In carcere si muore ma la politica non se ne interessa di Riccardo Polidoro* Il Riformista, 17 luglio 2020 Ignorato o comunque dimenticato, il carcere in Italia continua a essere un luogo di morte. La “pena capitale” colpisce i più deboli nel corpo e nella mente. Ad oggi, nel 2020, di cui abbiamo da poco superato la metà, i decessi sono già 82, mentre nel 2019 erano stati in tutto 143 e nel 2018, 148. Se non si arresta questa atroce tendenza, a fine anno supereremo i 160 morti, con una media di una dipartita ogni due giorni circa. Il tragico fine pena dovuto a malattie, nella maggior parte dei casi contratte in detenzione o comunque non curate, rappresenta meglio di ogni altra circostanza - e ce ne sarebbero molte - l’invivibilità della maggior parte degli istituti di pena. La mancanza poi del rispetto della dignità dell’uomo è crudelmente rivelata dal numero dei suicidi che quest’anno sono già 29. Il dato dei suicidi relativo alla Campania è allarmante. Ieri, a Poggioreale, si è tolto la vita un giovane di 39 anni e il giorno prima, a Santa Maria Capua Vetere, si è impiccato un detenuto di 40. Il 30 giugno, ancora a Poggioreale, si era suicidato un altro 39nne e il 10 maggio, sempre a Santa Maria Capua Vetere, un giovane di 28 anni. La catena era iniziata il 27 febbraio a Secondigliano, dove si era ucciso un 38enne ed era continuata ad Aversa con un uomo di 32 anni. Vite spezzate perché abbandonate da chi, invece, avrebbe il dovere di curarle per consentire il loro recupero sociale. Ma lo Stato nelle carceri è assente. Ed è assente per tutti come dimostra anche il numero di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria. Un’assenza storica che ha le sue radici nella voluta ignoranza dei cittadini, disinformati e disinteressati. Una volontà politica che travolge i mass media che del carcere non si occupano e, se lo fanno, inducono a far ritenere che problemi non ce ne sono. La Campania è in piena campagna elettorale e da tempo, sulle pagine dei quotidiani e in tv, vengono affrontati i temi della sanità e della scuola. Il carcere, però, è del tutto assente nonostante la Regione possa fare molto, investendo risorse umane ed economiche e facendo comprendere l’utilità di tali azioni anche ai cittadini liberi che ne avrebbero enormi vantaggi in tema di sicurezza. La “rieducazione” del condannato, prevista dalla nostra Costituzione, è un percorso non solo obbligato, ma soprattutto utile alla comunità intera. I candidati affrontino con coraggio quest’argomento scomodo, facendo finalmente un’operazione culturale tanto innovativa quanto dovuta dal 1948, anno della Costituzione. *Responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane Carcere e diritto alla salute: una guida di Antigone e Legance-Avvocati Associati nelpaese.it, 17 luglio 2020 Legance - Avvocati Associati e l’Associazione Antigone in collaborazione con la Direzione Legal & Compliance di Msd Italia hanno realizzato una “Breve guida all’esercizio del Diritto alla salute in Italia”. La Guida, che verrà distribuita presso le associazioni, gli sportelli legali che operano nelle carceri e attraverso la rete dei Garanti per i diritti dei detenuti, si pone l’obiettivo di offrire un concreto aiuto alle persone straniere che una volta arrivate in Italia si trovino a dover gestire le problematiche amministrativo-legali dell’accesso alle cure, nonché alle persone detenute presso gli istituti penitenziari nazionali o rimesse in libertà, con particolare riferimento alle persone straniere. Si tratta di un valido supporto per sapersi districare in una legislazione complessa, fornendo le informazioni essenziali su diritti, doveri e attività da svolgere ai fini della fruizione dell’assistenza sanitaria pubblica, a seconda della specifica posizione personale. La Costituzione italiana riconosce il diritto alla salute definendolo un diritto fondamentale dell’individuo: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.” (Costituzione - Articolo 32, 1° comma). Sul nostro territorio dunque, la tutela alla salute quale diritto inviolabile viene garantita a tutti gli individui, non solo cittadini italiani e lo Stato si assume il dovere inderogabile di esercitare tale tutela. A tutti devono infatti essere assicurate le cure urgenti, ovvero quelle che non possono essere differite senza pericolo per la vita o danno per la salute della persona, e le cure essenziali, cioè le prestazioni sanitarie relative a patologie non pericolose nell’immediato e nel breve termine ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o rischi per la vita. Tuttavia, benché la normativa miri a garantire il diritto alla salute per tutti, possono esistere barriere all’accesso ai circuiti socio-sanitari di tipo giuridico-legale, comunicativo, interpretativo o burocratico accentuati, in alcuni casi, dalle condizioni socio-economiche della persona: è quindi di estrema importanza fornire un supporto informativo di agevole fruizione per le fasce più vulnerabili della popolazione e per gli operatori che si trovino a interagire con esse sul fronte della tutela della salute. In questa prospettiva, la Guida contiene i riferimenti alle principali disposizioni di livello nazionale, necessarie agli operatori e a coloro che si trovino a interagire con la persona straniera sul fronte della tutela della salute e dell’accesso ai servizi socio-sanitari nonché alla stessa persona immigrata in possesso delle conoscenze linguistiche per consultarla e più in generale, a chiunque desideri approfondire la conoscenza della normativa sanitaria relativa all’assistenza delle persone straniere. “È un progetto di responsabilità sociale - commenta Cecilia Carrara, Partner di Legance - seguito con impegno e passione dal nostro team di professionisti, insieme ad Antigone e Msd Italia: un esempio importante di come si possa fare rete per favorire la cultura della legalità e la conoscenza da parte di tutti dei propri diritti fondamentali in un settore tanto delicato come il diritto alla salute”. “La pandemia di Covid-19 che ha colpito anche il nostro paese - afferma Patrizio Gonnella, presidente di Associazione Antigone - ha reso evidente quanto la tutela della salute pubblica sia un valore di primaria importanza, da tutelare e garantire. Attraverso questa guida vogliamo perciò offrire una serie di strumenti e di indicazioni utili ad uso di cittadini stranieri e di operatori socio-sanitari che si dovessero trovare ad intervenire a tutela di questi cittadini. Diffondere la conoscenza dei diritti fondamentali è un obiettivo di assoluta importanza che con questa guida speriamo di aver agevolato”. “Siamo orgogliosi di aver collaborato alla realizzazione di questo importante progetto - afferma Ida Marotta, Executive Director Legal & Compliance Msd Italia - che frutto di una partnership virtuosa, espressione del nostro modo di operare che da sempre privilegia la rete, il network tra tutti gli attori protagonisti della sfida che ogni giorno affrontiamo per riuscire a garantire più salute alla Persone e alla Società. La nostra Missione è prenderci cura delle Persone: lo facciamo attraverso la nostra ricerca per portare la cura dove c’è la malattia e la prevenzione dove c’è ancora salute, ma lo facciamo anche realizzando tante iniziative di responsabilità sociale, come questa Guida al diritto alla Salute, che possano portare concreti benefici alle singole Persone nonché generare valore presso i nostri principali stakeholder.” Riunione al Dap per la riforma delle modalità custodiali negli istituti di pena di Stefano Turbati fpcgil.it, 17 luglio 2020 Il confronto sul “Nuovo modello custodiale”, aperto dalla riunione con i Sindacati del Comparto Dirigenti e che sarà concluso dall’incontro con le rappresentanze di Polizia Penitenziaria, ha visto ieri rappresentate al tavolo le istanze degli operatori del Comparto Funzioni Centrali. Come Fp Cgil, apprezzando il cambio di passo sul fronte delle relazioni sindacali segnato dal Capo Dipartimento Dott. Petralia (su una materia peraltro finora sottratta al confronto tra le parti), abbiamo inteso sottolineare gli elementi propositivi che caratterizzano il documento elaborato. Elementi di proposta che puntano a mettere a sistema esperienze di buone prassi già diffuse nei penitenziari italiani, che riteniamo non debbano più essere confinate nell’ambito di singoli Progetti d’istituto ma debbano invece essere applicate all’intero sistema detentivo. Elementi inoltre che dovranno essere sostenuti da investimenti che interessino le strutture detentive, l’offerta lavorativa e trattamentale, le intese con le istituzioni locali e della sanità, la formazione degli operatori e - naturalmente - l’incremento di personale. Nel merito delle risorse umane abbiamo rappresentato come i tagli operati alle piante organiche, con particolare riferimento ai Funzionari Giuridico Pedagogici chiamati ad intervenire ognuno su una platea di detenuti spesso in numero superiore alle indicazioni dipartimentali (rapporto di 1 a 70 detenuti nelle reclusioni e di 1 a 100 nelle circondariali), non consenta di dare risposta al mandato istituzionale dell’individualizzazione del trattamento. Declinando la nostra proposta, abbiamo dunque sottolineato quali obiettivi prioritari: • l’ampliamento delle opportunità trattamentali, formative e professionali, anche attraverso il coinvolgimento degli Enti locali nell’ambito della Conferenza stato-regioni • l’incremento dell’offerta sanitaria, con particolare riferimento ai bisogni terapeutici dei soggetti tossicodipendenti e psichiatrici • il rafforzamento della collaborazione con gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna, con particolare riguardo ai programmi di Affidamento in Prova al Servizio Sociale • l’implementazione di un modello trattamentale caratterizzato da: apertura di sezioni ex art. 32 O.P., specializzazione degli istituti, netta distinzione tra circuiti circondariale e di reclusione, offerta trattamentale progressiva Offerta che, partendo da uno step iniziale dove i detenuti accedono per un percorso di prima osservazione, dovrà condurre ad uno step successivo cui possano accedere (previa sottoscrizione di un “Patto trattamentale”) i soli detenuti che abbiano positivamente superato la prima fase. Il passaggio alle sezioni o agli istituti di secondo livello, consentirebbe loro di beneficiare di percorsi a trattamento avanzato, di maggiore frequentazione degli spazi esterni alla camera detentiva, di una vigilanza attenuata in funzione della tipologia di detenuti; con la possibilità tuttavia, per coloro che dovessero venire meno al Patto trattamentale sottoscritto, di vedere interrotto il proprio percorso e di fare ritorno al primo step. Il tavolo di confronto su una materia finora considerata di sola pertinenza del Comparto sicurezza, è divenuto dunque occasione per riflettere anche sui modelli relativi al trattamento ed alla gestione degli istituti. Ed è per questo che come Fp Cgil abbiamo accettato la sfida, presentando una proposta complessiva e identica a tutti i tavoli di confronto quale autentico momento “di sintesi” tra i diversi contributi di ogni comparto e coordinamento. “Le alternative al carcere per i boss penalizzano il sistema antimafia” La Stampa, 17 luglio 2020 L’allarme sollevato dalla relazione semestrale della Dia. “Qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia”. Così la relazione semestrale della Dia, a proposito della crisi legata alla pandemia di Covid-19 e alla scarcerazione dei boss, sottolineando che “l’effetto dell’applicazione di regimi detentivi alternativi a quello carcerario ha indubbi negativi riflessi per una serie di motivazioni. In primo luogo rappresenta senz’altro l’occasione per rinsaldare gli assetti criminali sul territorio, anche attraverso nuovi summit e investiture. Il “contatto” ristabilito può anche portare alla pianificazione di nuove strategie affaristiche (frutto anche di accordi tra soggetti di matrici criminali diverse maturati proprio in carcere) e offrire la possibilità ai capi meno anziani di darsi alla latitanza”, sottolinea la relazione. “Oltre al rischio della latitanza, l’applicazione di regimi alternativi al carcere, riavvicinando i criminali al territorio, può anche favorire faide tra clan rivali, latenti proprio per effetto della detenzione in carcere”, prosegue la relazione, sottolineando come la scarcerazione anticipata può essere “avvertita dalla popolazione delle aree di riferimento come una cartina di tornasole, la riprova di un’incrostazione di secoli, diventata quasi un imprinting: quello secondo cui mentre la sentenza della mafia è certa e definitiva, quella dello Stato può essere provvisoria e a volte effimera”. Inoltre, viene sottolineato, la detenzione domiciliare “contraddice la ratio di quella in carcere, che punta ad interrompere le comunicazioni e i collegamenti tra la persona detenuta e l’associazione mafiosa di appartenenza”. Se il processo penale “muore” nel silenzio dei legislatori di Vincenzo M. Siniscalchi Il Mattino, 17 luglio 2020 Nell’autentico marasma che caratterizza questa fase dell’avvio, annunziato tra grandi perplessità, ad una nuova dichiarazione dello stato di emergenza (peraltro messa in discussione nella sua fondatezza costituzionale dalle lucide osservazioni di Sabino Cassese) può apparire inutile occuparsi di giustizia e, in particolare di giustizia penale. Eppure una riflessione seria avvertiamo il dovere di proporla, se non altro per infrangere il muro del silenzio che è stato innalzato intorno alle condizioni in cui versa il processo penale in Italia. La situazione è allarmante, imbarazzo provoca il silenzio assordante dei legislatori” di ogni tipo, da quelli di riferimento governativo a quelli che, per definizione costituzionale, sarebbero titolari del potere di intervento nelle questioni della Giustizia (il Ministro), le assemblee parlamentari che appaiono sempre più opache. Nel silenzio più assoluto è piombato, purtroppo, il momento critico che vive il processo penale in Italia costretto ad una sostanziale inerzia che è sotto gli occhi dì tutti. Nel rispetto della verità possiamo dire che il processo penale lentamente si appiattisce su sé stesso e non riesce ad esercitare il ruolo primario che è chiamato ad esprimere nell’ordinamento repubblicano. Pareva che l’esperienza pandemica potesse portare, tutto sommato, ad una svolta semplificatrice con le procedure “a distanza” tese paradossalmente a riscattarci dal collasso pur denunziato in numerosi richiami molto rilevanti come quelli formulati dai vertici della Cassazione, da presidenti di Corti di Appello, da procuratori generali, in occasione delle meste cerimonie inaugurali dell’Anno Giudiziario nel gennaio di quest’anno. Tutti i vertici della Magistratura avevano fatto menzione delle condanne riportate dall’Italia in sede europea proprio per la inarrestabile crisi del “processo celere e giusto”. A questi richiami ha fatto eco la presa di posizione dei più autorevoli studiosi della giurisdizione penale (tra i molti Ennio Amodio, Glauco Giostra, Giovanni Fiandaca). Si riteneva che il Legislatore delle “semplificazioni” potesse fare qualcosa per snellire così tanti inutili ingranaggi fissando, ove possibile, processi di accelerazione del rito. Si pensava potesse essere varato qualche provvedimento di modifica, ad esempio, sulla trasformazione di alcuni termini da meramente ordinatori in perentori per contenere i tempi delle stasi processuali a fronte della dimostrata impossibilità di rispettare i termini di svolgimento delle indagini preliminari come codificati. Tentiamo di verificare quelli che sono i momenti di più evidente “inerzia” del processo penale. Senza entrare nel dettaglio tecnico ma per dare conto, sia pure in sintesi, ai lettori di questo amaro trionfo della sclerosi processuale come appare negli studi statistici ma anche nelle esperienze mortificanti di chi incappa nella rete di ritardi, di rinvii, di blocchi temporali lunghissimi dell’attività giurisdizionale penale. Tre sono le fasi principali dello svolgimento del processo che registrano il prodursi delle maggiori lungaggini o anche degli arresti prolungati dell’iter processuale. Un primo momento va individuato nel dilatarsi della fase delle indagini oltre ogni ragionevole durata; questi tempi, regolati per legge, obbediscono a termini che nella maggior parte dei casi, soprattutto nei processi per reati contro la pubblica amministrazione e contro l’economia, fanno registrare il ricorso continuo a proroghe motivate con il generico richiamo alla necessità del completamento delle indagini. Questa necessità viene prospettata al pm inquirente quasi sempre dalla polizia giudiziaria delegata proprio per potere continuare le indagini nella forma, ad esempio, delle intercettazioni a stralcio. La dilatazione di questi termini privi di effettiva perentorietà e affidati a motivazioni convenzionali, che raramente vengono opposte innanzi al Giudice per le indagini preliminari si risolve in pratica nell’automatismo della decisione, sul punto, del giudice delle indagini preliminari che abdica alla verifica della correttezza della richiesta di proroga. Il gip è chiamato dalla legge a motivare, proprio nella sua funzione di terzietà, sulle ragioni dell’accoglimento o del rigetto delle richieste di proroga ma tutto rimane nel vago e nell’astratto. Per il dibattimento, che è il cuore del processo penale, la dilatazione irragionevole dei tempi incontra altre motivazioni francamente ancor più inaccettabili che danno luogo a rinvii lunghi delle udienze per “inciampi” in difficoltà di notifiche, o comunque in una rincorsa sovente incomprensibile alla verifica di mere irregolarità formali. Non è rara, inoltre, la difficoltà di mantenere la continuità dei collegi giudicanti attraversati da lunghe fasi statiche dovute al cambio ad esempio di un componente del collegio che è chiamato “fuori ruolo” con conseguente necessità di ripercorrere buona parte del percorso dibattimentale. Quest’ultimo problema è anche presente nei collegi di Corte di Appello che affannano nella ricerca, pur comprensibile, di spazi temporali idonei a giustificare una più sicura composizione dei collegi medesimi senza l’incubo di un improvviso prospettarsi di difficoltà emergenti per il completamento del lavoro collegiale. Ecco, in questi scarni richiami, la esemplificazione di alcune cause di ritardo patologico per la trattazione del processo penale, nelle tre fasi processuali, fenomeni che potrebbero essere contenuti con qualche semplice intervento di natura organizzativa endo-processuale. Il ministro della Giustizia aveva proposto, a base di una ventilata riforma del processo penale, la fissazione di tempi più brevi e non suscettibili di dilatazione sul tema della durata delle indagini preliminari e del dibattimento prospettando anche un esito disciplinare a carico dei magistrati non osservanti dei tempi prescritti. Inaccettabile il riferimento ad una responsabilità disciplinare. Sarebbe assurdo! Se i tempi si dilatano per mancanza di disposizioni tassative che questa dilatazione potrebbero impedire perché chiamare in causa il lavoro dei magistrati e non perfezionare, ad esempio, il carattere puramente simbolico delle proroghe che il pm chiede e che il gip pedissequamente accorda? E tempo, dunque, di porre mano ad una risistemazione dei termini e delle modalità di mantenimento della composizione dei collegi giudicanti senza dover fare ricorso a soluzioni di compromesso che non aiutano lo sviluppo della trattazione dei procedimenti. È tempo, cioè, di interventi pragmatici, organizzativi, semplificativi sul processo penale tesi a recuperare dalle pratiche di dispersione dei tempi e delle risorse umane, contributi utili ad accelerare finalmente i processi nel rispetto della Costituzione e delle decisioni della Corte Europea. Giustizia penale, non scorciatoie ma saggio recupero dei capisaldi di Daniele Negri* La Stampa, 17 luglio 2020 Ruolo straripante dei magistrati, emarginazione degli studiosi e cortocircuito del sistema. Dei problemi della giustizia penale si sta occupando chiunque tranne coloro che vi dedicano l’impegno della ricerca scientifica. Il caso dei magistrati è clamoroso. Sotto ogni maggioranza parlamentare hanno conquistato i vertici dei dicasteri, degli uffici legislativi e delle commissioni ministeriali di riforma dell’ordinamento penale. Costanti le apparizioni sui media. Magistrati ovunque, insomma, con la giustificazione delle elevate capacità professionali e dell’importanza sociale del ruolo. Gli studiosi universitari sono stati emarginati con uno slogan suggestivo: sono soltanto dei teorici che non conoscono la fatica dell’indagare e del sentenziare; i loro insegnamenti vengono dimenticati perché inadatti ad affrontare la realtà. Il contributo degli avvocati è a sua volta disprezzato poiché “inquinato” dagli interessi di clienti magari malfamati. Il magistrato coniuga invece molteplici qualità: la competenza del giurista, la dimestichezza con la pratica giudiziaria, la purezza derivante dallo status. Viene tuttavia il momento di rendere il conto del proprio operato. Che l’ora fatale sia giunta è dimostrato dalle vicende riguardanti la magistratura associata al centro in questi mesi delle cronache. Quanti e quali benefici ha tratto l’organizzazione della giustizia penale da decenni di supremazia della magistratura? Con ogni evidenza, nessuno. Non si scorge l’ombra del processo giusto e di durata ragionevole, voluto dalla Carta costituzionale. Predomina piuttosto il rumore assordante delle indagini infinite, lo sferragliare della lotta alla criminalità nella quale il giudice è immischiato al pari del pubblico ministero, perdendo l’imparzialità. Il dramma è che la vantata esperienza nel condurre inchieste e processi spinosi si risolve spesso nella elusione delle regole prescritte dalla legge e nell’aperta sconfessione dei princìpi costituzionali. Il codice di rito è stato deturpato da modifiche che l’hanno reso illeggibile, moltiplicando le eccezioni legate all’accertamento dei delitti di criminalità organizzata, e neutralizzato da interpretazioni giurisprudenziali orientate al massimo risultato per le istanze punitive. Ma non è bastato. Non sapendo come giustificare il fallimento, alcuni pensano di convincere il popolo cresciuto leggendo “I Promessi sposi”, anziché la “Storia della colonna infame”: gli avvocati cavillano come l’azzeccagarbugli del romanzo; profittano dell’eccesso di garanzie che ingolfa il sistema; trovano nelle norme, scritte da astuti delinquenti camuffati da legislatori, vie oblique per guadagnare l’impunità ai loro assistiti. Possibile che in tanti anni al servizio delle istituzioni i magistrati non siano riusciti a cambiare le cose? Qualche ostacolo deve avere di certo impedito di completare l’opera intrapresa: sbarazzarsi di un codice di procedura penale - questo pensano in molti - concepito a vantaggio dei colpevoli, così da impersonare essi stessi la regola. Parte della magistratura ha contribuito a diffondere parole d’ordine velenose. Qualcuno si è addirittura specializzato in un genere prossimo all’avanspettacolo, ripetendo battute penose: l’argenteria trovata nelle tasche dell’ospite dal vicino di casa, che l’aveva invitato a cena, è circostanza sufficiente a bandire il colpevole dal consorzio civile. Mentre la presunzione di innocenza, scolpita nella Costituzione, esige un accertamento della responsabilità penale che verifichi nel contraddittorio il punto di vista del testimone, fosse pure la polizia che procede all’arresto in flagranza di reato, scongiurando l’errore e smascherando la menzogna. Concetti elementari che sono andati smarriti. Così un alto magistrato può mettere da parte con disdegno le questioni giuridiche e proclamare che, della scarcerazione degli imputati, importa “come la leggono i cittadini”; anziché spiegare con pazienza che la Costituzione pretende termini massimi di durata della custodia in carcere prima della condanna. Il ragionamento è infatti complesso e non va tralasciato. L’inosservanza delle regole da parte dei pubblici ministeri, spesso tollerata dai giudici di merito, ha un costo elevato per il sistema. Gli studenti del corso di procedura penale sapevano da anni - ad esempio - che la contestazione dell’aggravante mafiosa alle consorterie romane era mossa arrischiata, con formidabili effetti immediati per l’accusa, ma di improbabile conferma all’esito del processo. Così come sanno che l’ostinazione a trattenere presso un determinato ufficio procedimenti penali destinati ad altro giudice, violando le norme sulla competenza, porterà all’annullamento in Cassazione, con inutile perdita di tempo. Sbaglierebbe chi pensasse che a questi fenomeni siano estranei l’assetto della magistratura, il rapporto tra giudici e pubblici ministeri, la formazione dei magistrati e la guida delle riforme della giustizia penale. Come uscirne? Il discorso è a sua volta complicato, ma ha un presupposto irrinunciabile. Occorre lasciarsi alle spalle le scorciatoie tentate in questi anni, all’insegna di un’efficienza della giustizia perseguita senza il sostegno del pensiero scientifico. Il rispetto dei vincoli costituzionali e la cogenza delle norme previste dal codice di procedura penale - quello lineare e uniforme delle origini - sono i due capisaldi dai quali ripartire, poiché entrambi esprimono valori non improvvisati o in balia delle correnti. *Ordinario di Diritto processuale penale e direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara La relazione Dia sulle mafie: “Dopo il Covid rischio boom per gli affari dei clan” Il Riformista, 17 luglio 2020 “L’aspetto della paralisi economica” collegata alla pandemia del coronavirus “può aprire alle mafie prospettive di espansione e arricchimento paragonabili ai ritmi di crescita che può offrire solo un contesto post-bellico”. Lo afferma la relazione semestrale della Dia (Direzione investigativa antimafia), relativa al secondo semestre del 2019, prevedendo “un doppio scenario. Un primo di breve periodo, in cui le organizzazioni mafiose tenderanno a consolidare sul territorio, specie nelle aree del Sud, il proprio consenso sociale, attraverso forme di assistenzialismo da capitalizzare nelle future competizioni elettorali. Un supporto che passerà anche attraverso l’elargizione di prestiti di denaro a titolari di attività commerciali di piccole-medie dimensioni, ossia a quel reticolo sociale e commerciale su cui si regge l’economia di molti centri urbani, con la prospettiva di fagocitare le imprese più deboli, facendole diventare strumento per riciclare e reimpiegare capitali illeciti”. “Un secondo scenario - prosegue la relazione - questa volta di medio-lungo periodo, in cui le mafie - specie la ‘ndrangheta - vorranno ancor più stressare il loro ruolo di player, affidabili ed efficaci anche su scala globale. L’economia internazionale avrà bisogno di liquidità ed in questo le cosche andranno a confrontarsi con i mercati, bisognosi di consistenti iniezioni finanziarie”. Un capitolo della relazione è dedicato anche a una polemica recente, quella della scarcerazione dei boss condannati per mafia durante la crisi legata alla pandemia di Covid-19. “Qualsiasi misura di esecuzione della pena alternativa al carcere per i mafiosi rappresenta un vulnus al sistema antimafia”, ricorda la relazione della Dia, sottolineante che “l’effetto dell’applicazione di regimi detentivi alternativi a quello carcerario ha indubbi negativi riflessi per una serie di motivazioni. In primo luogo rappresenta senz’altro l’occasione per rinsaldare gli assetti criminali sul territorio, anche attraverso nuovi summit e investiture. Il ‘contatto’ ristabilito può anche portare alla pianificazione di nuove strategie affaristiche (frutto anche di accordi tra soggetti di matrici criminali diverse maturati proprio in carcere) e offrire la possibilità ai capi meno anziani di darsi alla latitanza”, sottolinea la relazione. “Oltre al rischio della latitanza, l’applicazione di regimi alternativi al carcere, riavvicinando i criminali al territorio, può anche favorire faide tra clan rivali, latenti proprio per effetto della detenzione in carcere”, prosegue la relazione, sottolineando come la scarcerazione anticipata può essere “avvertita dalla popolazione delle aree di riferimento come una cartina di tornasole, la riprova di un’incrostazione di secoli, diventata quasi un imprinting: quello secondo cui mentre la sentenza della mafia è certa e definitiva, quella dello Stato può essere provvisoria e a volte effimera”. Inoltre, viene sottolineato, la detenzione domiciliare “contraddice la ratio di quella in carcere, che punta ad interrompere le comunicazioni e i collegamenti tra la persona detenuta e l’associazione mafiosa di appartenenza”. La relazione quindi fa un focus sugli investimenti criminali, evidenziando come nel ‘panierè il gioco rappresenta “uno strumento formidabile, prestandosi agevolmente al riciclaggio e garantendo alta redditività: dopo i traffici di stupefacenti è probabilmente il settore che assicura il più elevato ‘ritorno’ dell’investimento iniziale, a fronte di una minore esposizione al rischio”. Nel rapporto si legge che si è assistito “alla progressiva limitazione dell’uso della violenza nell’ambito di questo settore, sostituita da proficue relazioni di scambio e di collusione finalizzate a infiltrare economicamente e in maniera silente il territorio”. La relazione sottolinea la presenza di “meccanismi sofisticati” che coinvolgono Paesi esteri e la necessità conseguente del “contributo di figure professionali specializzate”, nonché i “rapporti di alleanza funzionale tra consorterie appartenenti a matrici mafiose diverse”. “Sono, infatti, sempre più frequenti i casi in cui le organizzazioni, anche al di fuori dalle regioni di origine, per massimizzare i profitti gestiscono gli affari connessi al gioco stringendo veri e propri patti criminali. Se da un lato la Camorra è quella con un interesse storicamente più risalente, la ‘ndrangheta ha certamente ‘recuperato terreno’ negli ultimi anni”, afferma la relazione, aggiungendo che “il gioco crea un reticolo di controllo del territorio, senza destare allarme sociale”, consentendo un “parallelismo con gli stupefacenti”. Inoltre, “se l’infiltrazione nel gaming on line appartiene trasversalmente a tutte le organizzazioni - che non a caso si sono ‘consorziatè in più occasioni per fare affari - quella nel settore delle corse ippiche sembra appannaggio prevalentemente di Cosa nostra”. Altro record segnalato nella relazione Dia è che vi sono “oltre 50 enti in gestione commissariale per infiltrazioni mafiose: il numero in assoluto più rilevante dal 1991, anno di introduzione della norma sullo scioglimento per mafia degli enti locali”. La Direzione investigativa antimafia definisce “inquietante” il fatto che, “sul totale, ben 16 enti sono stati sciolti più volte, alcuni addirittura tre volte. Di questi, ben 11 sono in Calabria”, “la Campania ne conta 3?, la Puglia e la Sicilia ne contano uno ciascuna”. “È il chiaro segnale di una continuità nell’azione di condizionamento delle organizzazioni mafiose, in grado di perpetuarsi per decenni e a prescindere dal posizionamento politico dei candidati”, sottolinea la relazione. “Una sottile linea rossa mafiosa che, fornendo un sostegno bipartisan nel corso delle elezioni amministrative, ha permesso all’organizzazione di rigenerarsi e di perpetuarsi. Un do ut des, che se da un lato fornisce voti o utilità all’amministratore corrotto, dall’altro ha ritorni di varia natura”, prosegue il testo. Palamara e Cantone, scontro in udienza sulle intercettazioni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 luglio 2020 La difesa: illegittime. Il neo-procuratore di Perugia Raffaele Cantone contrario a rinvii: tutto regolare, possono essere utilizzate. Caduta per Palamara l’accusa sui soldi. La prima mossa del neo procuratore di Perugia Raffaele Cantone nel “caso Palamara” è contro il rinvio dell’udienza-stralcio per decidere quali intercettazioni utilizzare nel processo e quali no. Il magistrato indagato per corruzione voleva prendere tempo in attesa di ciò che sarà deciso, sullo stesso argomento, nel procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura, ma Cantone è intervenuto davanti al giudice dell’indagine preliminare per spiegare che l’inchiesta penale non può frenare davanti a quella amministrativa. E il gip gli ha dato ragione: “La richiesta di rinvio non può trovare accoglimento”, ha stabilito al termine dell’udienza di ieri; né “si ravvisa la necessità” di concedere altro tempo a Palamara e ai suoi difensori per ascoltare i files delle registrazioni “secondarie” o “non rilevanti”, così definiti dalla ditta che ha realizzato le intercettazioni tramite il trojan inoculato nel telefono dell’ex pm romano. Il contenzioso sulle registrazioni - “Sembra emergere chiaramente”, sostiene il gip dopo aver acquisito le spiegazioni della ditta, che si tratta di files “privi di contenuto o che si identificano in messaggi contenenti informazioni di carattere tecnico (collegamento alla rete, tipologia di rete utilizzata per la connessione, ecc.)” che nulla hanno a che vedere con l’indagine. Nessuna registrazione occultata, quindi. Il procedimento può andare avanti e l’udienza sulle intercettazioni da trascrivere è stata aggiornata al prossimo 30 luglio. In queste due settimane, se lo vorranno, Palamara e i suoi avvocati potranno ascoltare anche i files “privi di contenuto” e fare ulteriori istanze. I dialoghi con Ferri e Lotti - Si tratta di questioni tecnico-giuridiche apparentemente secondarie che in realtà ne nascondono una molto importante: l’utilizzabilità delle intercettazioni in cui Palamara parla con i deputati Cosimo Ferri (giudice in aspettativa, anche lui sotto procedimento disciplinare) e Luca Lotti, protetti dall’immunità parlamentare: sono intercettazioni “casuali”, quindi utilizzabili contro chi non gode di alcuna immunità (Palamara), oppure dal contenuto delle altre telefonate era prevedibile che il magistrato indagato avrebbe incontrato i deputati, e dunque il microfono nascosto nel suo cellulare andava staccato, secondo le disposizioni impartite dai pm di Perugia agli investigatori della Guardia di finanza? In sostanza: quelle intercettazioni furono legittime o “in violazione della Costituzione”, come ribadito ieri da uno dei difensori di Palamara, l’avvocato Benedetto Buratti? Il trojan e le intercettazioni “casuali” - Anche su questo punto, sottoscrivendo la memoria trasmessa al gip, il neo-procuratore Cantone ha dato la sua risposta schierandosi al fianco e a sostegno del lavoro svolto dai sostituti procuratori Gemma Milano e Mario Formisano, prima del suo arrivo: nessuna violazione delle regole, e tantomeno della Costituzione. Le intercettazioni degli incontri con Ferri e Lotti furono “casuali”, non programmate né programmabili secondo il funzionamento del trojan. Ne consegue che quei colloqui registrati - a cominciare dalla famosa riunione notturna dell’hotel Champagne, tra l’8 e il 9 maggio 2019, nella quale si pianificavano le strategie per le nomina del procuratore di Roma e altre questioni - sono pienamente utilizzabili, sebbene non sia lì la prova della corruzione contestata all’ex componente del Csm; quell’incontro è un dettaglio che serve a comprendere come si muoveva Palamara, e ciò su cui poteva incidere: la “messa disposizione della funzione” in favore dell’imprenditore Fabrizio Centofanti è dimostrata - secondo i pm - dai viaggi pagati e altri indizi raccolti. Caduta l’accusa di aver intascato soldi - Per Luca Palamara, invece, i viaggi sembrano essere il problema minore; lui, già soddisfatto perché è caduta l’accusa di aver intascato 40.000 euro per pilotare una nomina, è convinto di poter dimostrare di non aver mai fatto nulla che non fosse la “semplice” spartizione di poltrone e promozioni. Ma intanto, in attesa della richiesta di rinvio a giudizio e dell’udienza per decidere l’eventuale processo, la battaglia legale appena cominciata è sulle intercettazioni da utilizzare. Caso Palamara e riforma del Csm: voglia di vendetta più che di giustizia di Paolo Maninchedda ilsussidiario.net, 17 luglio 2020 Si vuole l’esecuzione politica di Palamara, orchestrata dal Csm, per lasciare tutto com’è. Ci vorrebbe invece una commissione di inchiesta. Quando Craxi definì Mario Chiesa un “mariuolo” commise uno degli errori politici - e umani - più gravi della sua storia. Chi ritiene oggi di amnistiare la magistratura italiana condannando il solo Palamara percorre lo stesso sentiero, con maggiori rischi. Chiesa infatti terremotò la Repubblica pur essendo solo un ufficiale del sistema politico milanese; Palamara è un generale dell’apparato italico. La sua fustigazione e decapitazione pubblica può avvenire senza danni per l’ordine cui lui stesso appartiene, solo costringendolo al silenzio o attenuandone la voce fino a flebile suono. La potente e novella mordacchia è l’imminente processo, dei custodi sul custode, dinanzi alla sezione disciplinare del Csm; l’efficace trasparenza, invece, sarebbe la pubblica azione di una commissione parlamentare di inchiesta. Quel che resta della grande costruzione ideologica che si chiama Italia, dinanzi a questo possibile bivio dovrebbe chiedersi di che cosa abbia realmente bisogno: di un’esecuzione o di una profonda comprensione? Mani Pulite cercò la punizione delle colpe prima che l’intelligenza degli eventi. E infatti le cose continuarono ad andare come prima, con la sola imprevista sostituzione degli attori giustiziati con interpreti diversi da quelli vaticinati. Oggi, si vorrebbe fare la riforma del Csm prima di aver capito, di aver scavato, di aver illuminato. Si vuol far vendetta piuttosto che giustizia. Oggi si vorrebbe chiudere la falla di verità che si è aperta con le 99mila pagine del dossier Palamara, espellendo dalla magistratura il suo ex leader, riducendo allo stato laicale una dozzina di magistrati e trasferendone altrettanti. Il correntismo, il gruppettarismo della magistratura, la sua specifica politicizzazione sono solo alcune parti del problema ed è proprio sulle altre che si vuol stendere un velo omertoso. Non si vuole far luce sul potere e sugli errori della polizia giudiziaria. Non si vuole dire che troppo spesso il magistrato, preoccupato di far procedere la sua tabella, prende per buono anche l’inverosimile presente nei rapporti della Pg, semplicemente perché non li legge e analizza con cura. Non si vuole far luce sull’abuso dell’imputazione di “associazione a delinquere” per poter spiare senza garanzie gli indagati; non si vuole far luce sull’abitudine impunita di inviare gli avvisi di garanzia non quando realmente si inizia a indagare, o dopo i primi tre mesi, ma in occasione degli arresti o del “fine indagini”. Non si vuole indagare sul mercimonio degli encomi nelle forze dell’ordine, con profluvio tanto più abbondante quanto più clamorosi sono gli arresti. Non si vuole far luce sull’arcaico segreto di polizia. Non si vuole far luce sulla pessima abitudine di iscrivere le persone al registro degli indagati e poi non archiviare, in mancanza di prove, ma lasciare i dossier sulle sedie ad aspettare che prima o poi l’interessato commetta un passo falso, per ricongiungere il tutto e giustificare il dispendio di risorse realizzato e mascherare la persecuzione attuata come una nobilissima e annosa indagine. Le probabilità, dunque, di una vera stagione di riforme sono proporzionali al grado di trasparenza e di discussione che si raggiungerà sulle carte di Palamara. Per capire e svelare si dovrebbe essere disposti a giungere con lui ad un accordo quale quelli che si sono stipulati con i collaboratori di giustizia: garanzie sul futuro personale in cambio di dettagliate e circostanziate testimonianze. Invece, come al solito, è iniziata la trattativa con i media e con i loro azionisti per oscurare o depotenziare le sue parole e le sue ragioni, in modo da limitare i danni. In cambio di questo depistaggio storico e civico, si offrono circoscritte riabilitazioni, parziali attenuazioni, limitati riassetti di potere. È una sorta di piccola strategia giubilare: liberare due o tre prigionieri, punire un boia e far dimenticare per un giorno il volto feroce del tiranno e il sangue delle sue vittime, rivolante e raggrumato nelle diverse regioni d’Italia. Ecco, fermiamoci qui, per adesso, con una certezza: se i tecnici delle luci metteranno al buio il teatro, che siamo noi, al riaccendersi delle lampadine mercenarie troveremo il teatro (cioè lo Stato) tale e quale, Palamara smembrato e un bello spettacolo di varietà sul palcoscenico, o una partita di Champions, per l’oblio. Siamo tutti legittimati a divenire elettricisti per la libertà delle generazioni che verranno. Palamara al Csm: no alle ombre, spazio alla verità di Alberto Cisterna Il Riformista, 17 luglio 2020 Ritenere correi tutti i 133 testi chiamati dall’ex leader Anm è il modo migliore per affossare la difesa dell’incolpato: se le toghe scappassero dal processo darebbero un segnale terribile. La scorciatoia è facile e c’è chi, reso scomposto dall’imbarazzo, l’ha già percorsa con qualche interessata sortita giornalistica. Alimentare il timore che la lunga lista di testimoni (133), predisposta dal dottor Palamara in vista del processo disciplinare, sia il prologo di una gigantesca chiamata in correità, è il modo migliore per tentare di affossare del tutto la difesa dell’incolpato e ridurla in cenere in quattro e quattr’otto. Una bella pietra tombale sullo scabroso affaire su cui scolpire un epitaffio adeguato al caso, ad esempio “L’uomo che volle farsi re” (John Huston, 1975). Quale modo migliore per coalizzare in massa contro l’ex-presidente dell’Anm le principali istituzioni del Paese, i politici più avvezzi alle interlocuzioni con le toghe, i titolari dei più importanti uffici di procura (come si diceva, di giudici se ne vedono pochini in questa sciarada di carriere) che far credere loro di essere chiamati a rispondere di chissà quali malefatte commesse sulle note del reprobo pifferaio magico delle correnti. È certo una possibilità e, per qualcuno dei menzionati nella lista, forse anche un rischio effettivo. Ed è pure la tesi di persone sicuramente perbene ed esenti da qualunque interesse a celare la verità. Peppino Caldarola, già direttore de L’Unità, ha scritto di recente: “La vicenda Palamara è inquietante. L’elenco dei “famosi” che lui chiama in soccorso, o per complicità, sembra descrivere un’associazione che, se fosse stata di destra, avremmo chiamato con l’ennesimo numero accanto alla sigla P2”. È un giudizio che non si può condividere sino in fondo, perché tra quei nomi si scorgono quelli anche di vittime eccellenti del sistema spartitorio che hanno pagato la loro estraneità a quella razza padrona con torti e ingiustizie di vario genere. Per tentare una lettura un po’ più elaborata di quella lista occorre partire da una premessa, forse didascalica e noiosa, ma inevitabile: ossia che si tratta di un atto processuale. Nel processo penale, sulle cui movenze è regolato quello disciplinare, la lista dei testimoni a discarico è il principale atto della difesa. È il cuore della strategia difensiva. Il nocciolo duro e lo snodo di ogni possibilità di assoluzione. Su quei, in genere pochi, fogli di carta, spesso, si perde e si vince. Non serve, la lista, a consumare vendette o a mandare segnali, mira piuttosto a vincere seguendo un percorso, impostando la confutazione dell’incolpazione e delle prove portate dell’accusa. Da questo punto di vista la mescolanza di carnefici e vittime del sistema spartitorio che il dottor Palamara vorrebbe squadernare innanzi alla Disciplinare pone una scelta drammatica per chi dovrà decidere: o si chiude la bocca all’incolpato non ascoltando neppure un testimone oppure diviene difficile setacciare tra nome e nome senza dare l’impressione che si voglia mantenere taluno esente da imbarazzi e scaraventare altri sul proscenio di un processo che sarà sotto gli occhi di tutti i media. Una sorta di vittimizzazione secondaria, così la chiamano gli esperti, difficile da digerire. Non solo l’ingiustizia patita, ma anche la probabile gogna della testimonianza pubblica con tutte le sue asperità e i suoi trabocchetti. Un danno d’immagine non trascurabile. Due opzioni di cui la difesa del dottor Palamara avrà ben calcolato gli effetti: nel primo caso sa l’incolpato che sarà difficile pronunciare una sentenza di condanna che sia esente da censure da portare subito dopo innanzi alla Cassazione o alla giustizia europea per la compressione del diritto di difesa; nel secondo caso si sfrutterà il vantaggio di assumere la testimonianza di chi ha subito un torto per evocare la responsabilità dei correi assenti. Un vero e proprio processo contumaciale in danno di persone che, comunque, non avranno potuto esporre il proprio punto di vista o fornire la propria versione dei fatti. Un vero incubo processuale che interpella la moralità e la professionalità dei giudici disciplinari al livello più alto, poiché certamente nessuno vorrà macchiarsi dell’accusa di aver celebrato un processo sommario, ma neanche qualcuno vorrà portare il fardello di una Norimberga delle toghe dai tempi imprevedibili e dagli esiti incalcolabili. L’accelerazione che la vicenda ha subito dopo la seconda - meno selettiva e interessata della prima - pubblicazione di chat lascia presagire un epilogo ravvicinato e rapido della vicenda. Ma nulla è scontato. Al di là dei proclami al rinnovamento morale, alla palingenesi etica, al soprassalto deontologico (roba sostanzialmente inutile in un corpo lacero e infetto che attende cure da cavallo), il processo è la sede insostituibile e irrinunciabile per l’accertamento dei fatti da cui muovere per la conseguente riforma della magistratura italiana. Sarebbe una iattura terribile se proprio le toghe mandassero alla pubblica opinione anche solo un segnale di preoccupazione o, peggio ancora, di paura verso il processo Palamara. Tra i testimoni si scorgono nomi di toghe che attraversano in lungo e in largo la penisola incitando i cittadini alla collaborazione con la giustizia, a testimoniare, a denunciare. Sarebbe curioso che, ora, chiamati al dovere di dire la verità assumessero atteggiamenti scomposti e riottosi, al limite dell’omertà. Già l’Anm - con ragioni formalmente corrette, ma rimaste poco comprensibili ai cittadini - ha negato al proprio ex-presidente di discolparsi prima di essere espulso. Ora il Csm è vocato a una scelta complessa e per giunta nell’esercizio della sua funzione più alta, quella giurisdizionale visto che, si badi bene, le sentenze disciplinari sono pronunciate, tutte, in nome del Popolo italiano. E a quel popolo ogni decisione dovrà apparire, come sempre, legittima, equa, imparziale, priva di condizionamenti, presa nel solo interesse della verità. Si può lasciare l’incolpato a briglie sciolte, dandogli modo di spargere sale sulle ferite vive della corporazione e, così, di attentare alla carriera di teste coronate o alla memoria di ex satrapi. Un rischio effettivamente incombente e non solo ipotetico. Oppure si può arginarne la frenesia locutoria fi no ai limiti della paralisi con il rischio di spingerlo al gesto eclatante di rinunciare a ogni testimonianza in nome di una verità che - si direbbe troppo facilmente - si vuole oscurare per tenebrose connivenze. Nella solitudine della decisione ogni organo di giustizia è chiamato a operare scelte che siano rispettose della Costituzione secondo cui “la giustizia è amministrata in nome del popolo” (articolo 101) e di nessun altro interesse o soggetto. Nel farlo si dovrà evitare che vadano alla gogna persone che non possono difendersi o che testimoni siano costretti a deporre contra se (in spregio del divieto di porre domande autoincriminanti, art. 198, comma 2, c.p.p.), ma sarebbe tragico se la verità, ogni verità, bussasse invano al portone di palazzo dei Marescialli. Vittime di violenza, ristoro “adeguato” dallo Stato anche ai propri cittadini di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2020 Corte di giustizia dell’Unione europea - Grande Sezione - Sentenza 16 luglio 2020 - Causa C-129/19. Gli Stati membri devono riconoscere un indennizzo a tutte le vittime di reati intenzionali violenti, anche a quelle residenti nel territorio degli Stati stessi. L’indennizzo non deve necessariamente corrispondere al ristoro integrale dei danni, ma il suo importo non può essere puramente simbolico. Così si esprime la Grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza Presidenza del Consiglio dei Ministri (C 129/19), pronunciata oggi, dichiarando, che scatta il regime della responsabilità extracontrattuale dello Stato membro per il danno causato dalla mancata trasposizione in tempo utile della direttiva 2004/80 nei confronti di vittime residenti in detto Stato membro. Inoltre, la Corte ha statuito che la previsione nazionale di un indennizzo forfettario alle vittime di reati intenzionali violenti, concesso in caso di stupro, non può ritenersi “equo ed adeguato” se fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze non rappresentando quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito. La vicenda a quo - Una cittadina italiana residente in Italia, è stata vittima di violenza sessuale commessa nel territorio di tale Stato membro nel 2005. La somma di 50.000 euro che gli autori della violenza erano stati condannati a pagarle a titolo di risarcimento danni non le è stata però versata in quanto essi si sono resi latitanti. Nel febbraio del 2009, la donna ha citato in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, per ottenere il risarcimento del danno che essa affermava di avere subito in conseguenza della mancata trasposizione, in tempo utile, da parte dell’Italia, della direttiva 2004/80. Nel corso di tale procedimento, la Presidenza del Consiglio dei Ministri è stata condannata in primo grado a versare alla vittima della violenza sessuale la somma di 90.000 euro, ridotta in appello a 50mila. Il rinvio pregiudiziale - Chiamato a pronunciarsi su un ricorso per cassazione proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il giudice del rinvio si interrogava, da un lato, sulla possibile applicazione del regime della responsabilità extracontrattuale di uno Stato membro a causa della trasposizione tardiva della direttiva 2004/80, nei confronti di vittime di reati intenzionali violenti che non si trovino in una situazione transfrontaliera. Dall’altro, tale giudice nutriva un dubbio in ordine al carattere “equo ed adeguato”, ai sensi della direttiva 2004/80, della somma forfettaria di 4.800 euro prevista dalla normativa italiana per l’indennizzo delle vittime di violenza sessuale. Responsabilità extracontrattuale per il ritardo statale - Per quanto riguarda la prima questione, la Corte ha anzitutto ricordato le condizioni che consentono di accertare la responsabilità degli Stati membri per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell’Unione, ossia l’esistenza di una norma di diritto dell’Unione violata preordinata a conferire diritti ai singoli; una violazione sufficientemente qualificata di tale norma e un nesso di causalità tra tale violazione e il danno subito dai singoli. Nel caso di specie, tenuto conto del tenore letterale della direttiva 2004/80, del suo contesto e dei suoi scopi, la Corte ha segnatamente rilevato che, con tale disposizione, il legislatore dell’Unione aveva optato non per l’istituzione, da parte di ciascuno Stato membro, di un sistema di indennizzo specifico, limitato soltanto alle vittime di reati internazionali violenti che si trovano in una situazione transfrontaliera, bensì per l’applicazione, a favore di tali vittime, dei sistemi di indennizzo nazionali delle vittime dei predetti reati commessi nei rispettivi territori degli Stati membri. In esito alla sua analisi, essa ha considerato che la direttiva 2004/80 impone a ogni Stato membro l’obbligo di dotarsi di un sistema di indennizzo che ricomprenda tutte le vittime di reati intenzionali violenti commessi nel proprio territorio, e non soltanto le vittime che si trovano in una situazione transfrontaliera. Dalle considerazioni che precedono, la Corte ha dedotto che la direttiva 2004/80 conferisce il diritto di ottenere un indennizzo equo e adeguato non solo alle vittime di tali reati che si trovano in una situazione siffatta, ma anche alle vittime che risiedono abitualmente nel territorio dello Stato membro nel quale il reato è stato commesso. Di conseguenza, purché risultino soddisfatte le altre due suddette condizioni, un singolo ha diritto al risarcimento dei danni causatigli dalla violazione, da parte di uno Stato membro, del suo obbligo derivante dalla direttiva 2004/80, e ciò indipendentemente dalla questione se tale singolo si trovasse o meno in una situazione transfrontaliera al momento in cui è stato vittima del reato di cui trattasi. Adeguatezza dell’indennizzo - Per quanto attiene alla seconda questione, la Corte ha dichiarato che, in assenza, nella direttiva 2004/80, di una qualsivoglia indicazione in ordine all’importo dell’indennizzo che si presume “equo ed adeguato”, tale disposizione riconosce agli Stati membri un margine di discrezionalità. Ciò nonostante, se è vero che tale indennizzo non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale subito dalle vittime di reati intenzionali violenti, esso non può tuttavia essere puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato per tali vittime. Secondo la Corte, l’indennizzo concesso alle vittime in forza di tale disposizione deve infatti compensare, in misura appropriata, le sofferenze alle quali esse sono state esposte. A tale proposito la Corte ha inoltre precisato che un indennizzo forfettario delle vittime può essere qualificato come “equo ed adeguato” purché la misura degli indennizzi sia sufficientemente dettagliata, così da evitare che l’indennizzo forfettario previsto per un determinato tipo di violenza possa rivelarsi, alla luce delle circostanze di un caso particolare, manifestamente insufficiente. Stupefacenti, la lieve entità non può essere negata solo perché lo spaccio avviene in casa di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2020 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 luglio 2020 n. 21163. La lieve entità della cessione e detenzione di hashish non può essere negata - a fronte di un quantitativo di stupefacente “sotto soglia” - per il motivo dello spaccio realizzato in ambito domestico che il giudice afferma essere sintomo di quella scaltrezza indice di una tendenza criminale dell’imputato. Così la Corte di cassazione - con la sentenza n. 21163depositata ieri - ha bocciato per incompletezza il ragionamento condotto dai giudici di merito al fine di escludere la fattispecie della lieve entità prevista dal comma 5 dell’articolo 73 del Dpr 309/1990. L’orientamento - Spiega la Cassazione che la valutazione del giudice nell’ammettere o meno la lieve entità deve fondarsi, non solo sul dato quantitativo della droga e del contenuto stupefacente della stessa (tra l’altro irrisorio nel caso specifico), ma anche su altri indici di propensione alla commissione del reato e quindi di pericolosità del soggetto. E tale valutazione va fatta in via complessiva, anche se poi il giudizio di “gravità” della condotta può fondarsi sulla valorizzazione di uno solo degli indici per la sua esaustività. Nel caso specifico appare apodittico da parte della sentenza di merito l’aver affermato che lo spaccio in ambito casalingo determini una maggiore pericolosità della condotta in quanto il reo meglio governa l’ambito e le relative vie d’accesso del luogo del crimine. Data la bassa percentuale di principio attivo e del numero delle dosi inferiori a 20 non si poteva negare de plano la lieve entità senza valutare anche il quantum relativo alla condotta incriminata valorizzando solo l’aspetto comportamentale del soggetto attraverso, tra l’altro, un sillogismo tra spaccio in casa e gravità, che la Cassazione appare bocciare. Da provare la consapevolezza della partecipazione alla frode di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2020 In caso di fatture soggettivamente inesistenti l’amministrazione deve dimostrare, anche in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario della partecipazione alla frode. A tal fine l’ufficio sulla base di elementi oggettivi e specifici deve provare che il contribuente sapeva, o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza che l’operazione si inseriva in un’evasione fiscale, o almeno che possedeva indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto, della sostanziale inesistenza del contraente. A confermare questo importante principio è la Cassazione con l’ordinanza 15005/2020. Una società attiva nella commercializzazione di autovetture era coinvolta in una cosiddetta frode carosello perpetrata a mezzo di emissione di fatture soggettivamente inesistenti. Impugnava l’accertamento con cui l’ufficio contestava la deducibilità delle imposte sui redditi e l’indetraibilità dell’Iva. La competente Ctp accoglieva il ricorso ma in appello confermava la rettifica anche se solo ai fini Iva. La Ctr riteneva indetraibile l’Iva relativa a fatture non intestate all’effettivo venditore, in quanto l’operatore è tenuto a verificare con attenzione la provenienza delle merci soprattutto quando provengono da soggetti evanescenti e sospetti dediti ad altre attività. La società ricorreva per cassazione eccependo, in buona sostanza, che la Ctrf non illustrava le ragioni per ritenere gli acquisti riconducibili a operazioni soggettivamente inesistenti e soprattutto i motivi della propria consapevolezza rispetto alla frode. La Cassazione ha accolto il ricorso. I giudici hanno evidenziato che se l’amministrazione contesta fatturazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno in una frode carosello, deve provare anche solo in via indiziaria, non soltanto la oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione di imposta. La prova della consapevolezza dell’evasione richiede la dimostrazione, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente sapeva, o avrebbe dovuto sapere con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediante esperto, della sostanziale inesistenza del contraente. A questo punto il contribuente deve provare di aver agito in assenza di consapevolezza rispetto alla frode e di aver adoperato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in relazione al caso concreto. Nella specie la Ctr si era limitata a confermare la contestazione dell’ufficio senza spiegare per quali elementi poteva ritenersi provato il ruolo di cartiera dei fornitori e soprattutto la consapevolezza della società nella frode Iva. L’ordinanza è di sicuro interesse anche perché si spera che ora gli uffici abbandonino la prassi, purtroppo diffusa, in presenza di un fornitore sospetto, di contestare la fittizietà soggettiva dell’operazione pretendendo l’Iva dall’acquirente. Spesso, peraltro, la frode del fornitore emerge a seguito di complesse indagini svolte con gli strumenti e i poteri dell’amministrazione che il contribuente (acquirente) non ha, per cui mal si comprende come avrebbe potuto insospettirsi. Campania. Poggioreale e S. Maria Capua Vetere, altri due suicidi in cella in 24 ore Il Mattino, 17 luglio 2020 In 24 ore ci sono stati due suicidi nelle carceri campane, portando a 6 le vittime da inizio anno. Lo affermano, in una nota, il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e quello di Napoli Pietro Ioia. L’altro ieri - informano - si è tolto la vita Luigi Rossetti di 40 anni, ristretto a Santa Maria Capua Vetere. Stamattina, a Napoli-Poggioreale, a compiere l’insano gesto è stato Alfonso Fresca, di 39 anni. “Anche se i suicidi sono ascrivibili a diverse motivazioni, il carcere continua ad uccidere”, affermano i garanti che chiedono al provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e al responsabile dell’Osservatorio Regionale della Sanità Penitenziaria un incontro urgente tra più soggetti coinvolti nel mondo penitenziario “per evitare che in questo periodo la solitudine e il vuoto trattamentale uccidano più di una pandemia”. Lo stop a risocializzazione, volontariato, al reinserimento e la diminuzione dei contatti con gli affetti “ha prodotto un evidente senso di abbandono e arrendevolezza”. “Sale a 29 - si legge ancora nel comunicato dei due garanti - il numero dei detenuti che su tutto il territorio nazionale si sono tolti la vita da inizio dell’anno, di cui 6 solo in Campania. Negli istituti di pena si continua a morire per suicidio 13,5 volte di più che all’esterno del carcere. Il numero di detenuti nelle carceri italiane è sceso del 13,9%, arginare il problema del sovraffollamento dunque non basta a contrastare il malessere della vita in carcere. Ciambriello e Ioia propongono “l’incremento delle figure sociali nelle carceri, l’attuazione di progetti rieducativi e umanizzanti: i detenuti non sanno cosa fare; bisogna incrementare le attività culturali, ricreative, formative, attuandole anche nelle fasce pomeridiane. L’incremento da parte delle Direzioni Penitenziarie e del Provveditorato di più risorse economiche nei progetti d’istituto che riguardino tali attività. La creazione, incominciando da Poggioreale, di più articolazioni psichiatriche che consentano maggiori cure a coloro che soffrono di patologie psichiche, dentro le carceri. La creazione di un’altra Rems o luogo similare che accolgano i detenuti che giacciono da prigionieri nelle carceri in attesa. Si può prendere in considerazione la vecchia proposta di creare presso il Gesù e Maria di Napoli un’esperienza analoga. Infine un appello al mondo del volontariato e del terzo settore: In questo periodo non lasci solo i detenuti”. Emilia-Romagna. Il Garante dei detenuti: “Problema sovraffollamento in perenne crescita” parmadaily.it, 17 luglio 2020 Il problema principale delle carceri emiliano-romagnole è un sovraffollamento in perenne crescita, probabile causa di molte delle altre criticità della vita negli istituti penitenziari lungo la via Emilia. Il dato è emerso dalla relazione annuale svolta oggi da Marcello Marighelli, Garante regionale per le persone ristrette e private della libertà, nel corso dell’audizione nella Commissione Parità presieduta da Federico Alessandro Amico. Marighelli ha tratteggiato una chiara situazione delle carceri emiliano-romagnole e riassunto con dovizia di particolare l’attività del Garante regionale svolta nel 2019. Un lavoro certosino e puntuale che si è concentrato soprattutto su due temi: la salute in carcere e l’avviamento al lavoro, attività a cui si sono affiancati alcuni convegni pubblici che il Garante ha realizzato coinvolgendo le forze vive della società emiliano-romagnola e i vertici di più istituzioni, a partire dall’Assemblea legislativa regionale. “È stato difficile concentrarsi sulla relazione per il 2019 nel pieno della pandemia da Coronavirus di quest’anno, ma, visto l’importante lavoro fatto, è giusto renderne conto”, spiega Marighelli che auspica un ritorno alla normalità dopo il Covid-19: “Speriamo che si ritorni alla piena attività per quanto riguarda educazione, volontariato, formazione: i segnali positivi in questa direzione- sottolinea- ci sono già”. Scorrendo i numeri resi noti da Marighelli si vede come il numero delle persone recluse sia in crescita: in dodici mesi si è passati dai 3.554 del 2018 ai 3.834 del 2019. Le donne detenute sono 155, mentre gli stranieri sono 1.930. Le strutture carcerarie ospitano mediamente il 137% di persone in più di quelle che dovrebbero, con la sola eccezione di Castelfranco Emilia dove gli ospiti sono il 37,5% della capienza della struttura. “Nel 2019 sono stati 15 i bambini che sono stati nelle carceri della nostra regione, con una permanenza che è andata da poco meno di una settimana fino, per un caso, a 10 mesi”, sottolinea il Garante per il quale “in Emilia-Romagna non è presente alcuna delle strutture individuate dalla legge ed è necessario porre termine ad una situazione che non rispetta i diritti dei bambini e delle madri: sto seguendo da tempo la situazione e con la Garante dell’Infanzia intendo concertare un’iniziativa per realizzare una casa-famiglia protetta che possa ospitare 2 o 3 bambini con le loro madri per brevi periodi”. “Il Coronavirus ha complicato di molte le cose: ci siamo attivati con le altre Istituzioni per fare il possibile per contrastare i contagi e aiutare le persone in questa difficile situazione e ora dovremo affrontare la Fase 2”, spiega Marighelli che ricorda come dopo aver provato in più realtà i collegamenti via Skype per assicurare i colloqui dei detenuti con i propri famigliari nel periodo top della pandemia, ora sarà difficile cancellare queste innovazioni tecnologiche per tornare “al telefono a gettone”. La situazione di sovraffollamento, la scarsità di lavoro, la presenza di molti stranieri con poche possibilità di avere un permesso di soggiorno a fine pena, sono probabilmente alla base di un crescente disagio della popolazione detenuta. Sono numerosi gli atti di autolesionismo (1.381 totali, di cui 1.085 compiuti da stranieri), i tentati suicidi (137 totali, di cui 108 compiuti da stranieri) e 4 i suicidi (di cui uno riguarda un detenuto straniero). In questa cornice complessa, l’attività del Garante è stata netta e puntuale: 100 colloqui (di cui 74 a richiesta e 195 segnalazioni dagli Istituti penali), 36 sono le visite in istituti penitenziari, grande attenzione alle strutture per minori e per chi ha problemi sanitari specifici e per l’Hub di via Mattei (visitato già tre volte dal Garante con la conferma che, dopo le tensioni del decennio scorso, la situazione è in via di stabilizzazione) e il tema dell’avviamento al lavoro per assicurare a chi ritrova la libertà non solo una fonte di reddito, ma quella dignità necessaria per trovare la forza di non ricadere negli stessi errori che hanno contribuito alla reclusione. Di notevole spessore culturale, inoltre, l’attività di studio, convegnistica e le pubblicazioni curate dal Garante e dal suo Ufficio. Lazio. Negli Istituti di pena arrivano nuovi Sportelli per i diritti dei detenuti romatoday.it, 17 luglio 2020 Il progetto è stato presentato presso la sede del Consiglio regionale del Lazio dal garante regionale Anastasìa, dal vicepresidente del Consiglio regionale Cangemi e dal provveditore all’amministrazione penitenziaria Cantone. Più sportelli per i diritti dei detenuti nelle carceri del Lazio. Non solo Regina Coeli, Rebibbia Femminile e Cassino ma anche Rieti, Rebibbia Penale, Civitavecchia e Frosinone. Il progetto è stato presentato questa mattina presso la sede del Consiglio regionale del Lazio dal garante regionale Stefano Anastasia, insieme al vicepresidente del Consiglio regionale, Giuseppe Cangemi, e al provveditore all’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone. Un progetto “di integrazione tra Garante, Università e associazioni qualificate per il rafforzamento degli strumenti di tutela dei diritti dei detenuti”. Da tempo negli Istituti penitenziari del Lazio “sono presenti qualificate esperienze associative per la tutela dei diritti dei detenuti e più di recente si sono andate diffondendo le cosiddette “Cliniche legali penitenziarie”, che affiancano un’attività didattica sul campo, offerta agli studenti dei corsi universitari in materie giuridiche, al sostegno informativo ai detenuti” ha spiegato Anastasia. Il progetto degli sportelli per i diritti promossi dal suo ufficio “vuole mettere in rete le esperienze esistenti e promuoverne dove ancora non ci sono, per estendere e qualificare il sostegno alle persone detenute nel riconoscimento dei diritti garantiti dell’ordinamento penitenziario, dalle leggi e dalle politiche regionali”. Attualmente sono già attivi sportelli nelle carceri di Regina Coeli, Rebibbia Femminile e Cassino “ma non a Rieti, Rebibbia Penale, Civitavecchia e Frosinone” ha aggiunto Anastasia. L’idea è quella di mettere “in rete esperienze vecchie e nuove e consentirà al Garante di avere una presenza continua a qualificata dentro tutti gli istituti penitenziari, valorizzando ciò che università e associazioni già fanno e poterle attivare in altre realtà dove non sono presenti”. Con il bando aperto lo scorso 14 gennaio sono stati affidati all’Università di Cassino, al dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre e all’Arci di Viterbo rispettivamente gli sportelli che saranno attivi peso gli istituti penitenziari di Cassino, Frosinone e Paliano, Regina Coeli, Rebibbia Femminile, Rebibbia Penale e Rebibbia III Casa circondariale, Civitavecchia, Rieti e Viterbo. Prossimamente saranno messi a bando gli sportelli per Latina e Velletri. I responsabili, al termine della presentazione, hanno firmato l’accettazione dell’affidamento che durerà un anno e sarà rinnovabile in seguito a una nuova gara pubblica. Queste strutture svolgeranno un’attività di sostegno ai detenuti che ne faranno richiesta, per la risoluzione delle problematiche individuali, attraverso un’azione di informazione e ausilio nella redazione di istanze a firma propria. Gli sportelli comunicheranno al Garante i casi in cui sia necessario interloquire con i responsabili delle amministrazioni pubbliche o le Autorità competenti nella risoluzione della problematica emersa e dovranno sottoporre tempestivamente al Garante tutte le questioni di natura generale relative all’istituto emerse nel corso dello svolgimento dell’attività, relazionando almeno trimestralmente sullo stato di soddisfazione delle persone detenute in carcere. “È un grande lavoro rispetto a una sinergia tra istituti, cooperative, volontariato e il mondo che da sempre lavora nelle carceri” ha commentato Cangemi. “Questo progetto diventerà un centro di ascolto oltre che di punto di informazione”. Per il provveditore Cantone “l’impegno siglato oggi è importante perché ruota attorno alla comunicazione. Nelle carceri del Lazio c’è un problema importante di valorizzazione della comunicazione. Quando le persone di sentono dire le cose che li riguardano di terza mano poi scoppiano i problemi, come è accaduto con i fatti dell’8 e il 9 marzo”, quando i detenuti hanno appreso della sospensione dei colloqui a causa dell’emergenza Covid senza esserne stati avvisati. “In un paese civile non si fa così”, ha aggiunto Cantone. “C’è bisogno di comunicazioni autorevoli e non di notizie di quarta o quinta mano”. Intanto, la presentazione del progetto è stata occasione per parlare di un altro problema nelle carceri del Lazio e, più in generale, in quelle italiane. In particolare nel Lazio al 30 giugno sui 4.579 posti disponibili nei 14 istituti penitenziari del territorio la popolazione detenuta è pari a 5.762 persone, delle quali 2.233 stranieri, e anche con il picco minimo di 5.689 registrato a maggio si era comunque sopra la soglia massima. Tranne le case circondariali di Paliano, Civitavecchia Passerini, Rebibbia, Rebibbia Terza Casa e Frosinone, in tutte le altre ci sono più carcerati che letti effettivamente disponibili. Con alcuni picchi significativi resi noti dal Garante dei Detenuti del Lazio, Stefano Anastasia: “Sono stato nel carcere di Latina un mese fa e ha un sovraffollamento del doppio della sua capacità. È pensato per 70 detenuti e ce ne sono 150. Due giorni fa sono stato a Regina Coeli ed è di nuovo ai livelli preCovid, ha più di 1000 detenuti quando ne può tenere 600. Immaginate quali condizioni di sicurezza sanitaria possano esserci e anche quelle di prevenzione, come il famoso distanziamento. E in questa situazione è difficile spiegare ai detenuti perché ci sono tutte quelle cautele, ad esempio nei colloqui con i familiari, e poi in cella stanno in 5 o 6. Dieci giorni fa sono stato a Cassino e in stanze di 16 metri quadrati c’erano 7 persone, quando sono state progettate per 3”. Le restrizioni previste per il Covid restano: “I detenuti possono fare i colloqui solo in presenza una volta al mese con il divisorio di plexiglass senza potere neanche tenere per mano la moglie e spesso senza potere vedere i figli, perché il colloquio è consentito a una sola persona”. La notizia degli sportelli è stata commentata anche da Marta Bonafoni, capogruppo della Lista Civica Zingaretti: “Un risultato che riconosce la dignità, le possibilità e i diritti e che va a statuire quello che è il senso di uno Stato di diritto, attraverso misure a sostegno della giustizia e dell’equità, che mai dovrebbero essere messe in discussione”. Marche. Carceri, concluso il monitoraggio del garante Andrea Nobili dopo il lockdown anconatoday.it, 17 luglio 2020 I sopralluoghi hanno interessato tutti gli istituti penitenziari. Valutazione complessivamente positiva. Nobili chiede la convocazione dell’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria. Termina con la visita alla Casa circondariale di Marino del Tronto la fase di monitoraggio avviata dal Garante regionale, Andrea Nobili, subito dopo il lungo periodo di lockdown. Un attento sopralluogo, quello ad Ascoli Piceno, caratterizzato dal confronto con i responsabili dei diversi settori e con una verifica dello stato degli ambienti carcerari. L’azione di monitoraggio ha interessato tutti gli istituti penitenziari delle Marche, per i quali l’Autorità di garanzia ha chiesto incontri con direttori, comandanti della Polizia penitenziaria, nonché responsabili dell’area sanitaria e delle attività trattamentali. Non sono mancati numerosi colloqui con i detenuti, che sono stati messi in piedi anche per via telematica, vista la complessità del momento e il disagio determinato dall’impossibilità di poter avere contatti diretti con i familiari. Al termine delle visite il Garante ha espresso un primo giudizio positivo sulla situazione generale, soprattutto in relazione alla tenuta delle strutture dal punto di vista sanitario, e alla capacità della Polizia penitenziaria di fronteggiare inevitabili momenti di tensione. “Ma superata questa fase - sottolinea ora Nobili - andranno messi in atto alcuni approfondimenti, che ci consentano di gestire le criticità del quotidiano nel migliore dei modi e di affrontare le nuove emergenze che dovessero presentarsi. Per questo motivo ho già chiesto la convocazione dell’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria”. Restano in piedi, infatti, i problemi legati alla verifica delle condizioni per i nuovi ingressi e alle patologie che interessano i detenuti attualmente in carcere per i quali il Garante auspica piani d’intervento e di prevenzione. Oltre alla questione strettamente sanitaria, c’è quella del riavvio delle attività trattamentali, con alcune progettualità che sono rimaste ferme negli ultimi mesi e per le quali Nobili ha chiesto più volte una graduale ripartenza, attraverso tutte le disposizioni previste per il distanziamento sociale. In questa direzione, un primo appuntamento è fissato per il prossimo 23 luglio presso l’istituto di Montacuto di Ancona. La poesia torna nuovamente oltre le sbarre con il progetto “Ora d’aria”, previsto nell’ambito del festival internazionale “La Punta della Lingua”. Sarà lo scrittore Guido Catalano a confrontarsi con i detenuti, come già fatto in passato attraverso alcune iniziative promosse dal Garante, che hanno permesso di concretizzare interventi educativi e formativi di sensibilizzazione alla lettura, alla scrittura ed allo sviluppo delle potenzialità creative. “Terminata questa fase di monitoraggio - conclude Nobili - contiamo, comunque, di effettuare ulteriori visite nelle singole strutture a partire già dal mese di agosto per avere un quadro costantemente aggiornato della situazione”. Gradisca d’Isonzo (Go). Cpr, indagini in corso sulla morte di un giovane albanese friulisera.it, 17 luglio 2020 Il dubbio è che gli siano state somministrate dosi di psicofarmaci. Dramma del migrante albanese trovato morto all’interno del Cpr di Gradisca d’Isonzo: ancora da accertare le cause del decesso. Tra le ipotesi, la pista che porta a un abuso di farmaci, ma solo l’autopsia e gli esami tossicologici potranno dare una conferma a questa ipotesi che aprirebbe scenari in ogni caso inquietanti. Nella struttura detentiva, perché in realtà questo è, ieri il clima è stato particolarmente teso con una protesta da parte dei migranti ospitati nella struttura che hanno bruciato materassi e suppellettili dando sfogo alla frustrazione nel vedere ancora una volta uno di loro uscire in un sacco per cadaveri. Intanto la garante del comune di Gradisca delle persone private della libertà personale Corbatto ha chiesto con urgenza di entrare nel Cpr mentre la sindaca Tomasinsig ha chiesto che la magistratura stabilisca con celerità la verità su questo decesso, solo con la verità infatti si potrà ristabilire un clima accettabile nella struttura che in questi giorni è praticamente al massimo della capienza stabilità di 80 detenuti che vale la pena ricordare sono soggetti in attesa di rimpatrio perché migranti irregolari ma nella maggior parte dei casi non pericolosi delinquenti, senza contare che l’emergenza sanitaria rende il clima ancora più teso. Intanto dal comitato “Assemblea No Cpr, No Frontiere” dicono di avere informazioni provenienti dall’interno del centro relativa a questa ennesima morte dietro le sbarre e hanno emesso un comunicato dal titolo quello che sappiamo del ragazzo morto a Gradisca: “Martedì, nel Cpr di Gradisca, un ragazzo di 28 anni è morto. Quello stesso pomeriggio, siamo stati sotto quelle mura, eravamo circa sessanta. Volevamo parlare con chi sta chiuso dentro, per fargli sentire che sapevamo che uno di loro era morto ed eravamo solidali, e per sapere com’era andata, secondo loro. Gridando da una parte all’altra del muro, ci hanno detto che il ragazzo che è morto era stato imbottito di medicinali; tra gli altri, aveva assunto sicuramente il Rivotril - una benzodiazepina ad alta potenza con ansiolitiche, sedative, antiepilettiche - che viene spesso somministrato ai reclusi”. In sostanza una accusa pesante che se provata da riscontri tossicologici potrebbe rivelare bruttissimi scenari. Lo stesso comitato No Cpr parla infatti di abuso di psicofarmaci come di una costante nei centri di internamento: le persone li assumono per evadere da quel quotidiano senza speranza e/o come sostitutivi legali di altre sostanze. Tuttavia, aggiungono, chi prescrive gli psicofarmaci ha una responsabilità clinica precisa: se veramente il ragazzo fosse morto per overdose di psicofarmaci, i responsabili diretti della sua morte sono nel Cpr. Dura presa di posizione di Rifondazione Comunista sull’episodio per bocca di Stefano Galieni, responsabile nazionale immigrazione di Rifondazione Comunista - Sinistra Europea e Luigi Bon, per la segreteria provinciale della Federazione di Gorizia: “Il Centro Permanente per i Rimpatri di Gradisca d’Isonzo, si legge in una nota, è stato ancora una volta teatro di una morte annunciata. Un ragazzo albanese, in quarantena per emergenza Covid-19 è stato trovato morto nella sua cella mentre un altro, proveniente dal Marocco, finiva in terapia intensiva. Non si conoscono ancora le cause specifiche ma a Gradisca d’Isonzo da sempre si muore di detenzione, l’ultima vittima risale al gennaio scorso e continue sono le rivolte, i tentativi di fuga, gli atti di autolesionismo. Oggi si può restare rinchiusi in queste galere fino a sei mesi senza aver commesso alcun reato e il governo promette, con la “riforma” dei decreti Salvini di ridurre i tempi. Ma come diciamo ormai inascoltati da ventidue anni queste strutture, che negli anni hanno spesso cambiato nome, sono illegali, incostituzionali, razziste, inutili e persino costose. Sono l’emblema del fallimento delle politiche migratorie europee. Che si faccia come si sta facendo in Spagna e Portogallo, che le si chiuda costruendo percorsi di regolarizzazione per chi cerca un futuro. E si usino quei soldi per affrontare le tante emergenze di chi è colpito dalla crisi non per rafforzare un perverso sistema repressivo”. Firenze. Carcere di Sollicciano, interventi in vista nove.firenze.it, 17 luglio 2020 Lavori al via nella primavera 2021, dureranno due anni. Di Puccio (Pd): “Su questo carcere si sono dette tante parole, è giunto il momento di passare ai fatti”. In Commissione Territorio, urbanistica, infrastrutture e patrimonio si è svolta l’audizione del Garante dei Detenuti di Firenze Eros Cruccolini in merito agli interventi infrastrutturali sul carcere di Sollicciano. Nel corso della seduta è stato illustrato il progetto di efficientamento energetico del carcere di Sollicciano (comprendente anche il Gozzini) promosso dalla Regione Toscana per un importo complessivo di 4 milioni di euro derivati dai fondi europei per lo sviluppo regionale (Por). L’intervento consiste nel rifacimento della copertura, nella realizzazione di impianti fotovoltaici e di impianti solari per il riscaldamento dell’acqua sanitaria. Prevede inoltre il rifacimento degli infissi e la realizzazione di una nuova centrale termica oltre alla realizzazione di un nuovo impianto elettrico. Gli interventi voluti da Regione Toscana e Comune di Firenze, e realizzati dal Ministero delle Infrastrutture in accordo con il Ministero della Giustizia e con la Regione, inizieranno presumibilmente nella primavera del 2021 per poi concludersi entro due anni. Si tratta di un primo risultato concreto volto non solo a rendere più sostenibile la vita dei detenuti ma anche di rendere più sostenibile, anche a livello gestionale e ambientale, tutto l’impianto del carcere. In commissione sono stati anche individuati nuovi filoni di approfondimento utili in previsione del prossimo Piano Operativo. “Ho lavorato per lunghi anni a fianco di Franco Corleone, ex garante dei detenuti sia cittadino e che regionale e continuo a lavorare con Eros Cruccolini, attuale garante. Una soluzione per cercare di dare risposte al sovraffollamento di Sollicciano potrebbe essere la costruzione di un nuovo edificio tra il “Gozzini” e “Solliccianino” che possa essere utilizzato come carcere giudiziario. Questo - spiega il consigliere del Partito Democratico Stefano Di Puccio, da anni impegnato su questi temi - alleggerirebbe Sollicciano di almeno due o trecento detenuti e renderebbe al carcere la sua reale vocazione. All’interno dell’istituto di pena troviamo, attualmente, detenuti che dovrebbero risiedere in carceri giudiziari e che sono posteggiati in attesa di giudizio. Così come da anni si parla di poter realizzare in un’altra parte della città una Casa della semilibertà ed un centro per le madri in carcere. Anche in questo caso era stata individuata la zona di San Salvi, dove sono tuttora presenti edifici dismessi, e che potrebbero essere utilizzati come Casa della semilibertà. La Madonnina del Grappa aveva, invece, finanziato un progetto proprio per le madri in carcere. Vediamo di arrivare in fondo a questi progetti - conclude il consigliere PD Stefano Di Puccio - entro la fine di questo mandato amministrativo. Si sono dette tante parole, è giunto il momento di passare ai fatti”. Parma. Il nuovo direttore del carcere è Valerio Pappalardo La Repubblica, 17 luglio 2020 Arriva da Agrigento, dove ha gestito negli ultimi due anni il carcere Petrusa, il nuovo direttore dell’istituto penitenziario di Parma. Nei prossimi giorni è attesa l’ufficializzazione dell’incarico al catanese Valerio Pappalardo. Il nuovo direttore si troverà a gestire subito la spinosa questione del nuovo padiglione previsto in via Burla. Vicenda che ha trovato il forte malcontento delle rappresentanze sindacali degli agenti penitenziari. Lucera (Fg). “I libri hanno le ali”, consegnati volumi destinati ai detenuti immediato.net, 17 luglio 2020 L’iniziativa realizzata da Csv Foggia e Fondazione dei Monti Uniti. Visita alla cella storica in cui fu detenuto Giuseppe Di Vittorio. “I libri hanno le ali” è approdato nella Casa Circondariale di Lucera. Un nuovo tassello per l’iniziativa destinata alla promozione della lettura in contesti fragili, frutto dell’impegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, con la collaborazione del Csv Foggia. Mercoledì scorso la donazione ha riguardato proprio il carcere di Lucera dove Pasquale Marchese, presidente del Csv Foggia; Roberto Lavanna, membro del consiglio di amministrazione della Fondazione e Annalisa Graziano, responsabile dell’area “volontariato e giustizia” del Csv, hanno consegnato al funzionario pedagogico Simona Salatto, al comandante Daniela Raffaella Occhionero e all’assistente capo Raffaele Prencipe, in rappresentanza del corpo di Polizia Penitenziaria, romanzi, saggi, fumetti e testi in lingua straniera, così come indicato proprio dall’area trattamentale dell’Istituto. All’iniziativa, accolta con entusiasmo dal direttore Patrizia Andrianello, seguiranno progetti di educazione alla lettura ed altre attività di tipo trattamentale anche grazie all’Avviso straordinario pubblicato dal Csv Foggia per promuovere e sostenere progetti di volontariato. “Si tratta di una delle iniziative - spiega il presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - messe in campo dalla Fondazione dei Monti Uniti e dal Csv per perseguire l’obiettivo di valorizzazione del volontariato penitenziario. Il fine è quello di promuovere l’impegno dei volontari, contribuire al progresso civile e alla finalità rieducativa dell’esecuzione della pena e fornire, proprio attraverso l’associazionismo, un supporto concreto alla popolazione detenuta, con particolare attenzione ai ristretti con scarsi riferimenti familiari e affettivi. Proprio per andare incontro agli enti del terzo settore che, negli ultimi mesi sono stati particolarmente impegnati a causa dell’emergenza sanitaria, abbiamo deciso - d’accordo con la casa circondariale - di prorogare il termine di scadenza per presentare le proposte al 23 agosto prossimo, in modo da lasciare un po’ di tempo in più per la progettazione”. L’incontro è proseguito con una visita presso la cella storica in cui fu detenuto, nel 1921 e nel 1941 per diversi mesi, Giuseppe Di Vittorio, cerignolano, parlamentare antifascista, padre costituente della Repubblica, sindacalista fondatore della Cgil. Sulla porta della piccola, angusta stanza ancora con la finestra a ‘bocca di lupo’, è stata affissa una targa, per non dimenticare: “In questa cella fu ristretto Giuseppe Di Vittorio”. Tre italiani su quattro favorevoli all’eutanasia di Gabriele Martini La Stampa, 17 luglio 2020 L’indagine Eurispes. Senza una legge, ora la parola torna ai giudici: Cappato e Welby rischiano 12 anni per aver aiutato Davide Trentini a morire. Tre italiani su quattro sono favorevoli all’eutanasia. È quanto emerge da un’indagine Eurispes, che fotografa lo scollamento tra il paese reale e l’immobilismo della politica sul fine vita. La “buona morte” - consistente nella somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente - è una pratica ancora oggi illegale in Italia. Tuttavia ben il 75,2% degli intervistati si è espresso favorevolmente, attestando una forte ascesa del consenso negli ultimi cinque anni (la percentuale era del 55,2% di favorevoli nel 2015). La sensibilità degli italiani riguardo al tema sembra confermare un cambiamento degli orientamenti che si sta facendo strada nel nostro Paese, in linea con la posizione di altri Stati europei. Basti pensare alla svolta della Francia, dove l’eutanasia a domicilio sarà alla portata di tutti mediante la somministrazione di sedativi - ad opera degli stessi medici di base - che inducono il paziente in uno stato di sonno catatonico finché la morte non sopraggiunge. I numeri parlano chiaro e raccontano l’erosione di tabù culturali che per anni hanno caratterizzato la nostra società. Nel 2020, con sei punti percentuali in più rispetto al 2019, il 73,8% dei cittadini intervistati si dice favorevole al testamento biologico, vale a dire quella norma che permette di redigere anticipatamente un documento con valore legale nel quale viene stabilito a quali esami, scelte terapeutiche o singoli trattamenti sanitari dare o non dare il proprio consenso nel caso di una futura incapacità a decidere o a comunicare. E anche sul suicido assistito, sebbene la maggioranza degli italiani rimanga contraria, si registra una sempre maggior apertura. “Che i cittadini italiani siano più aperti del ceto politico sui temi delle libertà civili non è una novità”, commenta Marco Cappato. Che mette in guardia: “Ciò che accade su eutanasia e fine vita dovrebbe però destare particolare allarme per la condizione di marginalità nella quale versa il Parlamento italiano”. “È facile ipotizzare che in un prossimo futuro si moltiplicheranno i casi nei quali la medicina sarà in grado di rinviare il momento estremo del malato terminale. Di conseguenza è importante, per il bene della società e il rispetto dei valori che ne sono alla base, trovare quanto prima una posizione normativa che possa soddisfare le diverse istanze”, spiega Gian Maria Fara, presidente Eurispes. Ma la classe politica italiana continua a eludere il problema. L’ultimatum della Corte Costituzionale rivolto al Parlamento nella vicenda di Dj Fabo è caduto nel vuoto. Nell’ottobre 2018 la Consulta invitò i partiti ad approvare una nuova legge, cosa che puntualmente non è accaduta. E così ora la parola torna ai giudici. Il 27 luglio sarà il Tribunale di Massa, nel silenzio della politica, a decidere se ampliare ulteriormente il diritto al suicidio assistito. La vicenda è quella di Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, che nell’aprile del 2017 decise di metter fine a quelle che lui stesso definiva “insopportabili sofferenze”. La differenza con il caso di Dj Fabo è cruciale: il 53enne toscano non era tenuto in vita da macchinari. Sul banco degli imputati siedono Marco Lappato e Mina Welby, che accompagnarono Trentini a morire in una clinica svizzera. Rischiano fino 12 anni di carcere. In rete esiste un video che immortala Trentini sdraiato su un letto poche ore prima di morire. Spiega la sua scelta, guarda dritto in camera mentre si contorce dal dolore: “Auguro a tutti tanta serenità. E adesso, buonanotte”. Poi accenna a un sorriso. Migranti. Con i voti del centrodestra altri soldi alla guardia libica di Adriana Pollice Il Manifesto, 17 luglio 2020 La ministra Lamorgese a Sarraj: “L’accordo con la Turchia deve essere replicato con Tripoli”. Sessantacinque naufraghi alla deriva nella zona Sar maltese, a 54 miglia da Lampedusa, con onde di 2 metri, il motore in panne e nessuno soccorso in vista. Nelle stesse ore, ieri mattina, si decideva alla Camera sulle missioni all’estero, passate con 453 sì e 9 astenuti. Per il capitolo Libia è stato necessario un voto separato: il via libera è arrivato (come già al Senato) ma con 401 sì, 23 no e 2 astenuti. Il quorum di 213 è strato raggiunto grazie al centrodestra perché la maggioranza si è fermata a 206. Italia Viva non ha partecipato al voto mentre hanno detto no 7 di Leu, 8 del Pd, 5 del Misto e 3 5s. Una frattura nello schieramento giallo rosa già emersa ma che ieri si è consolidata. Nella Risoluzione, sottoscritta da 22 parlamentari, il primo firmatario Erasmo Palazzotto di Leu ha sottolineato: “La missione in Libia apre una contraddizione nella maggioranza”. E poi in sede di voto: “Non sarò complice. A chi diamo le nostre motovedette? Chi stiamo addestrando? Coloro che trafficano esseri umani? Inaccettabile”. Gli interventi in aula hanno messo sotto accusa una linea politica che si perpetua di governo in governo: “La Libia non è mai stata un porto sicuro - ha detto Laura Boldrini. Sostenere la Guardia costiera libica significa sostenere le violazioni dei diritti umani”. Il dem Matteo Orfini: “Finanziarla significa appoggiare chi uccide, stupra, tortura. Farlo dicendo che chiederemo loro di comportarsi bene è solo una gigantesca ipocrisia”. Dallo stesso gruppo parlamentare Giuditta Pini: “Il rifinanziamento della Guardia costiera libica è stato votato anche dalla maggioranza del Pd nonostante l’assemblea del partito avesse espressamente dato parere contrario. Due partiti su quattro della maggioranza non vogliono più sostenere questa missione. Mentre il Pd ha votato insieme a Lega e 5s”. I dem sotto accusa. Da +Europa Riccardo Magi spiega: “Un anno fa il Pd non partecipò al voto sulla proroga della missione sostenendo che la strategia andava cambiata e i centri di detenzione svuotati. Oggi (ieri ndr) il governo italiano ha disposto la proroga con l’aumento del finanziamento e il Pd, tranne pochi, ne ha votato la prosecuzione. Esito schizofrenico”. Emma Bonino: “Il governo ha appena rifinanziato la Guardia costiera libica come se esistesse davvero. L’Italia paga per fermare con ogni mezzo, anche il più disumano, i flussi nel Mediterraneo, è il bancomat di queste operazioni”. Ma la viceministra dem degli Esteri, Marina Sereni, non si è scomposta: “Stiamo lavorando per la modifica del Memorandum con Tripoli per favorire l’accesso delle organizzazioni internazionali nei centri per migranti con l’obiettivo del loro superamento”. Il fronte del no ieri ha scritto all’esecutivo: “Una parte della maggioranza, trasversale a tutte le forze, chiede discontinuità nella gestione del fenomeno migratorio. La collaborazione nei respingimenti illegali verso un paese in guerra, dove le persone subiscono violenze inenarrabili, si configura come una nostra corresponsabilità nelle violazioni di diritti umani”. Una trentina di deputati più tre europarlamentari hanno quindi chiesto un tavolo per affrontare il tema. La ministra dell’interno, Luciana Lamorgese, è volata ieri a Tripoli per discutere di migrazioni, sicurezza e anche affari. La delegazione è stata ricevuta dal premier del Governo di accordo nazionale, Fayez al Sarraj, e dai principali esponenti del suo esecutivo. Dopo la sessione plenaria c’è stato un incontro bilaterale con il suo omologo, Fathi Bashagha, uomo forte di Misurata. Oggetto dei colloqui la cooperazione nel campo della sicurezza, la lotta all’immigrazione clandestina, il ritorno delle compagnie italiane in Libia, la rimozione delle mine lasciate dalle forze di Haftar, la riapertura dei pozzi di petrolio. Lamorgese ha messo sul tavolo una posizione che sarà piaciuta ai protettori turchi di Sarraj: “Confermiamo l’orientamento, già espresso dal governo italiano, secondo il quale l’impegno profuso dall’Ue nell’ambito dell’accordo con la Turchia possa e debba essere replicato anche nel quadrante centrale del Mediterraneo”. Il patto con Ankara del 2016 per bloccare i flussi sulla rotta orientale, sponsorizzato dalla Germania (6 miliardi di euro alla Turchia), verrebbe replicato con la Libia mentre, intanto, la guerra non si ferma e le milizie continuano a fare affari con i migranti. Orientamento emerso lunedì scorso alla conferenza di Trieste, promossa dall’Italia d’intesa con la commissione Ue e con la presidenza di turno tedesca, e la partecipazione dei governi del Nord Africa da cui provengono i principali flussi. Proposta che nel 2016 aveva già fatto l’allora ministro Alfano. Lamorgese ha ribadito “la necessità di controllare frontiere e flussi nel rispetto dei diritti umani. Attivare operazioni di evacuazione dei centri gestiti dal governo attraverso corridoi umanitari organizzati dall’Ue e gestiti da Oim e Unhcr”. È stata poi verificata l’attuazione del progetto del Viminale, cofinanziato dall’Ue, per migliorare le forze di sicurezza: ieri sono stati consegnati 30 automezzi per il controllo delle frontiere terrestri. Migranti. Luci e ombre su alcune Ong italiane impegnate nei centri di detenzione in Libia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 luglio 2020 Dossier dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione. Le organizzazioni umanitarie italiane (Ong) che operano nei centri libici per migranti non starebbero migliorando le condizioni dei reclusi, ma ne legittimerebbero la detenzione. Lo si evince dal rapporto pubblicato dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) proprio sugli interventi attuati da alcune Ong che portano avanti progetti finanziati con 6 milioni di euro dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo (Aics). Come spiega l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, l’iniziativa ha suscitato, sin dall’emanazione del primo bando a novembre 2017 molto scalpore nell’opinione pubblica, sia perché il sistema di detenzione per migranti in Libia è caratterizzato da gravissimi e sistematici abusi (“è troppo compromesso per essere aggiustato”, aveva detto il Commissario Onu per i diritti umani) sia per la vicinanza temporale con gli accordi Italia- Libia del febbraio 2017. I centri di detenzione libici, infatti, soprattutto quelli ubicati nei dintorni di Tripoli che sono destinatari della maggior parte degli interventi italiani, sono destinati a ospitare anche migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera Libica, a cui l’Italia ha fornito, e tuttora fornisce, un decisivo appoggio economico, politico e operativo. Il rapporto si interroga quindi sulle conseguenze giuridiche degli interventi attuati, a spese del contribuente italiano, nei centri di detenzione libici. Nel rapporto si apprende che i fondi stanziati dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo nel 2017 per interventi da parte di Ong italiane all’interno di centri di detenzione in Libia ammontano complessivamente a 6 milioni di euro. Tale somma è stata appaltata attraverso tre diversi bandi. Tutte le informazioni sono pubblicamente disponibili sul sito dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo. I bandi in esame prevedono che ciascuna Ong partecipante possa presentare una proposta di progetto come singola Organizzazione o in associazione temporanea di scopo (Ats) con altre Ong. Dalla scelta se partecipare come singoli o in Ats i bandi fanno anche dipendere l’importo massimo del finanziamento, inizialmente fissato a 666.550 euro, poi elevato nei bandi successivi a 1.000.000 di euro. I bandi inoltre stabiliscono che per l’attuazione dei progetti le Ong italiane debbano necessariamente avvalersi di partner locali sul campo, in quanto la situazione di sicurezza non consente la presenza di personale italiano in loco. La possibilità per personale italiano di recarsi nella zona d’intervento può essere valutata caso per caso con l’evolversi della situazione. Le Ong capofila dei progetti approvati sono le seguenti: Emergenza Sorrisi, Helpcode (già Ccs), Cefa, Cesvi e Terre des Hommes Italia. Le altre Ong coinvolte nell’attuazione dei progetti, come partner di quelle capofila, sono Fondation Suisse de Deminage, Gvc (già We World), Istituto di Cooperazione Universitaria, Consorzio Italiano Rifugiati (Cir) e Fondazione Albero della Vita. Al fine di comprendere in dettaglio la natura e la tipologia degli interventi svolti, alcuni soci dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione hanno presentato una serie di richieste di accesso civico per ottenere copia dei documenti più rilevanti relativamente ai progetti in questione, ed in particolare il testo dei progetti presentati ed approvati. Ma nulla da fare. L’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo ha negato il diritto di accesso a tutti i testi dei progetti approvati. L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione ha messo in discussione la logica stessa dell’intervento ideato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, mostrando come in larga misura le condizioni disumane nei centri, che i bandi mirano in parte a migliorare, dipendano da precise scelte del governo di Tripoli (politiche oltremodo repressive dell’immigrazione clandestina, gestione affidata a milizie, assenza di controlli sugli abusi, ubicazione in strutture fatiscenti, mancata volontà di spesa, ecc.). I bandi non condizionano l’erogazione delle prestazioni ad alcun impegno da parte del governo libico a rimediare a tali criticità, rendendo così l’intervento italiano inefficace e non sostenibile nel tempo. Ma non solo. Le Ong svolgono un’attività esclusivamente strutturale. Ovvero, secondo il rapporto, alcuni interventi non sono a beneficio dei detenuti ma della struttura detentiva, preservandone la solidità strutturale e la sua capacità di ospitare, anche in futuro, nuovi prigionieri. L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione si interroga anche sulla destinazione effettiva dei beni e dei servizi erogati. L’assenza di personale italiano sul campo e il fatto che i centri siano in gran parte gestiti da milizie, indubbiamente ostacolerebbero un controllo effettivo sulla destinazione dei beni acquistati. L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione non esclude che di almeno parte dei fondi abbiano beneficiato i gestori dei centri, ossia quelle stesse milizie che sono talora anche attori del conflitto armato sul territorio libico nonché autori delle sevizie ai danni dei detenuti. Migranti. Il Pd deve spezzare il legame con Tripoli di Roberto Saviano La Repubblica, 17 luglio 2020 Dopo il sì al rifinanziamento della Guardia costiera libica. Nel giorno dell’indignazione per la foto che ritrae l’ennesimo cadavere nel Mediterraneo, il segretario del Pd Nicola Zingaretti avrebbe dovuto spiegare - in realtà ci aspettavamo una spiegazione già da tempo - perché i ministri del suo partito hanno tradito il voto dell’Assemblea nazionale sul rifinanziamento degli aguzzini libici. Si era votato all’unanimità contro lo stanziamento di fondi per la Guardia costiera libica e ci era parsa una deviazione assai significativa del Pd dall’asse che, da Berlusconi passando per Minniti, aveva portato alla ferocia del governo gialloverde. Mai le politiche migratorie che criminalizzavano le Ong e riconoscevano una zona Sar libica, di fatto considerando la Libia un Place of safety, erano state messe in discussione dal Pd; quindi il voto dello scorso febbraio dell’Assemblea nazionale rappresentava un vero e proprio cambio di rotta: un cambio di rotta tradito. Ma questo sarà l’ennesimo giorno dell’indignazione. Il giorno in cui, con un commento, ci si lava la coscienza. L’ennesima foto dell’orrore: un uomo, un migrante, che per settimane ha vagato nel Mediterraneo, morto per raggiungere un sogno che per noi è realtà: l’Europa. Prima di lui in migliaia, prima di lui Alan Kurdi, poi Josefa e la donna con bambino, morti accanto a lei che invece era stata tratta in salvo viva e sotto shock. Vi ricordate le scarpette di Alan e le unghie rosse di Josefa? Dettagli usati per far credere che si trattasse di una messa in scena; non dimentico l’orrore di quelle morti, non dimentico l’orrore delle menzogne che sono seguite, ma nemmeno l’orrore del silenzio di chi vanta crediti da bestia buona mentre continua a spostare il nostro senso comune sempre più a destra, come dicono loro: “Per non regalare il Paese a Salvini”. Per non regalare il Paese a Salvini, sono diventati Salvini. Quanto tempo durerà la nostra indignazione di oggi e la sofferenza per questo ennesimo cadavere? Ancora domani, forse, e poi? Direi che è giunto il momento di dare un volto ai responsabili dell’orrore di cui noi siamo impotenti testimoni e migliaia di persone sono vittime, altrettanto impotenti. Ma la nostra impotenza è nulla rispetto al prezzo che le vittime pagano per rincorrere un desiderio umano, quello di sopravvivere a fame, guerre, violenza, discriminazione. Al prezzo che pagano per tentare la fuga dai campi di prigionia libici che - vale la pena ricordarlo, soprattutto a chi bacia croci e santini, a chi brandisce la bibbia e si professa cristiano, o cristiana - papa Francesco ha definito lager. E per questa tragedia abbiamo un pantheon di responsabili ed è giunto il momento di inserire tra loro il segretario del partito democratico Nicola Zingaretti. Il Pd, sotto la sua guida, ha prorogato, in Consiglio dei ministri, il finanziamento della Guardia costiera libica, ovvero degli aguzzini dell’uomo morto in mare (e di migliaia di altre persone, tra cui molti, moltissimi minori), ovvero dei trafficanti di esseri umani che con i nostri soldi torturano, imprigionato ed estorcono altro denaro ai disperati. L’Assemblea nazionale del Pd aveva votato all’unanimità contro il rifinanziamento, e questo solo cinque mesi fa. Ancora trovate sul sito del Pd, a caratteri cubitali, titoli come questo: “L’Assemblea nazionale Pd approva all’unanimità l’odg sulla Libia”. Allora non sarà lecito domandarsi perché il Pd nel Consiglio dei ministri non abbia seguito le indicazioni dell’Assemblea? L’Assemblea nazionale del Pd quindi non conta nulla? Lo immaginavamo e ora ne abbiamo la prova finale. Ma ripeto la domanda al segretario del Pd, la grido: perché i ministri del suo partito hanno tradito la volontà del voto? Finanziare gli aguzzini libici, per caso, significa prendere parte alla guerra civile libica? Significa tenere un artiglio nel Paese dai cui interessi e dalle cui sorti siamo stati estromessi? Lo si dica apertamente ma non così: mascherando, mentendo, tradendo, sacrificando vite umane. Quando tra qualche anno guarderemo film o leggeremo racconti sull’inferno libico - così ci è capitato vedere i lager nazisti, i gulag sovietici, i campi cambogiani, lo Stadio di Pinochet - dobbiamo ricordarci che l’orrore di oggi ha delle responsabilità. Sui “taxi del mare” di Luigi Di Maio e sulle “crociere” di Matteo Salvini credo di non dover aggiungere nulla, salvo questo: la ferocia di Di Maio e di Salvini non venga utilizzata come paravento da chi ha le medesime responsabilità mentre sbandiera i diritti umani come proprio vessillo. Per quel che ne sappiamo, abbiamo evidenza del fatto che questo governo non otterrà mai verità su Giulio Regeni, mai si impegnerà per la liberazione di Patrick Zaky e delle centinaia di detenuti nelle carceri egiziane mentre vende fregate Fremm al regime di al-Sisi. Mai si interesserà a chi muore da innocente nelle carceri turche e mai avrà cura di tutti i sofferenti - si badi bene, anche italiani - che vivono schiacciati dal tallone di qualcuno che, seppur palesemente criminale, è comunque qualcuno con cui si fanno affari. E gli affari vengono prima di tutto, prima del rispetto della vita umana. Il suo silenzio, segretario Zingaretti, sulle motivazioni del voto favorevole per il rifinanziamento degli aguzzini libici non è tollerabile, come non è accettabile che un segretario non sia capace di far rispettare il voto dell’Assemblea nazionale del suo partito. Tra il governo gialloverde e quello giallorosso non c’è alcuna differenza se al centro non viene posta la vita umana, ma una politica becera che pone chi governa l’Italia sullo stesso piano dei criminali che finanzia nel Mediterraneo. Il lavoro sporco in cambio di un briciolo d’influenza. Quello che è accaduto, segretario Zingaretti, adesso sembra una notizia che può essere nascosta, ma domani sarà una responsabilità che non le darà tregua. Gli Usa rispolverano le esecuzioni capitali per riguadagnare consenso dopo il Covid di Sergio Valzania Il Dubbio, 17 luglio 2020 Fra le pessime notizie degli ultimi giorni spicca l’uccisione di Daniel Lewis Lee avvenuta alle 8.07 di martedì mattina negli Stati Uniti provocata da un’iniezione letale. Si è trattato della prima condanna a morte a livello federale eseguita da 17 anni a questa parte, per ordine Ministro della Giustizia Usa William Barr, fedelissimo di Donald Trump. Pare che altre tre la seguiranno presto. Negli Stati Uniti la pena di morte ha una storia complessa. E non potrebbe essere diversamente, dato che si tratta dell’unico stato democratico nel quale essa sia ancora ammessa, anche se esiste un forte movimento contrario che è riuscito nel passato a farla abolire a livello federale, per il quale è tornata però legale dal 1988, e a impedire l’esecuzione di molte delle condanne comminate. Fra il 1988 e il 2018,78 persone hanno ricevuto una condanna a morte a livello federale, ma soltanto 3 di esse sono state eseguite. La decisione di procedere con le uccisioni, nel complesso sistema giudiziario statunitense, è di ambito politico. Lee è morto, continuando a proclamarsi innocente riguardo a un’accusa formulata ventiquattro anni fa, perché il ministro Barr ha ordinato al Bureau of Prisons di procedere con l’esecuzione di “detenuti nel braccio della morte condannati per l’omicidio, la tortura o lo stupro delle persone più vulnerabili della società: bambini e anziani”. La pena di morte corrisponde a una concezione dell’uomo primitiva. Si colloca indietro nel tempo, in epoche nelle quali non si era ancora sviluppato un umanesimo maturo, in grado di considerare l’essere umano nella sua complessità. Uccidere è proibito da tutte le grandi religioni, per aggirare il divieto in occasione delle guerre si sono inventate costruzioni logiche forzate, per l’omicidio giudiziario si è scavato nel passato, in contesti nei quali le scritture sacre accoglievano sensibilità diffuse che mascheravano la trasparente chiarezza del quinto comandamento: non uccidere. Il divieto si fa più stringente per chi non crede in un al di là, per chi è convinto, o rassegnato, a una vita tutta terrena, circoscritta nella materia. Uccidere diventa allora talmente definitivo da essere escluso. Per ogni uomo e ogni donna che muore scompare un universo. Dietro alla pena di morte non si pone un desiderio di giustizia, ma di vendetta, realtà terribile che inquina molti dei ragionamenti che si fanno attorno al diritto penale, la cui sola funzione dovrebbe essere la riduzione al minimo delle infrazioni alle regole della convivenza, ma al quale si chiede spesso di soddisfare aspettative diverse. Di riportare indietro il tempo. Il trasferimento della potestà giuridica a un’autorità terza, a qualcuno che non è stato ferito nei sentimenti o negli interessi da ciò che è avvenuto, non garantisce solo l’accusato da una vendetta frettolosa. Serve a proteggere l’intera comunità dal dilagare di sentimenti aggressivi, dal desiderio di trovare un colpevole che funga comunque da capro espiatorio, che riceva una punizione tale da considerare chiusa una vicenda dolorosa. Per questa ragione l’uso che viene fatto dall’amministrazione americana della pena di morte come mezzo per la ricerca di un consenso che il Covid-19 ha in parte cancellato presenta dei lati molto inquietanti. Lo strumento creato per impedire vendette o imposizioni sommarie di pene perde la funzione per la quale è nato e si degrada, l’uccisione di un uomo assume in pieno il carattere dell’omicidio; le ragioni giudiziarie per le quali esso viene commesso sono cancellate da quelle reali, inammissibili. Il sistema della giustizia statunitense esercita su di noi, che siamo anche pubblico televisivo, una potente fascinazione, per alcuni aspetti di efficienza e di chiarezza dei ruoli senz’altro giustificata. Non altrettanto si deve dire per le concessioni che esso fa al sentire comune, che sappiamo essere troppo sensibile all’immediato e troppo fiducioso nelle possibilità della repressione, quando le nostre società avanzate hanno soprattutto bisogno di conciliazione. Egitto. Regeni, Di Maio ammette: non faremo nulla di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 luglio 2020 Il ministro degli Esteri in Commissione: no al ritiro dell’ambasciatore, no al blocco delle armi italiane. La vendita delle fregate Fremm “non è un favore dell’Italia all’Egitto” È vero il contrario L’audizione del ministro Di Maio in Commissione parlamentare. Per ottenere dalle autorità egiziane giustizia sulla morte del ricercatore friulano Giulio Regeni, il governo italiano sta “facendo il massimo”. Di più non si può. Richiamare il nostro ambasciatore dal Cairo? “Non è necessario”, anzi. Interrompere la vendita di armi italiane al dittatore Al Sisi? “Non inficia la ricerca della verità”, non è una “leva” adatta all’uopo, e soprattutto se si usa questa procedura per l’Egitto poi “dovremmo fare lo stesso con tutti gli altri Paesi del mondo” in cui non si rispettano i diritti umani. Bisogna riconoscere al ministro degli Esteri Luigi Di Maio di essere stato molto più schietto del premier Conte, nel raccontare come stanno realmente le cose. Dal punto di vista di chi siede a Palazzo Chigi, naturalmente. In soldoni, il governo ha le armi spuntate con il regime egiziano, ha di fatto spiegato ieri l’attuale inquilino della Farnesina davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni presieduta da Erasmo Palazzotto (Sel) e rispondendo alle domande dei componenti. Non a tutte però: al deputato di Forza Italia Bettarin che gli chiedeva se il governo fosse disposto in ultima istanza almeno a ricorrere alla Corte internazionale dell’Aja, visto che l’Egitto ha comunque firmato la convenzione internazionale multilaterale sulla cooperazione giudiziaria, l’esponente pentastellato non ha risposto. Per un tempo che pareva infinito, Di Maio ha rimesso in fila la lunga serie di scambi epistolari, telefonate, incontri al vertice e tra gli “sherpa”, tra politici e tra procure, richieste e rassicurazioni, dichiarazioni di intenti, ultimatum, pen-ultimatum, rotture e tentativi vari di ottenere almeno legittimazione e rispetto per le autorità italiane in suolo egiziano. Eppure, ha assicurato, c’è sempre stato un “fortissimo impegno degli esecutivi di cui ho fatto parte, con un’azione continua e insistente” per far emergere la verità. Ma chi si aspettava almeno una presa d’atto di fallimento è rimasto deluso: Di Maio si è di nuovo unito al dolore della famiglia Regeni, che combatte instancabilmente da quando nel febbraio 2016 il giovane ricercatore è stato rinvenuto cadavere orrendamente torturato e mutilato sulla strada tra Alessandria e Il Cairo. “Ogni loro critica è legittima e comprensibile e deve essere una spinta per noi”. Ma, ha aggiunto, “quando nel settembre scorso sono arrivato alla Farnesina era un anno che le procure non avevano più contatti. Con enorme difficoltà e con la pandemia di mezzo abbiamo fatto riprendere i contatti tra le procure e crediamo che l’azione del corpo diplomatico stia producendo questo processo, che non è nato dal nulla”. Ecco perché, ha chiarito definitivamente l’esponente 5S, “è fuorviante credere che avere un nostro ambasciatore al Cairo significhi non perseguire la verità e viceversa è fuorviante pensare che ritirarlo sia necessario per arrivare alla verità”. L’ambasciatore Cantiani, ha assicurato il ministro, “si sta occupando di Patrick Zaky” e dei “suoi diritti fondamentali, sollecitando anche il coinvolgimento dei partner europei”. A nulla è servito ricordargli, come ha fatto il deputato di +Europa Riccardo Magi, che già nell’agosto 2018, dopo un incontro con Al Sisi come ministro dello Sviluppo economico (quell’anno andarono anche Salvini, Moavero e Conte), Di Maio aveva annunciato “sviluppi positivi entro l’anno” sulle indagini, riferendo anche la frase-shock del presidente egiziano: “Giulio è uno di noi”. Di Maio si giustifica dicendo che in effetti le relazioni con l’Egitto sono “fortemente limitate” da allora, la cooperazione economica è “depotenziata” e gli incontri al vertice non più proficui come prima. Eppure le armi italiane continuano ad essere vendute all’esercito di Al Sisi. “Sì, ma non credo che infici la ricerca della verità”, né che interromperne il mercato “possa essere una leva per ottenerla”. In particolare sulla vendita delle fregate Fremm e dei velivoli Leonardo, Di Maio riferisce, come ha fatto anche il ministro dei Rapporti con il Parlamento D’Incà rispondendo a un’interrogazione di Leu, che “il governo si è limitato al momento a dare l’autorizzazione alle trattative”, il che “non conferisce automaticamente il diritto di ottenere l’autorizzazione all’esportazione”, che sarà valutata dopo la firma del contratto. In ogni caso, ha scandito il ministro per chi avesse mai avuto dubbi, “la vendita delle nostre armi non è un favore dell’Italia all’Egitto”. A questo punto, non rimane che attendere. “Il prossimo obiettivo è far incontrare dal vivo i magistrati italiani e quelli egiziani”. Perché il governo, su questo è stato chiaro, può solo “assistere l’operato dei nostri inquirenti”. “Abbiamo profonda fiducia che i nostri inquirenti siano in grado di far progredire questa inchiesta”. Se non ci riescono loro, non ci riesce nessuno, sembra dire. Perché sia chiaro: sul pugno duro di Al Sisi l’Italia ci conta. Egitto. Regeni, la scelta da compiere tra etica e convenienza di Antonio Armellini Corriere della Sera, 17 luglio 2020 La famiglia del ricercatore ucciso in Egitto reclama con ragione un’azione più decisa, le tergiversazioni della magistratura cairota sono inaccettabili ed è indispensabile continuare a denunciarne le carenze pretendendo una collaborazione sempre promessa e subito smentita. Non era detto che finisse così e la vicenda dei nostri marò si è conclusa nella maniera per noi migliore. Che la giurisdizione dovesse essere italiana era abbastanza chiaro dall’inizio, anche se lo status di fanti di marina in servizio di Stato, ma pagati da armatori privati a mo’ di contractor, poteva dare adito a più di un dubbio (la legge che di quei dubbi era la causa, non sembra sia stata modificata). Latorre e Girone saranno processati in Italia e verranno con grande probabilità assolti (attenzione, la Corte dell’Aja ha statuito sulla giurisdizione e non sul fatto, per il quale restano formalmente indagati). L’obbligo per l’Italia di risarcire le vittime (peraltro già risarcite da tempo in parte, con una fretta forse non del tutto assennata) permette al governo indiano di sostenere che la violazione italiana del diritto internazionale è stata accertata. La decisione della Corte ha riconosciuto qualcosa ad entrambi, come si conviene ad un buon arbitrato: qualche sbavatura resta possibile, ma è destinata a rimanere marginale. Perché aldilà delle argomentazioni giuridiche, quel che è ambiato è il quadro politico di riferimento. Per Narendra Modi, la vicenda della Enrica Lexie era un drappo rosso nei confronti dell’”italiana” Sonia Gandhi e del partito del Congresso, utilissimo da agitare in una campagna elettorale difficile; dopo la disfatta del clan Gandhi, continuare ad insistere sulla storia dei marò aveva sempre meno senso e rischiava di attirare l’attenzione sulle ambiguità che da parte di Delhi non sono mancate, a detrimento dell’immagine di paese aperto alla collaborazione e agli investimenti internazionali, che sta molto a cuore al primo Ministro indiano. Non che gli manchino altri problemi ma di questo, almeno, potrà sbarazzarsi. Dopo gli andirivieni iniziali, anche da parte nostra è prevalso l’interesse a tenere un profilo basso. E così una valutazione politica convergente ha consentito a diplomatici e avvocati di lavorare bene e l’Italia può tornare ad affacciarsi con forza su un mercato per il quale l’ombra dei marò continuava a costituire un peso. Per il caso Regeni, vale il contrario. Anche qui siamo dinanzi a un crimine accertato, dei cui colpevoli si sa quasi tutto e che sarebbe facile incriminare attraverso un’indagine non viziata da altri fattori. Diversamente da Latorre e Girone però, l’incontestabilità delle nostre argomentazioni giuridiche sbatte qui contro il muro di valutazioni politiche contrapposte e del tutto incompatibili. È più di un sospetto che l’assassinio di Regeni sia stato fomentato da servizi segreti più o meno deviati, sulla base di informazioni falsate (cosa che ha reso ancora più ingarbugliata la ricerca delle coperture) e in più occasioni Al Sisi ha dimostrato di non essere in grado di andare oltre parole di circostanza. Aveva cercato all’inizio di proporre qualche capro espiatorio accettabile, ma ha dovuto fare marcia indietro. La realtà egiziana è quella che è e appare chiaro come egli dipenda per il suo potere da strutture che da lui dovrebbero dipendere, ma che sembra in grado di controllare solo in parte. Dinanzi all’alternativa fra riconoscere il buon diritto dell’Italia e fare giustizia, e mettere a rischio la sua presa sul potere, il legame con i protagonisti veri di questa vicenda non gli consente la libertà di manovra che sarebbe necessaria (chi ha memoria dei nostri servizi “deviati” del secolo scorso, ricorderà quanto simili condizionamenti possano pesare). La famiglia Regeni reclama con ragione un’azione più decisa, le tergiversazioni della magistratura cairota sono inaccettabili ed è indispensabile continuare a denunciarne le carenze pretendendo una collaborazione sempre promessa e subito smentita. Qualche risultato, se non altro nella ricostruzione dell’accaduto sarà possibile ottenere, ma andare oltre nello svelamento di una realtà che occhieggia minacciosa sullo sfondo sarà difficile. Fare il viso dell’arme all’Egitto sarebbe moralmente doveroso e misure come il richiamo del nostro ambasciatore avrebbero senso solo se parte di una strategia di pressioni politiche crescenti, con la prospettiva del sostanziale congelamento delle relazioni. A ciò si contrappone l’esigenza di non troncare il rapporto con un paese che per noi è strategicamente ed economicamente importante. L’incompatibilità delle valutazioni politiche rispettive si oppone in questo caso a qualsiasi mediazione e mette l’Italia dinanzi alla scelta fra etica e dignità da un lato, e convenienza politica dall’altro. Una scelta: proprio quello che a questo governo sembra sempre impraticabile. I dissidenti iraniani “salvati” da 7,5 milioni di tweet (anche Trump) di Viviana Mazza Corriere della Sera, 17 luglio 2020 Le vite di Amirhossein Moradi, 25 anni, Saeed Tamjidi, 27, e Mohammad Rajabi, 27, sono salve, per ora. “Aspettatevi la notizia che la sentenza è stata sospesa”, ha scritto su Twitter uno degli avvocati dei tre giovani condannati a morte in Iran, aggiungendo di aver potuto, per la prima volta, esaminare le accuse contro di loro. La speranza concreta di una svolta arriva dopo una campagna massiccia sui social alla quale hanno partecipato personaggi famosi come il regista Asghar Farhadi, l’attrice Taraneh Alidousti, il calciatore della nazionale Hossein Mahini, politici “riformisti” come l’ex vicepresidente Mohamad Ali Abtahi, l’ex deputata Parvaneh Salahshouri, ma anche insegnanti, medici, economisti, casalinghe. Nella giornata di martedì 7,5 milioni di tweet sono giunti da tutto il mondo (incluso uno di Trump). Il messaggio: fermate le esecuzioni. Si era saputo al mattino di martedì che i tre giovani sarebbero stati impiccati per aver partecipato alle proteste dello scorso novembre in cui furono uccise 500 persone. I tre ventenni erano tra i 7.000 arrestati. In una lettera aperta, i loro avvocati spiegavano che erano stati costretti a confessare sotto tortura. Secondo Iran Human Rights, ci sono state 280 esecuzioni nel 2019 nel Paese (superato solo dalla Cina). La pandemia di Covid-19, che ha fatto 13mila morti, e la crisi economica non hanno fermato il boia, con accuse che vanno dal bere alcolici allo spionaggio per la Cia. In parte il regime risponde così ai misteriosi incidenti che hanno colpito siti strategici della Repubblica Islamica a partire dal 29 giugno, alcuni dei quali considerati atti di sabotaggio del Mossad. Inoltre, le esecuzioni come sempre servono a intimidire l’opinione pubblica: sono uno strumento per prevenire nuove proteste. Ma la mobilitazione sui social ha lanciato un monito, espresso dall’ex ministro dell’Interno Mostafa Tajzadeh: “Niente scuote le fondamenta del sistema come versare il sangue degli innocenti”.