornalista, sceneggiatore, drammaturgo e pittore, ucciso dai boss a Catania il 5 gennaio 1984. E il figlio Claudio, che è il presidente della commissione antimafia siciliana, ha scelto la vigilia di un giorno molto particolare - il 19 luglio di ventotto anni fa Cosa Nostra assassinava il procuratore Paolo Borsellino - per lanciare un grido contro un conformismo che sta suicidando l’antimafia italiana. “Libera nos” è il titolo di un post su Facebook e ripreso dai siti dove Fava scrive: “Seppelliamo i morti, una volta per tutte. E togliamoci il lutto, per piacere. E affrontiamo la vita”. Un messaggio contro le “ricorrenze” che in questi ultimi anni sono state occasione di passerelle oscene per un’antimafia non sempre genuina e disinteressata, un richiamo alla sobrietà (“Liberaci dall’antimafia stampata sui biglietti da visita... giornalisti anti-mafiosi, sindaci anti-mafiosi, giudici anti-mafiosi”), un’esortazione a “stare dentro la vita” e costruire giorno per giorno - e non solo nelle date ufficiali degli anniversari - un percorso alla ricerca di una verità che non sia per forza con la V maiuscola. Quella di Claudio Fava è una rottura profonda contro un mondo che si è sempre più rifugiato nella retorica e che ha smarrito il suo spirito originario, che non è riuscito a cogliere i mutamenti mafiosi dopo le stragi de11992 e che si è rivelato incapace di riconoscere un nemico che ha cambiato pelle. Naturalmente sono arrivate le polemiche e anche qualche insulto. Come da copione. Così il processo alla ‘ndrangheta stragista vuole riscrivere un pezzo di storia d’Italia di Alessia Candito L’Espresso, 19 luglio 2020 Il ruolo della mafia calabrese nella stagione delle stragi, i legami con Cosa Nostra, la ricerca di referenti politici, il ruolo della nascente Forza Italia. Finalmente si ricostruiscono verità rimaste nascoste per troppo tempo. Sono memoria condivisa da Palermo a Milano. E per l’Italia intera sono una tragedia collettiva. Ma nella ricostruzione delle stragi di mafia che negli anni Novanta dalla Sicilia sono tracimate in continente con bombe e attentati manca un pezzo. A quel progetto eversivo ha partecipato anche la ‘ndrangheta. E con un ruolo da protagonista. Per decenni è riuscita a nasconderlo, trasformando i tre attentati calabresi contro i carabinieri, con cui l’élite dei clan ha firmato quel patto, nella “bravata” di due picciotti in cerca di armi e gloria. Ma un processo ha smontato “un’inaccettabile mistificazione che dura da trent’anni”. Parole del procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, che ha coordinato quell’inchiesta, diventata un processo di tre anni e 127 udienze. E che adesso si avvia alla conclusione. “Con le stragi per noi il tempo si è fermato in un eterno presente che diventerà altro solo quando la verità verrà ricostruita fino in fondo” dice il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. È stato lui, con l’iniziale collaborazione di Francesco Curcio, all’epoca in Dna, a cercare le tracce e stanare l’ombra dei clan calabresi dietro le bombe di via Palestro a Milano, agli Uffizi di Firenze, a San Giovanni a Roma. È stato lui a comprendere che i tre attentati mirati organizzati tra il dicembre ‘93 e il gennaio ‘94 nei pressi di Reggio Calabria contro i carabinieri, incluso quello costato la vita ai brigadieri Fava e Garofalo, sono uno dei tributi che la ‘Ndrangheta ha offerto a quella stagione di sangue e alle trattative a cui puntava. Ma soprattutto che anche cronologia e geografia delle stragi vanno aggiornate. Perché gli attentati calabresi sono l’omega di quella di quella scia di sangue, che sempre in Calabria ha avuto inizio. La violenza mafiosa - spiega Lombardo - si trasforma in “un disegno eversivo peculiarmente terroristico” non nel marzo ‘92, con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, ma nel giugno ‘91, un paio di mesi prima dell’agguato costato la vita al giudice Nino Scopelliti, ammazzato nei pressi di Reggio Calabria il 9 agosto di quell’anno, mentre preparava l’accusa nel maxi-processo contro la Cupola palermitana in Cassazione. Intuizioni trasformate in un’inchiesta che scrive un altro pezzo di storia d’Italia, arrivata indenne ad un processo giunto ormai alla requisitoria. Alla sbarra però non ci sono solo calabresi. Oltre a Rocco Santo Filippone, espressione limpida dello storico casato dei Piromalli di Gioia Tauro, per l’accusa delegato dalla ‘Ndrangheta tutta nella gestione delle stragi calabresi, imputato c’è anche il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Il killer di don Pino Puglisi, il capo-mandamento che ha ordinato le stragi del 92-93 e per questi ed altri reati ha collezionato ergastoli, ha avuto un ruolo anche in Calabria. E lui stesso - forse involontariamente, forse no - lo ha confermato. “Ha fornito un contributo dichiarativo enorme, liberamente reso su temi che lui stesso ha introdotto” spiega il procuratore. A Reggio Calabria, il boss di Brancaccio ha rotto un silenzio, interrotto solo da estemporanee proteste e dichiarazioni, che durava da decenni. E nel processo che per la prima volta racconta il ruolo della ‘Ndrangheta negli anni delle stragi, ci ha tenuto a sottolineare che c’erano anche pezzi di istituzioni, di poteri palesi e occulti, di imprenditoria, di massoneria che in quella fase hanno avuto un ruolo. Una conferma dell’ipotesi dell’accusa secondo cui “le mafie - spiega Lombardo - avevano capito che, modificandosi lo scenario a livello internazionale e nazionale, bisognava muoversi per tempo, individuando nuovi referenti politici”. Un’esigenza condivisa con pezzi di istituzioni, di politica, di massoneria, di intelligence che all’ombra della cortina di ferro - sostiene la procura - avevano costruito il proprio potere come “antidoto” all’influenza del blocco sovietico e venuto giù il muro di Berlino hanno forzato la mano per mantenerlo. Dagli uomini di Gladio alla massoneria di Gelli, dai settori dei servizi impiegati nelle operazioni Stay Behind a chi per anni ne ha dettato le priorità strategiche, insieme alle mafie in quella partita giocavano in molti. Tutti - sostiene la procura di Reggio Calabria - con lo stesso scopo. “Una strategia gattopardesca per mantenere gli equilibri di potere inalterato”, spiega il procuratore, un’opera di ristrutturazione del potere che lo mantenesse identico a sé stesso, in cui bombe, sangue e terrore indiscriminato era un mezzo e non un fine. “Una tattica servente ad una strategia più alta”. Un modo per obbligare tutti a sedersi al tavolo, senza lasciar fuori nessuno. A cercare una soluzione condivisa, poi individuata - emerge dall’inchiesta - nel progetto politico di Forza Italia. E tutto questo Graviano lo ha a modo suo confermato. A sorpresa, per la prima volta nella sua lunga storia di processi ha deciso di sottoporsi all’esame. Per quattro udienze ha parlato, lanciato messaggi, detto e non detto. Le sue non sono state certo dichiarazioni limpide e cristalline o una confessione. Ma il boss di Brancaccio si è incastrato con le sue stesse parole. Quelle delle chiacchierate intercettate in carcere con il camorrista Umberto Adinolfi che hanno svelato i rapporti diretti con Silvio Berlusconi, rivendicate come “unica cosa vera” in aula, e quelle dette in dibattimento. “Graviano - dice Lombardo - è un imputato che ha diritto di mentire, ma le sue dichiarazioni in aula trovano conferma nelle sue intercettazioni in carcere, fino a prova contraria da considerarsi genuine”. Di fronte a Corte d’Assise, pm e avvocati, Graviano ha parlato da boss e giurando di essere vittima di un complotto, ha puntato il dito contro Berlusconi, accusandolo di avere beneficiato dei soldi della sua e di altre famiglie siciliane senza mai averli restituiti, ha confermato di aver avuto incontri regolari e riunioni con il padre padrone di Forza Italia, prodotto politico di cui - ha detto in modo chiaro il boss di Brancaccio - lui e i suoi erano stati informati prima dell’ufficiale “discesa in campo”. Affermazioni che il diretto interessato si è affrettato a smentire tramite i suoi legali, mentre in aula - udienza dopo udienza - Graviano alzava il tiro. Senza mai arrivare a farle, ha promesso o minacciato rivelazioni sulla classe politica di quegli anni, quella che non voleva che le stragi si fermassero e quella che cercava contatti “con gli amici di Enna”, lì dove si riuniva la Cupola, per capire cosa stesse succedendo e fermare quelle bombe. “E no, Berlusconi non era fra questi ultimi” ha detto il boss in aula. E il banchetto coperto di faldoni, blocchi di appunti, pizzini dietro cui stava seduto, in video-collegamento dal carcere di Terni è diventato un pulpito per lanciare messaggi. A pezzi dell’intelligence con cui dice di non essere mai stato a contatto ma di cui può raccontare, a chi “ha fatto di tutto per farmi parlare”. Ai carabinieri “che devono dire come sono andati i fatti”. Ai misteriosi “imprenditori milanesi” che i clan siciliani avrebbero finanziato. A chi “ancora tiene nei cassetti le carte” che potrebbero dire molto sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino e su “chi ha preso l’agenda rossa di Paolo Borsellino”. Nelle intenzioni di Graviano, messaggi forse più diretti fuori dall’aula, che alla Corte e alle parti. Ma che hanno interlocutori precisi, espressione di mondi che secondo l’accusa erano coinvolti nella strategia eversiva di quegli anni. “Usciamo fuori da prudenze verbali - tuona il procuratore - In questo Paese si sono mosse tutta una serie di forze che a fianco delle mafie sono diventate forze mafiose. Quello che è successo in Italia, non è contatto, ma compenetrazione fra mondi che hanno obiettivi comuni. Ma - aggiunge - non bisogna fare l’errore di considerare tutto mafia. È sbagliato dire che il contatto con le mafie ha trasformato apparati istituzionali, la politica, in forze mafiose. Pezzi singoli sono diventati mafiosi. Noi non siamo la nazione che agevola la mafia. Noi abbiamo un grande problema che sono le mafie e il nostro compito è stanare tutte le componenti mafiose”. Anche per questo gli investigatori di Squadra Mobile e Servizio centrale antiterrorismo, per ordine della procura, hanno cercato riscontri alle sibilline indicazioni che Graviano ha dato. E sono stati trovati. Altri sono arrivati dal dibattimento. Si è scoperto e c’è la prova, che tutti gli attentati, omicidi, bombe di quella stagione sono stati firmati come Falange Armata, sigla - dicono collaboratori calabresi e siciliani - indicata da ambienti dei servizi. Che alcuni degli obiettivi di quella stagione sono stati indicati da chi delle mafie non era parte o comunque non solo. Che il Goi, la più grande obbedienza massonica dell’epoca - lo ha detto chiaramente - il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo - era irrimediabilmente controllato dalle mafie, che - ha specificato il pentito Cosimo Virgiglio - hanno sempre usato le logge per entrare in contatto con ambienti diversi, insieme a cui sviluppare comuni progetti, dal riciclaggio al controllo elettorale. Sono saltati fuori tabulati, intercettazioni e testimonianze che negli anni delle stragi collocano il boss di Brancaccio in Sardegna, nei pressi della villa di Berlusconi, o al bar Doney, in via Veneto, dove Spatuzza e Graviano si incontravano per progettare il fallito attentato all’Olimpico, a pochi passi dall’albergo in cui, esattamente negli stessi giorni, Forza Italia ultimava la “discesa in campo” ufficiale di Berlusconi e Marcello Dell’Utri - dicono recentissime testimonianze raccolte - “incontrava calabresi e siciliani interessati al nuovo progetto politico”. Rileggendo e attualizzando vecchie carte, si è scoperto che negli stessi anni in cui le famiglie siciliane inviavano miliardi poi serviti per “investimenti immobiliari, le televisioni, tutto” ha detto in aula il boss di Brancaccio, in Calabria Angelo Sorrenti “un imprenditore dei Piromalli” veniva portato alla corte di Publitalia e scelto come referente calabrese per la costruzione di Fininvest. Piste - ed anche questo è emerso in modo chiaro- già apparse in passato e inspiegabilmente ignorate. Per l’accusa, una conferma che è su Forza Italia che ha trovato la quadra quella stagione di sangue e trattative, di bombe e abboccamenti, di tentativi, sperimentazioni, di cui sono state protagoniste le mafie tutte, ma non solo. “Il concetto di tempo - afferma il procuratore Lombardo - è uno degli interrogativi che l’uomo porta con sé da sempre: la percezione del tempo è soggettiva o oggettiva? E come si misura? L’unità di misura internazionale del tempo è il secondo. Ragionando in secondi, dal primo febbraio del 1994 che è l’ultimo episodio su cui ci troviamo ad occuparci in questa sede, abbiamo aspettando la verità da 819milioni933mila secondi”. Ed è necessaria e urgente una ricostruzione complessa che vada oltre “le verità sottobanco, il compromesso, le scorciatoie, il silenzio e la paura”. E la verità sulle stragi, “abbiamo il dovere di chiederla come cittadini, abbiamo il dovere di cercarla come magistrati del pubblico ministero, avete il compito di affermarla voi giudici. Costi quel che costi, perché altrimenti quelle stragi non saranno mai passato. Oggi viviamo un eterno presente da cui dipende il nostro domani”. Campania. Il Garante: il numero dei suicidi in carcere torna a preoccupare linkabile.it, 19 luglio 2020 Luigi e Alfonso sono i nomi dei due uomini che in meno di 48 ore hanno messo fine alla loro vita nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere e Poggioreale. Dei 29 detenuti che su tutto il territorio nazionale si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, si arriva a quota 6 vittime per la Campania. Dopo un calo del 40% dei suicidi negli istituti penitenziari della regione nel 2019 rispetto all’anno precedente, i dati di questo primo semestre tornano ad essere allarmanti. Anche se i suicidi sono ascrivibili a diverse motivazioni, il carcere continua ad uccidere. Nonostante il numero di detenuti nelle carceri italiane sia sceso del 13,9%, arginare il problema del sovraffollamento non basta a contrastare il malessere, il degrado e la solitudine della vita in carcere. In questo periodo di distanziamento sociale dovuto all’emergenza sanitaria sono ancor più venuti a mancare i contatti con i propri affetti, la comunicazione, l’ascolto e la presenza di figure sociali, producendo un evidente senso di abbandono e arrendevolezza. Continuo a ribadire la necessita di implementare progetti rieducativi e umanizzanti, distribuendoli su tutto il corso della giornata, al fine di combattere l’isolamento. Chiedo a tutti, ognuno per la sua parte, di assumersi l’impegno di riflettere e intervenire. Bisogna sconfiggere insieme l’indifferenza a questo stato di cose, coinvolgendo istituzioni e parti sociali. Il tema della prevenzione dei suicidi non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire il carcere ma richiama alla responsabilità il mondo della cultura, dell’informazione, dell’amministrazione centrale e locale, e soprattutto della politica nazionale che troppe volte in maniera cinica coniuga il populismo penale con quello politico. La perdita di tali vite a un ritmo più che settimanale non produce sussulti, non assume quel rilievo come tema, che nella sua drammaticità dovrebbe avviare ad una effettiva riflessione ed elaborazione delle marginalità individuali e sociali che la nostra attuale organizzazione sociale produce. Negli istituti di pena si concentrano gruppi vulnerabili che sono tradizionalmente quelli in cui rientrano i soggetti a rischio suicidario, ovvero giovani, persone con disturbi mentali, persone socialmente isolate, con problemi relazionali, di abuso di sostanze, e con storie di precedenti comportamenti auto ed etero lesivi. Bisogna andare oltre l’attuazione di quel protocollo anti-suicidario che si applica in condizioni normali, ma che non dà buoni risultati in un’ottica che tenga conto della complessità di queste vite e dei bisogni delle nuove utenze. Va rafforzato, a tal proposito, il sistema di prevenzione agendo con una maggiore formazione specifica per gli agenti di polizia, per l’area educativa, e per il mondo del volontariato che entra nelle carceri, al fine di prevenire e intuire il disagio che poi porta al suicidio. È necessario inoltre un adeguando degli interventi, con azioni congiunte che uniscano gli operatori di “dentro” e quelli del “fuori”. Affinché si possa fornire una risposta complessa ad un fenomeno di tale portata, non dimenticando coloro che hanno provato a suicidarsi, e che vivono le diverse forme di autolesionismo nelle carceri. Le galere servono a togliere la libertà, non la vita. Campania. Due suicidi nelle carceri, la prof.ssa Giuliano: “la filosofia può salvare” di Pasquale Vitale belvederenews.net, 19 luglio 2020 Due i suicidi, in sole 24 ore, nelle carceri campane. Sono così salite a 6 le vittime da inizio anno. In una nota il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e quello di Napoli Pietro Ioia affermano che “Anche se i suicidi sono ascrivibili a diverse motivazioni, il carcere continua ad uccidere”, affermano i garanti che chiedono al provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e al responsabile dell’Osservatorio Regionale della Sanità Penitenziaria un incontro urgente tra più soggetti coinvolti nel mondo penitenziario “per evitare che in questo periodo la solitudine e il vuoto trattamentale uccidano più di una pandemia”. Proprio la possibilità di un percorso esistenziale e rieducativo in carcere è stato oggetto dei percorsi di filosofia in carcere della professoressa Giuseppina Giuliano “Professò io mi voglio salvare”. Questa l’affermazione di un ristretto della C.R. di Aversa, al termine di un percorso di Filosofia in Carcere. Anche quest’anno - afferma la professoressa Giuliano - avevamo intrapreso un progetto molto più ampio che, tra l’altro, avrebbe coinvolto molte figure del mondo esterno, tra cui gli studenti dell’Istituto Artistico di Aversa guidati dal prof. Pasquale Vitale e il F.F.M.G. con la dott.ssa Pina Russo. Molte le figure che si erano rese disponibili alla costruzione di una Rete fatta di Legalità, Bellezza, Arte, Poesia e Musica. La filosofia avrebbe gettato semi di stupore e di meraviglia. Sessanta i ristretti che avevano fatto richiesta di partecipazione ai percorsi in atto. Poi è arrivato il “Mostro” a bloccare e a spegnere i sogni e le speranze di quanti avevano creduto nel “riscatto”. Frequentare la bellezza li avrebbe portati, in qualche modo, ad accendere la speranza. I corsi di attività riabilitative e rieducative sono come l’aria da respirare, significa frequentare l’esterno, significa confrontarsi con realtà “altre” che accendono speranze e sogni. Nel carcere si può e si deve sognare, per non morire. Sì, perché di carcere si muore, oggi più di ieri le ragioni sono molteplici. Sicuramente la mancanza di colloqui con i familiari, le uniche certezze affettive vengono, infatti, dalle famiglie e le videochiamate non bastano. Manca il contatto con le mani, manca il toccarsi con le parole che curano. La chiusura di tutte le attività rieducative ha contribuito fortemente all’aumento di casi di depressione e di suicidio tra i detenuti, gli ultimi, qualche giorno fa, nelle carceri di Santa Maria e Poggioreale. “La speranza - continua la prof.ssa Giuliano - è un lumicino sottile che si spegne al minimo soffio di vento contrario e non se ne può fare a meno, va alimentata dal contatto umano e dai ponti che anche il volontariato contribuisce a costruire per offrire ai detenuti un’altra opportunità, un respiro ampio nel quale gonfiare le proprie vele per avere la forza di andare oltre le sbarre e navigare per i mari aperti”. Quello del sovraffollamento non è l’unica piaga da arginare nelle carceri. I casi di depressione sono aumentati, così le morti per overdose e per forti crisi esistenziali. Vengono sempre più fuori frammenti di intense esperienze che riportano alla natura ancestrale dei rapporti umani, rapporti che molte volte ai detenuti, anche nelle storie che li attraversano, sono stati negati. Spesso non è stata concessa loro neanche la possibilità di sognare. “Nelle carceri si respira sempre più uno stato di abbandono ed il forte disagio colpisce tutti, anche chi ci lavora come la Polizia penitenziaria ed il personale tutto. Le soluzioni auspicabili sono diverse, tipo il ricorso a misure alternative, senza causare danni per lo Stato, soprattutto per quelli che scontano una pena inferiore a tre anni. Bisognerebbe creare dei corridoi di alternanza carcere-lavoro-studio. Aumentare le attività laboratoriali ed alternative”. Ora la giustizia si è fermata. L’onda anomala del Coronavirus ha spazzato ogni possibilità futura. Facciamo che quel grido soffocato dall’emozione: “mi voglio salvare” non resti una voce disperata che si perde. Emilia-Romagna. In un anno 15 bambini in carcere zic.it, 19 luglio 2020 In un caso la permanenza è durata addirittura dieci mesi. Nel 2019 i detenuti sono aumentati da 3.554 a 3.834, con un sovraffollamento del 137%. Nel frattempo, la Procura di Bologna ha chiesto l’archiviazione dell’indagine sulla morte di un detenuto alla Dozza dopo la rivolta di marzo: per il pm si è trattato di overdose. Nel 2019, in Emilia-Romagna, sono stati 15 i bambini che sono hanno vissuto in carcere con una permanenza che è andata da poco meno di una settimana fino, per un caso, addirittura a dieci mesi. La circostanza emerge da una relazione del garante regionale per le persone private della libertà personale, Marcello Marighelli. “In Emilia-Romagna non è presente alcuna delle strutture individuate dalla legge ed è necessario porre termine ad una situazione che non rispetta i diritti dei bambini e delle madri”, ha affermato il garante. La soluzione a in cantiere sarebbe quella realizzare una casa-famiglia protetta che possa ospitare due o tre bambini con le loro madri per brevi periodi. Cresce intanto la popolazione carceraria: dai 3.554 detenuti del 2018 si è arrivati ai 3.834 del 2019 (155 le donne, 1.930 gli stranieri) con un indice di sovraffollamento del 137%. Nel 2019 si sono registrati 137 tentati suicidi (di cui 108 compiuti da stranieri) e quattro suicidi (di cui uno riguarda un detenuto straniero). Nel frattempo, la Procura di Bologna ha deciso di chiedere l’archiviazione dell’indagine contro ignoti per “morte come conseguenza di altro reato” sul decesso del detenuto nordafricano trovato morto nella sua cella lo scorso 11 marzo, dopo la rivolta scoppiata nel carcere della Dozza in piena emergenza Covid. Secondo il pm “la ricostruzione dei fatti più plausibile, anche alla luce delle informazioni fornite dal compagno di cella e riscontrate dall’esame autoptico, nonché dal sopralluogo nella cella” è che l’uomo, “già destinatario di prescrizioni di farmaci per il controllo dell’ansia e degli stati di agitazione, abbia assunto volontariamente sostanze prelevate abusivamente dalla farmacia del carcere durante la rivolta”, e che quindi la morte “sia avvenuta per overdose”. Nelle indagini non sono state utilizzate le immagini delle telecamere di sorveglianza, danneggiate durante i disordini, mentre - sempre riprendendo le conclusioni del pm - dall’autopsia è emerso che il corpo non presentava lesioni e che invece la morte è stata provocata dalla “massiccia assunzione di farmaci e sostanze psicotrope in combinazione e dosi letali”. Farmaci “legittimamente presenti in carcere, in quanto usati per la cura di patologie e il trattamento di dipendenze dei detenuti”. Sulla richiesta di archiviazione, che esclude la responsabilità di altre persone nella morte dell’uomo, dovrà pronunciarsi il gip. Vicenza. Muore in carcere a 37 anni, tragica fine per Mario Cerri di Omar Dal Maso ecovicentino.it, 19 luglio 2020 A trovarlo senza vita nella sua cella sarebbe stato il personale di sorveglianza della struttura penitenziaria, vittima di un malore o di un gesto estremo volontario. Queste le due ipotesi principali annotate sul fascicolo d’inchiesta tra le mani dei magistrati della Procura, che ha disposto l’autopsia sul corpo dell’uomo originario di Malo, effettuata prima di concedere il nulla osta per la sepoltura, avvenuta ieri dopo la cerimonia in forma privata. Si tratta di un atto dovuto, viste le circostanze e il luogo di detenzione dove Cerri ha concluso prematuramente la sua esistenza. Gli accertamenti clinici fugheranno ogni dubbio in merito. Il detenuto, nato nel 1982, si trovava presso la Casa Circondariale “Del Papa” da poco più di un anno, dopo l’ordine di arresto spiccato nei suoi confronti per una serie di reati commessi in precedenza tra Schio e Piovene, le due località dell’Altovicentino dove aveva vissuto negli ultimi tempi, e dove era molto conosciuto al di là dei suoi trascorsi di giustizia. A partire da fine maggio 2019 stava scontando una pena di 3 anni e 9 mesi inflitta dal Tribunale di Vicenza. A quei tempi era destinatario di un provvedimento di esecuzione dell’arresto per pene concorrenti conseguenze di fatti avvenuti tra il 2009 e il 2015. Un atto che fu reso esecutivo dal Tribunale Vicenza incaricando i militari della stazione di Piovene Rocchette di provvedere alla conduzione dell’uomo in carcere, dopo averlo rintracciato nella cittadina ai piedi del Monte Summano: Mario Cerri nel 2015 era stato accusato in un primo momento di tentato omicidio, dopo aver accoltellato un altro ospite della struttura “Casa Bakhita” per futili motivi. Il 38enne di Santorso ferito riuscì a sopravvivere. Un fatto di sangue avvenuto proprio all’interno della casa di accoglienza scledense dove Cerri stava compiendo un percorso di recupero sociale, in quella che si è rivelata come una sorta di un’ultima possibilità di dare una svolta e intraprendere una nuova direzione, purtroppo non andate a buon fine. In quell’occasione una derubricazione del reato in lesioni aggravate gli consentì una pena più mite, da aggiungere però ad altre passate in giudicato per episodi di microcriminalità che lo hanno portato a trascorrere in prigione gli ultimi mesi della sua vita. Forlì. Rocca di Caterina, l’assessore Melandri: “Demoliamo il carcere” forlitoday.it, 19 luglio 2020 Italia Nostra: “Il metodo dell’estemporaneità non solo non produce risultati, ma addirittura può essere dannoso”. La Rocca di Caterina Sforza è in gran parte occupata dal carcere, che nel 2022 si trasferirà nella nuova e più adeguata sede, al Quattro. E del carcere svuotato che ne sarà? Da qui la proposta dell’assessore alla Cultura, Valerio Melandri: “demoliamolo. Per davvero”. Spiega Melandri: “A Forlì non serve un carcere vuoto che costerà una pazzia in ristrutturazioni (per questo il trasferimento) e continue manutenzioni. Una spesa infinita. Inutile. Facciamo ritornare la Rocca di Caterina Sforza com’era, con il suo grande spazio verde, cinto dalle mura. Un parco in centro storico, dove immagino le famiglie con i bambini, un’area attrezzata per le grigliate. Dove le persone anziane possono andare a prendere il fresco. Basta costruire. La parola d’ordine è spazio e che sia spazio verde, da vivere”. Sulla questione interviene l’associazione Italia Nostra: “L’assessore Melandri, nel comprensibile entusiasmo del suo primo mandato, sta proponendo numerose idee per i luoghi della cultura forlivesi. Pur apprezzandone lo sforzo, desideriamo fargli notare che per tutto ciò che riguarda la cultura, i beni culturali e il patrimonio storico artistico di una città, i suoi musei, i suoi monumenti, le sue biblioteche e le sue raccolte il metodo dell’estemporaneità non solo non produce risultati, ma addirittura può essere dannoso. Prima di avanzare proposte è infatti necessario conoscere, studiare, approfondire ogni tema ed aspetto della questione che si ritiene di affrontare, con una visione tanto ampia quanto meditata e siamo certi che questo metodo di cui ci siamo sempre fatti promotori sia ben noto e condiviso anche dal professore, visto che solo qualche mese fa, rispondendo a un nostro appello, ci aveva scritto: “Ammiro il lavoro di Italia Nostra di cui sono stato socio per tanti anni, e che tanto bene ha fatto all’Italia!”. Per tale ragione ci hanno sorpreso le parole con cui ha bollato la nostra come una associazione pregiudizialmente contraria a tutto, escludendoci dal gruppo degli “ambientalisti intelligenti” e ricorrendo a toni e categorie che per nulla si addicono ad un amministratore pubblico”. “Italia Nostra, al contrario, è da sempre disponibile al confronto e a mettere a disposizione idee e proposte costruite negli anni, frutto di studi, convegni, dialoghi con eminenti personalità della cultura e del mondo scientifico - prosegue Italia Nostra. Anche noi riteniamo che la Rocca e la cittadella vadano restaurate, recuperate e rese fruibili secondo un progetto che possa valutare una destinazione a verde pubblico, ma anche un collegamento col campus universitario e col patrimonio museale. Prima però di proporre demolizioni degli edifici del carcere anche possibili vorremmo che la questione venisse valutata in modo attento e rigoroso, a cominciare dal fatto che, trattandosi di beni di proprietà pubblica aventi più di 70 anni, essi sono tutelati de jure e che resta fondamentale il parere della Soprintendenza. Non intendiamo però solo sottolineare l’esistenza di un vincolo, bensì riteniamo che debba essere compiuta, quando sarà possibile, una attenta analisi degli edifici, della loro genesi e stratificazione, ma anche della storia di coloro che vi sono stati rinchiusi e che hanno lasciato testimonianze preziose quanto fragili, come i disegni visibili forse ancora per poco all’interno della Rocca. Il recupero funzionale di questo importante monumento, inoltre, non può prescindere dallo studio archeologico delle strutture più antiche e dell’intera area circostante, dove sopravvivono ruderi che attendono ancora di essere adeguatamente interpretati, mettendo in campo le più avanzate metodologie di analisi e rilievo degli elevati”. Bergamo. I senegalesi volontari per la Procura di Armando Di Landro Corriere della Sera, 19 luglio 2020 Manca personale per sistemare l’archivio. Gli immigrati: “Noi subito disponibili”. Il personale scarseggia, c’è un solo addetto per l’archivio della Procura di Bergamo, che va riordinato e riorganizzato. E alla ricerca di volontari da parte della procuratrice e dei carabinieri, ha risposto l’Assosb, l’associazione dei senegalesi di Bergamo. “Ci siamo resi disponibili subito dopo un contatto con il tenente di Zingonia”, dice il presidente Tidiane Seck. L’archivio è risistemato al 50%. Si proseguirà in settimana. Un silenzio profondo caratterizza solitamente il sabato mattina degli uffici pubblici. Ieri, invece, un gruppo nutrito di immigrati senegalesi, circa 30 persone, è uscito dalla Procura a voce alta, allegra. Uno dopo l’altro, giovani e meno giovani, papà, mamme, ragazze e ragazzi. Una presenza che però non ha nulla a che vedere con inchieste in corso, attuali o più datate, ma c’entra parecchio con le ormai arcinote e annose carenze di personale della giustizia italiana. Fanno volontariato, i senegalesi in Procura, sono in servizio da mercoledì 15 luglio e andranno avanti fino a giovedì, ancora per quattro giorni, per sistemare l’archivio al piano interrato. La loro Assosb, associazione dei senegalesi di Bergamo, attiva sul territorio dai primi anni Duemila, tramite un contatto con i carabinieri della tenenza di Zingonia, ha risposto all’appello del procuratore aggiunto Maria Cristina Rota, per un intervento che in pochi giorni potesse garantire lo spostamento di centinaia di faldoni e un riordino completo dell’archivio, che ha il compito di conservare in sicurezza migliaia di atti giudiziari, anche molto datati. L’addetto a quel servizio, in Procura, è uno solo. Ne servirebbero molti di più, ma non c’è altra disponibilità di personale amministrativo, nessuna prospettiva di nuove assunzioni. Ed ecco la soluzione. Durante la ricerca di eventuali volontari da parte dei carabinieri, l’idea è venuta al tenente di Zingonia Gerardo Tucci, che conosce l’attività dell’Assosb soprattutto nella sua zona. Un’associazione molto ben organizzata, che ha contatti con quasi tutte le famiglie senegalesi residenti tra città e provincia. “Abbiamo subito risposto che ci saremmo stati”, racconta il presidente dell’associazione, Tidiane Seck, mentre organizza una foto di gruppo fuori dalla Procura, attorno a mezzogiorno, per tenersi un ricordo di questa iniziativa. “Abbiamo pensato che fosse importante, anche in questo caso, dare il nostro contributo alla città e alla provincia di Bergamo e comportarci da cittadini bergamaschi e italiani, offrendo un aiuto alle istituzioni”. Il contatto con il tenente Tucci “è stato una settimana fa, abbiamo detto che ci saremmo stati in tempi brevi - prosegue Seck. C’era solo il problema di organizzarci, tra studi dei più giovani e lavoro degli adulti, ma ce l’abbiamo fatta rapidamente”. Il lavoro dei volontari è stato coordinato dalla direttrice dell’ufficio Salute e sicurezza della Procura e da un luogotenente dei carabinieri in servizio in piazza Dante. Anche all’uscita, ieri in tarda mattinata, tutti i volontari indossavano mascherina e guanti. E per evitare assembramenti particolari e organizzare meglio il lavoro al piano interrato, i faldoni sono stati spostati con una catena umana di persone a una certa distanza tra loro. Circa il 50 per cento del lavoro da fare è stato portato a termine, ma bisogna proseguire. I volontari dell’Assosb torneranno al lavoro domani. Ieri non è stato possibile mettersi in contatto, per un commento sull’iniziativa, con il procuratore aggiunto Maria Cristina Rota, che è in ferie per un breve periodo. Lanciano (Ch). Due detenuti al lavoro per il decoro del verde pubblico videocitta.new, 19 luglio 2020 L’iniziativa è stata possibile grazie ad un protocollo d’intesa firmato dal Sindaco, Gabriele D’Angelo, e dalla direttrice della Casa Circondariale di Lanciano, Maria Lucia Avantaggiato. Affiancheranno le squadre di operai nel taglio dell’erba, nella pulizia, nella manutenzione dei beni comuni, nel recupero del decoro urbano ed in altre attività di pubblica utilità, i due detenuti della Casa Circondariale di Lanciano che da mercoledì 15 luglio svolgono lavori di pubblica utilità presso il Comune di Castel Frentano. L’iniziativa è stata possibile grazie ad un protocollo d’intesa firmato dal Sindaco, Gabriele D’Angelo, e dalla direttrice della Casa Circondariale di Lanciano, Maria Lucia Avantaggiato. “Da tempo il Comune intende promuovere, nell’ambito del proprio territorio, l’esecuzione di lavori socialmente utili o di pubblica utilità, dichiara il Sindaco D’Angelo, e con questo protocollo abbiamo offerto opportunità lavorative ai detenuti della Casa Circondariale di Lanciano. Questo protocollo, continua il Sindaco, è il frutto di un lavoro portato avanti con l’amministrazione carceraria, che ringrazio per aver condiviso la proposta. Rappresenta un progetto di inclusione ad altissimo valore sociale, anche perché accogliere detenuti è sempre un’operazione impegnativa nonché sintomo di una grande apertura mentale e di civiltà. Siamo fermamente convinti, ha detto ancora il Sindaco, del fatto che il principio della rieducazione e i percorsi di riabilitazione destinati ai detenuti prossimi alla fine della pena, possano approdare a buon fine, se siano ben supportati anche dalle istituzioni. Nel caso specifico, il Comune ha senza indugio aderito al programma mostrando attenzione e sensibilità per la condizione di chi è privato della libertà personale per rendere meno afflittivo il peso della pena e per offrire una prima, importante, occasione di reinserimento sociale e lavorativa”. “Uno dei primi interventi riguarderà la pulizia e il decespugliamento delle aree incolte di proprietà comunale. Il protocollo d’intesa ridurrà il peso economico degli interventi che gravano sul bilancio comunale, oltre a migliorare il decoro urbano e la tutela dell’incolumità pubblica” dichiara il Vice-Sindaco e Assessore alle manutenzioni, Mario Verratti”. “L’accordo firmato tra Comune e Casa circondariale, concludono D’Angelo e Verratti, rappresenta un’assoluta novità nel panorama istituzionale frentano, in linea con la recente Riforma dell’Ordinamento penitenziario in materia di lavori di pubblica utilità, e frutto di un’accurata e proficua sinergia tra enti territoriali, amministrazione penitenziaria e magistratura di sorveglianza”. Bergamo. È don Luciano Tengattini il nuovo cappellano del carcere primabergamo.it, 19 luglio 2020 Vicario parrocchiale di Bolgare e collaboratore della Caritas, prenderà servizio a settembre. La notizia si è diffusa in un battibaleno nella comunità di Bolgare e dintorni: don Luciano Tengattini, vicario parrocchiale della parrocchia S. Pietro apostolo, è stato nominato Cappellano delle Carceri di Bergamo. Sarà lui che prenderà sulle spalle la pesante eredità lasciata da don Fausto Resmini, vittima di Covid il 23 marzo scorso. Già collaboratore della Caritas don Luciano è sintonizzato sulle frequenze dell’ascolto delle persone in fragilità e la sua esperienza missionaria in Bolivia (1997-2009) l’ha sicuramente attrezzato al confronto con realtà diverse da quelle della comfort zone. La carica sarà ufficializzata a partire da settembre. “Bravo don Luciano! - scrivono sulla pagina Facebook “Sei di Bolgare se…” e su quella dell’Oratorio don Bosco i suoi parrocchiani -. Complimenti per questo nuovo incarico. Il Vescovo Beschi ha sicuramente inteso valorizzare la tua particolare vocazione al servizio degli ultimi e dei meno fortunati. Siamo certi che saprai essere vicino ai carcerati nella misericordia e nella carità, aiutandoli nel loro percorso di riabilitazione. Abbiamo un motivo in più per ringraziare il Padre per averti tra noi: questa tua nuova esperienza aiuterà anche noi ad aprirci all’accoglienza e all’amore fraterno. Ti abbracciamo e ti siamo vicini”. Don Luciano Tengattini era stato nominato vicario parrocchiale di Bolgare nell’agosto dell’anno scorso, dopo che per dieci anni era stato responsabile delle parrocchie di Erve e Rossino. Originario di Sarnico, è stato ordinato sacerdote nel 1991. Latina. Arteterapia: a Sermoneta in mostra i lavori dei detenuti della Casa circondariale studio93.it, 19 luglio 2020 Questo fine settimana nell’ambito del Maggio Sermonetano, verranno esposti i lavori nonché il progetto di Arteterapia del Colore Secondo il Metodo Stella Maris portato avanti dall’Artererapeuta Rossana Pane, in collaborazione con il referente del Cpia 9, il professor Tommaso Virgili, rivolto ai detenuti delle sezioni maschile e femminile della Casa Circondariale di Latina. I dipinti esposti sono spaccati della vita dell’anima di ogni individuo, che attraverso un percorso nel colore, impara ad armonizzarne le sfumature e ammorbidire i gesti delle pennellate. Così come i colori entrano in dialogo con i nostri sentimenti, le emozioni vengono palesate direttamente sul foglio: interiorità e mezzo artistico divengono un tutt’uno. L’Arteterapia a indirizzo antroposofico è un approccio che intende disturbi e malesseri, come una disarmonia per cui l’essere umano è costretto a ritirarsi, a separarsi, a dividersi dalla sua unità psico-fisica. Il risanamento è il ricongiungersi di ciò che si era disunito, ricreando la totalità originaria. Il fare pittorico diviene mira ad attivare questi stessi impulsi vivificanti perché non solo le risorse fisico-vitali, ma anche le forze del cuore siano coinvolte nello sforzo di risanamento. Nell’individuale e personalissima tavolozza di combinazioni cromatico-biografiche presenti in ognuno di noi è possibile leggere artisticamente l’individualità che vi si cela, e intravedere nello svolgersi temporale del percorso arteterapeutico l’Io risanatore che attende di essere disvelato. Gorgona (Li). Lezioni di teatro in carcere con la Compagnia Mayor Von Frinzius gonews.it, 19 luglio 2020 Lezione di teatro nella casa di reclusione di Gorgona. Ne dà notizia il Garante dei detenuti Giovanni De Peppo, informando che lunedì 20 luglio “la marginalità si incontrerà sull’isola, per una lezione teatrale all’insegna dell’inclusione, delle emozioni e del ballo”. Protagonista, con i detenuti, la compagnia Mayor Von Frinzius che lavora da anni organizzando e conducendo laboratori teatrali che si sono rivelati essere importanti punti di incontro e socializzazione tra i partecipanti, nonché luoghi di espressione del sé. Sarà la mattina di lunedì che gli attori della compagnia Mayor Von Frinzius salperanno per l’isola di Gorgona, per essere guidati da Lamberto Giannini, Marianna Sgherri, Rachele Casali e Gabriele Reitano in una lezione teatrale che avrà come tema principale la marginalità. La lezione sarà un viaggio sia esperenziale che fisico che inizierà nel cortile della sezione, per concludersi, muovendosi insieme in una sorta di processione teatrale, sulla suggestiva terrazza antistante lo spaccio e la mensa. L’evento è stato realizzato anche grazie alla collaborazione dell’Associazione Amico di Valerio, che offrirà il pranzo ai ragazzi della compagnia, e della Toremar, che organizza il trasporto marittimo da Livorno all’isola. La compagnia è un esempio lampante di quanto il teatro, oltre che un potente mezzo artistico, possa diventare uno strumento per aiutare gli attori a convivere con, e uscire dalla marginalità. La capacità di Giannini di creare uno spazio temporale sicuro e controllato in cui esprimere le proprie emozioni e, volendo, mischiare realtà e finzione allo scopo di mascherare e tutelare le proprie fragilità aveva già colpito il Direttore del carcere Carlo Mazzerbo, che in passato aveva coinvolto il gruppo teatrale per organizzare lezioni teatrali all’interno delle sezioni di Livorno e Gorgona. All’esperienza di Giannini, va unita la possibilità per i partecipanti di relazionarsi in modo del tutto naturale con il mondo della disabilità. Una volta tornati sulla terraferma, la compagnia teatrale proseguirà le proprie attività debuttando, grazie al sostegno della BCC di Castagneto Carducci, con “Siuski - fatto schizzi?” il 24 luglio nella splendida cornice della Terrazza Mascagni. Info: compagniamayorvonfrinzius@gmail.com 3334191962. Dall’Etiopia a Salò, le galere del fascismo di Riccardo Michelucci Avvenire, 19 luglio 2020 Due storici hanno catalogato e messo online tutti i dati (storia, immagini, internati) dei luoghi di detenzione del regime sulla penisola e nelle colonie. “Fui sbattuto in cella nel campo di prigionia di Danane insieme ai criminali comuni. C’era una sola latrina per quasi duecento prigionieri, da mangiare ci davano cibo avariato e pieno di vermi. Se ci lamentavamo, le guardie dicevano che stavano eseguendo ordini ricevuti dall’alto”. Nel 1937 il giudice della Corte Suprema di Addis Abeba, Michael Bekele Hapte, fu arrestato insieme a molti suoi connazionali dopo il fallito attentato al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani. Tra gli etiopi incarcerati nella rappresaglia c’erano persino bambini come Imru Zelleke, che aveva appena dodici anni quando fu assegnato alle pulizie dell’infermeria del carcere. “Molti detenuti si ammalarono di malaria, di tifo, di scorbuto e di dissenteria”, ricorda Zelleke, che in seguito sarebbe diventato ambasciatore del suo Paese. “Oltre seimila persone furono detenute a Danane e meno della metà di esse riuscì a sopravvivere in quelle condizioni”. Le memorie e le testimonianze dirette della vergognosa campagna fascista in Etiopia sono uno dei tasselli che compongono l’approfondito database del centro di documentazione online “I campi fascisti. Dalle guerre in Africa alla Repubblica di Salò” consultabile su internet all’indirizzo www.campifascisti.it. Un progetto storico realizzato dopo anni di lavoro dagli studiosi Andrea Giuseppini e Roman Herzog, dedicato alle pratiche di internamento e prigionia di cittadini stranieri, oppositori politici, ebrei, omosessuali e rom messe in atto dallo Stato italiano nel periodo tra la presa del potere di Mussolini nel 1922 e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Analizzando e incrociando una mole imponente di materiale proveniente dagli archivi del Ministero della difesa e ri- masta coperta per decenni dal segreto di Stato, Giuseppini e Herzog hanno redatto una mappa aggiornata dei luoghi di internamento nazifascisti in Italia. Migliaia di documenti e ordini di servizio desecretati, testimonianze e foto inedite che hanno consentito di ricostruire gli orrori del Ventennio fascista sfatando, una volta di più, quel mito degli “Italiani brava gente” che ha dominato a lungo la narrazione istituzionale del colonialismo italiano. Le violenze messe in atto dalle camicie nere per eliminare gli avversari politici del regime emergono in tutta la loro eloquenza, ad esempio, nelle immagini dei bambini gravemente denutriti rinchiusi nel campo di concentramento dell’isola di Arbe, in Croazia. Ma anche nella diffusione capillare sul territorio italiano dei luoghi di internamento, dei campi di concentramento, delle zone di confino e delle piccole case di detenzione allestite dal regime fascista. Fino a oggi si credeva che non fossero complessivamente più di trecento, invece la mappatura aggiornata e tuttora in corso, del progetto campifascisti.it ha già consentito di catalogarne oltre millecento: 141 in Lombardia, 109 nel Lazio, 98 in Emilia Romagna, 95 in Veneto. E ancora, 83 in Piemonte, 75 in Toscana e 62 in Abruzzo, solo per citare le regioni italiane del centro-nord. Il database consente di effettuare ricerche geografiche, nominative e per tipologie di internati. Per ogni campo o luogo di detenzione è fornita, oltre a una scheda descrittiva, una serie di documenti, testimonianze e fotografie. Ci sono poi elenchi e schede degli internati, atti relativi ai congiunti, trasferimenti e cessioni di prigionieri, conferimenti di incarichi, istanze e corrispondenze dei prigionieri. Consultandolo è possibile scoprire, ad esempio, che a pochi passi da casa nostra il regime di Mussolini ha perseguitato e imprigionato cittadini inermi, oppositori politici, ebrei e omosessuali poi spediti nei lager nazisti, da cui spesso non hanno fatto ritorno. Avviato alcuni anni fa grazie a un finanziamento dell’Unione Europea, della Fondazione museo della Shoah e di Audiodoc, il progetto si è concentrato in un primo momento sull’Archivio della Repubblica di Slovenia, sull’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’esercito e sull’International tracing service di Bad Arolsen. Soltanto in un secondo momento è stato allargato inserendo documenti in gran parte inediti provenienti dall’Archivio centrale dello Stato di Roma, e aprendo alla collaborazione di studiosi, istituti di ricerca e università. Con l’obiettivo di raccogliere testimonianze orali di ex internati e realizzare una mappatura dei luoghi di detenzione istituiti durante la dittatura fascista: dai primi campi realizzati in Libia nel 1930 su ordine del generale Graziani fino a quelli creati dalla Repubblica di Salò dopo l’8 settembre 1943. “L’idea - spiega uno dei curatori, Andrea Filippini - era quella di cercare di colmare quelle lacune e quindi di raccogliere in un unico strumento online quante più informazioni e dati possibili su tutti i campi, attingendo a tre fonti principali: la letteratura storiografica disponibile, le fonti archivistiche e le testimonianze. Offrendo agli utenti una visione d’insieme anche in senso temporale, ricucendo su un’unica linea del tempo i diversi periodi analizzati dagli studi settoriali”. Grazie al materiale raccolto è stato possibile scoprire, ad esempio, che nel corso della Seconda guerra mondiale furono reclusi nelle carceri italiane anche molti civili stranieri condannati dai Tribunali militari di guerra. Furono in totale circa due-tremila, provenienti perlopiù da Paesi occupati come la Jugoslavia e la Grecia. Ogni pagina, ogni testimonianza e ogni foto presente nel database di campifascisti.it contribuisce a ricostruire la tragica eredità di quegli anni e a farci fare i conti con una memoria collettiva che è stata in larga parte rimossa fino ai giorni nostri. Due malati, un ventilatore di Luigi Manconi L’Espresso, 19 luglio 2020 Chi salvare? I medici davanti a una scelta tragica, ma non inedita. Cosa fare per evitare che si ripeta. Nel giugno del 1968, la nazionale italiana di calcio supera la semifinale dei campionati europei contro l’Unione Sovietica grazie al sorteggio. Finiti in parità anche i tempi supplementari, il capitano Giacinto Facchetti sceglie “testa”, e gli azzurri passano alla finale che vinceranno contro la Jugoslavia. Dopo un paio d’anni il sorteggio verrà definitivamente abolito in tutte le competizioni internazionali perché percepito come iniquo. Ma il ricorso alla sorte e al gioco del caso non scomparirà dalle nostre vite; e il sorteggio, l’estrazione del numero fortunato o di quello sfortunato, continuerà a svolgere un ruolo significativo nelle vicende umane. Talvolta un ruolo tragico. Si è appreso nelle scorse settimane, da una ricerca della rivista statunitense The Annals of Internai Medicine, che in alcune strutture ospedaliere americane, a causa della carenza di ventilatori polmonari, una volta esauriti tutti gli altri criteri di selezione tra i pazienti, si affida al caso la scelta di chi intubare. Per altro, una simile circostanza era stata anticipata in un articolo dell’Economist del 4 aprile scorso: “Immaginate di avere due pazienti in condizioni critiche ma soltanto un ventilatore a disposizione. Questa è la scelta di fronte a cui si potrebbe trovare il personale sanitario a New York, Parigi e Londra nelle prossime settimane. (...) I medici devono scegliere chi sarà curato e chi non potrà esserlo: chi forse riuscirà a vivere e chi probabilmente morirà”. La sollecitazione del settimanale inglese non ha dato vita a un dibattito adeguato alla drammaticità del tema e alla sua urgenza. Tanto meno in Italia, dove tuttavia ha suscitato un piccolo scandalo la pubblicazione delle linee guida - intelligenti e necessariamente dolorose - della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti). Oltre a questo, alcuni documenti del Comitato Nazionale di Bioetica e la costante e preziosa riflessione dell’Associazione Luca Coscioni. La scarsa eco ottenuta dall’interrogativo posto dall’Economist può essere spiegata con l’ostinata tendenza alla rimozione, indotta dal persistere, nonostante tutto, del tabù della morte nelle società occidentali. Certo, della morte si parla, su essa si fa filosofia e sociologia, si creano economie e consumi, ma sempre al riparo di un filtro che garantisce un’opportuna distanza dalla materialità sgradevole, tavolta indecente, di quell’evento. Si rimuovono il dolore lancinante che di frequente l’accompagna, la decadenza fisica e spirituale che può comportare, lo smarrimento cognitivo che spesso determina e tutte le scelte ultime che possono imporsi: far sopravvivere il corpo oltre il suo declinare? Mantenere una vita artificiale pur che sia? E, appunto, favorire un paziente a scapito di un altro, quando la carenza di dispositivi sanitari lo esige? Oggi, siamo tutti più esposti alla patologia e al suo esito estremo, ma è forte la tentazione di sottrarsi al quesito ineludibile imposto da quella aritmetica elementare: due pazienti un ventilatore. E, invece, bisogna ripartire proprio da quella circostanza estrema dove prestare aiuto al primo individuo vuole dire non prestare aiuto al secondo individuo. Il grande intellettuale novantenne Jurgen Habermas non si tira indietro e afferma che se il numero di pazienti ricoverati è superiore a quello dei dispositivi di terapia intensiva disponibili, “i medici dovranno inevitabilmente prendere una decisione tragica, perché in ogni caso immorale”. Questo sembra il ragionamento di Habermas: la soppressione di una vita umana, e anche il solo fatto di non impedirla a causa di limiti “oggettivi” (non dipendenti dal soggetto) rappresenta una violazione di una legge morale assoluta. Ma l’uomo non è dotato solo di coscienza, dispone anche di responsabilità e libertà. Consapevole di operare in una dimensione “immorale”, perché segnata dalla scarsità, dove comunque un’ingiustizia verrà commessa, l’individuo maturo si assume la responsabilità di una scelta ardua, sostenuta dalla condizione di libertà di cui può godere. Il sapere di commettere (o di non impedire) una ingiustizia non è una ragione sufficiente per non operare e per sottrarsi alla necessità di quella scelta tragica. Di conseguenza, il soggetto è in grado di agire, correndo il rischio dell’errore e dell’iniquità, sulla scorta di linee guida e di criteri di riferimento che, per quanto parziali, ne potranno orientare e sostenere le scelte. Quanto il ragionamento possa precipitare nella quotidianità e nella fatica dell’esperienza direttamente vissuta, lo si coglie nell’intervista rilasciata a Linkiesta.it il 27 marzo scorso da Mario Riccio, primario del reparto di rianimazione dell’ospedale di Casalmaggiore: “le risorse per tutti non ci sono, pertanto noi anestesisti e rianimatori siamo chiamati a decidere a chi dare una chance di sopravvivenza, intubando il paziente, e a chi no. Non possiamo essere sicuri che il paziente intubato sopravvivrà, ma dobbiamo comunque scegliere”. La situazione creata dalla pandemia, d’altra parte, è meno eccezionale di quanto si creda: “ero su un’ambulanza del 118” - è ancora Riccio che parla (La Repubblica, 8 aprile 2020) - “e mi trovai sulla scena di uno scontro fra due pulmini con venti persone sull’asfalto e l’impossibilità di assistere tutti contemporaneamente. Anche lì, non c’era tempo di provare a rianimare tutti per mezz’ora, come prescrivono le regole. Dovevamo capire in tre minuti chi ce l’avrebbe fatta e chi no”. Dunque, nella drammaticità della situazione concreta, si fa una scelta. E - sembra di capire - essa è determinata, oltre che da raccomandazioni professionali e da parametri medici, da fattori soggettivi, comunque discrezionali, che rimandano all’esperienza di vita maturata da ciascuno, ai suoi sentimenti e orientamenti. Per la verità, nel ricorrere a criteri scientifici, la tendenza prevalente opta per una combinazione tra chance di successo della terapia e aspettativa di durata dell’esistenza del paziente. Come si vede si tratta di criteri razionali che, tuttavia, finiscono con lo stilare una “classifica” comunque opinabile, in quanto basata sul presupposto che una vita lunga “valga” più di una vita breve; o che una vita breve ma sana “valga” più di una lunga e afflitta da patologie. Nulla da eccepire sul piano della ragionevolezza, ma si tratta di una soluzione che comunque resta parziale e discrezionale. L’alternativa non sembra in alcun modo più rassicurante. La ricerca prima citata, condotta su 67 strutture ospedaliere statunitensi, rivela che i criteri adottati nella selezione dei pazienti sono, in ordine decrescente: chance di sopravvivenza, età, attività svolta quando essenziale o utile agli altri (medici e operatori sanitari), ordine di arrivo al pronto soccorso e infine, esauriti i criteri precedenti, la casualità del sorteggio. In realtà, quella del triage, è una situazione sempre ricorrente nella pratica medica, ma che solo da alcuni decenni è diventata visibile e viene analizzata e classificata come una questione di interesse collettivo. Quasi che, solo oggi, le opinioni pubbliche, le categorie professionali coinvolte, i filosofi, i giuristi e i sociologi ne prendessero coscienza. Per un verso, lo sviluppo delle biotecnologie, e, per l’altro, la diffusione del dibattito sul fine vita, hanno prodotto un vasto interesse per problematiche che sono diventate materia dolente della vita sociale, non solo in tempi di pandemia. Da tutto ciò derivano due conseguenze. La prima richiama l’urgenza di una politica sanitaria previdente e lungimirante, capace di garantire che, in presenza di due pazienti da ricoverare in terapia intensiva, vi siano due ventilatori polmonari. E, va da sé, un obiettivo ambizioso e, forse, non raggiungibile. Ma è la sola prospettiva che risponda, al contempo, a criteri medici e a criteri etici. La seconda conseguenza è che la consapevolezza di quanto quel programma di politica sanitaria sia ancora tutto da realizzare, deve indurci a dismettere qualsiasi velleità di onnipotenza e qualsiasi pretesa di auto-immunità. Dobbiamo riconoscere, cioè, tutti i limiti della nostra condizione umana e la sua irreparabile finitezza. “Sappiamo che il triage - ha scritto Maurizio Mori, docente di Filosofia morale a Torino - è realtà terribile, ripugnante e che tutti vorremmo evitare. Ma compito dell’etica e della bioetica è affrontare anche tali problemi difficili e individuare le possibili soluzioni razionalmente giustificate”. Ad aiutarci può essere la consapevolezza della condivisione di uno stato di vulnerabilità, più che la competizione di mercato tra vaccinati e non vaccinati, tra immunizzati e contagiati, tra medicalizzati ed esclusi dalla protezione sanitaria. Così un ragazzo è stato lasciato morire in un Centro per migranti dopo 5 giorni di agonia di Alan David Scifo L’Espresso, 19 luglio 2020 Alì Saibu raccoglieva origano nei campi vicino Agrigento e nei giorni peggiori del Covid-19 aveva febbre e diarrea. Nel Cas nessun medico lo ha visitato, il suo cadavere è stato lasciato per giorni tra gli altri migranti e poi lo hanno subito sepolto. A inizio aprile, in tempi normali e senza il virus, nella piazza di Aragona all’ora di pranzo si sentono i rumori delle posate che battono sui piatti, mentre nell’aria si percepisce già il fremito della Pasqua, la festa che riempie le strade con migliaia di persone per il rituale dell’Incontro. E il venerdì Santo, sempre in tempi normali, arriva l’urna sacra con la raffigurazione di Gesù all’interno, portata in spalla dai fedeli. Quest’anno no, non è andata così. E nell’antica cittadina dell’entroterra di Agrigento non c’è stato nessun rito, nessuna festa. C’è stato solo silenzio. Ed è in silenzio che si è trascinata per giorni l’agonia di Alì Saibu, 20 anni appena compiuti, ragazzo magro e alto, proveniente dal Ghana e arrivato in Italia per fare il bracciante, prima a Messina e poi appunto ad Aragona, provincia di Agrigento. Fino a sabato 4 aprile, quando Alì è morto, sempre in silenzio. Il suo corpo uscirà dal centro di accoglienza solo la domenica sera, chiuso in una bara trasportata a spalla dagli uomini di una agenzia funebre, tutti bardati dalla testa ai piedi per paura del virus che in quei giorni sta terrorizzando l’Italia. “Morte naturale”, sentenziano gli uomini della polizia municipale di Aragona, senza specificare altro. Il tampone post mortem per il Covid (uno solo, il cui risultato è arrivato 3 giorni dopo il decesso) è risultato negativo. Dal centro di accoglienza straordinaria (Cas) si dice invece che “forse” il ragazzo è morto “per stress”. Certo è che Alì, come molti suoi connazionali e come gli altri ospiti del centro di accoglienza di Aragona (Fondazione istituto principe) lavorava per tutta la giornata nella raccolta dell’origano: chinato per diverse ore, era sempre andato nei campi anche nel periodo di quarantena, tra l’altro in una settimana in cui le piogge non avevano dato tregua. E anche in quei giorni, in cui Alì diceva agli altri braccianti di “non sentirsi tanto bene”, lui ha continuato a lavorare. Solo il 31 marzo ha deciso di fermarsi, perché non riusciva ad alzarsi dal letto: aveva febbre alta e diarrea, non stava in piedi. Da qui in poi è un film dell’angoscia, e non a lieto fine. Lo racconta all’Espresso uno dei suoi compagni di stanza, uno che ha condiviso con lui quelle ultime ore e che, seppure tra le lacrime, riesce a ricostruire i tasselli di una storia ancora in buona parte da decifrare. Dal mattino del 31 marzo, dunque, il ragazzo è sdraiato inerme sulla sua branda. Gli amici vedono che sta male, lui si lamenta e la fronte è sempre più calda. Al centro di accoglienza non c’è un medico e allora i compagni vanno a cercarne uno di cui conoscono l’indirizzo. Ma quando apprende i sintomi di Alì - febbre alta e diarrea - il dottore si rifiuta di andare a visitarlo. I ragazzi insistono, gli chiedono almeno se possono trasportarlo nel suo studio, lui dice ancora di no, sono i giorni in cui il virus fa troppa paura. I compagni non si arrendono, chiamano al telefono gli operatori del centro di accoglienza, anche loro cercano di convincere il medico che però è irremovibile. “Ci ha detto soltanto di dargli delle medicine per la diarrea”, racconta l’amico. Nelle ore successive la situazione di Alì si aggrava. I compagni non sanno cosa fare, sono spaesati, impauriti, angosciati. Comunque non fanno in tempo a rivolgersi a un ospedale: “Ho ancora in mente quelle immagini”, dice l’amico. “Il sabato mattina Alì prova ad alzarsi per andare di nuovo in bagno ma dopo pochi passi cade a terra. Morto”. Solo a quel punto arriva l’ambulanza. I medici del pronto soccorso inchiodano davanti a Palazzo Principe, storica dimora dei fondatori del paese, poi ereditata dalle suore: bardati dalla testa ai piedi, in piena emergenza, non possono far altro che constatare la morte del ragazzo. Con loro ci sono gli uomini della polizia municipale di Aragona, che poi si occuperanno dell’indagine, mai passata ai carabinieri. “I sanitari arrivati con l’ambulanza hanno toccato il collo di Alì e ci hanno detto soltanto: “è morto”. Poi hanno fatto il tampone per il Covid-19 e se ne sono andati”, portando via il referto da fare analizzare. Intanto, diffusasi la notizia della morte di Alì e in attesa dei risultati del tampone, nel paese si scatena il panico: i sintomi sono tutti riconducibili al virus, così quella del Covid-19 diventa l’ipotesi più probabile. Viene decisa la sanificazione dei locali del centro di accoglienza, agli altri ospiti viene vietato di uscire. La paura di un focolaio all’interno del paese è tanta: Alì, morto nel suo letto, diventa un cadavere da cui stare lontano. Per tutti, tranne che per i migranti: “Ci hanno chiusi dentro”, racconta ancora l’amico del giovane, “con il corpo di Alì ancora lì sul letto”. Per un giorno e una notte nessuno viene a prelevare il cadavere: rimane chiuso nel centro, tra gli occhi increduli e pieni di paura degli altri ospiti, una ventina circa, che chiedono aiuto come possono tramite i loro contatti. A intercedere per loro è il prete del paese, don Angelo Chillura, che avverte il sindaco e altre istituzioni su quell’atto poco umano che si sta consumando in quel centro. Chi può chiama pure un avvocato, altri allertano gli amici: “Abbiamo paura”, fanno sapere, con il cadavere di Alì accanto a loro, mentre il risultato del tampone ancora non arriva. Quei drammatici momenti vengono documentati da uno dei ragazzi del centro, che con un video mostra quello che accade in quelle ore: un documento che forse potrà dire qualcosa su una morte passata sotto traccia nel momento di massima allerta per l’Italia: “Andiamocene da qui, veniamo trattati come bestie”, dice chi sta filmando, in uno stentato inglese “pidgin”, riprendendo il corpo esanime di Alì sul letto, con la maglietta alzata e con il braccio disteso. “Questo ragazzo ghanese è morto e nessuno lo viene a prendere”. Nel pomeriggio di domenica, dopo diverse sollecitazioni, il cadavere di Alì, ancora sul letto, dopo una preghiera dei suoi amici del centro viene prelevato per essere direttamente seppellito nel cimitero di Aragona, senza altri esami medici. La polizia municipale, che segue le indagini, in attesa del tampone non dispone l’autopsia, né alcun altro test che possa chiarire i motivi della morte. I risultati del tampone sul Covid-19 arriveranno soltanto il 7 aprile: ad annunciarlo è il sindaco di Aragona Peppe Pendolino, che su Facebook dà la notizia della negatività del ragazzo morto. Appreso l’esito dell’esame, in paese le acque si calmano un po’. Ma in realtà c’è ancora un margine di incertezza sul tampone stesso (che è stato fatto una volta sola). Ma paradossalmente, l’eventuale negatività aumenta ancor più i dubbi sull’accaduto. Se non era Covid-19, di cosa è morto allora questo ragazzo sano e sportivo, che fino a dieci giorni prima sembrava stare benissimo? E perché non è stata mai fatta l’autopsia? E che cosa significa “morte naturale”, la formula usata dalla polizia municipale? Così la tragedia di Alì diventa oggetto di una denuncia in procura, presentata da un gruppo di attivisti, l’associazione Borderline: “Dopo la mancata autopsia abbiamo fatto un esposto”, spiega Alberto Biondo, componente dell’associazione che si occupa di diritti dei migranti. “Chiediamo risposte oneste e aspettiamo chiarimenti su questa storia”. Di cosa è morto Alì? Questa è anche la domanda che striscia tra i cittadini più consapevoli e solidali di Aragona, alcuni dei quali su Facebook hanno lanciato l’hashtag “Verità per Alì”. A quasi 100 giorni dai fatti, del resto, il certificato di morte di Alì Salibu ha ancora un grande buco da riempire: quello sulle cause del decesso. “Il ragazzo non è morto per il Coronavirus”, si limita a dire oggi la direttrice del centro di accoglienza, Gabriella Giacco. “Forse sarà stato lo stress di quelle giornate. Quello che sappiamo è che il tampone era negativo”. La fondazione Istituto principe ha intanto lanciato una raccolta fondi per aiutare la famiglia (che è stata rintracciata in Ghana e informata dell’accaduto) e per cercare di rimpatriare la salma. Anche l’azienda di raccolta dell’origano per cui Alì lavorava (con tutte le carte in regola) dice di voler collaborare per dare alla famiglia un contributo. Nonostante il clima di apparente cooperazione, però, sono pochissimi i compagni di Alì che vogliono parlare: “Abbiamo paura”, rispondono quasi tutti quando vengono interpellati sul ghanese. Lo stesso silenzio chiude ora la bocca anche alla maggior parte dei quasi 10 mila abitanti di Aragona, che vorrebbero mettersi alle spalle la vicenda. In questo clima di bocche cucite, l’unica colpa di Alì è quella di essersi ammalato di qualcosa - di troppo lavoro o di altro - nel momento sbagliato, in piena emergenza Covid-19. E di avere i genitori così lontani che il loro grido d’aiuto non viene ascoltato. La salma di Alì è ancora nel cimitero di Aragona, senza lapide, il nome scritto malamente sul cemento, con accanto un fiore appassito, mentre dall’altra parte del mondo ad appassire è il cuore di una madre che ignora come suo figlio sia morto, ma sa che non potrà dargli un’ultima carezza. Libia, l’Italia non ha coraggio e perde la dignità di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 19 luglio 2020 L’Italia, convalescente, si guarda attorno. Il Mare Nostrum è ormai di altri. La Turchia è un vero player mediterraneo: acque territoriali, petrolio, territori ex ottomani, migranti... Ha un rapporto con la Russia da “amici, non alleati”, anzi concorrenti. L’amicizia s’è vista nel silenzio di Putin, pur difensore dei cristiani, su Santa Sofia. E l’Italia? Nonostante gli interessi petroliferi dell’Eni e la simpatia dei libici, rischia di fare la comparsa. Non da oggi, ma da quando - dietro ai francesi per un tic senza senso politico -si associò alla caduta di Gheddafi, non avendo imparato dall’Iraq. Con i turchi, bisogna parlare. L’ha fatto il ministro Di Maio. Un cadavere però fluttua nel Mediterraneo e ci inquieta tutti. Quel mare tragicamente divenuto un cimitero. Oggi 50.000 esseri umani sono ingabbiati in una Libia divisa e violenta: lager, con torture acclarate dai giudici. Tutto sovrasta la paura italiana del “grande sbarco”. Libici o altri possono dare il via e creare una crisi in Italia. Per evitarlo, la solita soluzione: ci aiutino i libici! Oggi c’è la guardia costiera libica, rifinanziata dal voto della Camera. Sono note le connessioni tra certi capi di questa organizzazione e i trafficanti di vite umane. Il voto del Pd stupisce, ma non troppo: già nella passata legislatura ha lasciato cadere la cittadinanza per i figli di stranieri nati in Italia. Il vero problema è “svuotare i centri di detenzione”. Il ministro Lamorgese l’ha detto a Tripoli. E una questione da gestire senza paura. E poi gli italiani sono in parte cambiati, come s’è visto dalla freddezza verso la campagna populista contro la regolarizzazione degli stranieri. Ci vuole un’operazione europea. Ma cominci l’Italia! Ci libereremmo dalla complicità con i libici, assumendo una forte posizione umanitaria, seguita da alcuni Paesi europei. La Francia sta collaborando a un corridoio umanitario per i campi di Lesbo. L’Italia collaborerà con la Francia in Mali. Occorre ridisegnare - non da soli - una presenza in un’area delicata. Il primo punto è liberare gli ostaggi umani e sottrarsi a un ricatto più mafioso che politico. Solo così si possono impostare seriamente i rapporti con un Paese turbolento come la Libia. Così si salvano la dignità e l’umanità. Iran. “In carcere, contagiata con altre 11 donne, senza cure” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 luglio 2020 Pubblichiamo la drammatica lettera scritta da Narges Mohammadi, difensora dei diritti umani e prigioniera di coscienza in Iran, alla Fondazione Alexander Langer “Siamo 12 donne contagiate con coronavirus. L’11 luglio hanno separato le donne prigioniere del carcere di Zanjan. Noi siamo complessivamente 18 donne in questo carcere. Sei donne non avevano i sintomi della malattia e sono state trasferite in un’altra sezione del carcere. Noi 12 donne, che da circa 11 giorni presentiamo i sintomi della malattia, siamo praticamente in quarantena in questa sezione del carcere. La settimana scorsa, viste le nostre condizioni di salute e con l’insistenza delle nostre famiglie, ci hanno fatto il test. Non abbiamo comunque ricevuto fino ad oggi i risultati. Oggi improvvisamente sono entrate alcune persone nel carcere e ci hanno separato nuovamente. Una donna in condizioni cliniche preoccupanti è stata trasferita giovedì scorso in ospedale e successivamente rilasciata su cauzione a seguito della diagnosi di Covid. In circa un mese abbiamo avuto 30 nuove persone che sono entrate in questo carcere, di cui alcune con sintomi da coronavirus ed almeno una di loro con diagnosi certa di Covid, che è stata successivamente rilasciata a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute. Noi 12 donne presentiamo sintomi di affaticamento eccessivo e dolore addominale, diarrea, vomito, perdita di olfatto. Non abbiamo accesso alle cure adeguate né ad una alimentazione corretta. La mancanza di strutture mediche, la mancanza di spazio per la quarantena per nuove entrate e la mancanza di controllo sanitario ha causato la diffusione del coronavirus. Chiedo al Signor Namaki, Ministro della sanità, di inviare un rappresentante per prendere visione della situazione nella prigione femminile di Zanjan. Vorrei inoltre denunciare per vie legali le condizioni difficili ed intolleranti della prigione di Zanjan, ove mi trovo da circa 6 mesi, e la mancanza di cure mediche. In questo periodo, per l’esplicita richiesta del Ministero dell’Intelligenza e della Magistratura, non mi consentono né di comprare carne a mie spese né di sentire i miei figli per telefono. Non sento la voce dei miei figli da quasi un anno. Ora sono anche contagiata con coronavirus, senza cure mediche”. Colombia. Per la morte di Mario Paciolla un’inchiesta Onu di Claudia Fanti Il Manifesto, 19 luglio 2020 Per la polizia si tratterebbe di suicidio, ma sul corpo c’erano “ferite da arma da taglio”. Contro i paramilitari e gli omicidi di ex combattenti, marcia delle organizzazioni popolari. La salvezza era a un passo - il ritorno in l’Italia già fissato per il 20 luglio - ma Carmine Mario Paciolla non ha fatto in tempo a raggiungerla. Il 33enne collaboratore delle Nazioni unite, trovato morto mercoledì, in circostanze ancora da chiarire, nella sua abitazione a San Vicente del Caguan, nel dipartimento meridionale di Caquetá, è finito nell’interminabile lista delle vittime della violenza in Colombia. Sul suo corpo, secondo quanto rivelato da Radio Caracol, “varie ferite da arma da taglio”. Il colonnello Oscar Lamprea, comandante della polizia dipartimentale, non ha escluso la pista del suicidio. Ma a rifiutare categoricamente tale ipotesi è la madre del giovane, la quale ha riferito a Repubblica che negli ultimi giorni il figlio era preoccupato perché, dopo avere discusso con i suoi capi, si era messo “in un pasticcio”. E che con grande sollievo aveva comunicato alla famiglia di essere riuscito ad acquistare un biglietto aereo per l’Italia per il 20 luglio. Nei giorni precedenti alla sua morte, il 33enne originario di Napoli aveva accompagnato il governatore di Caquetá, Arnulfo Gasca, e il sindaco di San Vicente, Juliàn Perdomo, in alcune riunioni con le comunità rurali, nel quadro della missione di verifica del sempre più disatteso processo di pace tra il governo e l’ex guerriglia delle Farc. E proprio la missione delle Nazioni unite in Colombia, esprimendo solidarietà alla famiglia del giovane, assicura, in un comunicato ufficiale, che condurrà un’indagine interna e seguirà “da vicino le indagini delle autorità colombiane per determinare le cause del decesso”. Al di là delle misteriose circostanze della morte di Paciolla, la situazione in Colombia si rivela in ogni caso estremamente grave. Neppure la rigida quarantena applicata nel paese ha messo un freno alla strage di leader popolari ed ex combattenti: dall’inizio del mandato presidenziale di Iván Duque (7 agosto 2018) sono più di 700 i dirigenti sociali, i leader indigeni e i difensori dei diritti umani uccisi dal paramilitarismo, soprattutto nel quadro della lotta contro l’estrattivismo minerario e la concentrazione della terra, più di 100 solo nei primi sei mesi di quest’anno. Mentre dalla firma dell’accordo di pace del 2016 sono arrivati a 218 gli ex guerriglieri assassinati dopo aver creduto alla possibilità di cominciare una nuova vita. Ed è proprio per denunciare tale carneficina, sotto lo slogan “Ci stanno ammazzando”, che una quarantina di organizzazioni e di movimenti popolari ha dato vita, a partire dal 24 giugno, alla Marcia per la Dignità, giunta il 10 luglio a Bogotá dopo aver percorso a piedi quasi 600 chilometri e attraversato 22 municipi, e subito ripartita per raggiungere altre aree del paese, non senza soffrire intimidazioni e abusi da parte della polizia. Le sollecitazioni della Marcia affinché siano adottate misure di protezione nei confronti dei leader popolari sono però destinate a cadere nel vuoto. Nei confronti delle vittime della violenza paramilitare, infatti, il governo di Iván Duque rivela lo stesso disprezzo dimostrato nei riguardi all’Accordo di pace, ripetutamente calpestato in tutti i suoi punti: da quello della Giurisdizione speciale per la pace (riconducibile a quel modello di giustizia restaurativa che pone l’accento sulla riabilitazione tanto della vittima quanto del carnefice) fino a quello del Piano integrale di sostituzione delle coltivazioni illecite, sostituito da una serie di violente operazioni di eradicazione forzata ai danni delle comunità contadine di vari dipartimenti del paese. Quanto il governo Duque abbia a cuore la pace, lo ha dimostrato del resto anche la sua reazione alla proposta di un cessate il fuoco bilaterale per tre mesi avanzata dall’Eln. Il quale, nel contesto della crisi provocata dal Covid-19, aveva accolto l’invito del segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres alle parti impegnate in conflitti armati in tutto il mondo ad abbassare le armi per far fronte all’emergenza sanitaria. Niente da fare. Il presidente Iván Duque, ha spiegato su Twitter che il suo governo non verrà mai meno al dovere costituzionale di affrontare la criminalità in tutto il territorio. Afghanistan. Nella guerra infinita ci mancavano solo le milizie sciite: e a Kabul torna il caos di Filippo Rossi L’Espresso, 19 luglio 2020 Si chiamano Fatimyiun e sono diffusi soprattutto nell’etnia Hazara. Sostenuti dal governo iraniano, sono entrati in campo contro talebani e Isis, che sono sunniti, e il governo protetto dalle forze Nato. A Sharifi, afghano di etnia Hazara di 25 anni, tremano le mani mentre parla. Ha paura di raccontare, temendo rappresaglie: “Un anno fa sono tornato in Afghanistan dopo aver combattuto in Siria. Qui noi Hazara siamo in pericolo e dobbiamo difenderci. Molti di noi sono armati e pronti a combattere. Ci saranno scontri”. Sharifi vive oggi nella provincia di Wardak, non lontano da Kabul. Fino alla fine del 2018 è stato nella brigata dei Fatimyiun, creata nel 2014 dal Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica iraniana. Composta quasi esclusivamente da afghani sciiti, è stata impiegata dall’Iran come milizia nei suoi numerosi fronti, soprattutto in Siria e Iraq, per contrastare l’avanzata dello Stato Islamico. “Mi sono arruolato dopo che ho perso il lavoro in una fabbrica di Isafahan. Non avevo altra scelta per inviare un po’ di denaro alla mia famiglia”. Si stima che circa 25-30 mila afghani sciiti, giovani come Sharifi, siano stati arruolati nei Fatimyiun per combattere in Siria negli ultimi anni. “Con l’inizio del ritiro dell’esercito statunitense dall’Afghanistan nel 2014, che ha lasciato un paese senza infrastrutture e sviluppo, l’Iran ha potuto approfittarne per reclutare soldati a basso costo”, spiega l’analista per la difesa nazionale afghano Habib Wardak. Se molti immigrati afghani sono stati reclutati in Iran direttamente, come Sharifi, altrettanti sono partiti dall’Afghanistan, arruolati dai signori della guerra sciiti legati in maniera più o meno diretta alla repubblica islamica. “Quando la guerra contro l’Isis in Siria è terminata, questi soldati hanno cominciato a tornare in Iran, diventando un’arma a doppio taglio”, continua Wardak. Da due anni circa molti Fatimyiun sono rientrati, creando molta preoccupazione su un’ulteriore crisi militare in un paese già prossimo al collasso e stretto nella morsa di un processo di pace fragile e barcollante fra Talebani e il governo appoggiato dalle forze Nato, senza dire dell’Isis e dei suoi attentati. Si parla quindi, ora, di un nuovo conflitto. Questa volta fra sciiti e sunniti. La milizia sciita creata dall’Iran è vista come acerrimo nemico dall’ultraconservatore sunnita Stato Islamico, presente nel paese dal 2015 sotto il nome di Stato Islamico Khorasan e che dal 2017 continua a prendere di mira raduni, quartieri e moschee sciite. I due gruppi si sono già affrontati nei campi di battaglia mediorientali, accumulando rancore e sete di vendetta. “Presto ci sarà una guerra contro gli sciiti. Ne sono certo. Li ho sempre odiati. Il Corano non li menziona neppure. Non sono legali nell’Islam e quindi li uccideremo tutti”, ci dice Amir, 29 anni, combattente e spia dell’Isis nella provincia a maggioranza Hazara di Daikundi. Gli fa eco alle un altro uomo dei principi neri, Jamal, 23 anni, fuori da Jalalabad: “Dobbiamo rimuovere la loro presenza dal paese. Sono armati da potenze straniere. Non sono sicuro ma ci dicono sia l’Iran”. L’ingresso sul territorio afghano di un nuovo player bellico, gli sciiti filoiraniani, suscita le reazioni anche del governo di Kabul. Dice Amin Karim, uno dei delegati alla presidenza del governo: “Siamo preoccupati del ritorno di questi soldati per la stabilità del nostro paese. L’Iran sta provando a creare tensione fra sciiti e sunniti, esattamente come accaduto in Iraq, Yemen e Siria”. A dare adito ai timori di molti, lo scorso aprile uno spot pubblicitario mandato in onda sul canale privato con il maggior seguito nel paese, Tolo News, ha mostrato chiaramente la bandiera gialla dei Fatymiun contrapposta a quella dell’Isis con una voce di sottofondo che annunciava l’inizio di un nuovo scontro. La pubblicità è stata rimossa dopo pochi giorni. Lo spot è solo uno dei molti segni del ritorno dei Fatimyiun e delle nuove tensioni che si stanno creando di nascosto nel paese, dove questi miliziani non solo affiancherebbero i signori della guerra sciiti presenti sul territorio e vicini all’Iran, ma sarebbero anche arruolati e addestrati da questi ultimi. Da qualche anno hanno cominciato ad armarsi creando milizie e occupando intere aree del paese. Dopo che Daesh ha cominciato ad attaccare luoghi di culto e comunità sciite inoltre, a Kabul interi quartieri sono ora parzialmente fuori dal controllo del governo, con milizie, soprattutto Hazara, armate fino ai denti che pattugliano le strade. Sarebbe proprio nel quartiere Hazara di Kabul, Dasht-e-Barchi dove il network dei Fatimyiun in Afghanistan prenderebbe vita. Ma è nelle province che accadono le azioni più rilevanti. È lì che i signori della guerra sciiti comandano, specialmente nelle regioni abitate preponderatemene da Hazara, nell’Afghanistan centrale (Bamyan, Uruzgan, Ghazni, Wardak, Daikundi). Nel distretto di Behsud, provincia di Wardak, un signore della guerra Hazara, il comandante Abd Al-Ghani Ali Pur, è riuscito a imporre la sua leadership, creando una milizia, reclutando soldati per operazioni interne in varie regioni. Oltre a questo, spesso terrorizza la popolazione locale non Hazara, estorcendo denaro, sequestrando e torturando le persone che attraversano il distretto, in particolare Pashtu (sunniti). È così che negli ultimi due anni è diventato uno dei “warlord” più pericolosi in Afghanistan. Questo Ali Pur combatte sia contro il governo sia contro i talebani e sembra protetto da politici molto influenti a Kabul, tutti Hazara. Il governo aveva arrestato Ali Pur, nel 2018, nel quartiere di Dasht-e-Barchi, ma il comandante è stato rilasciato il giorno seguente, dietro forti pressioni della comunità Hazara. In cambio ha firmato un documento promettendo di non commettere più nessuna illegalità. Ma non è cambiato nulla e Ali Pur agisce ancora come signore della guerra. La questione più delicata, tuttavia, riguarda i suoi forti legami con Teheran. “Lui e altre milizie sciite stanno reclutando soldati per l’Iran e i Fatimyiun”, dice l’analista militare afghano Habib Wardak. Il più fido alleato di Ali Pur è un parlamentare Hazara della provincia di Wardak, Mehdi Rasikh, che appare in molte foto insieme ad Ali Pur, impugnando armi iraniane. È anche di lui che tratta un documento top-secret dell’Intelligence afghana (Nds), passato da una fonte anonima che lavora negli uffici della procura pubblica generale, e che conferma tutti i sospetti: “Il parlamentare Mehdi Rasikh è un membro attivo dei Fatimyun e sostiene il comandante locale chiamato Abd Al-Ghani Ali Pur. Entrambi sono diretti rappresentanti dei Fatimyiun nel paese”, cita il documento in lingua Dari. Seduto in un’auletta nel mezzo al parlamento afghano a Kabul, Mehdi Rasikh smentisce tutte le accuse contenute nei documenti, nelle foto e dai testimoni: “Ali Pur difende la gente. Posso assicurare che non ha alcun legame con l’Iran e non sta reclutando soldati. Sta solo difendendo l’area da attacchi dei Talebani e le tribù nomadi, conducendo sporadiche missioni in altre regioni. Il governo non ha nessun documento che provi la sua illegalità. Dà solo un salario e l’equipaggiamento necessario ai suoi soldati”. Non si sa però da dove vengano i soldi e le armi. Dal lato ufficiale, il governatore della provincia di Wardak, il generale Muzafarudin Yamen, afferma che “Ali Pur è sostenuto dall’Iran. L’Iran vuole cominciare una guerra in questo paese ma la gente non l’accetterà”. La stessa cosa viene sostenuta da Haji Akbar Zui, portavoce del consiglio provinciale di Wardak: “In questa regione vogliono creare il caos fra gruppi etnici uccidendo i leader tribali e creare un conflitto fra Hazara e Pashtun, tra sciiti e sunniti. E Nella regione l’Iran sostiene gruppi armati come Ali Pur”. Secondo Akbar Zui inoltre i signori della guerra sciiti trasporterebbero soldati e riceverebbero armi dall’Iran usando i canali montagnosi dell’Afghanistan centrale, accedendo a territori confinanti con l’Iran. Ma è la gente che vive nei territori controllati da Ali Pur a subire continui abusi. Sahib Jan, un anziano leader pashtun di quasi 70 anni, racconta quanto spietati siano stati gli uomini del comandante sciita durante il periodo passato nelle sue segrete. Lo scorso novembre è stato picchiato, derubato e ha visto una delle persone imprigionate insieme a lui, morire sulle sue ginocchia. “Eravamo stipati in 3 in un gabinetto adibito a cella. Gli altri due si chiamavano Faisal Rabi e Said Abas, due parenti. Siamo rimasti diciannove giorni senza né mangiare né bere. Recitavo il Corano e mi si seccava la bocca. Eravamo legati mani e piedi. Un giorno hanno preso Rabi, l’hanno picchiato a morte. Quando l’hanno risbatutto in cella era buio. Ha poggiato la sua testa sulle mie ginocchia prima di morire. Solo il giorno dopo, con un po’ di luce, ho visto che c’era il suo sangue sul mio vestito”. “Se il governo non prenderà misure contro Ali Pur, brandiremo le armi e uccideremo tutti gli hazara”, commenta dal rabbioso Saif Ul Rahman, parente di Rabi anche lui. Negli ultimi giorni la popolazione di Wardak ha protestato contro Ali Pur, accusato di fomentare una guerra etnica e attaccare nomadi e pashtu. Chiedono al governo di arrestarlo. Ma l’analista Habib Wardak ridimensiona il ruolo attuale della milizia: “Per adesso l’Iran appoggia ancora i talebani perché non hanno mire internazionali e combattono contro Daesh. I Fatimyiun sono però l’arma da usare caso in cui ci fosse un cambio di strategia da parte talebana. A quel punto potrebbero essere facilmente dispiegati per combattere”. Certo è che una nuova guerra etnico-religiosa sarebbe un disastro per questo paese martoriato da decenni. Tutti lo pensano, anche se nessuno può prevedere se e quando scoppierà. Ma gli indizi, in questo senso, sembrano essere chiari.