“Niente pene alternative ai condannati per mafia”. La Dia fa carta straccia della Costituzione di Davide Varì Il Dubbio, 18 luglio 2020 Secondo i poliziotti della Dia, “qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia”. Tradotto: i condannati per mafia devono “marcire in galera” anche se rischiano la vita a causa di problemi di salute. “Qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia”. Tradotto: i condannati per mafia devono “marcire in galera” anche se rischiano la vita a causa di problemi di salute. È uno dei passaggi centrali della relazione annuale presentata dalla Direzione investigativa antimafia. Una considerazione quantomeno ardita che ignora, quasi fosse un inutile fastidio, almeno due articoli della nostra Costituzione: l’articolo 7 (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato) e l’articolo 32 (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”). Ma, evidentemente, per la nostra Direzione investigativa antimafia, il diritto alla salute e il divieto a trattamenti inumani, valgono per tutti tranne che per i cittadini detenuti accusati di associazione mafiosa. Una dichiarazione decisamente imprudente. La Direzione nazionale antimafia, composta da poliziotti e carabinieri, dovrebbe infatti avere come faro guida ogni singolo Titolo e ogni singolo Articolo della nostra Costituzione. Di più, dovrebbe vigilare affinché nessuno violi la legge fondamentale del nostro Stato. Ma del resto c’è ben poco di nuovo. Una parte della nostra antimafia, nel nome della lotta alla criminalità organizzata, in questi anni ha fatto carta straccia di diritti e garanzie, considerate lacciuoli da anime belle del diritto. Eppure chi indebolisce quei diritti mina la credibilità dello Stato e rafforza ancora di più le mafie che vivono anche di propaganda e “consenso”. La relazione Dia fa a pezzi Bonafede: “Devastante gestione delle carceri” di Maurizio Tortorella La Verità, 18 luglio 2020 La Direzione investigativa, antimafia contesta la messa ai domiciliari di circa 500 boss causa pandemia. “Un errore disastroso”. Un allarme, forte e chiaro. C’è il rischio che il disastro economico creato dalla pandemia in Italia abbia spalancato la porta alle infiltrazioni mafiose. Ma anche una critica durissima. La gestione del sistema carcerario da parte del ministero della Giustizia, che nei mesi del Covid-19 avrebbe comportato, letteralmente, “un vulnus al sistema antimafia”. Ha toni particolarmente gravi l’ultima Relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia per il luglio-dicembre 2019, consegnata ieri al Parlamento. Un capitolo del lungo dossier (888 pagine) è dedicato all’emergenza sanitaria. Gli analisti della Dia, l’ente investigativo che dal 1991 coordina le indagini contro il crimine organizzato e dal 2017 è retto dal generale dei carabinieri Giuseppe Governale, segnalano che le mafie - e soprattutto la ‘ndrangheta calabrese - stanno sfruttando la crisi per accrescere il ruolo di “player affidabili ed efficaci a livello globale”, mettendo le mani su aziende anche di medie e grandi dimensioni finite in crisi di liquidità per i mesi d’inattività cui sono state costrette dal lock-down. Nella relazione si legge un paragone preoccupante: la paralisi economica provocata dalla pandemia “può aprire alle mafie prospettive di arricchimento e di espansione” a “ritmi di crescita che può offrire solo un contesto post-bellico”. Del resto, che l’infiltrazione mafiosa stia sfruttando la situazione difficile è reso evidente da un dato meno economico e più “politico”: nel 2019 sono stati chiusi per infiltrazioni mafiose 51 enti locali, “un numero che non è mai stato così alto dal 1991”. Si tratta di 20 consigli comunali e di due Aziende sanitarie provinciali, che sono andati ad aggiungersi a 29 amministrazioni già in commissariamento. Dei 51 enti sciolti, 25 sono in Calabria, 12 in Sicilia, otto in Puglia, cinque in Campania e uno in Basilicata. Un elenco inquietante. Ma c’è un altro capitolo della relazione, quello sulla politica carceraria adottata da febbraio-marzo dal governo, che se possibile ha toni ancora più inquietanti. Qui la Dia esprime una netta critica all’operato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: un giudizio severo che, sia pure senza mai citarlo, inevitabilmente colpisce soprattutto il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, da cui il Dap dipende. Il capitolo dedicato al tema “carceri e mafiosi” dalla relazione suona davvero come uno schiaffo. La relazione ricorda che “l’emergenza Covid-19, associata allo stato di sovraffollamento delle carceri, ha generato forte allarmismo nella popolazione carceraria, sfociato anche in tentativi di rivolta”. In effetti tra il 7 e il lo marzo, grazie all’improvvida decisione del ministero della Giustizia di bloccare lavoro esterno dei detenuti, permessi-premio e incontri con i familiari, 49 prigioni furono squassate da ribellioni, con un bilancio di 13-14 morti trai detenuti, decine di feriti tra gli agenti della polizia penitenziaria e danni per 30-40 milioni. Ma la Dia contesta soprattutto quel che è venuto dopo: e cioè la stagione delle circa 500 scarcerazioni: “In coincidenza con l’emergenza sanitaria”, si legge nella relazione, “è stata concessa la detenzione domiciliare a numerosi detenuti, in qualche caso anche a boss mafiosi condannati definitivamente per reati gravi, molti dei quali sottoposti al regime di alta sicurezza e alcuni addirittura al regime detentivo di cui all’art. 41bis, legge 354/1975 (cioè il carcere di estrema sicurezza, ndr). La Dia guarda con grande allarme a quella stagione, che ha fatto tornare a casa capi mafiosi come Francesco Bonura, camorristi del peso di Pasquale Zagaria, boss di ‘ndrangheta come Vincenzo Iannazzo. Senza citarla, la Dia critica la controversa circolare emanata dal Dap il 21 marzo, dove si suggeriva che per decidere il passaggio alla detenzione domiciliare per la paura di un contagio si dovesse tenere conto “dell’età avanzata del beneficiario”. La Dia ricorda infatti - e qui la pagina per il guardasigilli e per il suo entourage assume il tono di una severa “lezione” di antimafia - che “l’età avanzata, per le organizzazioni mafiose, e per Cosa nostra in particolare (...), non è affatto un impedimento all’esercizio del potere da parte dei capi, ma al contrario rappresenta un fattore di rispetto e prestigio”. Insomma, secondo la Dia il risultato delle scarcerazioni dei boss è stato un errore devastante. Che ha offerto “l’occasione per rinsaldare gli assetti criminali sul territorio, anche attraverso nuovi summit e investiture”. Perché, ricordano gli analisti al ministro, “un contatto ristabilito può anche portare alla pianificazione di nuove strategie affaristiche (frutto anche di accordi tra soggetti di matrici criminali diverse, maturati proprio in carcere) e offrire la possibilità ai capi meno anziani di darsi alla latitanza”. La Dia segnala poi che “la scarcerazione in anticipo di un mafioso, addirittura di un ergastolano, è avvertita dalla popolazione delle aree di riferimento come una cartina di tornasole, la riprova di un’incrostazione di secoli, diventata quasi un imprinting: quello secondo cui mentre la sentenza della mafia è certa e definitiva, quella dello Stato può essere provvisoria e a volte effimera”. La Dia ricorda infine a Bonafede che concedere “la detenzione domiciliare contraddice la ratio di quella in carcere, che punta a interrompere le comunicazioni e i collegamenti tra la persona detenuta e l’associazione mafiosa di appartenenza. In sintesi, qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia”. Ergastolo a “pane e acqua” di Carmelo Musumeci agoravox.it, 18 luglio 2020 Tenere un prigioniero “a pane e acqua” era un tipo di alimentazione ai limiti della sopravvivenza utilizzata in tempi non lontani come forma di punizione carceraria, ma sembra, anche se in forma diversa, che nel nostro paese voglia tornare di moda. Penso che tutti si dovrebbero interessare di cosa accade nell’inferno delle nostre “Patrie Galere” perché al giorno d’oggi il carcere è una specie di autostrada e un giorno o l’altro ci potrebbero passare molti cittadini o parenti, sia innocenti che colpevoli. L’ergastolano Cesare Battisti ha osato lamentarsi dell’alimentazione che gli viene somministrata nel carcere dove è detenuto (gli è vietato persino cuocersi un po’ di “riso o pasta in bianco”) e un noto politico (la storia giudiziaria ci insegna che anche loro sono a rischio e che convenga a tutti che in galera venga rispettata la legge e la Costituzione) lo ha anche sbeffeggiato per le sue lussuose pretese. Il nostro Ordinamento penitenziario prevede, nell’articolo 9 sull’alimentazione: “Ai detenuti e agli internati è assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima”. Purtroppo ricordo, invece, che il cibo in carcere fa schifo, non per niente in gergo carcerario viene chiamato “sbobba”. Solo i più poveri fra i poveri lo prendono, non per mangiarlo ma solo per mantenersi in vita. È poco, cucinato male e quando dalla cucina arriva in sezione, spesso senza carrelli termici, sembra un pastone per galline o brodaglie che neppure i maiali mangerebbero Per questo molti detenuti si cucinano da soli, anche perché chi ha scontato molti anni di carcere è spesso ammalato allo stomaco. Penso che se ai prigionieri vengono inflitti ulteriori disagi, che non hanno nulla a che fare con la sicurezza o con la pena da scontare, sia controproducente per la società, perché poi uno esce dal carcere arrabbiato e peggiore di quando è entrato. A questo punto, a quando la palla al piede? L’ho detto e scritto tante volte che certe prese di posizione forcaiole rafforzano la mentalità deviante. La stragrande maggioranza dei mass media, della classe politica e dei professionisti dell’antimafia si sono arrabbiati per la scarcerazione di alcuni detenuti anziani e malati condannati per mafia e addirittura qualcuno si è lamentato che alcuni di questi detenuti, per alcune ore del giorno, abbiano la cella aperta, perché secondo loro dovrebbero essere sepolti vivi fra sbarre e cemento 24 ore su 24. Eppure qualcuno di questi dovrebbe conoscere la nostra Carta Costituzionale, che dà alla pena esclusivamente una funzione rieducativa. Se la maggioranza dei cittadini del nostro Paese non è d’accordo, ed è convinta che la pena per funzionare debba recare dolore e sofferenza, perché non cambiare la nostra Costituzione? Se si pensa che alcuni prigionieri non possano smettere di essere dei delinquenti, perché curarli e farli invecchiare e morire in carcere? Se si è convinti che una pena cattiva faccia bene alla società o possa essere un deterrente, perché non ripristinare la pena di morte, la tortura o l’inquisizione? Io sinceramente penso che il carcere duro o la pena dell’ergastolo facciano più male alla società che ai prigionieri perché, nella maggioranza dei casi, una pena cattiva e senza speranza modella nuovi criminali. Se dopo tutte le misure attuate all’indomani delle stragi di mafia siamo ancora a parlare di mafia, credo che il regime di tortura del 41bis, insieme alle pene che non finiscono mai, non abbiano funzionato. D’altronde senza speranza è difficile cambiare e migliorarsi, o smettere di essere delinquenti. Sono convinto che la pena dell’ergastolo e il carcere duro non siano assolutamente un deterrente, anzi alimentano la cultura deviante e criminale. E non lo dico solo io ma lo affermano anche i dati sulla recidiva. Nei Paesi dove ci sono carceri vuoti c’è più sicurezza. Diciamoci la verità: molti chiedono giustizia ma in realtà vogliono vendetta, vogliono che i prigionieri soffrano per il male che hanno fatto, così imparano per la prossima volta. Solo che per molti di loro non ci sarà una prossima volta. In tutti i casi non penso che proibire ad un detenuto di cucinarsi una ciotola di riso in bianco possa alleviare il dolore delle vittime, ma forse mi sbaglio. Ordinaria tortura. Storie figlie dell’abuso di potere di Chiara Formica 2duerighe.com, 18 luglio 2020 Torturare, uccidere non si tratta semplicemente di scelte, piuttosto della costruzione di sé. L’integrazione in un contesto diventa il filtro attraverso il quale misuriamo il mondo, per “natura” niente ci impedirebbe di uccidere: sganciati dal presupposto etico del rispetto della vita altrui, tortureremmo ed uccideremmo alla stessa stregua di qualsiasi altra azione. Non c’entra la politica, ma soltanto la forza. Nella rete sociale dei rapporti di forza - fuori da ogni categorizzazione morale, politica ed etica - non ci sono buoni e cattivi, non esistono leggi in grado di regolamentare la capacità di essere umani, ma soltanto le leggi non scritte che li fanno essere un tipo di uomini. Per questo la tortura è un problema impossibile da estirpare, soprattutto se si considerano le proposte avanzate anche in Italia riguardo la cancellazione della legge che punisce il reato di tortura. Torturare - dal latino torquere, torcere il corpo - è un concetto intrinseco a quello di pena o meglio è intrinseco al concetto di espiazione della colpa. Secondo la morale più obsoleta, attraverso il dolore espungiamo la colpa, ci ripuliamo dello sporco lasciato dall’errore, continuando a concepirlo quindi come qualcosa che ricade fuori dall’impronta umana. Ma cosa c’è da espiare, qual è la colpa da cui ripulirci se smettiamo di intendere l’errore come un peccato e lo consideriamo unicamente nella sua essenza, ossia la smorfia di un’umanità che ci urtica? La tortura ha anche un risvolto politico nell’estorsione di confessioni, che rende agli occhi delle folle la punizione legittima, addirittura desiderabile. Ma che si tratti di espiazione o di estorsione, la tortura fa sempre leva sulla stessa profonda radice: la paura. E al tempo stesso si manifesta all’interno delle medesime strutture, quelle detentive. Il tormento della paura è spiazzante, per stare al mondo abbiamo bisogno di dimenticarcene: se c’è un connotato ineliminabile nell’istinto umano è proprio il bisogno della dimenticanza: le persone cancellano il vissuto che le spaventa per vivere. È in questa ottica che l’euristica della paura di Jonas fallisce. La ragion d’essere della tortura sta nel potere di ricordarci che non possiamo illuderci di essere donne e uomini liberi dalla paura. La tortura serve a risvegliare questa coscienza perché è paura che si fa stato di cose nella forma della prevaricazione, della violenza e quindi dell’abuso più infimo, quello che rimane radicato sotto la pelle. La tortura fissa un punto, è continua, costante e perciò impossibile da rimuovere. Dal carcere: la pena come “sfregio all’umanità” - “I muri delle carceri sono impastati di reati talvolta più gravi di quelli per i quali si è detenuti, eppure […] non esiste una sola Circolare del Dap sull’uso legittimo (e sull’abuso illegittimo) della forza da parte degli agenti penitenziari”, scrive Marco Ruotolo in “Il senso della pena”. Ogni Stato che voglia rispondere all’immagine democratica di sé stessa ha bisogno di promuovere battaglie contro la tortura, ma d’altra parte ogni Stato cova in sé, nelle frange ufficiose delle proprie istituzioni, le forme più retrograde della tortura. Il carcere “è lo spazio di esercizio della sovranità punitiva. È il luogo ove lo Stato, depotenziato e desovranizzato dai processi di globalizzazione economica, tende a far valere i suoi residui ambiti di potere. Anche per questo la tortura esiste e resiste ai tentativi di bandirla dal diritto e dalla pratica”, è quanto sostiene Patrizio Gonnella in La tortura in Italia. In Italia, ad esempio, l’ostatività è la forma edulcorata della tortura psicologica. Due persone detenute nel carcere di Rebibbia, riferendosi alla pena dell’ergastolo ostativo, mi scrivono: “una pena che non finisce mai che senso ha, che funzione può avere quando alla persona detenuta non viene concessa un po’ di speranza che un giorno possa tornare nella società libera. Come vuoi che cambi un detenuto che tieni murato a vita? È una tortura continua e uno sfregio all’umanità. Questa non è giustizia, è pura vendetta”. Le prigioni, luoghi di reclusione e di convivenza forzata, sono scatole chiuse e gerarchizzate, dalle quali non si esce senza aver subito lo scotto della violenza. Non necessariamente manifesta, ma pur sempre minacciata, sospesa e ripresa ad intermittenza. Vivere in carcere significa entrare in contatto con persone e regole mai conosciute prima, significa crearsi uno spazio in cui resistere, significa prostrarsi alla legge del più forte. La detenzione è già una violenza di per sé per chi la subisce: la libertà dell’uomo è continuamente violentata da divieti capillari e obblighi umilianti. A questo sostrato di violenza latente che da sempre caratterizza le strutture di detenzione, se ne aggiunge un altro molto più diretto, quello relativo agli abusi delle divise. Tutti conosciamo i casi italiani più emblematici: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Gabriele Sandri, i fatti di Bolzaneto e ancora i fatti di Asti (2004-2005). Questo ultimo caso vedeva coinvolto un gruppo di agenti che quotidianamente torturava due detenuti, ritenuti pericolosi ed irrispettosi. Eppure - nonostante il giudice abbia ammesso che le violenze erano continue e perpetrate nel tempo e che si trattava di vera e propria tortura - non sono stati condannati per questo reato, poiché non ancora presente nel codice penale italiano. E ancora il caso di Rachid Assarag: nel 2010 detenuto nel carcere di Parma, dove denuncia i pestaggi subiti per mano di alcuni agenti di polizia penitenziaria. Il caso diventa noto anche perché il detenuto riesce a far entrare illegalmente un piccolo registratore con il quale documenta le risposte dategli dagli agenti e dal medico del carcere. Nonostante le registrazioni e le testimonianze raccolte, il pm decide per l’archiviazione del caso come uso legittimo della forza. Il 16 maggio 2016, Rachid Assarag, questa volta nel carcere di Piacenza, è nuovamente vittima degli stessi episodi di violenza: alcuni video delle telecamere dei circuiti interni al reparto riportano immagini incredibili. Dieci agenti, alcuni in tenuta antisommossa, entrano nella cella di Assarag per picchiarlo. Due volte a distanza di cinque ore. Ma anche questa volta il pm richiede l’archiviazione del caso come uso legittimo della forza. Eventi come questi testimoniano “che le percosse sono un canale di comunicazione con i detenuti i quali comprenderebbero solo con la violenza le regole da seguire. Che le carceri non rieducano, al più puniscono, e comunque rendono peggiori” (da Antigone in Galere d’Italia). Post covid: sedare le rivolte carcerarie attraverso la tortura - “Insultati e picchiati con schiaffi, pugni, calci e a colpi di manganello. Trascinati fuori dalle celle, nel corridoio, dove sarebbero stati ancora pestati e, per sfuggire ai colpi, costretti a correre, passando dalle scale, fino all’area di “passeggio”. Colui che cadeva a terra durante la corsa subiva ulteriori violenze”. Questo è un breve accenno di quanto ci aspettavamo dopo le rivolte di marzo all’interno delle carceri. È a ciò che sarebbe accaduto, ad aprile, nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere come conseguenza alle rivolte durante l’emergenza covid. Dopo la battitura delle sbarre da parte dei detenuti in seguito alla notizia di un caso positivo al virus, la polizia penitenziaria sarebbe intervenuta in tenuta anti-sommossa. Circa 400 agenti avrebbero fatto ingresso con volto coperto e guanti alle mani. Al momento “sono 44 gli avvisi di garanzia alla polizia penitenziaria” per reati che vanno dalla tortura, alla violenza privata, all’abuso di autorità. Alcuni detenuti sarebbero stati denudati e poi picchiati, insultati, colpiti con i manganelli. Costretti a radersi barba e capelli e poi minacciati e sbattuti in isolamento. Nell’esposto viene riportato che “altri agenti avrebbero invitato i detenuti a uscire dalle loro celle per effettuare la perquisizione e, dopo che il detenuto si è privato degli indumenti, sarebbe stato percosso violentemente con calci, pugni e con colpi di manganello”. Dalle testimonianze emergono racconti di chi aveva “un occhio livido e gonfio tanto da non riuscire ad aprirlo”, chi racconta di essere “rimasto sdraiato per terra in mezzo al sangue e privo di sensi”, e ancora chi riferisce di aver “urinato sangue”. L’avvocato di un detenuto con problemi psichiatrici ha segnalato ad Antigone che l’uomo “sarebbe stato prima denudato, poi picchiato con calci, pugni all’addome e manganellate sulla testa. A causa di tali violenze, lo stesso avrebbe riportato gravi lesioni alle costole (alla sola vista risultano disallineate), difficoltà respiratorie, ecchimosi sparse e forti dolori alla testa”. Dall’esposto risulta anche che “i medici non abbiano sottoposto a visita le vittime e, in alcuni casi, è emerso che, a fronte di lesioni evidenti ed importanti, i medici abbiano omesso di refertarle e di prescrivere le terapie”. Dalla loro parte Matteo Salvini: “sono venuto qui perché non si possono indagare e perquisire come delinquenti 44 servitori dello Stato. Non esiste né in cielo, né in terra perquisire gli agenti davanti ai familiari dei detenuti”. Susanna Marietti, presidente di Antigone, in un’intervista spiega: “nei giorni successivi le rivolte di marzo e poi anche in una seconda fase, i parenti dei detenuti, che avevano avuto modo di comunicare con loro, hanno riportato che a rivolta ormai sedata, una volta ristabilita la calma, dopo molte ore o in alcuni casi anche una giornata, sono avvenute irruzioni organizzate di squadrette che avrebbero commesso violenza a danno dei detenuti, alcuni anche del tutto estranei alle rivolte e alcuni addirittura malati o anziani”. Il primo esposto presentato da Antigone, subito dopo le rivolte di marzo, riguarda il carcere milanese di Opera, dove sarebbero stati usati manganelli sulle braccia, sulle mascelle e su altri parti del corpo dei detenuti immobilizzati. Altro caso di violenza all’interno del carcere di Melfi, nel quale alcuni detenuti sarebbero stati denudati e picchiati, insultati, messi in isolamento, trasferiti in altri istituti con lunghi spostamenti durante i quali era loro impedito di andare in bagno e costretti a firmare fogli nei quali dichiaravano di essere accidentalmente caduti. “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”, né in tempo di pace, né in tempo di guerra, così all’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Garante degli agenti penitenziari: da provocazione a proposta di legge di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 luglio 2020 “Vogliamo anche noi un Garante della Polizia penitenziaria!”, aveva detto provocatoriamente Donato Capece, il segretario generale del Sappe. Una provocazione la sua, anche perché sa benissimo che sarebbe un autogol pretendere seriamente una figura del genere, mentre fortunatamente esistono i sindacati che sono nati, appunto, per difendere i diritti dei lavoratori. D’altronde i sindacati della polizia penitenziaria hanno il loro rappresentanti in carcere che possono osservare eventuali violazioni nei loro confronti e denunciare. Com’è giusto che sia si incontrano in un tavolo sindacale con i dirigenti del Dap e sono voci prese in considerazioni dal ministro della Giustizia. Non solo. Molto spesso sono proprio i sindacati a denunciare le situazioni di degrado che riguardano i detenuti, perché sono i primi a sapere che il benessere deve riguardare tutta la popolazione penitenziaria, proprio per elevare la qualità del loro lavoro. Eppure c’è chi ha preso sul serio la provocazione di Capece. Il deputato di Fratelli D’Italia Andrea Delmastro Delle Vedove ha presentato una proposta di legge per istituire il Garante nazionale dei diritti del personale del Corpo della polizia penitenziaria. “Mentre i detenuti godono di un sistema multilivello di Garanti dei loro diritti - è scritto nella proposta di legge - gli agenti di Polizia penitenziaria sono abbandonati a sé stessi e sono spesso oggetto di malversazioni e azioni giudiziarie. Tutto questo non è più accettabile, soprattutto davanti alla furia cieca di chi vuole abbattere lo stato di diritto”. La proposta di legge si divide in tre capi. Il Primo è dedicato alle misure di riorganizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. “Con gli articoli da 1 a 3 si intende porre rimedio - si legge nella proposta a un atteggiamento schizofrenico dell’amministrazione, nella misura in cui allo stesso vertice amministrativo afferiscono sia i trattamenti rivolti ai detenuti che le operazioni di polizia penitenziaria”. Obiettivo della legge è scindere il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di due dipartimenti distinti: uno dedicato al trattamento dei detenuti e l’altro dedicato al Corpo della polizia penitenziaria, per i quali si forniscono le principali attribuzioni amministrative. Ma è il secondo capo è il clou della proposta di legge. Ovvero quello dedicato all’istituzione del Garante nazionale dei diritti del personale del Corpo della polizia penitenziaria. L’articolo istituisce il Garante e ne disciplina le attribuzioni. In sostanza è l’esatta fotocopia del Garante nazionale delle persone private della libertà. Oltre ad essere composto da un presidente e due membri, può visitare - si legge - “senza necessità di autorizzazione, gli istituti penitenziari, gli ospedali psichiatrici giudiziari (che però non esistono fortunatamente più da qualche anni ndr) e ogni altra sede dove opera il personale del Corpo della Polizia Penitenziaria nonché, previo avviso e senza che da ciò possa derivare danno per le attività investigative in corso, le camere di sicurezza delle Forze di polizia, accedendo, senza restrizioni, a qualunque locale adibito o comunque funzionale alle esigenze restrittive”. Ora però bisognerà pur ricordare che la figura del Garante nazionale riguarda un obbligo derivante dalla ratifica del protocollo opzionale delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura. L’adesione a tale protocollo prevede che lo Stato debba predisporre un meccanismo nazionale indipendente (Npm) per monitorare, con visite e accesso a documenti, i luoghi di privazione della libertà al fine di prevenire qualsiasi situazione di possibile trattamento contrario alla dignità delle persone. Per quanto riguarda la dignità del lavoratore - e quindi anche degli agenti penitenziari - dopo lunghissime battaglie nel 1970 lo Stato italiano - grazie allo Statuto dei lavoratori - riconosce formalmente le rappresentanze sindacali aziendali. Ma questa è, appunto, tutta un’altra storia che non ha nulla a che vedere con il Garante nazionale, l’organismo statale indipendente che è in grado di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà che non riguardano solamente il carcere. Giro di visite nelle carceri italiane, Bernardo Petralia parte da Siracusa Giornale di Sicilia, 18 luglio 2020 Iniziata ieri dalla Casa circondariale di Siracusa il giro di visite che porterà il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, in tutti gli istituti italiani. L’obiettivo è quello di incontrare provveditori, direttori, comandanti, personale di Polizia Penitenziaria e amministrativo per prendere direttamente conoscenza di problematiche e disagi presenti nelle strutture, ma anche per visionare lo stato di avanzamento di progetti di lavoro penitenziario, di iniziative di carattere trattamentale in favore della popolazione detenuta nonché di quelle avviate per il sostegno e il benessere del personale. Nell’istituto penitenziario siracusano Petralia sarà accolto dal Provveditore regionale della Sicilia Cinzia Calandrino, dal Direttore Aldo Tiralongo e dal Comandante del reparto Davide Militello. La prossima settimana il Capo del Dap visiterà la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino e, successivamente, gli istituti di Cagliari e Nuoro, nei quali si recherà insieme al Vice Capo del Dipartimento Roberto Tartaglia. Anche quest’ultimo è stato in questi primi due mesi in alcuni istituti penitenziari: a Roma Regina Coeli, Milano San Vittore, Milano Opera e Napoli Secondigliano. Giustizia riparativa. Intesa Cnf-Ministero sulla messa alla prova di Simona Musco Il Dubbio, 18 luglio 2020 Il Consiglio nazionale forense aderisce a un progetto di giustizia riparativa, aprendo le porte delle sue sedi agli imputati ammessi all’istituto della messa alla prova per lo svolgimento di lavori socialmente utili, riaffermando così il ruolo di promozione sociale della avvocatura. Una decisione deliberata ieri, nel corso di una riunione del plenum riunito in seduta amministrativa, durante la quale il massimo organo di rappresentanza dell’avvocatura ha deciso di aderire alla proposta di convenzione del ministero della Giustizia, presentata a maggio scorso dal dipartimento della Giustizia minorile e di comunità, con lo scopo di far svolgere lavori di pubblica utilità presso le sedi del Cnf e delle sue fondazioni per gli imputati che possono accedere a tale istituto. L’impegno della Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento è quello di “dare attuazione ad un moderno sistema di misure e sanzioni di comunità, in linea con i più avanzati standard europei”. Da qui la scelta di sfruttare l’istituto della messa alla prova, che realizza “una rinuncia alla potestà punitiva dello Stato, condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata ed assistita” e che trova applicazione per i reati punibili con una pena non superiore al suo massimo a 4 anni. Introdotto nell’ordinamento giuridico italiano per gli adulti con la legge del 2014, prevede un programma di recupero con attività lavorativa gratuita con finalità sociali e di volontariato, da svolgere presso enti, organizzazioni e amministrazioni pubbliche. E si tratta di una risposta alle richieste avanzate dall’Europa sulla necessità di riformare il sistema sanzionatorio, basato sul carcere, riforma resa urgente dalla condanna inflitta all’Italia nel caso Torreggiani nel 2013. Una sentenza pilota, che evidenziò il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano, a partire dal sovraffollamento. Ma i fari si sono accesi anche su un sistema che, troppo spesso, dimentica la funzione rieducativa dalla pena, così come previsto dalla Costituzione, mirando semplicemente alla sua funzione punitiva. Una punizione resa in alcuni casi disumana dalla condizione delle carceri e dalla difficoltà di accesso alle misure alternative. “È tra i primi sistemi a dare concretezza alla funzione special-preventiva della sanzione - si legge nella proposta avanzata da via Arenula - prevedendo degli obblighi tanto nei confronti della persona offesa del reato, che deve essere ristorata del danno patito, quanto nei confronti della comunità, grazie alla prestazione obbligatoria di un lavoro di pubblica utilità: un impegno gratuito, per un periodo significativo, svolto con costanza e serietà presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, le aziende sanitarie o le organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato”. Insomma, quello che viene chiesto all’imputato è una riflessione sul significato dei propri gesti e il loro disvalore, riflessione da portare avanti attraverso un turno lavorativo gratuito per un periodo significativo di tempo. Sono migliaia le persone prese in carico dal ministero in questi anni, passando dai 511 imputati del 2014 ai 39.350 dello scorso anno. “Il Cnf, coerente con la funzione sociale del ruolo dell’avvocato - si legge in una nota diffusa dall’organo dell’avvocatura -, aderisce con convinzione al progetto rieducativo e confida in una crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica verso un sistema sanzionatorio non esclusivamente punitivo e maggiormente in linea con i principi più volte evocati dalla Cedu”. Csm, arriva la riforma di Errico Novi Il Dubbio, 18 luglio 2020 Giovedì prossimo Ddl delega in Consiglio dei ministri. Niente sorteggio. Il sottosegretario Giorgis: “Regole sulle nomine fissate per legge, funzionari scelti per concorso”. Ci siamo. La riforma sembrava finita in freezer. Non è così: il ddl delega sul Csm sarà in Consiglio dei ministri giovedì prossimo. Prima un’ultima verifica di maggioranza, lunedì o martedì, per affinare qualche dettaglio. Poi il testo sarà pronto per il via libera a Palazzo Chigi. “Non bisogna pensare che il sistema elettorale da solo possa risolvere ogni problema, impedendo ogni degenerazione correntizia e il connesso impoverimento etico. La legge elettorale, seppur importantissima, non è la sola chiave per preservare l’autorevolezza e la credibilità della magistratura”, avverte il sottosegretario Andrea Giorgis. Professore di Diritto costituzionale a Torino, figura chiave del Pd in materia di giustizia, Giorgis ha tenuto molto nelle ultime settimane a offrire un contributo, nella discussione col guardasigilli Alfonso Bonafede, che sdrammatizzasse la nuove regole per eleggere i togati. Niente sorteggio, questo è sicuro. Si dovrebbe partire da un sistema misto, uninominale ma con uno sfondo proporzionale, per preservare la legittimazione degli eletti insieme con la loro rappresentatività. “Un aspetto che non dobbiamo sottovalutare”, spiega il sottosegretario alla Giustizia, “è quello della rappresentatività del Csm e in particolare dei membri togati”. In realtà il costituzionalista ed esponente del Pd ne aveva parlato con una certa dovizia di dettagli al convegno organizzato tre settimane fa da Area, la componente progressista delle toghe. Aveva chiarito già in quella sede che sul meccanismo per eleggere i togati a Palazzo dei Marescialli, e non solo su quello, il ministero della Giustizia e l’intero governo hanno scelto di affidarsi a “un confronto sincero tra le forze politiche e con le diverse competenze di magistratura, avvocatura e accademia”. Anche per la necessità di approfondire tecnicamente i dettagli, nelle ultime settimane la riforma del Csm è un po’ uscita dai radar della politica. Ma ora è pronta. E pare appunto destinata a incrociarsi con la logica descritta da Giorgis: meno enfasi sulle alchimie elettorali, fari puntati su aspetti meno glamour ma decisivi. “Uno a cui tengo molto è il sistema di reclutamento dei cosiddetti magistrati segretari”, ricorda al Dubbio il sottosegretario alla Giustizia, “e dei magistrati addetti all’ufficio Studi e documentazione: oggi sono appunto magistrati scelti per cooptazione. Sarebbe invece più opportuno selezionarli per concorso un po’ come avviene per i consiglieri parlamentari, o comunque attraverso modalità capaci di garantire una loro maggiore autonomia e di coinvolgere tutte le migliori espressioni del mondo giuridico”. Sembra un dettaglio. Davvero non lo è. Tanto che quando Giorgis ne ha fatto cenno al convegno di Area, la cosa è passata un po’ sotto silenzio ma non agli occhi di chi, come il componente Csm Alfonso Maria Benedetti conosce da vicino il funzionamento del Consiglio: “È un’idea rivoluzionaria”, ha commentato il laico indicato dal M5S. “In generale”, spiega ancora Giorgis, “i laici fanno spesso notare che nelle istruttorie sulle nomine, e non solo, chi compone materialmente il fascicolo ha un peso importante per le scelte dei consiglieri. Dagli elementi raccolti in fase di documentazione dipende spesso l’esito dell’istruttoria e poi della decisione. Ecco, io credo si arrivi ad affrancare il Csm dalle degenerazioni correntizie assai più con tali regolazioni che coi miracoli dei sistemi di voto”. Altro capitolo importante riguarderà la genesi stessa dei criteri per assegnare gli incarichi di procuratore capo o presidente di Tribunale. Oggi dipendono dalla cosiddetta normazione secondaria, autoprodotta all’interno del Csm. E lì spesso si sono insediati, invisibili, i virus che hanno favorito, con la complessità dei criteri, scelte basate sull’appartenenza. Secondo la riforma scritta da Bonafede con Giorgis, il sottosegretario Vittorio Ferraresi e gli sherpa della maggioranza, le nomine del Csm avverranno d’ora in poi sulla base di criteri definiti dalla legge ordinaria con maggiore precisione. Alcune norme naturalmente entrano in gioco già col ddl in arrivo: come quella che impedirà le cosiddette nomine a pacchetto, attraverso un rigoroso ordine cronologico nella trattazione, in modo che non se ne possa più accantonare, appunto, un “pacchetto” da assegnare secondo logiche di spartizione. Si dirà: in un simile quadro la legge elettorale dei togati è la cenerentola della riforma. No: si parte da uno schema, aperto alla discussione parlamentare, che elimina il collegio unico nazionale e la distinzione degli eletti fra funzioni requirenti e giudicanti, con il nuovo vincolo della parità di genere. Non ci sarà sorteggio, neppure temperato, ma potrebbero esserci collegi uninominali in cui passa il primo solo se raggiunge una soglia alta, altrimenti si va al riparto proporzionale. Con pluralità di preferenze esprimibili da ciascun magistrato elettore. “Non credo sia necessario cercare di eliminare il pluralismo associativo dei magistrati”, ha detto Giorgis al convegno di Area. L’obiettivo cioè non è annichilire le correnti, ma fare in modo di liberarle dal virus delle spartizioni compulsive. L’Italia perde la guerra dei giudici di pace di Federica Olivo huffingtonpost.it, 18 luglio 2020 La Corte di giustizia dell’Unione europea li equipara alle altre toghe: “Sono dipendenti, non lavoratori a cottimo. Abbiano gli stessi diritti”. I magistrati onorari sono 5 mila, se lo Stato dovesse adeguare lo stipendio potrebbe spendere oltre 250 milioni di euro. La convalida di un’espulsione: 10 euro. Una giornata di udienze: 36 euro e qualche centesimo. Una sentenza nella quale si decide di un segmento della vita di una persona: 56 euro. Più un rimborso di 258 euro al mese. Sempre, naturalmente, lordi. Ma solo se c’è stato lavoro effettivo. Sono le somme che guadagnano i giudici di pace e onorari italiani. Un esercito più di 5000 persone - nominate per decreto e non scelte per concorso - che si occupano di questioni che i manuali di diritto bollano frettolosamente come “di basso valore”. Alcune liti tra condomini, le espulsioni degli stranieri, o le lesioni personali, per fare qualche esempio. Lavoratori della giustizia che, spiega una di loro, operano “a cottimo”. Senza il diritto alle ferie, alla pensione, alla malattia. A uno stipendio fisso. Un esercito per il quale le cose potrebbero - anzi, stando al provvedimento, dovrebbero - cambiare a breve. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito, infatti, che i magistrati onorari debbano essere considerati, per quanto riguarda i diritti del lavoratore, come i giudici professionali. L’Unione nazionale dei giudici di pace (Unagipa) definisce questa decisione “storica”. La Corte Ue, sostenendo che il ruolo del giudice di pace rientra a pieno titolo nella nozione di giudice europeo, ha - si legge in una nota di Unagipa - “equiparato lo stato giuridico ed economico dei giudici di pace e dell’intera magistratura onoraria a quello della magistratura professionale”. Tutto è nato dal ricorso di Cristina Piazza, giudice di pace penale a Bologna e segretario generale del sindacato di categoria. Ha chiesto al giudice italiano che le venissero riconosciute le ferie di agosto. Il caso è finito davanti alla Corte comunitario, che le ha dato ragione. Cosa cambierà per lei e i suoi colleghi dopo il verdetto? Lo spiega all’HuffPost Vincenzo De Michele, uno degli avvocati che ha portato avanti il ricorso: “La Corte ha intanto stabilito che il giudice di pace e onorario deve essere considerato a tutti gli effetti un lavoratore dipendente. Esattamente come i giudici professionali”. D’ora in poi se un magistrato onorario vorrà far valere un suo diritto - dalle ferie alla malattia - in giudizio si dovrà tener conto dell’interpretazione che della sua professione ha dato la Corte europea, e non della normativa italiana. Ma non è tutto. La questione più rilevante potrà riguardare lo stipendio. Allo stato attuale non può cambiare, senza l’intervento di una legge, ma in futuro: “Dovrà essere equiparato a quello di chi entra in magistratura per concorso - spiega De Michele - a meno che il legislatore italiano non riesca a dimostrare che davvero i giudici di pace svolgono funzioni diverse dagli altri magistrati”. In altri termini non ci sarà nessun automatismo, ma certamente - assodato che non è conforme al diritto europeo considerare lavoratori autonomi questi giudici - la paga andrà commisurata alla funzione svolta. Tradotto in cifre, l’adeguamento sarebbe un costo notevole per lo Stato. Impossibile calcolare a priori un importo preciso. Se, però, si fa riferimento allo stipendio di un magistrato non onorario un anno dopo la terza valutazione professionale e si considera il numero dei giudici di pace e onorari attualmente attivi, si deduce che la cifra che andrebbe sborsata supera i 250 milioni di euro. “Lo Stato deve adeguarsi e deve farlo anche presto - chiosa De Michele - perché già nel 2016 ha rischiato una procedura di infrazione” sempre su questo nodo. “La decisione della Corte di giustizia - gli fa eco l’avvocato Gabriella Guida, anche lei nel team che seguito il caso - restituisce la dignità a chi esercita la giurisdizione nel nome del popolo italiano”. C’è contentezza e concitazione insieme nelle parole della persona che ha portato davanti al giudice il suo diritto ad avere le ferie pagate come gli altri lavoratori della giustizia. Cristina Piazza sente di aver vinto una battaglia, ma porta anche il peso di anni di attesa: “Da 18 anni faccio questo mestiere - racconta ad HuffPost - lavoro, di fatto, a tempo pieno. Nel 2018 (l’anno in cui si è rivolta al giudice, ndr) ho scritto 500 sentenze. Ma non sono considerata dipendente e non ho i diritti di un lavoratore subordinato”. Come lei tanti suoi colleghi: “Pensi - racconta - uno di loro si è ammalato di tubercolosi in un Cie, dove era andato per svolgere la sua funzione, e non gli è stato riconosciuto alcun risarcimento”. Ma non è necessario scavare nel passato per avere contezza del trattamento che viene riservato alla magistratura onoraria. “Durante l’emergenza Covid ci hanno lasciati senza una lira”, accusa Piazza. “Abbiamo dovuto lottare per avere i 600 euro che spettano agli autonomi. E ancora l’ultima tranche non è arrivata”. La sentenza della Corte di ieri, però, le fa immaginare un futuro diverso. Palamara ricusa Davigo come suo giudice al Csm di Liana Milella La Repubblica, 18 luglio 2020 Di fronte alla sezione disciplinare, che si riunirà il 21 luglio, Stefano Guizzi, il magistrato che difende l’ex pm ed ex toga del Csm, ha presentato l’istanza per chiedere a Davigo di farsi da parte. Fuori Davigo dal “mio” giudizio disciplinare. Detto da Luca Palamara contro Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite ora consigliere del Csm, la cui presenza è confermata come componente della sezione disciplinare di palazzo dei Marescialli che da martedì 21 luglio, alle 14, giudicherà l’ex pm di Roma, ex presidente dell’Anm, ex toga di Unicost, sotto inchiesta a Perugia per corruzione. Accusato dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di aver partecipato alla cena all’hotel Champagne del 9 maggio 2019 per pilotare la scelta del procuratore di Roma e di aver tentato di influire di conseguenza su un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ma Palamara, che ha già presentato una lista di 133 testi, adesso chiede che Davigo si astenga dal giudizio. Nel luglio dell’anno scorso Palamara aveva fatto la stessa richiesta a Sebastiano Ardita, anche lui togato del Csm, che però stavolta non figura nel parterre dei “giudici” del Csm. La richiesta di astensione nasce dal fatto che Davigo, come lo stesso Ardita, è anche uno dei 133 testi citati dallo stesso Palamara. È stato il difensore di Davigo davanti al Csm, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, a presentare oggi la richiesta di astensione, in cui si contesta a Davigo il rischio di ritrovarsi, com’è scritto nella richiesta di “invito all’astensione”, “in una condizione davvero sui generis, la singolare situazione di un soggetto che riveste, nello stesso processo, la posizione di teste su (taluni dei) fatti oggetto di incolpazione, nonché di giudice degli stessi”. Ma quali sono i fatti che, secondo la difesa di Palamara, renderebbero Davigo incompatibile con il ruolo di giudice? Nella richiesta Guizzi parla “di un incontro avvenuto a fine febbraio 2019 presso il ristorante Il Baccanale tra lo stesso Davigo, l’ex pm di Roma Stefano Fava, e un altro pm di piazzale Clodio, Erminio Amelio”. Guizzi, nella memoria firmata anche da Palamara, afferma che “oggetto del colloquio con i consiglieri Davigo e Sebastiano Ardita fu, oltre a una sua possibile candidatura alle elezioni per il rinnovo degli organismi dell’Associazione Nazionale Magistrati, l’esistenza di divergenze di vedute all’interno della Procura di Roma, e in particolare di possibili conflitti di interesse che egli aveva segnalato tra il Procuratore e alcuni indagati”. Fava è tra i testi richiesti da Palamara, così come Amelio. Il quale, secondo la richiesta di astensione, “ha confermato, per avervi egli stesso preso parte, la circostanza del pranzo”. Amelio avrebbe confermato inoltre che “nel mese di marzo 2019, Fava, dopo avergli riferito di aver redatto una richiesta di misura cautelare nei confronti dell’avvocato Pietro Amara, che non aveva ottenuto il visto del Procuratore (ciò che aveva determinato dei contrasti che avevano condotto alla revoca dell’assegnazione), apprese, dallo stesso, della sua volontà di fare un esposto, in quanto era preoccupato del fatto che la vicenda potesse andare contro di lui, tanto che il medesimo Amelio ebbe l’impressione che l’intento di Fava fosse quello di tutelarsi da una vicenda, in cui si sentiva, suo malgrado, coinvolto. Da qui la necessità di rivolgersi al Csm perché temeva di poter subire un danno da quanto era accaduto”. Non una parola di reazione da parte di Davigo, che fa parte stabilmente della sezione disciplinare del Csm. Sarà la sezione stessa, martedì prossimo, a decidere. Un anno di isolamento illegale: Cesare Battisti denuncia lo Stato di Tiziana Maiolo Il Riformista, 18 luglio 2020 Doveva restare nel reparto di massima sicurezza sei mesi, invece da un anno e mezzo subisce una vera e propria pena accessoria, una sorta di vendetta. Come se contro di lui, contro il suo corpo, si potesse fare di tutto. Che il suo isolamento fosse un abuso era sotto gli occhi di tutti, o di quei pochi che volevano vederlo, ma ora è arrivata la denuncia, scritta di pugno da Cesare Battisti alla Procura della repubblica di Roma. Risponda qualcuno dell’articolo 323 del codice penale, l’abuso di ufficio. Non ci sono nomi, ma possiamo fare qualche ipotesi: il ministro Bonafede e i capi del Dap, Petralia e Tartaglia. Cioè coloro che trattengono illegittimamente, nell’ultimo anno, in isolamento un detenuto senza che alcun provvedimento giudiziario lo imponga. Un gesto forte, chiedere un’iniziativa penale per abuso d’ufficio nei confronti di chi, contravvenendo a qualsiasi logica e procedura, ha buttato un detenuto ritenuto così speciale da pensare di poter fare qualunque cosa del suo corpo, in un buco buio e isolato di un carcere sardo lontano da tutto. Sì, il gesto è forte, ma lo è altrettanto una logica da carcere speciale, quella da “buttar via la chiave”, come fu quella dei tempi del terrorismo o dell’apertura di Pianosa e Asinara dopo gli assassinii di Falcone e Borsellino. La denuncia, Battisti ha voluto assumerla di propria iniziativa, se pur presentandola tramite il suo avvocato di Cagliari Gianfranco Sollai, che lo assiste insieme al collega milanese Davide Steccanella. Ha resistito anche troppo, in realtà, dopo essersi sottomesso, come è giusto sia, a una sentenza che lo ha condannato a sei mesi di isolamento insieme all’ergastolo per reati che lui ha commesso e riconosciuto. Ma che non possono essere appesantiti, dopo i sei mesi e un altro anno, da una sorta di ulteriore pena accessoria non stabilita da nessun giudice. Date e fatti sono elencati puntigliosamente nella denuncia. Si parte dalla sentenza della Corte d’appello di Milano del 1993 che stabiliva, insieme alla condanna all’ergastolo, l’isolamento diurno del detenuto per sei mesi. Non vanno trascurati il luogo geografi co e il distretto giudiziario di questo punto di partenza che segna la storia giudiziaria di Cesare Battisti. Cui avrebbe dovuto conseguire, per logica, la detenzione in una delle tre carceri milanesi. A occhio, con la preferenza per Opera, visto il tipo di reati. Ma andiamo al punto secondo. “Il sottoscritto veniva arrestato il 14-1-2019 presso l’aeroporto di Ciampino”. Siamo a Roma, dunque. Tralasciamo la sceneggiata del ministro Bonafede da piccolo dittatore del sesto o settimo mondo, e focalizziamo di nuovo l’attenzione sul territorio. Dove portare il prigioniero? Se è troppo impegnativo trasferirlo subito a Milano, vediamo se c’è un posticino almeno in uno dei due istituti romani, Rebibbia e Regina Coeli. Invece no, si vola a Oristano, Sardegna. Chi lo stabilisce? Il Dap, si suppone, cioè il ministero di giustizia, cioè siamo di nuovo a Bonafede, a meno che, essendo lui troppo impegnato a esibire lo scalpo del prigioniero appena catturato, il misfatto non si sia compiuto a sua insaputa. Tremendo quel dottor Basentini, allora presidente del Dap, la cui nomina aveva fatto così tanto arrabbiare l’icona “dell’antimafia” Nino Di Matteo… Nel carcere di Massama, a Oristano, Cesare Battisti è in isolamento in un reparto di massima sicurezza (AS2), quello riservato ai terroristi, che non ci sono più, tranne quelli dell’Isis o di organizzazioni simili. I quali in ogni caso sono da un’altra parte, oltre a non aver nulla a che fare con coloro che negli anni settanta impugnarono le armi nel nostro Paese. Lui non si lamenta, le sentenze sono sentenze. Intanto, da quel 14 gennaio del 2019 i sei mesi dell’isolamento sono passati a occhio un anno fa, nel mese di luglio. Che cosa è cambiato da allora? Assolutamente niente. In novembre, e sono passati altri quattro mesi, il giudice di sorveglianza prende atto del fatto che il detenuto “ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione... e di condotta regolare”. Lui nel frattempo, in due interrogatori con un procuratore di Milano, ha rivisto i suoi comportamenti e si è riconosciuto responsabile di ogni reato per cui sia stato condannato. Ma continua a rimanere classificato come “terrorista”, dopo quarant’anni dai fatti per cui è stato condannato. “Che agganci può avere oggi, visto che tra l’altro il terrorismo degli anni settanta non esiste più?”, si domanda sconsolato l’avvocato Steccanella. Ma intanto, gli fa eco il suo collega Sollai, “questo suo status permane ancora e non è sorretto da alcuna legge né tanto meno da alcun provvedimento giudiziario”. Che cosa è, allora? Vendetta? Sadismo? Intanto lo stesso Battisti si dà da fare. Chiede l’accesso agli atti per sapere che sorte abbia avuto l’istanza di declassificazione presentata dai suoi legali. L’Amministrazione penitenziaria risponde che non si può sapere. Si suppone sia stata rigettata, ma le motivazioni non sono note. Addirittura un ispettore di polizia penitenziaria cui si rivolge il detenuto per capire che cosa ci faccia a Oristano e in quella situazione, gli ha risposto che si troverebbe “in isolamento sia formale che di fatto”. Eh no, con tutto il rispetto, signor ispettore, “formale” no, dopo un anno e mezzo! E allora, la pazienza ha un limite. E si presenta la denuncia. Che magari verrà archiviata. Ma qualcuno dovrà ben rispondere. Perché il detenuto Battisti è in isolamento? Perché non può andare per esempio a Opera? Perché deve stare su un’isola? Perché i suoi familiari, oggi costretti anche dal rischio Covid ai colloqui con il vetro, devono prendere l’aereo e attraversare il Tirreno per un breve incontro? Che cosa hanno da dire, dopo questa denuncia, il ministro Bonafede e la nuova dirigenza del Dap, arrivata fresca fresca dopo la defenestrazione del “cattivo” Basentini (che in realtà è stato cacciato perché ritenuto troppo buono)? Bologna. Morì durante la rivolta in carcere: letale mix di farmaci, si va verso l’archiviazione bolognatoday.it, 18 luglio 2020 Nella cella trovate “106 pasticche e 6 siringhe - di cui una appariva usata - celate sotto il materasso”. Quando il compagno di cella aveva tentato di svegliarlo, si è accorto che qualcosa non andava, così aveva chiamato i soccorsi, in seguito quindi venne constatato il decesso di un detenuto straniero, rinchiuso nel carcere della Dozza. È il tragico epilogo della rivolta scoppiata al carcere della Dozza di marzo scorso, in piena emergenza sanitaria da Covid, quando alcuni detenuti avevano dato alle fiamme dei materassi, mentre altri erano riusciti a occupare alcune sezioni della struttura detentiva e a scardinare gli armadi contenenti i farmaci. Visti i risultati dell’autopsia e degli accertamenti, il sostituto procuratore Manuela Cavallo, titolare delle indagini, ha chiesto l’archiviazione poiché la persona deceduta, alla quale erano stati prescritti dei farmaci per il controllo dello stato di ansia “abbia assunto volontariamente sostanze prelevate abusivamente dalla farmacia del carcere, durante la rivolta dei detenuti dei due giorni antecedenti alla morte e che questa sia avvenuta per overdose”, si legge nell’atto. Gli inquirenti non hanno potuto prendere visione delle immagini delle telecamere, danneggiate durante i disordini, ma in cella erano state trovate “106 pasticche e 6 siringhe, di cui una appariva usata - rivela il magistrato - celate sotto il materasso della persona deceduta” sul corpo del quale non sono stati rinvenuti lesioni o segni di violenza. I disordini di marzo - Il 10 marzo gli agenti della Polizia penitenziaria erano entrati nell’area dell’istituto in cui i detenuti si erano barricati dal giorno prima. le proteste all’interno del carcere di Bologna seguivano a ruota quelle di Salerno, Modena, Poggio Reale e Foggia. Alla base delle mobilitazioni, le forti restrizioni adottate per cercare di evitare la diffusione del Coronavirus. Numerosi i feriti tra agenti di Polizia penitenziaria e detenuti, oltre alla devastazione dei locali dell’istituto. Erano inoltre stati alle fiamme tre mezzi delle Forze dell’ordine. All’origine della violenta protesta, ha fatto sapere ieri la Questura, c’è la notizia della sospensione dei colloqui con i familiari, misura che rientra tra i provvedimenti presi per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Nel corso delle contestazioni, erano stati assaltati gli ambulatori e aperti gli armadi che contengono farmaci e metadone. Sono diversi i detenuti sottoposti a metadone e tossicodipendenti che quindi “presentano molti disagi di tipo psichiatrico documentato” aveva scritto il sindacato Sinappe che all’indomani delle proteste, aveva anche denunciato il sequestro di frutta messa a macerare e di “sorprendenti quantità di alcolici”. Siracusa. “Due anni per un esame diagnostico ai detenuti”, il Garante attacca l’Asp canicattiweb.com, 18 luglio 2020 “La nota dolente è rappresentata dal servizio sanitario a cura dell’Asp di Siracusa che la regione Sicilia dispone per assistere i detenuti. Troppa lentezza e burocrazia sia per esami diagnostici sia per interventi chirurgici programmati, che superano molte volte attese di 1 o 2 anni”. Lo afferma il garante dei detenuti del carcere di Siracusa, Giovanni Villari, che chiede un’inversione di tendenza soprattutto perché una corretta prevenzione ha il merito di salvare delle vite. Ma la lentezza degli esami diagnostici è, per il garante, solo uno dei problemi all’interno della struttura penitenziaria di contrada Cavadonna in cui ci sarebbero poche attività per il recupero dei detenuti. “Le rare attività di reinserimento - dice Villari - sociale in regime di semilibertà sospese durante la fase più difficile dell’emergenza sanitaria, solo ora stanno dando leggeri segni di ripresa. Attualmente possono ritenersi fortunati solo quei pochi detenuti a cui è affidato qualche servizio all’interno dell’istituto (manutenzione ordinaria; lavanderia; porta vitto; spesino;). Altri hanno la possibilità di lavorare nel biscottificio annesso alla casa circondariale, sotto la cura della cooperativa Arcolaio, producendo dolci tipici e biologici utilizzando mandorle nostrane, bucce d’arancia, carrube. Poi ci sono coloro che lavorano nella tessitoria dell’istituto e producono lenzuola e federe ad uso interno. È degno di nota il lavoro di alcuni detenuti impegnati nel laboratorio di tessitoria, i quali hanno prodotto circa 10 mila mascherine protettive in cotone a trama fitta e doppio strato con tasca”. Inoltre, secondo il garante dei detenuti del carcere di Siracusa, “la presenza della Magistratura di sorveglianza all’interno del carcere è, per la mole di lavoro da cui sono gravati i singoli magistrati, episodica, tanto che spesso i detenuti ne lamentano l’assenza. L’ufficio del garante desidera creare sinergie con l’Ufficio della Magistratura di sorveglianza, trovare disponibilità al dialogo e all’ascolto rispetto alle criticità riferite per garantire i diritti primari dei detenuti e dei soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà”. Cassino (Fr). Detenuti al lavoro per la comunità: un’importante collaborazione ciociariaoggi.it, 18 luglio 2020 L’intento è quello di avviare una sperimentazione di collaborazione attiva tra le parti della società attente a diffondere buone pratiche di cittadinanza attiva. Un’iniziativa importante è in programma nella città di Cassino. Come è noto, si sarebbe dovuta firmare una lettera d’intenti per un progetto che vedrà impegnati, a titolo gratuito detenuti della Casa circondariale, in lavori sul territorio a beneficio della comunità. Le parti, rappresentate dal primo cittadino Enzo Salera e dal direttore della Casa Circondariale di Cassino, dott. Francesco Cocco, si impegneranno nella implementazione di un progetto che vede coinvolti i detenuti della casa circondariale di Cassino. Era in programma per questa mattina una conferenza con l’incontro, appunto, tra i due ma per sopraggiunti impegni del dott. Cocco, l’appuntamento è rinviato. Per quanto concerne i detenuti, questi svolgeranno, a titolo gratuito, attività a favore del territorio comunale, in linea con il principio affermato dall’art. 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena. In questo modo l’amministrazione, grazie all’intervento della Società Autostrade, intende promuovere e realizzare interventi di politica attiva del lavoro a favore di lavoratori e persone appartenenti a categorie in condizioni di svantaggio e che hanno difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro. L’intento è quello di avviare una sperimentazione di collaborazione attiva tra le parti della società attente a diffondere buone pratiche di cittadinanza attiva e con la volontà di svolgere attività che favoriscano l’inclusione e che contribuiscano a ripristinare il decoro urbano. Monza. “Morto in cella perché non sorvegliato” Il Giorno, 18 luglio 2020 Gli avvocati della sua famiglia chiedono di riaprire il processo sul decesso di un ragazzo di 22 anni. “È morto perché in carcere non è stato sorvegliato”. A 7 anni dal decesso i familiari di un detenuto di 22 anni vogliono fare riaprire le indagini. Gli avvocati apuani Daniel Monni e Alessandro Ravani hanno presentato un esposto-denuncia alla Tenenza della Guardia di Finanza di Aulla (di dove è originario uno dei nonni del ragazzo), poi trasferito per competenza alla Procura della Repubblica di Monza, sulla fine di Francesco Smeragliuolo, morto l’8 giugno 2013 in circostanze poco chiare in una cella della casa circondariale monzese. Le ipotesi di reato sono maltrattamenti volti a procurare l’evento morte e condotta omissiva. Secondo i due legali il 22enne lombardo è morto perché in carcere non è stato sorvegliato. L’accusa si fonda sui diari clinici che ora sono nelle mani dei due avvocati. Sono stati proprio questi documenti a spingere i legali a riaprire una battaglia giudiziaria che pareva chiusa. I familiari del giovane avevano infatti presentato all’epoca dei fatti una denuncia per omicidio colposo, archiviata dopo 2 anni, ma non si sono arresi e ora i legali sono riusciti a ottenere i diari clinici. Francesco, tossicodipendente, era entrato in via Sanquirico il 2 maggio del 2013 e già non si sentiva bene. Secondo i medici del carcere si trattava di “sintomatologia astinenziale” e scrivono che Francesco “rifiuta di assumere il metadone”. Al 22enne prescrivono degli psicofarmaci ma la situazione non migliora. Non dorme, l’agitazione è crescente e il 19 maggio i medici chiedono nei suoi confronti una “grande sorveglianza”. Il 28 maggio, secondo il diario clinico, Francesco presenta “ferite lineari in regione latero cervicale destra del collo di cui una più profonda che necessita di due punti di sutura”. Dice di “aver fatto questo perché non ce la faceva più” e viene messo in una cella in isolamento sorvegliata fino al 31 maggio, quando torna in una cella comune ma sempre con la prescrizione di un “regime di grande sorveglianza a scopo precauzionale³. L’8 giugno il ragazzo muore in cella. Secondo il detenuto che era con lui si è accasciato e non ha risposto ai richiami. Padova. Ex detenuto vince la causa contro la cooperativa Giotto di Marco Aldighieri Il Gazzettino, 18 luglio 2020 Impiegato al Cup dell’ospedale con un contratto a cottimo ha ottenuto dal giudice 14 mila euro di risarcimento. La Cgil si è schierata in difesa dei detenuti-lavoratori all’interno del carcere Due Palazzi e ha vinto. Lo scorso 18 giugno il giudice Mauro Dalla Casa ha emesso una sentenza in favore di un recluso, ingaggiato dal 2012 al 2015 dalla cooperativa Giotto, per lavorare al centralino del Cup dell’Azienda ospedaliera. La cooperativa, famosa in tutta Italia per la produzione di panettoni da parte dei detenuti della casa di reclusione, è attiva nel penitenziario del Due Palazzi anche su altri tre fronti: il montaggio di biciclette, i servizi digitali per enti pubblici e appunto il Cup dell’ospedale (centro unificato di prenotazione). La cooperativa Giotto, sotto le sue dipendenze, ha circa 150 reclusi. Giovanni Giancotti, da quattro anni non più detenuto e difeso dall’avvocato Marta Capuzzo, era stato inquadrato con un contratto di lavoro a domicilio e con una retribuzione a cottimo. Veniva pagato attorno agli 80 centesimi a telefonata ricevuta e conclusa con la prenotazione di una visita. E proprio sul cottimo ha fatto leva il legale, dimostrando come il contratto di lavoro del suo assistito non fosse in regola e portando il giudice a condannare la cooperativa Giotto a un risarcimento di circa 14 mila euro. La Cgil, prima di promuovere una causa contro la cooperativa Giotto, aveva lanciato una vertenza sindacale sul tema della dignità del lavoro in carcere. Ma per i vertici del sindacato, rappresentati da Palma Sergio segretaria confederale della Cgil Padova, Alessandra Stivali della segreteria Fp Cgil Padova e Michele Zanella direttore dell’ufficio vertenze della Cgil, la cooperativa nell’arco di due anni non è mai stata aperta al dialogo, convinta di come i contratti di lavoro a domicilio con retribuzione a cottimo siano perfettamente regolari per i loro dipendenti-detenuti. E del resto la Cgil, a differenza degli altri sindacati, come ha voluto sottolineare Stivali, “Non ha mai messo la firma su questo tipo di progetti”. E così, dopo due anni di trattative, la Cgil ha ingaggiato l’avvocato Capuzzo per muovere causa contro la cooperativa Giotto. “Il mio assistito - ha spiegato la legale - è stato prima messo sotto contratto come tirocinante, dove nei primi 4 mesi ha percepito 0,98 centesimi all’ora e poi negli altri cinque mesi 2 euro all’ora. Quindi è stato assunto con un contratto di lavoro a domicilio con retribuzione a cottimo, e pagato 80 centesimi a telefonata conclusa con la prenotazione di un esame o di una visita medica”. In totale i detenuti-lavoratori impiegati dalla cooperativa per il centralino del Cup sono una trentina. “Lavoravamo - ha raccontato Giancotti - in un capannone nella disponibilità della Giotto all’interno del carcere. Io ero impiegato dalle 7.30 alle 17.30 e nell’arco di un mese arrivavo a prendere dalle 2.500 alle 3 mila telefonate. La mia retribuzione era di circa 1.200 euro al mese, a cui aggiungevo gli assegni famigliari per i miei due gemelli”. La segretaria confederale: “È stata una vittoria storica”. Napoli. “Brigata Caterina”, la pizzeria dei detenuti di Poggioreale di Ciro Oliviero dalsociale24.it, 18 luglio 2020 Da settembre un corso di formazione per i detenuti selezionati. Il carcere deve essere un luogo di rieducazione e di formazione. A Napoli sono diversi i progetti che puntano a restituire dignità ai detenuti. Ultimo in ordine di tempo è quello neonato nella casa circondariale Giuseppe Salvia a Poggioreale. Nel carcere partenopeo è nata la pizzeria Brigata Caterina. Inaugurato lo scorso 14 luglio il progetto ha avuto un lungo iter burocratico iniziato a seguito di un colloquio tra il cardinale Crescenzio Sepe e l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. Nel 2015 Orlando si impegnò a trovare la disponibilità di fondi da parte di Cassa Ammende. Realizzare un progetto che punti allo sbocco lavorativo significa intercettare un settore che può essere produttivo. La ristorazione è uno dei più redditizi in tal senso. Fu chiesto di seguire il progetto ad Antonio Mattone, direttore dell’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi di Napoli. “La fase procedurale è stata quella più lunga con l’approvazione del progetto nel settembre 2019”, racconta Antonio Mattone. Poi si è passati alla realizzazione della pizzeria che sorge in un ex deposito vestiario del personale del carcere. Un progetto del valore di circa 300 mila euro per mettere in piedi “una pizzeria da asporto della quale potranno fruire sia i detenuti che il personale. I primi dovranno ordinarla il giorno prima in base al padiglione d’appartenenza. Il personale potrà gustarla in sala mensa”, ha aggiunto Mattone. Il progetto avrebbe dovuto coinvolgere 18 detenuti. L’emergenza da Covid-19 ha imposto di rivedere i piani. Alcuni dei detenuti che dovevano essere inseriti sono rientrati a casa a seguito delle misure di prevenzione della pandemia. A regime prenderanno parte al progetto 15 persone. “Vogliamo scegliere detenuti che siano motivati a cambiare vita”, ha sottolineato il direttore dell’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi di Napoli. Per questo è stato attivato un corso propedeutico di 100 ore che prevede l’apprendimento di tecniche scultoree, un laboratorio teatrale, incontri con psicologo e criminologo. Proprio oggi si è conclusa la selezione del secondo gruppo. A questi detenuti si aggiungeranno alcuni provenienti dal carcere di Aversa. “Se ci saranno segnalati detenuti di altre carceri idonei al progetto chiederemo di trasferirli a Poggioreale”, spiega Mattone. Nei prossimi giorni sarà stilata la lista definitiva di quanti prenderanno parte al corso di formazione per pizzaiolo che prenderà al via a settembre. Un corso di 650 ore che culminerà ad aprile prossimo. A tenere il corso saranno i formatori di un Ati, a cui è associazione la pizzeria Del Popolo di piazza Mercato. Inoltre “abbiamo stipulato accordi con tutte le associazioni dei pizzaioli per trovare un lavoro ai detenuti quando avranno scontato la pena. Un progetto - evidenzia Mattone - che continua anche fuori”. Alla Brigata Caterina saranno realizzati tre tipi di pizza. La marinara che avrà un costo di 2,50 euro, la Margherita e la Caterina, che cambierà a seconda dei prodotti di stagione, a 3,50 euro. Questi costi serviranno a sostenere le spese vive del progetto. Lo step successivo è realizzare una pizzeria esterna al carcere con lo stesso nome, che troverà posto nella ex chiesa di Santa Caterina al Pallonetto a Santa Chiara. “Sarà un polmone di assorbimento dei detenuti per 12-18 mesi dopo la scarcerazione”, conclude Mattone. Reggio Calabria. Nasce il comitato a sostegno di Maria Antonietta Rositani strill.it, 18 luglio 2020 La sentenza di condanna di Ciro Russo fatto giustizia ma certamente non ha nemmeno lontanamente compensate le gravi ferite fisiche e morali che questo aberrante delitto ha lasciato nella vita di Maria Antonietta Rositani e in quella dei suoi figli. È sopravvissuta ma da 450 giorni si trova in ospedale, ha subito decine di interventi, per le gravi ustioni subite che hanno colpito gambe, braccia, viso. Più del 50% del corpo è stato distrutto dalle fiamme, non potrà mai più lavorare, e forse nemmeno camminare. Attualmente Maria Antonietta è ricoverata in Ospedale a Reggio Calabria ancora in condizioni critiche e quando sarà dimessa dovrà affrontare una dura riabilitazione nella speranza che possa recuperare alla migliore qualità della vita possibile. Dovrà affrontare ancora anni di cure e di interventi di chirurgia plastica recandosi in istituti specializzati del centro nord che richiederanno ingenti spese, cure che la porteranno ancora fuori da Reggio assieme ai suoi familiari ed in particolare al papà Carlo, il suo grande custode che non l’ha mai lasciata sola per un minuto. Con la sua forza d’animo, con la sua grande fede Maria Antonietta sta dando alla città ed al Paese una grande testimonianza di voglia di riscatto, di ricerca di una nuova felicità. Ora però è il momento per lei di sentire concretamente l’abbraccio della città e della comunità’ tutta che deve condividere le sue fatiche, alleviare per quanto possibile la sua sofferenza, sia a livello morale che economico, con l’auspicio che lo stato, che non ha saputo proteggerla, possa dare almeno risposte garantendo gli indennizzi ed i sostegni previsti per le vittime di violenza in tema brevi. Alcune associazioni impegnate a livello locale e nazionale a difesa delle donne e la parrocchia dell’Itria, hanno per questo deciso, d’intesa con il suo avvocato di fiducia e la famiglia Rositani, di costituire un comitato che avrà il compito di accompagnare nei prossimi anni il percorso personale e familiare della Rositani, una sorta di adozione di vicinanza. Due gli obiettivi che il comitato si è prefissato, un aiuto subito attraverso un servizio di prossimità’ fatto di ascolto, sostegno accompagnamento psicologico e morale e una raccolta di fondi che saranno utilizzati per coprire le spese delle cure di chirurgia plastica e di altri interventi che i sanitari del Gom che l’hanno avuto in carico riterranno necessari nella fase successiva alle dimissioni dalla struttura. Per questo scopo sarà aperto un ccb c/o banca etica a lei intestato. Un altro obiettivo del comitato sarà’ quello di farsi promotore della richiesta alla regione Calabria di dotarsi di una legge regionale che preveda un fondo da cui attingere in tempi rapidi per venire incontro alle esigenze di donne che come la Rositani siano vittime di violenza, colmando una lacuna legislativa che in atto, non prede l’attivazione di interventi di sostegno economico urgenti. La sede provvisoria del comitato sarà c/o lo studio legale del difensore della Rositani, Avv Sandro Elia al quale potranno rivolgersi le persone interessate a collaborare e a sostenere questa iniziativa. Contatti: 0965895228, 3688048619, mail avv.alessando.elia@gmail.com. Cagliari. Riprende l’attività di volontariato di Socialismo Diritti Riforme in carcere di Alessandro Congia sardegnalive.net, 18 luglio 2020 Dal 2009 in prima linea con i detenuti. Lo rende noto Elisa Montanari, presidente del sodalizio cagliaritano: un primo segnale di ritorno alla normalità. “Riprenderà la prossima settimana, con i colloqui con i detenuti, l’attività di volontariato dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” nella Casa Circondariale “Ettore Scalas”. Lo rende noto Elisa Montanari, presidente del sodalizio sottolineando che “finalmente dopo oltre 4 mesi, le volontarie si recheranno sia nel Reparto femminile sia in quello maschile per contribuire a rendere meno gravosa la loro solitudine”. “Grazie alla disponibilità della Direzione dell’Istituto - rileva - sarà possibile, nel rispetto delle norme anticovid19, incontrare le persone private della libertà. Gli incontri avverranno garantendo il distanziamento e con i presidi individuali di protezione. Si tratta di un primo segnale di ritorno alla normalità dopo un lungo periodo di sospensione di tutte le attività. Bisognerà invece aspettare l’autunno per poter riaprire la parruccheria, il Coro, il corso di ricamo e il progetto di danza-terapia”. “La stagione estiva - ricorda Montanari - è un periodo particolarmente delicato nelle carceri proprio perché, ormai chiusa la scuola, le attività sono quasi del tutto assenti. L’estate 2020 si caratterizza però per una sorta di prolungamento del lockdown dovuto alla pandemia e la ripresa dei colloqui, può rappresentare un’occasione per favorire una maggiore socialità”. “Il volontariato - afferma Marco Porcu, Direttore della Casa Circondariale - svolge un importante ruolo di collaborazione con la struttura penitenziaria favorendo il dialogo, promuovendo iniziative di carattere culturale e intervenendo con atti concreti di solidarietà. Abbiamo quindi ritenuto opportuno riprendere la loro presenza anche per favorire un ritorno alla normalità. Valuteremo nelle prossime settimane la possibilità di ampliare la gamma delle iniziative. Occorrerà però aspettare l’inizio dell’autunno per verificare la situazione e assumere nuove disposizioni”. Socialismo Diritti Riforme è presente nella Casa Circondariale di Cagliari dal 2009, prima nello storico Istituto di Buoncammino e poi nell’area territoriale di Uta a circa 23 chilometri dal capoluogo. Volterra (Pi). Torna l’utopia possibile dei detenuti-attori Giornale dello Spettacolo, 18 luglio 2020 L’innovativa Compagnia della Fortezza creata da Armando Punzo propone due spettacoli: “Per il lockdown inventiamo nuove forme”. I detenuti-attori di Volterra non si fanno fermare dalle limitazioni indispensabili contro il virus. Con gli spettacoli di questa estate la Compagnia della Fortezza, il teatro del carcere ideato e diretto da Armando Punzo, conclude un percorso che prelude alla costruzione di un Teatro stabile nella casa di reclusione stessa. Con due nuovi spettacoli si conclude infatti un progetto triennale dedicato ai trent’anni di una formazione radicalmente innovativa sia socialmente che artisticamente. È una delle realtà culturali più riuscite e coraggiose create nel nostro Paese. Gli spettacoli sono “Naturae. La vita mancata - primo quadro”, dal 28 luglio al 2 agosto alle 16 nella Fortezza Medicea, ovvero il carcere, e “Naturae. La valle dell’innocenza - secondo quadro”, l’8 e 9 agosto 2020 al Padiglione Nervi dell’ex Salina di Stato di Volterra, alle 17.30 e alle 21.30. Il progetto triennale è organizzato da Carte Blanche, è curato da Cinzia de Felice. “La storia della Compagnia della Fortezza è una storia fatta di impossibilità, continuamente superate - scrive nel suo comunicato Carte Blanche. Invece che abbandonare il campo, ovvero il nostro Teatro Renzo Graziani all’interno del carcere di Volterra, il lockdown ci ha dato modo di inventare nuove forme e modi per continuare a lavorare attorno al progetto Naturae, mantenendo intatto il rapporto tra tutti i componenti di quella casa accogliente che è la Compagnia della Fortezza. Nessuno è stato tagliato fuori, grazie anche alla lungimirante e generosa disponibilità della direzione del carcere (ovviamente restando nei parametri di quanto ammesso dalle nuove disposizioni del Dap), assieme alla quale, quotidianamente, sono state studiate soluzioni che permettessero di non abbandonare il presidio cultural-teatrale che è il pane quotidiano per tanti dei nostri attori reclusi”. “La Regione è sempre stata al fianco del lavoro, delle utopie e delle battaglie di Armando Punzo - ha commentato in conferenza stampa a Firenze la vicepresidente e assessore alla cultura della Regione Toscana Monica Barni. Abbiamo sempre ribadito, con un sostegno costante, la rilevanza di un progetto fondamentale a livello nazionale e internazionale”. Come assistere allo spettacolo in carcere? Fa sapere Carte Blanche: “Fino alla mezzanotte di sabato 18 luglio sarà possibile fare richiesta di autorizzazione all’ingresso in carcere per assistere a Naturae. La vita mancata - primo quadro, versando la donazione che darà diritto a partecipare all’estrazione che assegnerà i 15 ingressi. Il 30% delle donazioni così ricevute verrà devoluta in beneficenza e impiegata per sostenere l’intervento degli scavi archeologici del recentemente scoperto Anfiteatro Romano di Porta Diana di Volterra”. Per una volta è giusto e opportuno segnalare tutti gli enti e istituzioni che hanno sostenuto e promosso il progetto triennale della compagnia: Mibact - Ministero per i beni le attività culturali, Regione Toscana, Acri - Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Comune di Volterra, Comune di Pomarance, Ministero della Giustizia - Casa di Reclusione di Volterra. Luoghi di evasione di Mario Panizza L’Osservatore Romano, 18 luglio 2020 Il recupero e la valorizzazione delle carceri dismesse sulle isole può garantire un utile non solo finanziario, ma anche sociale. Le piccole isole, per molti simbolo di esotismo e di riposo, luoghi idilliaci, accoglienti, paradisi, talvolta fiscali, sono state, in non pochi casi, anche sedi di penitenziari infernali, di esilio, di espiazione, di isolamento. Negli anni, quasi tutte queste isole hanno perso la funzione di stabilimento penale e l’edificio carcerario, una volta svuotato, è rimasto prevalentemente inutilizzato. Sin dall’impero romano, per evidenti motivi geografici, sono state considerate il miglior luogo di detenzione e di punizione. Le celle potevano non essere costrette da barriere oppressive, in quanto il limite invalicabile era il mare. In questo caso l’edificio era pertanto un semplice ricovero, destinato alla permanenza dei carcerati e ai servizi collettivi, e i detenuti potevano soggiornare con margini di manovra abbastanza generosi, svolgendo il loro lavoro e la vita comunitaria senza impattare costantemente con le barriere di un carcere tradizionale. Talvolta l’isolamento del luogo è servito invece a rafforzare la sofferenza e il peso della punizione e caricare psicologicamente il senso del distacco definitivo dalla società. In alcuni casi le celle sono state addirittura costruite in modo che i detenuti non potessero nemmeno godere della vista del mare. In questi casi l’idea di riabilitazione era totalmente assente e il modello della detenzione era del tutto distante dall’obiettivo del recupero del detenuto. Alcune isole, con i loro penitenziari, hanno assunto un’importanza storica, letteraria e cinematografica: Sant’Elena, una delle più lontane dalla terraferma, isolata nell’Atlantico, ha costituito, dopo il breve soggiorno coatto nell’isola d’Elba, l’esilio definitivo di Napoleone; l’Île-d’Yeu, al largo della Vandea, è stata il luogo di detenzione dell’ottantottenne Maresciallo Pétain; l’Ile du Diable nella Guyana francese ha raccolto le gesta — romanzo e film — di Papillon; l’Isola con il Castello d’If, fortezza costruita tra il 1527 e il 1529 al largo di Tolone, è nota per la fuga di Edmond Dantès - Il Conte di Montecristo; Alcatraz, al largo di San Francisco, in acque predilette dagli squali, chiusa dal 1963, è ormai meta di turisti e di appassionati di ornitologia; la sudafricana Robben Island, prima asilo psichiatrico, poi lebbrosario, adesso Patrimonio dell’umanità, è stata il luogo di detenzione, per 27 anni, di Nelson Mandela; Nazino, in Siberia, era l’isola della morte, nella quale, durante il periodo staliniano, i carcerati, denutriti, morivano a migliaia, e dove sono accaduti numerosi episodi di cannibalismo. L’isola italiana architettonicamente più nota è di sicuro Santo Stefano, nelle ponziane, per la quale è stato previsto un finanziamento di 70 milioni di euro. Il suo carcere, costruito nel periodo borbonico (1794-1795), un panottico a forma di ferro di cavallo su progetto di Francesco Carpi, contiene, al centro del cortile, un piccolo edificio, punto di osservazione e di controllo dell’intero complesso. La qualità architettonica, legata alla pulizia della forma planimetrica e al ritmo delle aperture sui prospetti interni ed esterni, e il suo inserimento nell’ambiente con affaccio sul mare, ne fanno un’opera di grande pregio. In uso fino al 1965, ha ospitato detenuti famosi tra cui lo scrittore Luigi Settembrini, l’anarchico Gaetano Bresci e il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini. Poco lontana, a circa due chilometri, l’isola di Ventotene, già luogo di confino dei congiunti degli imperatori romani e, nel secolo scorso, di antifascisti e persone non gradite al regime, noto soprattutto per aver dato il nome al Manifesto di Ventotene, che auspicava la federazione degli Stati europei, è oggi un posto di villeggiatura alquanto frequentato. L’altro nucleo italiano consistente di isole-penitenziario è l’arcipelago toscano con Pianosa, Gorgona, Montecristo, Capraia, i cui reclusori, sorti dopo la metà dell’Ottocento, sono stati quasi tutti dismessi alla fine del secolo scorso per molteplici ragioni tra cui, non secondario, il costo elevato della gestione e della manutenzione. L’intero arcipelago è attualmente un parco nazionale, costituito con l’obiettivo di ricreare e consolidare il valore culturale, oltre che botanico e zoologico, dell’ambiente naturale. Il potenziamento dello sviluppo turistico è sostenuto proprio dalle attività avviate con il lavoro dei detenuti nel centro penitenziario di Gorgona, dove, in mezzo ai castagni e agli ulivi, è fiorente la produzione del famoso vino giallo. Si tratta di una iniziativa, molto lontana dall’uso che si faceva nel passato degli estenuanti lavori forzati dei condannati, come, in periodo borbonico, nell’isola di Vulcano (Eolie) per l’estrazione di allume e zolfo. Parco nazionale è stata dichiarata nel 2002 anche l’isola dell’Asinara, dopo la dismissione da penitenziario nel 1998. Sorta come colonia penale agricola nel 1885, diventa negli anni il carcere più noto d’Italia, ospitando i condannati per mafia e, negli anni Settanta, per terrorismo. Al centro di numerose sommosse, era conosciuto in tutto il mondo come il penitenziario dal quale era impossibile evadere. Geograficamente africana, Lampedusa, confino di polizia dal 1872 per alcuni decenni, è sicuramente l’isola che richiede gli interventi strutturali più importanti. Turistica, ma universalmente nota come simbolo di isola-rifugio, evidenziato dall’inaugurazione nel 2008 della Porta d’Europa di Mimmo Paladino, visitata dal Papa e da eminenti personaggi politici, è soffocata dal disordine dei centri di accoglienza, inevitabilmente affollati. Soffre della difficile coabitazione con i migranti che, nella situazione attuale, incidono negativamente sull’attrattività del suo patrimonio naturale, soprattutto subaqueo. Cosa fare di questi beni architettonici e naturali, molti dei quali veri e propri gioielli, destinati purtroppo a deteriorarsi definitivamente se non si agisce con tempestività attraverso una manutenzione che, in alcuni casi, richiede interventi profondi? Se si potesse disporre di patrimoni pubblici solidi, le soluzioni culturalmente interessanti sarebbero sicuramente molte: tra tutte, la costituzione di centri di ittiocoltura, destinati a garantire il lavoro ai tanti pescatori che ormai guadagnano sotto la sufficienza. Il tema è però più complesso e deve tenere in conto la condizione congiunturale dell’economia globale; si tratta infatti di combinare la salvaguardia del bene con l’utile che si riesce a ottenere dal suo uso: coprire sia i costi per il restauro che la manutenzione nel tempo dell’edificio e del territorio. Il concetto di valorizzazione non può essere ridotto però esclusivamente all’utile economico; esso deve comprendere una misura più ampia. La valorizzazione deve avere almeno due parametri ai quali rispondere: l’utile non solo finanziario, ma anche sociale; l’utile ricavato da introiti che non sono di pertinenza esclusiva dell’edificio penitenziario dismesso. Il primo si rivolge alla conservazione del bene che si intende mantenere e restaurare. In non pochi casi si tratta di opere architettoniche di pregio, soprattutto per il loro inserimento nell’ambiente naturale e per il prestigio, culturale in senso lato, che rappresentano. Il secondo parametro deve tenere conto dei benefici indotti, anche se ci si limita a calcolarli esclusivamente in termini finanziari. L’interesse turistico ha molto spesso un rientro economico non solo attraverso il bene ripristinato, ma attraverso l’estensione di una serie di iniziative collaterali. Restaurare un penitenziario su un’isola per trasformarlo ad esempio in un museo non potrà certo essere sufficiente a coprire le spese. Però potrà rappresentare il richiamo per altre attività redditizie, legate proprio al turismo balneare e marino. Per l’insieme di queste ragioni l’intervento su beni delicati, perché isolati, di difficile inserimento in un circuito economicamente produttivo, richiede una programmazione accorta e, soprattutto, volta al coinvolgimento di più attori capaci di consorziarsi e determinare il giusto equilibrio tra le attività che possono essere alimentate. Il percorso più sostenibile per mantenere la proprietà pubblica del bene e, allo stesso tempo, coinvolgere il privato nell’investimento potrebbe essere l’uso di una concessione dedicata, calibrata su un periodo ben definito, insieme, sufficientemente lungo perché possa garantire utili, ma anche non troppo perché, al termine della concessione, quando l’amministrazione pubblica ne rientrerà in possesso, il patrimonio sia ancora ben conservato. La concessione dedicata deve appoggiarsi a una convenzione ad hoc, che sappia valorizzare le risorse locali, contrastando anche la diffusa fuga degli abitanti da queste isole e, contemporaneamente, attrarre investitori interessati a sostenere, nei tempi lunghi, la conservazione equilibrata del patrimonio ambientale, naturale e culturale. Il dolore e il diritto al fine vita di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 18 luglio 2020 Il nuovo processo a Marco Cappato non è una copia del precedente, nel quale l’esponente radicale è stato assolto dalla imputazione di aiuto al suicidio. In entrambi i casi chi ha chiesto e poi ottenuto aiuto per morire era gravemente ammalato e soffriva irreversibili sofferenze. Ma nel primo caso la vita della persona dipendeva dalla assistenza di strumenti che le assicuravano la respirazione artificiale, mentre nel secondo sembra che la assistenza medica al malato non richiedesse simili sostegni vitali. È probabile che, sia chi fonda la sua opinione su un semplice criterio di umanità, sia chi pensa che ciascuno debba essere libero di decidere su come e quando morire e sia chi invece assume che in nessun caso la vita sia disponibile, tutti, allo stesso modo, trovino che quella differenza non abbia peso e non tocchi i valori in campo. Ma proprio quella differenza è divenuta determinante dopo la sentenza dell’anno scorso della Corte costituzionale. Con quella sentenza la Corte ha inciso sulla portata della norma del codice penale che punisce gravemente chiunque, in qualsiasi modo, aiuti altri a mettere in atto il proprio suicidio. La Corte ha affermato che in sé il divieto di aiuto al suicidio è compatibile con la Costituzione, ma non deve essere punito chi fornisce aiuto ad una persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli, che voglia porre fine alla propria vita essendo affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili e - questo è il punto che distingue i due casi - sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale. Oltre alla Corte costituzionale italiana sulla questione sono intervenute diverse altre Corti, nazionali ed europee. L’orientamento che esse hanno espresso è diverso. La Corte europea dei diritti umani - la cui giurisprudenza vincola tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa - afferma che la legittimità dell’aiuto fornito a chi abbia liberamente deciso di morire, si basa sul riconoscimento del diritto alla autodeterminazione nello scegliere quando e come morire. Secondo la Corte europea nel disciplinare la materia gli Stati godono di un margine di apprezzamento nazionale, fermo restando che l’autodeterminazione, aspetto della dignità della persona, riguarda il diritto al rispetto della vita personale, protetto dalla Convenzione europea dei diritti umani. La Corte costituzionale italiana, pur considerando il diritto alla autodeterminazione, ha ritenuto di ritagliare un’area di situazioni in cui ad essa di debba dar rilievo, rispettandola. Fuori di quelle situazioni essa finisce per non aver peso. La Corte, strettamente limitandosi al caso che aveva originato il suo esame di costituzionalità, ha definito le condizioni in cui deve trovarsi la persona che chiede aiuto al suicidio. Mentre la Corte europea ha ragionato a partire dal riconoscimento della autonomia della persona, cercando poi le ragioni che possono spingere a limitarne l’uso, la Corte costituzionale considera il diritto di rifiutare le cure e ritiene irragionevole consentire il rifiuto delle cure, anche quando ciò porti alla morte, e prevedere invece la punibilità di un intervento che venga richiesto, nella stessa situazione di fatto, per procurare la morte. Rispetto all’argomentare della Corte costituzionale v’è da chiedersi se spetti allo Stato o alla società definire quando rispettare l’autonomia delle persone. Il fondamento del diritto (o, forse meglio, della libertà) di cui si tratta, comporta certo la possibilità di prevedere una regolamentazione, ma esclude un generale e incondizionato potere dello Stato di “ritagliare” l’area entro la quale l’autodeterminazione legittimamente si esprime. Rigorosamente rispettosa dell’autonomia della persona è stata invece la recente sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco. In ogni caso questioni di ragionevolezza si pongono proprio con riferimento alle quattro condizioni poste dalla Corte costituzionale, particolarmente per quella che richiede l’uso attuale di mezzi di sostegno vitale. Una persona, che può certo rifiutare tali trattamenti, dovrebbe accettarli per poi poter chiedere aiuto al suicidio? E perché escludere in radice il caso di chi non sia malato o non lo sia ancora gravemente, né sia fisicamente impedito a suicidarsi, ma voglia evitare mezzi traumatici ed anche insicuri rispetto all’esito? Questa ed altre domande segnalano la difficoltà di circoscrivere analiticamente l’area di non punibilità delle condotte di aiuto al suicidio: difficoltà che aprono la via ad ulteriori questioni di costituzionalità aventi ad oggetto la norma del codice penale proprio per come l’ha ridefinita la Corte costituzionale. La discussione sulle condizioni della persona che chiede aiuto per il proprio suicidio, oltre a condurre sul terreno improprio della delimitazione della libertà della persona, distoglie l’attenzione dal cuore del problema: la volontà di metter fine alla propria vita. Né nella legge vigente, né nella sentenza della Corte costituzionale la questione è adeguatamente affrontata. Eppure si tratta del problema centrale. Quando e come una persona decide “liberamente” di uccidersi o di farsi aiutare a morire? Come la società e lo Stato possono seriamente offrire alternative, per superare non solo il dolore fisico (le cure palliative, le terapie antidolore), ma anche le difficoltà personali o sociali? Questo è il terreno su cui lavorare alla ricerca di difficili, ma indispensabili risposte. Non quello di definizioni astratte di casi e condizioni, fuori dei quali chi ha deciso di uccidersi, se può farlo da solo, può solo ricorrere a mezzi violenti e avvilenti. Migranti. Il voto sul rifinanziamento della Guardia Costiera libica scuote il Pd di Fabio Tonacci La Repubblica, 18 luglio 2020 In 400 scrivono a Zingaretti. Il nervo libico era scopertissimo, evidentemente. E l’articolo di Roberto Saviano su Repubblica di ieri lo ha sollecitato, provocando tensioni e litigi all’interno del Partito Democratico. Quattrocento militanti che scrivono a Zingaretti, onorevoli della maggioranza che si accusano l’un l’altro ricordando i tempi in cui salivano insieme sulla Sea Watch di Carola Rackete, deputati dem che cercano di spiegare le proprie ragioni, avvolgendosi in contorte giustificazioni. Mentre dunque il Viminale continua a lavorare sui dossier Libia e Tunisia, e non si placa lo sdegno per la foto del cadavere abbandonato alla deriva nel Mediterraneo (“L’indifferenza scava abissi in noi”, dichiara il cardinale Francesco Montenegro) scoppia il caos in casa Pd. L’aria era già tesa giovedì mattina, quando la maggioranza si è spaccata alla Camera sul decreto missioni che prevede il rifinanziamento della Guardia Costiera libica, pilastro della politica italiana ed europea sul governo dei flussi migratori dal Nord Africa. Ventitré deputati, tra cui i dem Laura Boldrini e Matteo Orfini, hanno firmato una risoluzione contraria agli accordi con Tripoli. Saviano, dalle colonne di questo giornale ha poi accusato il segretario Nicola Zingaretti di aver tradito lo spirito dell’Assemblea nazionale del partito, che a febbraio aveva votato all’unanimità contro lo stanziamento dì fondi ai libici. “Per non regalare il Paese a Salvini sono diventati Salvini”. A quel punto il bubbone esplode. La parlamentare Giuditta Pini scrive alla presidente Valentina Cuppi: “I militanti mi chiedono come sia possibile che le deliberazioni dell’Assemblea vengano platealmente ignorate. Giro la domanda a te: quali iniziative intende prendere la Presidenza per difendere il principio e lo Statuto del Pd?”. Lia Quartapelle, capogruppo Pd in commissione Esteri alla Camera, prova a smorzare (“Abbiamo evitato un pericoloso vuoto di potere in Libia”), ma Elly Schlein, vicepresidente dell’Emilia Romagna ribatte: “Gli accordi con la Libia erano una vergogna dall’inizio. Dov’è la discontinuità?”. Interviene allora il capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio: “Basta polemiche, sosteniamo il governo per una rapida modifica del memorandum con la Libia, il disimpegno rischia di non cambiare nulla”. Ma quando in serata la tensione sembra scemare, ecco il post di Riccardo Magi (+Europa) su Facebook: “Caro Graziano, un anno fa eravamo insieme sulla SeaWatch per chiedere che fossero fatti scendere i naufraghi in fuga dall’inferno libico. Non sono polemiche, sono i fatti di questi ultimi anni”. Tutto ciò mentre il ministero dell’Interno, dopo i 30 Suv, si appresta a consegnare entro settembre alle autorità di Tripoli 17 ambulanze, 20 gommoni e 13 autobus, nell’ambito di un progetto italo-europeo (vale 57 milioni di euro) che ha lo scopo di rafforzare il controllo delle frontiere meridionali. Quello libico non è l’unico dossier sul tavolo della ministra Lamorgese: i mille e passa sbarchi nello scorso weekend, per la maggior parte tunisini, hanno convinto il Viminale ad accelerare un piano di aiuti economici (in infrastrutture ed equipaggiamenti) da far giungere a Tunisi, per avere garanzie di un migliore controllo delle partenze. “In ottica di contenimento del Covid bisogna bloccare gli arrivi autonomi coi barchini”, dicono al ministero. Che ieri ha ricevuto la disponibilità di tre armatori per una o due navi da ancorare tra la Sicilia e la Calabria e dedicare alla quarantena dei migranti sbarcati risultati positivi. Al momento sono circa un centinaio in Italia, di cui 24 portati all’ospedale Celio di Roma e 27 sistemati nel deposito dell’Aeronautica a Castello d’Annone, nell’Astigiano. Il resto si trova ancora a bordo della Moby Zazà, ma l’armatore Onorato ha fatto sapere di non voler rinnovare il contratto col Viminale. Migranti. Caso Gradisca, la Garante comunale: “I Cpr vanno ripensati” di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 luglio 2020 Giovanna Corbatto, che da marzo ricopre il ruolo di garanzia nel comune del Friuli-Venezia Giulia, ha visitato il centro di detenzione dopo il secondo morto in meno di sette mesi. Nuovi dettagli dalla rete LasciateCIEntrare sulla storia del giovane che lunedì scorso ha perso la vita dietro le sbarre O.T. era un ragazzo di 28 anni. Incensurato. Sano. Senza problemi di tossicodipendenza. Venerdì 10 luglio ha rubato una bici, a Bolzano. Una bravata, forse causata da un bicchiere di troppo. Fermato, avrebbe sputato sugli agenti. Per questo il giudice ne ha dichiarato la pericolosità sociale e disposto il trasferimento nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) più vicino, quello di Gradisca d’Isonzo. O. T. era nato in Albania e non aveva il permesso di soggiorno. In tribunale si sarebbe messo a piangere, forse spaventato dall’idea di finire dietro le sbarre. Sabato è entrato nella struttura detentiva, lunedì mattina è stato ritrovato morto nella cella dove avrebbe dovuto trascorrere la quarantena. I dettagli raccolti dalla campagna LasciateCIEntrare iniziano a dare forma alla storia del secondo morto nel Cpr di Gradisca in meno di sette mesi. Ieri, intanto, la Garante comunale delle persone private della libertà personale ha visitato per la prima volta il centro. La figura di garanzia è stata istituita a dicembre scorso e a marzo ha visto l’elezione di Giovanna Corbatto, classe 1981, esperienza nella Caritas e riconoscimento Unhcr per l’impegno nei corridoi umanitari. Com’è la situazione nel Cpr? Difficile rispondere senza generare fraintendimenti. All’interno la situazione può cambiare da un momento all’altro. Basta poco per innescare malumori o proteste. Le persone che ho potuto incontrare stavano tutto sommato bene. Bene compatibilmente con l’ambiente in cui sono inserite. Non ho potuto parlare con tutti. La mia è una valutazione relativa a una visita di due ore in cui ho soprattutto avuto modo di farmi un’idea generale. È la prima volta che entravo nella struttura. La situazione mi è parsa tranquilla, ma ciò non significa che vada tutto bene. Ci sono sicuramente delle criticità. Quali? Andrebbero attenzionati inizio e fine del percorso nel Cpr. Su questo si può lavorare. Poi ci sono altri elementi di difficoltà su cui né la prefettura né la cooperativa Edeco (ente gestore, ndr) hanno colpa. Ci sarebbe bisogno di un apporto di personale superiore, a partire da quello sanitario. Avere un medico solo per cinque ore è troppo poco. Ne sono tutti consapevoli, ma i capitolati usciti lo scorso anno con Salvini al governo lasciano poco spazio a un incremento del personale impiegato. Alcune testimonianze emerse nei giorni scorsi denunciano una somministrazione massiccia di sedativi e tranquillanti ai reclusi. Ha potuto raccogliere elementi su questo? Sì, ma siccome è elemento di indagine relativamente alla morte del ragazzo non posso dire molto. Posso riferire quello che ho chiesto: come funziona l’assunzione e la somministrazione dei farmaci, se di persona o no; da dove vengono; chi li prescrive; chi li somministra. Esiste un protocollo? Posso dire solo che i farmaci somministrati vengono registrati. Ci risulta che con il lockdown gli ingressi del personale di Centro di salute mentale (Csm) e Sert siano stati interrotti, ma la somministrazione di sedativi e tranquillanti sia continuata. Può confermarlo? Il personale non entra, ma è stata allestita una sala privata in cui gli ospiti continuano ad avere colloqui via Skype con psicologici e psichiatri di Csm e Sert. Il Cpr ha riaperto a dicembre scorso. Da allora si contano rivolte, violenze, diversi casi di Covid-19 e due morti. Una struttura simile può avere un futuro compatibile con lo stato di diritto? Non si può pensare di avere una struttura dove non accade niente, dove tutti sono sereni. Le dinamiche che nascono all’interno del Cpr sono malate. È un’istituzione totale in cui ci sono persone rinchiuse, per una detenzione amministrativa. Così come è configurato il Cpr è un controsenso. Vanno cambiate le regole di base. Giornata Mondiale della Giustizia Penale Internazionale di Giancarlo La Vella e Andrea De Angelis vaticannews.va, 18 luglio 2020 Il 17 luglio 1998 veniva adottato a Roma lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Da allora la data è dedicata proprio alla Giornata Mondiale della Giustizia Penale Internazionale. Importante il lavoro dall’organismo svolto negli anni. Ricorre oggi la Giornata Mondiale della Giustizia Penale Internazionale. La data ricorda l’adozione da parte dei Paesi dell’Onu dello Statuto della Corte Penale Internazionale. Il voto avvenne il 17 luglio 1998 presso la Fao, a Roma, al termine di un lungo e serrato dibattito, dopo il quale la maggioranza degli Stati optò per la creazione di un tribunale permanente compretente per reati internazionali, quali il genocidio, i crimini di guerra e contro l’umanità. A queste figure delittuose venne poi aggiunto anche il reato di aggressione. Lo Statuto è entrato in vigore il 1º luglio 2002 contestualmente alla ratifica da parte del sessantesimo Stato. Sono 123 i Paesi aderenti, ma non vi fanno parte protagonisti importanti del panorama internazionale come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia. I Tribunali per il Ruanda e per l’ex Jugoslavia - Già prima della nascita della Corte Penale, la comunità internazionale dette vita a due Tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, che hanno fatto luce sulle più assurde atrocità della storia recente. Essi rappresentano una sorta di prova generale di quella che poi sarà la Corte Penale. Il primo è stato un organo dell’Onu col compito di perseguire i crimini commessi nell’ex-Jugoslavia nei primi anni 90. Tra i tanti personaggi a giudizio, nomi tristemente noti come Slobodan Miloševi?, presidente della Serbia e della Federazione jugoslava, accusato di crimini in Croazia, Kosovo e Bosnia Erzegovina, Radovan Karadži?, capo politico serbo-bosniaco e presidente della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, e Ratko Mladi?, comandante dell’esercito serbo-bosniaco. Il Tribunale Penale per il Ruanda, istituito nel 1994, con sede ad Arusha in Tanzania, fu invece chiamato a giudicare i responsabili del genocidio etnico ruandese e altre violazioni dei diritti umani commessi sul territorio del Paese africano dal 1º gennaio al 31 dicembre 1994. Fu consentito anche ai giudici nazionali di aprire processi contro cittadini ruandesi responsabili, che si fossero trovati in altri Stati. Ciò è avvenuto in Belgio, in Francia e in Svizzera. La vera giustizia è fare verità - Da 22 anni la Corte Penale Internazionale continua il lavoro su casi di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, e aggressione. Atti, che per il contesto in cui avvengono non potrebbero mai essere giudicati da corti locali. Ma lo scopo principale della giustizia penale internazionale, secondo Luciano Eusebi, ordinario di Diritto Penale alla Università Cattolica di Milano, è quello di riportare nei giusti binari i rapporti tra gli Stati e all’interno di essi sulla base di un condiviso giudizio di verità. Alla base dell’attività della Corte c’è la tutela dei diritti umani in tutta la loro pienezza. Soprattutto in questo periodo di pandemia, afferma il docente, c’è il rischio che la pressante emergenza sanitaria globale faccia passare in secondo piano le prerogative fondamentali della persona, soprattutto dei più deboli e socialmente indifesi, come poveri e anziani. Di fronte all’inattività degli Stati è dunque opportuno che vi siano organi di giustizia sovranazionali, che tutelino queste persone, nei confronti delle quali l’inefficacia e la mancanza di programmi di governo si tramuterebbero in veri e propri soprusi. Libia, proseguono le sparizioni amnesty.it, 18 luglio 2020 A un anno dal rapimento di una parlamentare la cui sorte resta sconosciuta, proseguono le sparizioni. L’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) deve rendere note le sorti e il luogo in cui si trova Siham Sergiwa, parlamentare libica difensora dei diritti delle donne, brutalmente portata via dalla propria abitazione esattamente un anno fa. Il caso di Siham Sergiwa riporta crudamente alla memoria i rapimenti, le sparizioni forzate e le privazioni della libertà perpetrati nel paese da tutte le parti in conflitto, tra cui le forze governative, le autorità de facto e le loro milizie e i gruppi armati affiliati. Il 17 luglio del 2019, decine di uomini coperti in volto che indossavano l’uniforme dell’esercito hanno attaccato l’abitazione di Siham Sergiwa a Bengasi, nella Libia orientale, che è sotto il controllo dell’Eln. Prima di trascinarla via gli uomini hanno colpito suo figlio sedicenne e hanno sparato al marito auna gamba. La notte precedente il suo rapimento, Siham Sergiwa aveva chiesto pubblicamente la fine dell’offensiva dell’Enl su Tripoli. “Non si hanno notizie di Siham Sergiwa da quella terribile notte in cui è stata portata via dalla sua famiglia. Il suo destino ci riporta alla mente con orrore le conseguenze alle critiche pacifiche nella Libia di oggi” ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Stiamo chiedendo all’Enl di porre fine all’angoscia dei familiari di Siham Sergiwa e renderne immediatamente noti la sorte e il luogo in cui si trova. Rapimenti e sparizioni forzate sono divenute un agghiacciante segno distintivo del conflitto libico, in cui i civili sono lasciati in balia delle milizie e dei gruppi armati”, ha proseguito Diana Eltahawy. Le testimonianze oculari del rapimento di Siham Sergiwa unitamente alle fotografie analizzate da Amnesty International indicano come prova della responsabilità di Awliya al-Dam, una brigata armata affiliata all’Enl, i graffiti sul muro della sua abitazione: “Awliya al-Dam” e “L’esercito è una linea rossa”. Inoltre, la presenza di numerosi posti di blocco della polizia militare attorno all’abitazione di Siham e testimonianze secondo le quali gli assalitori sono arrivati in auto con la scritta “polizia militare” suggeriscono che l’Enl sia stato complice o direttamente responsabile. L’Enl nega ogni responsabilità, ma non è riuscito a intraprendere un’indagine esaustiva, imparziale e indipendente sul rapimento di Siham Sergiwa o a ottenerne il rilascio. Da quando l’Enl ha assunto il controllo della maggior parte della Libia orientale nel 2014, Amnesty International ha documentato vari rapimenti di oppositori, veri o presunti, dell’Enl. Alcune vittime finiscono per essere detenute arbitrariamente per lunghi periodi, mentre le sorti di altre restano sconosciute, in un clima di terrore per la loro incolumità e nel timore che arrivi la notizia del loro decesso in detenzione. Ad Ajdabiya, città sotto il controllo dell’Enl situata circa 150 chilometri ad ovest di Bengasi, Amnesty International ha documentato il rapimento di almeno 11 persone della tribù Magharba, a causa dei loro presunti collegamenti con Ibrahim Jadran, ex capo delle Guardie petrolifere, gruppo armato in conflitto con l’Eln. Ex detenuti hanno riferito ad Amnesty International di essere stati torturati, di essere stati tenuti in condizioni disumane e che era stato negato loro ogni contatto con l’esterno durante il periodo trascorso nelle carceri di Gernada e Al-Kuwafiya, sotto il controllo di gruppi armati alleati dell’Enl. Restano sconosciuti le sorti e il luogo in cui si trovano almeno quattro membri della tribù Magharba, rapiti tra aprile e maggio di quest’anno ad opera di uomini armati che appartengono all’Agenzia di sicurezza interna-Ajdabiya, gruppo alleato dell’Enl. I parenti angosciati alla ricerca dei propri cari nelle prigioni e in altri posti di detenzione e gli ex detenuti hanno dato voce alla loro frustrazione per la mancanza di rimedio legale o giustizia, ripetendo “Dio ci basta ed è colui che meglio può disporre delle nostre vite”. “Nessuna autorità è superiore all’autorità del Radaa” - Nella Libia occidentale, sotto il controllo del Governo di accordo nazionale riconosciuto dall’Onu, Amnesty International ha documentato la sparizione forzata di persone ad opera di una serie di milizie fedeli al ministero dell’Interno, a causa delle loro reali o presunte affiliazioni o per le loro critiche. Tra queste milizie figurano le famigerate Forze del Radaa, la Brigata dei rivoluzionari di Tripoli, la Brigata di Bab Tajoura e la Brigata Abu Selim. Alcuni sono fatti sparire per mesi e anni prima di essere liberati o prima che venga loro permesso di mettersi in contatto con le proprie famiglie per la prima volta. Amnesty International ha documentato come le Forze del Radaa abbiano sequestrato delle persone semplicemente perché nate nella parte orientale. In un caso, un uomo, il cui passaporto riportava la provenienza da Bengasi, fu fermato all’aeroporto di Mitiga, controllato dalle Forze del Radaa, e portato in prigione, dove fu torturato e fatto sparire per quasi quattro anni. È stato liberato a metà del 2019 senza aver mai aver affrontato un procedimento giudiziario. Secondo ex detenuti, le famiglie delle persone detenute e gli attivisti dei diritti umani le Forze del Radaa negano sistematicamente, e mentendo, alle famiglie disperate di essere a conoscenza dei luoghi di detenzione delle vittime. Le Forze del Radaa sono ancora pagate dallo stato e formalmente sotto la supervisione del ministero dell’Interno. Come nella parte orientale del paese, i familiari delle vittime di sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie hanno dichiarato ad Amnesty International di avere poche possibilità di cercare risposte od ottenere la liberazione dei propri cari. Secondo ex detenuti, familiari, difensori dei diritti umani e una precedente ricerca le richieste del pubblico ministero di incriminare i detenuti o rilasciarli vengono regolarmente ignorate dalle Forze del Radaa. Il 29 giugno del 2020, i familiari di molte persone detenute arbitrariamente nella prigione di Mitiga hanno tenuto una protesta. Il giorno seguente, il ministro degli Interni ha incontrato il capo delle Forze del Radaa e ne ha elogiato il lavoro nella “lotta alle minacce nei confronti dello stato e dei cittadini”. I familiari hanno riferito ad Amnesty International di essere in balia delle milizie e che “non c’è nessuna autorità al di sopra di quella del Radaa”. Amnesty International chiede a entrambe le parti in conflitto di porre fine immediatamente all’ondata di sparizioni forzate, rapimenti, detenzioni arbitrarie e altre pratiche illegali analoghe. Alle milizie e ai gruppi armati affiliati deve essere ordinato di rendere noti la sorte e il luogo in cui si trovano le persone oggetto di sparizioni forzate e pratiche analoghe e garantire che tutti coloro che sono detenuti arbitrariamente vengano rilasciati. Le persone sospettate di reati penali possono essere detenute solo nel rispetto della legge e in condizioni umane, secondo quanto stabilito dalle normative. Chiunque sia accusato di un reato penale identificabile, potrà essere perseguito secondo procedimenti che rispettino gli standard internazionali di imparzialità. “Il caso di Siham Sergiwa dimostra che nessuno è al sicuro in Libia, neanche le personalità politiche. Invece di elogiare le potenti milizie che commettono impunemente gravi violazioni dei diritti umani e altri reati, tutte le parti coinvolte in sparizioni forzate e pratiche analoghe devono rispondere agli appelli dei familiari angosciati rivelando le sorti e il luogo in cui si trovano tutte le persone scomparse e proteggerle da ulteriori danni” ha concluso Diana Eltahawy. Condanne per 2mila anni di galera. La guerra di Erdogan agli avvocati di Antonella Napoli Il Dubbio, 18 luglio 2020 Sono una delle categorie più colpite dalla repressione dopo il fallito golpe. Mentre il presidente Erdogan celebrava il quarto anniversario dello sventato golpe in Turchia, che la notte tra il 15 e il 16 luglio del 2016 costò la vita a 251 persone, Deniz Yucel, ex corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt. uno dei volti simbolo della repressione attuata dal regime, veniva condannato a 3 anni di carcere. La procura di Istanbul ne aveva chiesti 15. Il giornalista, rifugiatosi in Germania dopo il suo rilascio il 16 febbraio del 2018, è solo uno dei 282.790 sospettati di affiliazione alla rete di Fethulla Gulen, ex alleato di Erdogan considerato la mente del fallito golpe. Fino ad oggi, come riporta un recente rapporto diffuso dalle autorità di Ankara, sono state effettuate 99.066 operazioni contro i presunti golpisti, di cui 94.975 sono finiti in carcere. Attualmente sono ancora in prigione 25.912 persone mentre per gli altri è scattato, dopo anni di detenzione preventiva, il divieto di espatrio in attesa dell’ultimo grado di giudizio. Dai dati emerge che tra i malcapitati coinvolti nella più vasta repressione attuata del Paese, arrestati con accuse di terrorismo, 605 sono avvocati, di cui 345 condannati arbitrariamente per un totale di 2145 anni di prigione. Oltre 1.500 gli indagati. “Anni di carcerazione preventiva subita senza avere delle accuse precise da cui difendersi, condanne pesantissime inflitte al termine di processi sommari, svolti al di fuori di ogni regola dello stato di diritto” denuncia il coordinamento delle Commissioni Diritti umani e Rapporti Internazionali del Consiglio Nazionale Forense italiano. Gli avvocati non hanno mai goduto del favore dell’uomo solo al comando. Erdogan in persona avrebbe sollecitato il disegno di legge che prevede l’istituzione di Ordini alternativi a quelli esistenti contro il quale si sono animate proteste dei togati in tutto il paese. Il testo, presentato in Parlamento lo scorso 30 giugno, prevede che il governo assuma il controllo dell’elezione degli organi dirigenti dei vari organismi professionali. “In questo modo Erdogan - sostiene Mehmet Durakoglu, presidente dell’Ordine forense di Istanbul vuole punire la nostra categoria che ha sempre rappresentato i valori laici della democrazia”. Non è da escludere che anche l’ultima azione di protesta degli avvocati turchi, che chiedevano un atto di clemenza nei confronti dei detenuti politici non sia piaciuta al presidente turco che mal digerisce le critiche. Non a caso la riforma del codice penale approvata lo scorso 14 aprile, favorita dall’emergenza Covid- 19, non ha tenuto conto di alcuna osservazione mossa da esponenti delle opposizioni e delle organizzazioni di categoria. Si è rivelata, al contrario, l’ennesima prova dell’accanimento verso dissidenti, avvocati e giornalisti. L’assemblea turca dando il via alla depenalizzazione di alcuni illeciti ha escluso i prigionieri per reati di opinione. “L’unica misura adottata a tutela della salute nelle carceri turche era stata, fino a quel momento, la disinfezione delle celle - denuncia Ayse Acinikli di Ohd, associazione di avvocati turchi e curdi - Non sono stati forniti dispositivi di protezione né alla polizia penitenziaria né ai carcerati, neppure nel penitenziario di Mardin dove si è registrato un caso positivo al Covid 19, un detenuto di 71 anni poi deceduto”. Il provvedimento di clemenza approvato permetterà ai 90 mila che ne hanno usufruito di scontare ai domiciliari il residuo della pena. Tra questi i detenuti con più di 65 anni, malati cronici e madri con figli minori di 6 anni. L’amnistia non è stata estesa ai prigionieri politici ultrasettantenni in isolamento nella struttura di massima sicurezza a Imrali, tra cui il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan Abdullah Öcalan. Per chi resta in carcere la situazione è drammatica anche per l’impossibilità di accesso alle cure a causa della pandemia. Ai malati di cancro sono stati interrotti i controlli e le cure. “Il governo ha la responsabilità dell’omessa protezione delle persone detenute più fragili - dice Ceren Uysal, avvocata dell’associazione People Law Office - in particolare di quei 1300 carcerati gravemente malati per i quali non è stato disposto l’immediato rilascio”. Tra coloro che non hanno potuto beneficiare dell’amnistia, oltre agli avvocati Selçuk Kozagaçli, Aycan Çiçek, Barkin Timtik, Engin Gökoglu, Behiç Agçi, Aytac Ünsal, Ebru Timtik, anche il leader del Partito democratico curdo (Hdp) Selahattin Demirtas, che soffre di problemi cardiaci, lo scrittore di fama internazionale Ahmet Altan, 69 anni, e il giornalista Mümtazer Türköne, cardiopatico arrestato nel 2016. Tutti sono in pericolo di vita a causa del virus come tanti altri detenuti accusati di “terrorismo” in prigione solo per aver criticato il governo. Egitto. Coronavirus, “guardie e detenuti infetti, celle affollate e nessuna protezione” di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2020 In un report in possesso del Fattoquotidiano.it il racconto dall’interno della struttura dei mesi dell’emergenza sanitaria, con i vertici del carcere che fin da aprile hanno tenuto i prigionieri all’oscuro della diffusione della malattia nel Paese. “Va tutto bene, non sono state riscontrate infezioni da coronavirus all’interno del carcere. Le voci che filtrano su eventuali contagi sono soltanto rumors, non c’è nulla di vero. Fuori non è in corso alcuna emergenza”. Banalmente, mentre le autorità carcerarie della prigione di Tora al Cairo, la più temuta in Egitto, cercavano di rassicurare i detenuti, specie quelli più indeboliti e impauriti, attorno spuntavano ripetuti casi positivi al Sars-Cov-2. Sono almeno una decina quelli da considerare ufficiali soltanto dentro alla prigione, non solo tra i detenuti. Nessuna emergenza fuori, eppure presto l’Egitto raggiungerà i 100mila contagi e i 5mila morti. Tutto tranquillo, anche dentro i padiglioni della prigione, questa la tesi di chi detiene il potere carcerario. Le centinaia di detenuti reclusi nella struttura alla periferia sud della capitale egiziana vivono sotto una sorta di campana di vetro, specie quelli di coscienza come Alaa Abdel Fattah e il ‘nostro’ Patrick Zaki. Nulla filtra e l’obiettivo della sicurezza del penitenziario è proprio questo, tenere all’oscuro i prigionieri sulla reale situazione epidemiologica all’esterno delle alte mura di protezione. Eppure, anche nei meccanismi più oliati e affidabili, qualche crepa prima o poi si forma. Così hanno iniziato a filtrare informazioni e soprattutto sono emersi casi di positività all’interno della prigione. Alcune di queste sono state raccolte in un report diffuso da Aida Seif el-Dawla, nota psicologa e da anni direttrice del centro per le vittime di tortura e violenze El Nadeem, al Cairo. La sede dell’organizzazione, nel centralissimo quartiere di Downtown, nel 2018 è stata oggetto di un blitz da part della Sicurezza Nazionale, sequestrata e posta sotto sigilli. Nonostante tutto, il centro El Nadeem è sempre attivo: “Ieri ho ricevuto un report molto dettagliato sulla situazione interna al penitenziario di Tora, specie nelle sezioni Skorpion I e II, quella dove sono rinchiusi i prigionieri politici - ha raccontato a Ilfattoquotidiano.it - Il report è stato redatto da qualcuno capace di far uscire il documento, oppure qualcuno che di recente è uscito o è stato trasferito ad un altro centro. Di più non posso dire, per salvaguardare la sicurezza della fonte. Ma solo uno che ha vissuto la realtà carceraria, specie quella di Tora, può essere a conoscenza di particolari così precisi e le notizie emerse in queste settimane su nuovi casi di contagio da coronavirus ne sono la conferma”. Forse non è un caso che il report sia stato diffuso giovedì, pochi giorni dopo la morte, ancora avvolta nel mistero, del giornalista Mohamed Mounir, stroncato dall’aggravarsi della patologia da Covid-19. Mounir era stato arrestato il 15 giugno scorso e quando è entrato a Tora era in discrete condizioni di salute. Il 2 luglio è uscito dal carcere positivo al Covid e pochi giorni fa è morto. Entrando nel cuore del report, si nota il goffo tentativo delle autorità carcerarie di minimizzare il problema e rassicurare i detenuti: “Si assiste a un sistematico black-out delle informazioni e delle notizie a Tora - si legge nel rapporto di cui il Fatto è entrato in possesso - Quando qualcuno chiede a un agente o a un funzionario cosa stia accadendo fuori rispondono che va tutto bene. Stessa risposta quando si viene a sapere che ci sono casi sospetti di coronavirus dentro al carcere. A marzo, quando ancora era possibile incontrare e sentire familiari e parenti, all’inizio dell’epidemia, il personale usava mascherine, guanti e ogni dotazione di sicurezza possibile. C’era anche il gel igienizzante. Ad aprile le cose hanno iniziato a cambiare e pian piano tutto è tornato come prima del coronavirus, zero protezioni. Fino a poche settimane fa le autorità carcerarie di Tora smentivano casi positivi, mentre altrove, ad esempio nelle prigioni di al-Liman e Istikbal, erano già ufficiali. Lì, addirittura, erano stati individuati degli spazi per garantire la quarantena dei positivi asintomatici. A Tora nulla di tutto ciò è stato fatto. Le celle sono strapiene, mantenere il distanziamento è impossibile, non c’è il filtraggio dell’aria e in questo periodo dell’anno, con temperature ben sopra i 40°, la vita del recluso è drammatica”. Nei mille caratteri che compongono il rapporto su Tora, l’anonimo va anche più a fondo del problema: “Di fronte alle ripetute smentite, i detenuti potevano fare poco. Fino a quando a Tora, anche nella sezione Skorpion II, alcune persone sono state trasferite in ospedale per casi sospetti di coronavirus. Non si tratta di due-tre casi, ma di parecchi. Sia guardie che detenuti, in molti casi non si sono più visti lì dentro, mandati in malattia a casa nel primo caso e trasferiti in altre strutture, in quarantena, nel secondo. Le autorità hanno chiuso ulteriormente i canali, ma il virus era ormai entrato. C’è poi la questione delicata dello staff medico interno, assolutamente impreparato per le esigenze legate alla pandemia e per nulla protetto. Mancano i farmaci e quelli che ci sono non servono a nulla, a parte gli antidolorifici. Soltanto una volta alla settimana un medico specialista entra a Tora per controllare la situazione, senza però creare mai quell’allarme necessario per far esplodere il caso. Infine il problema del cibo, in parte preparato internamente dagli stessi detenuti senza alcuna misura di sicurezza. In particolare il pane, grazie al forno di cui il carcere di Tora è fornito, oppure la distribuzione dei vegetali. Tutto viene fatto a mano, ma chi lavora non indossa guanti e mascherine. Di recente dieci prigionieri della sezione Scorpion sono stati trasferiti nella sezione 1, per punizione, perché chiedevano che il personale della cucina indossasse i dispositivi di protezione. Oltre al trasferimento è scattata anche una severa punizione nei loro confronti”. Terminata l’analisi è il momento delle iniziative da prendere e Aida Seif entra nello specifico assecondando gli argomenti contenuti nel report: “Ci deve essere un fronte compatto a livello di diritti umani di fronte al problema della crisi pandemica all’interno delle carceri egiziane. È necessario mettere in atto una strategia volta a rendere noto il problema, senza peggiorare gli effetti sui detenuti e al tempo stesso organizzare una campagna di solidarietà in grado di uscire anche dai confini egiziani. Il supporto nei confronti dei detenuti deve essere totale e costante. Infine, coinvolgere nell’analisi le famiglie di chi sta trascorrendo una difficile detenzione, renderle pienamente consapevoli di cosa sta accadendo lì dentro. Solo così si può alzare il livello di guardia per prevenire e trattare l’infezione pandemica in modo da evitare preoccupanti derive”. In Afghanistan tanta guerra per niente. E ora si riparte di Giuliano Battiston Il Manifesto, 18 luglio 2020 Omissione compiuta. L’ampia adesione dei deputati italiani alle nuove avventure militari votate giovedì indica una continuità storica, un conformismo culturale prima ancora che politico perseguito con ostinazione legislatura dopo legislatura. Facile è scatenare una guerra, difficile concluderla. Impossibile - insegna il caso dell’Afghanistan - giustificarla, facendo a meno delle ragioni tartufesche dei politici con elmetto d’ordinanza e vocazione dannunziana o delle simulazioni degli strateghi militari chini sulle loro mappe, ottimisti anche quando il loro fortino finisce assediato dal nemico di turno, come nel caso dei Talebani che hanno convinto gli Stati uniti a sedersi al tavolo negoziale e a firmare il 29 febbraio 2020 uno storico accordo politico. Che non conclude ancora la guerra, non risparmia le vittime, ma certifica il fallimento dell’opzione militarista e rende tragicamente vane, alla luce dei circa 3.500 morti civili registrati ogni anno, le parole - prima accorate e sentenziose, solenni e ridondanti, poi, col passare degli anni, sempre più rituali e protocollari - di politici e ministri che rivendicavano la necessità della guerra, generatrice di diritti e democrazia, stabilità e progresso. Così ci è stato detto, per quasi venti anni, sempre più a bassa voce. Così è stato assicurato agli afghani, per quasi venti anni, con sempre minore sfrontatezza. Qualcuno di loro all’inizio ci ha creduto, il tempo necessario a riconoscere che le cancellerie occidentali non sono meno bugiarde di quelle regionali, guardate con sospetto e impegnate nel nuovo “grande gioco”, pronte a colmare il vuoto aperto dal ritiro degli Stati uniti, i cui soldati sono scesi a circa 8.500. Quanto a noi, continuiamo a ritenere attendibile la vecchia storiella della guerra che genera diritti, così almeno sembrano testimoniare le parole usate dalla viceministro degli Esteri Marina Sereni subito dopo l’approvazione alla Camera, due giorni fa, della risoluzione sulle missioni internazionali. Per lei, la “forte integrazione e complementarietà tra componenti militari, civili e di cooperazione” permette di “perseguire obiettivi di sicurezza, sviluppo, rispetto dei diritti umani”. Che provi a chiederlo agli afghani e alle afghane se le cose stanno davvero così o se, come dimostra il caso dei Prt, i Provincial Reconstruction Team ormai chiusi e un tempo fiore all’occhiello dei militari, la commistione tra cooperazione civile e impegno militare non abbia provocato grandi danni e compromesso sicurezza, sviluppo, diritti umani. Le parole della vice-ministro Sereni e del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che ha enfatizzato “la votazione coesa del Parlamento”, così come l’ampia adesione dei deputati alle nuove avventure militari, sono esemplari. Indicano una continuità ormai storica, un conformismo culturale prima ancora che politico, consolidatosi con la guerra afghana, perseguita con cieca, ottusa ostinazione legislatura dopo legislatura, proroga dopo proroga, voto dopo voto. Senza che nessuno - neanche a sinistra, negli ultimi dieci anni almeno - provasse a chiedersi: perché siamo in Afghanistan? Oggi, a quasi venti anni di distanza dal rovesciamento dell’Emirato islamico d’Afghanistan, e a pochi mesi dal ritiro dei residui 800 soldati italiani, invece di trarre un bilancio, di interrogarsi sul senso e sui risultati di una missione estremamente costosa che finisce per riabilitare e riportare al potere - anche se condiviso - quei Talebani un tempo descritti come selvaggi barbuti, il Parlamento italiano non solo nicchia sui fronti già aperti, ma decide “con votazione coesa” di aprirne di nuovi. Con l’adesione alla task force internazionale Tabuka, operativa nel Sahel, con la missione nel Golfo di Guinea, con il rinnovato e ampliato impegno in Libia: guerra scaccia guerra. Colombia. “Mario temeva di essere ucciso” di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 18 luglio 2020 Parlano amici e familiari del volontario di Napoli morto in Colombia. Adesso si segue la pista dell’omicidio e si indaga sulle formazioni di destra. C’è una prima svolta nelle indagini sulla morte del 33enne volontario napoletano trovato senza vita in Colombia: ora s’indaga per omicidio. Un amico: “Si sentiva in pericolo e chiedeva aiuto. Viveva tappato in casa”. I parenti si appellano all’Onu. Si indaga per omicidio. C’è una prima svolta nel dramma del trentatreenne Mario Paciolla, il volontario napoletano delle Nazioni Unite trovato morto mercoledì mattina nella stanza dove abitava a San Vicente de Caguan, in Colombia. Era lì nell’ambito di un progetto dell’Onu relativo al reinserimento nella società degli ex guerriglieri delle Farc, la formazione di sinistra che anni fa ha stipulato accordi con lo Stato per la cessazione delle ostilità. Solo poche ore dopo le dichiarazioni della polizia colombiana, che aveva liquidato la vicenda come suicidio per impiccagione, si apre dunque una partita giudiziaria diversa ad opera delle stesse autorità sudamericane. Una delle ipotesi, qualora fosse confermata la tesi dell’omicidio - sarà certamente importante il risultato dell’autopsia prevista nei prossimi giorni - punta sulla pista delle formazioni paramilitari di estrema destra. Non crede all’ipotesi del suicidio Eduardo Napolitano, che ha lavorato nella cooperazione internazionale ed ha conosciuto Paciolla oltre 15 anni fa. “L’ultima volta - racconta - ci siamo visti a Natale. Abbiamo mantenuto i contatti nonostante entrambi fossimo spesso in giro per il mondo. Già un anno fa mi aveva espresso timori e preoccupazioni per alcune minacce subite. Era molto esposto anche perché già in passato, quando operava come volontario di Peace Brigades International, aveva lavorato al fianco della popolazione civile esposta alle violenze degli squadroni dell’ultradestra”. Non appena Napolitano ha appreso del ritrovamento del corpo di Paciolla si è messo in contatto con alcuni amici comuni che vivono in America Latina e che avevano avuto modo di parlare di recente con il volontario dell’Onu. “Più d’uno - riferisce - mi ha detto che Mario era terrorizzato per alcune minacce ricevute. Era rintanato in casa con le tapparelle abbassate ed aveva chiesto ai suoi superiori di organizzare al più presto il suo rientro in Italia. Mi hanno anche raccontato che aveva avuto un duro scontro verbale con i suoi capi proprio perché avrebbe voluto che il rimpatrio fosse eseguito con estrema celerità”. Il ricordo che Napolitano ha di Paciolla è quello di un ragazzo “puro, entusiasta, innamorato dei viaggi e del mondo. Una persona radicale, determinata. Un entusiasta che mai avrebbe anche solo ipotizzato di suicidarsi”. Parole non diverse da quelle pronunciate giovedì dalla madre del trentatreenne scomparso. La famiglia di Paciolla è ora in contatto con l’ambasciata italiana in Colombia e con l’Onu in attesa di notizie. “Al momento non sappiamo ancora molto - riferisce un portavoce dei familiari - anche noi aspettiamo”. Mario era un ragazzo molto noto a Napoli ed aveva partecipato, tra l’altro, al movimento studentesco dell’Onda. Gli attivisti dei centri sociali - tra i quali l’ex Opg occupato - che lo conoscevano hanno lanciato una petizione on line su www.change.org per spronare l’Italia a pretendere chiarezza dalla Colombia riguardo alle circostanze della morte del volontario. “Da giorni - si legge nello appello - si sentiva con la famiglia confessando la sua apprensione per strani comportamenti di gente a lui nota. Si sentiva minacciato. Aveva appena acquistato il biglietto aereo per rientrare in Italia, ma i sicari lo hanno raggiunto prima. Per favore indagate su questa ennesima morte di un giovane italiano all’estero per mano di criminali”. Il timore è che si vada incontro a un altro caso Regeni. Anche il sindaco de Magistris ha reso omaggio ieri a Paciolla: “Brillante viaggiatore, cosmopolita, mente lucida, aveva messo a disposizione del mondo il suo bagaglio culturale ed una genuina attitudine a sporcarsi le mani in una terra inquinata dalle prevaricazioni. Alla sua famiglia va tutto il nostro supporto per ottenere verità e giustizia”. La Procura di Napoli si appresta ad aprire un fascicolo per consentire ad eventuali testimoni di riferire notizie utili. Saranno presi contatti con gli inquirenti colombiani.