Nuovo corso in Cassazione. Arrivano Curzio e Cassano di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2020 La voglia di lasciarsi alle spalle una delle stagioni più buie della storia della magistratura traspare evidente nella pressoché unanime (sola eccezione, l’astensione del laico indicato dalla Lega Stefano Cavanna) quota di consensi che ha condotto ieri il Csm a eleggere i nuovi vertici della Cassazione. Lascia infatti per raggiunti limiti di età l’attuale presidente Giovanni Mammone e a sostituirlo nella carica di “primo magistrato” d’Italia sale Pietro Curzio, sinora presidente di Sezione nella stessa Suprema Corte; lo affiancherà come aggiunto, ed è la prima volta per una donna, la presidente della Corte d’appello di Firenze, Margherita Cassano. Doppio plenum dunque ieri mattina; il primo al Quirinale e presieduto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, a volere rimarcare la solennità del passaggio. È qui che la proposta unanime della quinta commissione che ha visto convergere tutti i componenti sul tandem Curzio-Cassano viene ratificata. Al Colle si vota per Curzio e subito dopo a Palazzo dei Marescialli per Cassano. Curzio, vicino a Magistratura Democratica come il procuratore generale Giovanni Salvi, entrambi pugliesi, viene presentato da una breve relazione del laico in quota Forza Italia Michele Cerabona. Dove anche questo momento appare poi a suo modo simbolico, visto che, davanti a un attento Mattarella, a illustrare il curriculum di Curzio, che in altre stagioni sarebbe stato definito una “toga rossa”, è colui che in processi non dei più banali (quello sulla compravendita dei senatori, per esempio) è stato avvocato di Silvio Berlusconi. Ma Curzio, 67 anni, ha raccolto consensi diffusi, forte di un’esperienza anch’essa trasversale. Perché il neopresidente, ha iniziato come pretore a Ruvo di Puglia, ma poi ha svolto anche funzioni requirenti, come pure Cassano, da Pm nella Procura di Bari, tanto che Nino Di Matteo, ora consigliere indipendente del Csm chiosa come “la possibilità di cambiare funzioni rappresenta un arricchimento della giurisdizione. Non comprendo come, di fronte a fenomeni di degenerazione dell’autogoverno della magistratura o di cattivo funzionamento della giustizia si invochi la separazione delle carriere”. Di Curzio, negli interventi in plenum, compreso quello di Piercamillo Davigo che ne mette in luce le capacità organizzative, viene ricordata la presidenza della Sesta sezione della Corte, quella deputata a fare da filtro a una mole di ricorsi che Davigo ricorda essere una vera e propria anomalia della giurisdizione tricolore; ma Curzio, per restare invece alla cronaca, ha anche presieduto di recente il collegio delle Sezioni unite civili che ha confermato la sospensione da stipendio e funzioni di Luca Palamara. Di formazione soprattutto lavoristica Curzio, che dirige anche la Biblioteca di cultura giuridica dell’editore Cacucci oltre che essere stato componente di commissioni ministeriali su sinteticità degli atti e accesso in magistratura, ha messo in evidenza anche di recente (intervento di un anno fa al congresso di Md, peraltro con accenti assai critici sulle politiche populistiche che sfruttano disperazione e disagio sociale in generale e su quota 100 e reddito di cittadinanza, influenzate entrambe dalla “ricerca di consenso”, in particolare) la centralità del lavoro. Una centralità riconosciuta anche dalla Costituzione in un contesto di sovranismo e populismo dove “la sovranità popolare non va intesa come potere assoluto, anche se si è parte della maggioranza. Una Repubblica costituzionale si basa su limiti, regole e valori fondanti, oltre che su istituzioni chiamate a garantirli”. Cassano, 64 anni, che fra 3 anni potrebbe subentrare a Curzio, ha esperienza soprattutto penale, ma è stata anche a lungo in Cassazione componente del Csm per Magistratura indipendente. Incassano entrambi le congratulazioni di un Matterella compiaciuto anche per un metodo che accantona nomine più o meno pilotate e giochi tra correnti: “Desidero anche esprimere - puntualizza il Capo dello Stato - un sincero apprezzamento per il modo in cui il Consiglio superiore è giunto a questa ampia condivisione nella nomina del nuovo Primo Presidente. La disponibilità al dialogo e al confronto rispettoso ha consentito di giungere a una decisione quasi unanime”. “L’esercizio sapiente e corretto della discrezionalità amministrativa - osserva ancora Mattarella - consente di selezionare tempestivamente, con cura e con obiettività, i dirigenti degli uffici giudiziari nelle varie articolazioni che l’ordine giudiziario presenta”. Processi eterni: no, grazie. Chi è Margherita Cassano, vice di Curzio di Annalisa Chirico Il Foglio, 16 luglio 2020 “Il mio augurio alle colleghe è che presto questa notizia non faccia più notizia”, Margherita Cassano è la prima donna a diventare presidente aggiunto della Corte di Cassazione, la numero due del primo presidente Pietro Curzio. Mai una donna era arrivata così in alto alla Suprema Corte. D’accordo, la Consulta è guidata da una donna eccellente, Marta Cartabia, ma la magistratura, dove ormai le donne rappresentano la maggioranza, resta un ambiente dominato dagli uomini che riservano a sé i ruoli di vertice. “Solo il giorno in cui l’elezione di una donna non desterà più stupore potremo dire di aver raggiunto la vera parità”, dice al Foglio la neopresidente Cassano. Lucana di origine, fiorentina d’adozione, il magistrato che dal 2015 presiede la Corte d’appello di Firenze è per tutti una “efficientista doc” che bada poco ai fronzoli: “Il giudice dev’essere equilibrato e umile, deve avere consapevolezza del limite e attitudine all’ascolto”, aggiunge lei. Figlia d’arte, il padre, Pietro Cassano, nato a San Mauro Forte, nel materano, è stato pure magistrato e si è occupato di terrorismo rosso e nero a Firenze. La madre, Anna Materi, è stata una delle prime donne a laurearsi in lettere antiche intorno al 1950 e a ottenere una cattedra per l’insegnamento a Tursi dove avrebbe incontrato il futuro marito, all’epoca pretore. Margherita, nessun matrimonio né figli, vive nel capoluogo toscano con la madre 92enne ed è legatissima alla sorella Alessandra, oncologa al Policlinico Gemelli di Roma: “Siamo cresciute con il modello di una mamma moderna e anticonformista che ci ha insegnato a badare alla sostanza delle cose”. In magistratura dal 1980 (“Mi sono iscritta a una corrente, Magistratura indipendente, molti anni dopo”), è stata allieva dell’ex procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, e ha ricoperto diversi ruoli, incluso quello di presidente della Prima sezione penale, specializzata in omicidi e violenze gravi. Nel suo curriculum anche una consiliatura al Csm, tra il 1998 e il 2002. “Le correnti sono raggruppamenti di magistrati che condividono legittimamente la medesima visione su alcuni grandi temi come i confini della nostra soggezione alla legge, la possibilità fornire risposte giudiziarie in casi non regolati dalla legge ordinaria o i limiti all’esposizione pubblica di un magistrato e alle sue esternazioni”. “L’associazionismo giudiziario - prosegue Cassano - si nutre della diversità di opinioni, del pluralismo, come in ogni democrazia. Quando si tramuta in esercizio improprio del potere, diventa patologico”. L’ultimo scandalo sulle nomine l’ha addolorata: “È una vicenda drammatica per il nostro corpo professionale, la maggioranza di noi è composta da persone che lavorano nel silenzio e con abnegazione. Tuttavia, anche gli accadimenti peggiori possono diventare l’occasione positiva per recuperare i valori fondamentali della giurisdizione. Questo è il messaggio che vorrei rivolgere alle giovani generazioni”. Convinta della necessità di una interlocuzione costante con l’avvocatura, in passato è stata la fustigatrice dei “processi mediatici” con parole definitive: “Oltre ad alimentare una morbosa ed esasperata attenzione verso i fatti di cronaca più clamorosi, determinano un’impropria sovrapposizione tra la realtà e la dimensione virtuale, producono una innegabile assuefazione emotiva con conseguente annullamento di ogni forma di pietas, che pure è uno dei pilastri della convivenza civile. Non contribuiscono alla comprensione delle problematiche umane e sociali sottese ai vari accadimenti, calpestano la presunzione costituzionale di non colpevolezza creando veri e propri ‘mostri mediatici’”. Lo scorso gennaio, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario a Firenze, non ha lesinato critiche al fronte di chi vorrebbe sospendere o eliminare la prescrizione: “La inevitabile dilatazione dei tempi del processo conseguenti alla sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado mal si concilia con un giusto processo incentrato sul metodo dialettico nella formazione della prova. Contrariamente a un’opinione diffusa, la percentuale più alta di prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari. Non possono essere sottaciute le drammatiche conseguenze sociali provocate dalla pendenza per lunghissimi anni di un processo penale che rende l’uomo unicamente un imputato in palese contrasto con la presunzione di non colpevolezza”. Tra i processi che hanno puntellato la sua carriera, si ricordano quelli contro la ‘ndrangheta: la strage di Taurianova, Olimpia 1 e 2. Eppure, le sentenze che hanno segnato maggiormente una donna mai diventata madre sono quelle emesse da giudice nei processi per infanticidio dopo il parto: hanno contribuito a modificare l’orientamento giurisprudenziale ponendo il rilievo la percezione ostile verso la gravidanza maturata nel contesto familiare e sociale. “Ringrazio la sorte per ogni sfida professionale che mi pone. Ogni esperienza aiuta a migliorare se stessi nel continuo rapporto con gli altri”. Caselli e quella nostalgia per il sistema inquisitorio di Tiziana Maiolo Il Riformista, 16 luglio 2020 In un articolo sul Corsera esprime i suoi dubbi sulla separazione delle carriere che andrebbe, nel suo ragionamento, a rafforzare addirittura il “partito delle procure”. Si ha paura della dipendenza dal ministro. Ha proprio ragione il dottor Giancarlo Caselli. Se si attuasse la separazione delle carriere tra giudici e rappresentanti dell’accusa, questi ultimi finirebbero con l’acquisire un potere tale da rafforzare quel Partito dei pm “di cui taluno favoleggia”. Potrebbe essere così, in effetti. A meno che. E proprio in “quell’a meno che” che si sviluppano le differenze tra i paesi liberali, in cui l’indipendenza e la terzietà del giudice sono sacre, ma per il rappresentante pubblico dell’accusa non può esserci autonomia senza responsabilità, e i Paesi dove vigono i regimi e le caste senza controllo. Come è purtroppo l’Italia. Scrive parecchio, in questo periodo, il dottor Caselli. Il suo ragionamento, come quello di ieri sul Corriere della sera, fila sempre diritto, con uno schema hegeliano ricco di certezze. Anche quando si esprime sul Fatto, non è mai grillino, piuttosto esprime la cultura tradizionale di quei magistrati italiani che rimpiangono le inchieste segrete del sistema inquisitorio e che hanno mal digerito il nuovo codice di procedura penale di tipo accusatorio. Che è però rimasto incompleto, purtroppo, proprio perché la commissione che l’aveva elaborato non ha potuto o voluto completarlo con la separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Né il Parlamento, nella prima, nella seconda e giammai nella terza repubblica ha osato farlo. Così, in quell’ “a meno che” dell’ex procuratore Caselli c’è la bestia nera dei magistrati conservatori o reazionari, la famosa dipendenza del pubblico ministero dal ministro di giustizia. Come se fosse uno scandalo il fatto che un governo - è quel che succede nella gran parte dei Paesi occidentali - possa elaborare un programma di politica criminale, con le proprie priorità e i propri metodi di intervento. Ed affidarne ai pm la sua esecuzione. Non è quello che fa per esempio il procuratore nazionale antimafia? Nella stessa sua definizione di “anti” non c’è un suo modo di essere Stato, governo, più che magistrato nell’accezione italiana? Di chi è il compito di lottare contro i crimini, del magistrato o del governo con i suoi apparati di sicurezza? La giurisdizione (juris dicere) è compito del giudice, non dell’avvocato dell’accusa. Non esiste Paese occidentale in cui il pubblico ministero abbia un potere in cui l’indipendenza prevalga sulla responsabilità come è in Italia. Il pm appartiene allo stesso ordine dei giudici, nessuna istituzione gli può dare istruzioni, il suo status è regolato esclusivamente da quel Consiglio superiore in cui ormai i pm la fanno da padroni, nessun ministro può interferire sulle valutazioni della sua professionalità, che del resto nessuno metterà mai in discussione, visti i ridicoli risultati della commissione disciplinare. A meno che non ci si chiami Luca Palamara e non si sia cascati all’interno di uno scontro politico- giudiziario più grande di lui. E a questo punto, considerando anche gli eventi dell’ultimo anno, non possiamo non citare altre due specialità dell’anomalia italiana: la potenza di un sindacato che ormai fa barba e capelli alla confederazione Cgil-Cisl- Uil, l’Associazione nazionale magistrati, e la visibilità mediatici che, da Di Pietro in avanti, può rendere un semplice sostituto più potente dei suoi stessi capi. Potente e intoccabile. Giancarlo Caselli, un po’ obtorto collo, conviene sulla separazione delle funzioni, che già esiste, se pure in forma molto limitata in termini logistici e geografici. Ma non riesce a levarsi dalla testa quello che è un po’ il tarlo che avvicina una parte della sinistra al Movimento cinque stelle, quel moralismo che ha sempre tenuto insieme in Italia, le due vere chiese, quella cattolica e la comunista. Se il pm prende ordini dal ministro, è il solito ragionamento, chi potrà più fare le inchieste sulla corruzione? Come se nel Paese non esistessero più la mafia e la `ndrangheta, e gli omicidi, gli stupri e le rapine. Come se i ministri guardasigilli (Bonafede, può ringraziare) fossero tutti corrotti o impegnati a proteggere gli amministratori disonesti. Vien da dire: caro dottor Caselli, fosse solo questo il prezzo da pagare per poter vivere in un Paese veramente libero e liberale, chissenefrega dei corrotti. La ricetta di Luciano Violante per il Csm: “Tutto da rifare, va ripensato dalle fondamenta” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 16 luglio 2020 Luciano Violante, già Presidente della Camera, giurista e magistrato in prima linea, oggi parla nella veste di Presidente onorario di Italia Decide, associazione che si propone di individuare soluzioni per sbloccare il Paese, troppo spesso imbrigliato. E da qui partiamo. Conte gira per le cancellerie e il dibattito politico si infiamma sull’Europa, sul Mes. Il viaggio è stato commentato da molti con atteggiamenti autodenigratori, che mio avviso sono sbagliati e dannosi per la nostra reputazione. L’Europa chiede tra le condizioni per il Mes una riforma della giustizia. Sa una cosa? In realtà l’Europa non dispone di dati corretti sull’Italia, perché spesso i dati riguardano solo le capitali. Parigi funziona meglio di Lione o Bordeaux, ma Roma non funziona meglio di Milano. I dati reali italiani sono nella media e talvolta migliori di quelli europei. C’è una disparità di efficacia tra gli uffici giudiziari. Viene fuori un problema: per quale motivo, a parità di regole, il Tribunale A funziona meglio del Tribunale B? E che cosa si risponde? Se con quelle regole alcuni funzionano e altri no, vuol dire che il problema sta negli uffici, non nelle leggi. Italia Decide ha svolto questa ricerca due anni fa e adesso verificheremo se le cose da allora sono cambiate in meglio o in peggio. Talvolta i dati del Ministero ci sono, ma l’Europa non ne tiene conto. Quali potrebbero essere le sue priorità per la riforma della giustizia? Bisogna riportare l’attenzione dal piano delle parole a quello dei fatti. Quante udienze alla settimana tengono i singoli uffici giudiziari? Quali tipi di udienze? Quanto durano? Fare una mappatura geo-giuridica della giustizia. Conoscere per decidere. Una indagine di questo tipo potrebbe essere fatta anche dalle Commissioni giustizia della Camera o del Senato. Non si può prescindere dai dati. Il Csm a sorteggio la convince? No, non mi convince. L’approccio ai problemi strutturali con soluzioni elettorali non funziona. È l’organo che va ripensato dalle fondamenta. L’attuale struttura del Csm fu pensata alla metà del secolo scorso; può essere adatta a governare la magistratura di oggi? Io credo di no. La magistratura oggi fa parte del governo del Paese. Quando il Csm fu istituito, la magistratura era un’istituzione di funzionari periferici. Oggi si tratta di una componente della governance del Paese. Che cosa pensa della commissione disciplinare del Csm che oggi presiede Davigo? Tutte le disciplinari vanno affidate a organi diversi e autonomi. Le sembra il caso che un magistrato del Tar faccia un ricorso contro il consiglio di presidenza, che magari ha respinto la sua domanda di trasferimento, e quel ricorso viene giudicato da un altro Tar che è soggetto a quell’organo che ha emanato il provvedimento impugnato? Poi, alla fine, sono sempre Cassazione e Consiglio di Stato che decidono, perché i provvedimenti sono impugnati quasi sempre. Palamara chiama 133 nomi come testi della difesa. Quale messaggio vuole dare? Si deve difendere, è un suo diritto. Ne sono stati ammessi pochi. Ogni organo giudicante decide se ammettere o meno i testi. Tra i nomi che cita come testimoni informati c’è anche quello di Davigo. Ci potrebbe essere un motivo; io non lo conosco. Come giudica l’idea di istituire una commissione di inchiesta parlamentare sulla malagiustizia? Vedo una preoccupante tendenza del sistema giudiziario a entrare nel merito della politica e viceversa, la politica che troppo spesso vuole vestire la toga. La democrazia si regge sull’equilibrio tra i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario, ndr) e se uno di questi non rispetta i propri limiti, possono esserci squilibri gravi ai danni dei cittadini. L’audio del giudice Amedeo Franco ci dice che quei limiti sono stati calpestati, con magistrati che si sono incaricati di svolgere un lavoro di contrasto politico vero e proprio. Quel che si sente in quell’audio è certamente molto discutibile. Si tratta pur tuttavia dell’audio di una persona non più in vita e non si capisce perché è stato tenuto riservato fino a oggi. Ciò detto, è un audio che rivela una precostituzione politica, un pregiudizio che trasforma l’arbitro in un centravanti. Il dottor Franco poteva dissociarsi dalla decisione, come prevede la legge. Ma non lo ha fatto. Quella sentenza porta la sua firma ed è stata pronunciata con il suo consenso. Tuttavia su Berlusconi qualche barricata oggi cade. Le aperture dello stesso Romano Prodi e di Carlo De Benedetti, sono emblematiche. Forza Italia nella maggioranza? Io non lo troverei scandaloso: ma occorrerebbe trovare un programma comune tra Pd, M5s e Forza Italia. Non penso che Forza Italia si consideri solo una appendice numerica. Prima vanno precisati gli obiettivi, poi siglate le alleanze. Lei è sempre stato per il dialogo, fin dal suo discorso di insediamento alla Camera… Dialogo e governo sono cose diverse. Che maggioranza e opposizione dialoghino è un dato di grande civiltà politica. Fare insieme una maggioranza di governo vuol dire condivisione della strategia complessiva, un programma di obiettivi da realizzare. Ed è cosa più complessa. Pd e Cinque Stelle condividono una strategia complessa? Non le sembra che il Pd finisca per mandare giù tutti i rospi dei Cinque Stelle? Se io fossi Di Maio lei mi chiederebbe la stessa cosa, a parti invertite. Ma lei è Democratico… Quando due forze politiche diverse si sono dovute inventare un percorso comune nell’arco di poche settimane, non tutto è condiviso. Ma neanche nell’opposizione le cose sono più chiare. Gli elementi comuni tra FI, Fdi, Lega non sono definiti con chiarezza. Sono entrambe alleanze competitive; nessuno fa beneficienza all’altro. D’altronde il sistema elettorale premia la peculiarità. Anche il Germanicum… Il sistema elettorale trasforma i voti in seggi, non garantisce in sé la stabilità. La Germania con il proporzionale ha stabilità. La Gran Bretagna e la Spagna con il maggioritario hanno attraversato momenti di grande instabilità. Esiste un problema di populismo giudiziario? Forse l’espressione l’ho inventata io qualche anno fa. Ma non sono sicuro. Si tratta del tentativo di risolvere problemi di carattere politico e sociale con misure giudiziarie, presentandole al popolo come quelle che risolvono le cose perché puniscono: la punizione come soluzione. C’è una passione punitiva. E poi c’è il plebeismo giudiziario. Come si definisce il plebeismo giudiziario? Si solleticano gli umori più vendicativi e irrazionali: “Sbattiamoli tutti dentro e buttiamo la chiave”: è questo il plebeismo giudiziario. Tanti partiti, pochi leader. Siamo passati dal principio di rappresentanza al principio di somiglianza. Un principio che inverte la dinamica della guida politica: io non vi rappresento per doti di prestigio ma perché sono come voi, mi comporto come voi. Una falsa mescolanza, per cui il leader non primeggia ma finge soltanto di essere uno come tutti, si finge l’elettore medio. È una forma di frode all’elettore. Un meccanismo che svuota il principio di rappresentanza. E vale anche all’interno dei partiti con i rappresentanti che vengono valorizzati quanto più sono somiglianti al leader. In alcuni partiti è in corso un processo di caporalizzazione. È un sistema riformabile, quello dei partiti? Il problema, a mio avviso, non è nei partiti. È la decisione, il sistema decisionale che non funziona. E i partiti sono presi in una tenaglia tra l’esigenza di decidere e l’inadeguatezza delle procedure parlamentari. Siamo affetti inoltre da un policentrismo anarchico, con troppi centri ciascuno dei quali reclama non sinergie ma separazioni. Comunque il primo processo decisionale da rivedere è quello parlamentare. Tra poco si voterà anche per ridurre il numero dei Parlamentari. Sì. E passare a meno deputati alla Camera non cambierà molto. Per il Senato sarà diverso. Un Senato di 150/160 membri effettivi non può fare il lavoro che fino a poco tempo prima facevano 315 senatori. Rischia di essere una palla al piede nel processo decisionale. La mia idea è che bisogna assegnare alla sola Camera il voto finale sulle leggi e il potere di dare e togliere la fiducia al Governo. Il Senato può proporre alla Camera eventuali modifiche e potrebbe essere la sede dove si sviluppa il dialogo Stato-Regioni. La riforma del procedimento legislativo é indispensabile. Superando il sistema del bicameralismo perfetto. In materia costituzionale bisogna fare il minimo indispensabile, non il massimo possibile. Con una ambizione: ricostruire un ordito istituzionale. E riassegnare una gerarchia dei poteri. Non c’è dubbio, bisogna riorganizzare i poteri dello Stato. Se pensiamo a quello che è accaduto con la crisi Covid, a quelle ordinanze continue, sovrapposte e contraddittorie tra Comuni, Regioni, Protezione Civile, Ministeri e Presidenza del Consiglio nelle quali ciascuno tentava di dire la sua e il povero cittadino non sapeva cosa fare, capiamo che siamo arrivati al limite. Il policentrismo deve essere ben governato. Il Referendum Renzi-Boschi è stata una occasione persa? Io ho sostenuto quella riforma, indicava la strada giusta. E penso sia stata un’occasione persa: ci avrebbe dato un sistema molto più funzionante di quello che abbiamo oggi. Nella tripartizione dei poteri, in una democrazia parlamentare si dovrebbe dare priorità al legislativo su tutti. In una democrazia parlamentare la sovranità è esercitata dal parlamento che rappresenta il popolo. La sovranità sta lì. Ma la sovranità va esercitata. Il Parlamento negli ultimi vent’anni ha invece rifiutato di esercitare la propria sovranità, affidandola ad autorità indipendenti, alla magistratura, al governo. Bisogna ricostruire la sovranità del Parlamento, che è la sovranità della rappresentanza, nelle forme proprie del XXI secolo. Questa legislatura non lo è? Ho la sensazione che nelle ultime legislature alcune decisioni e alcuni comportamenti siano stati frutto di una indifferenza al problema della sovranità o di una sua sottovalutazione. Albamonte: “C’è voglia di resa dei conti verso noi magistrati. Ma così il Paese va a picco” di Errico Novi Il Dubbio, 16 luglio 2020 “Oltre alle riforme punitive, si chiedono anche commissioni d’inchiesta: come se si trattasse di mafia o terrorismo. Ingiusta detenzione, certe norme della pdl sono solo slogan”. “Sì, c’è un rischio serio, molto serio, che la politica infierisca strumentalmente anziché preservare l’autorevolezza e l’immagine di noi magistrati. Alcuni pensano sia l’occasione giusta per operare una sorta di resa dei conti. Dal caso dell’hotel Champagne si rischia insomma di arrivare a una rappresaglia”. Eugenio Albamonte ha chiara la distinzione fra il ruolo istituzionale del magistrato e l’attività “politica” delle correnti (lui ne guida, come segretario generale, una ora maggioritaria, Area). Ma mai come ora avverte evidentemente la necessità di imporre il secondo aspetto, di non rinunciare, per timidezza dovuta alla difficoltà del momento, a far sentire a governo e Parlamento la voce delle toghe. Teme che la politica ragioni di riforme sui magistrati in termini di punizione o resa dei conti? E sì, il timore è che le vicende dell’hotel Champagne e le altre chat che coinvolgono consiglieri superiori vengano strumentalizzate per regolare una serie di questioni. Non mi riferisco solo alle riforme del Csm o dell’ordinamento giudiziario ma anche a idee come quella di istituire commissioni d’inchiesta sui presunti complotti giudiziari orditi contro la politica. Si pensa di trattare la magistratura come la criminalità organizzata o altre vicende oscure del nostro Paese. Come i servizi deviati o il terrorismo? Ecco, diciamo che simili ipotesi mi pare vantino adesso maggiore appeal che in passato. E così perché la magistratura soffre per una lesione della propria credibilità. Ma il punto è che se c’è una istituzione indebolita, le altre dovrebbero lavorare per favorirne il recupero di credibilità, preservarne l’autorevolezza. Il vero dramma del nostro Paese è che invece in questi casi ciascuna classe dirigente approfitta della caduta delle altre per regolare appunto vecchi conti. Nel nostro caso c’è pure la pretesa di avviare analisi del sangue su ciascun giudice o pm per verificare se si trovino tracce di una sua eventuale faziosità politica. L’Anm è preoccupata innanzitutto per le sanzioni ai giudici “lenti”: si può arrivare addirittura allo sciopero? Mi pare prematuro ragionare in questi termini. Finché permane l’apertura al dialogo ribadita dal guardasigilli Bonafede è giusto discutere e distinguere gli aspetti positivi delle riforme più o meno definite, come ce ne sono per il Csm, da quelli sui quali chiedere modifiche. Tra l’altro, sull’illecito disciplinare ipotizzato per il mancato rispetto di tempi predeterminati ci aspettiamo di veder confermata la considerazione negativa espressa in passato da quella stessa Unione Camere penali che ora vede maggiori spazi per spingere sulla separazione delle carriere. Sulla richiesta che la qualità delle decisioni non sia sacrificata alla loro rapidità, l’avvocatura è sempre stata chiarissima... Noi vogliamo la rapidità, ma che sia compatibile con la qualità, altrimenti è chiaro che se il magistrato vede approssimarsi la scadenza tende a sacrificare i tempi del dibattimento e quindi le stesse garanzie difensive, pur di evitare la sanzione. Lei diceva di dover distinguere: nella legge Costa sull’ingiusta detenzione non è forse opportuno rendere più tempestive le segnalazioni dei casi ai titolari dell’azione disciplinare? Se il problema sono i tempi con cui gli uffici formalizzano le comunicazioni al ministero, lo si risolve con lo stanziamento di maggiori risorse. Se manca il personale è chiaro che alcune procedure rallentano. In ogni caso la proposta dell’onorevole Costa introduce una categoria assolutamente metagiuridica qual è quella della superficialità, che mi pare presa dal linguaggio comune più che da quello tecnico al punto da assolvere a una funzione-manifesto, di delegittimazione dei magistrati, piuttosto che individuare nuovi spazi della loro responsabilità. Ma poi: è evidente che nella fase delle indagini e in sede cautelare non vi siano gli stessi elementi disponibili al termine di un procedimento giunto in Cassazione, quando il contraddittorio dibattimentale consente tutt’altro grado di cognizione. Si rischia di creare anche una dinamica paradossale interna ai medesimi uffici giudiziari: un certo collegio della Suprema corte potrebbe determinare, con una determinata pronuncia, conseguenze disciplinari per un altro collegio della stessa Cassazione che in sede cautelare aveva assunto certe decisioni. Il suo gruppo, Area, ipotizza correttivi come i periodi cuscinetto fra un incarico direttivo e l’altro: servono a sdrammatizzare il carrierismo? La riforma del 2006 aveva pure indovinato alcune scelte, come quella di svincolare un po’ la dirigenza dall’anzianità, ma con la gerarchizzazione degli uffici ha favorito all’interno della magistratura una bulimia delle carriere. Il che crea a carico del Csm non solo un aggravio di lavoro ma anche un’enorme pressione legata alle ingigantite aspettative. Un rimedio è rendere effettiva la permanenza degli 8 anni prevista per gli incarichi, ma ragioniamo anche su una sorta di fermo biologico, appunto, al termine del periodo in cui si è svolta la funzione direttiva. I rischi di ingerenza della politica la convincono ancor di più sull’avvocato in Costituzione? È una riforma che a me è sempre sembrata contenere aspetti solo positivi, anche se potrebbe mettere il ceto forense dinanzi alla necessità di compiere scelte su altre riforme. La tentazione punitiva, restauratrice verso le toghe deriva anche dal sentimento di avversione radicatosi, nell’opinione pubblica, verso tutte le classi dirigenti? È un dato di fatto. Possiamo farlo risalire al periodo in cui è stato pubblicato il celebre libro su La casta, il quale ha fatto da innesco per una serie di movimenti politici che hanno individuato un argomento dominante proprio nell’ostilità alle classi dirigenti comunque intese. Però va anche detto che le classi dirigenti hanno fatto poco per preservare la loro credibilità, e questo vale anche per la magistratura, ora costretta, da fatti specifici, a impegnarsi in una ristrutturazione. Ma ripeto, l’errore davvero esiziale è quello che induce ciascun ceto dirigente a tirare gli altri verso il basso anziché a sostenerne il riscatto. Nel resto d’Europa prevale la reciproca legittimazione, da noi l’esatto contrario. Così il giustizialismo diventò religione di Stato di Alessandro Barbano Il Riformista, 16 luglio 2020 La prescrizione è il dito del populismo frapposto tra gli occhi del Paese e la luna. Tutti lo guardano, e si dividono sul giudizio. E tutti ignorano la luna, la madre di tutte le emergenze, il buco nero della nostra democrazia. […] La luna è un sistema malato, che fa male al Paese. Perché troppe cose sono andate fuori posto. Il ruolo del pm è senza dubbio la prima, ma non l’unica, ad avere scarrocciato dai binari di una fisiologia sana, per diventare un fattore di turbativa del sistema giudiziario e di quello democratico, in cui il primo è iscritto. Nel nostro sistema l’indipendenza del pm coincide con la sua irresponsabilità. Non solo rispetto agli altri poteri dello Stato, ma anche rispetto al suo stesso ufficio, dove opera esercitando un pieno controllo gerarchico della polizia per la conduzione delle sue indagini. In un sistema accusatorio incompiuto, dove il ruolo dell’accusa è andato via via crescendo rispetto a quello della difesa, il pm si muove per tutta la lunga fase delle indagini preliminari come un poliziotto totalmente indipendente. Ciò rappresenta un unicum rispetto alla maggior parte delle democrazie liberali, dove non esiste una figura processuale dotata di poteri di polizia tanto ampi quanto non soggetti a controllo. Manca anzitutto un controllo gerarchico, perché l’azione di ogni singolo magistrato inquirente è ancora sottratta, in nome dell’indipendenza, a un vaglio di merito da parte del capo dell’ufficio. Non è un caso che quando il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, chiede di essere preventivamente informato dell’iscrizione nel registro degli indagati di persone coinvolte nelle indagini, si scateni la protesta dei suoi sostituti. E manca un controllo giurisdizionale connesso a una effettiva responsabilità rispetto all’appropriatezza dell’azione penale. Perché, se pure a distanza di anni il giudizio di appello o di Cassazione certifica che questa è stata avviata per motivi penalmente irrilevanti o addirittura inesistenti, nessuna responsabilità concreta sarà mai imputata al pubblico ministero, né sotto il profilo disciplinare né ai fini di una valutazione della sua professionalità. Ogni tentativo di configurarla s’infrange contro il muro dell’obbligatorietà dell’azione penale, in nome della quale è sempre possibile invocare l’esistenza di indizi di reato che il pm era tenuto a verificare. Così questo principio costituzionale compie il miracolo di trasformare la più spregiudicata discrezionalità in un atto dovuto per legge. Come ci ricorda uno dei più autorevoli studiosi dei sistemi penali, Giuseppe Di Federico, il pericolo dell’arbitrarietà è tanto più grande in un Paese dove i reati commessi sono molto più numerosi di quelli che concretamente possono essere perseguiti. Ciò significa lasciare al pm, attraverso la sua insindacabile scelta, l’esercizio della politica criminale, cioè l’indirizzo degli strumenti predisposti dal sistema per contrastare la criminalità. Ma in nessuno dei Paesi a consolidata tradizione democratica la politica criminale è sottratta alla responsabilità di organi che rispondono politicamente ai cittadini. Questo sconfinamento in un ambito propriamente politico si specchia in quel fenomeno di irrituale investitura popolare che la magistratura in Italia ha ricevuto in alcuni passaggi chiave della storia repubblicana e che rappresenta una prima turbativa rispetto alla separazione dei poteri su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Il Consiglio superiore della magistratura (Csm) riflette tutte le contraddizioni qui raccontate. È un organo politico-corporativo a cui spetta il delicato compito di decidere gli avanzamenti di carriera dei magistrati, in assenza di un sistema gerarchicamente organizzato, cioè in assenza di una subordinazione che rifletta una gerarchia dei saperi e delle esperienze a cui far corrispondere coerenti valutazioni di merito. A cos’altro appendere allora il destino delle carriere, se non ai rapporti di forza e agli accordi transattivi e di reciproco scambio tra le aggregazioni in cui la magistratura si divide e si articola? Ci sono procure che sono rimaste scoperte per più di un anno per il mancato accordo tra i diversi cartelli della magistratura associata, altre che sono state coperte solo dopo una spartizione concordata, con reciproche concessioni, di tutti i posti vacanti. […] La seconda asimmetria della giustizia italiana è l’ampiezza della custodia cautelare. Più di un detenuto su tre, cioè il 34,5 per cento contro una media europea del 22,4, è in carcere in attesa di giudizio, cioè in assenza di una sentenza definitiva che ne certifichi la colpevolezza. Ed è sintomatico che questa percentuale sia rimasta altissima nonostante che i presupposti per l’adozione delle misure cautelari siano stati modificati in maniera più stringente, incentivando anche il ricorso alla detenzione domiciliare. Ciò vuol dire che le riforme garantiste scivolano sul corpo di un sistema dove sono i rapporti di forza tra i vari attori a fare in concreto la legge. Il terzo fattore di squilibrio del sistema è il più grave ma anche il più sottovalutato, perché più tecnico e più difficilmente comprensibile dai cittadini. Riguarda lo slittamento da un diritto penale fondato sul reato a un diritto penale centrato sulla figura del reo. Un diritto penale di marca liberale mette al centro il fatto tassativamente descritto dalla norma, in quanto lesivo di un bene giuridico tutelato dall’ordinamento. Il reato di omicidio persegue l’atto di uccidere che attenta al bene, massimamente protetto, della vita umana. Ciò implica due conseguenze: la prima è che la gravità del reato si collega alla sua offensività, cioè alla sua capacità di danneggiare il bene, oggetto di tutela […] La seconda conseguenza riguarda il rapporto dell’azione penale con il reo: se persegue l’assassino, lo fa in quanto colpevole, cioè autore del fatto che costituisce il reato. Il comportamento o, addirittura, la personalità dell’omicida valgono per valutare la gravità del reato nel contesto in cui si compone il fatto, non come elementi penalmente rilevanti in sé. In un diritto liberale è la colpevolezza, non la pericolosità, il presupposto dell’azione punitiva dello Stato. Perché la pericolosità è potenzialmente insidiosa. Implica un giudizio dell’autorità sul presunto reo che non rispetta i confini di tassatività della norma penale e il più delle volte sconfina nel soggettivismo. Il diritto penale in Italia sta sposando in modo molto rischioso la pericolosità. Anzitutto con una serie di reati inoffensivi in sé, cioè privi di una lesione del bene giuridico. Pensate per esempio al traffico di influenze, una fattispecie introdotta dalla legge Severino il cui confine con l’attività lecita del lobbismo è del tutto indeterminato e, quindi, soggettivamente determinabile. La tendenza a fare della pericolosità - o anche del semplice pericolo di un pericolo - il fondamento dell’accertamento penale e della sanzione è specchio dell’influenza che ha il processo mediatico nel processo penale e della confusione che tra i due livelli si determina. Con l’effetto che l’oggetto del contendere non sono più i fatti costituenti reato, le azioni per compierli e gli elementi soggettivi del dolo e della colpa, ma le mere intenzioni non qualificabili come elementi della colpevolezza, e perfino i desideri irrealizzabili dei soggetti che entrano nel radar dell’indagine. Ciò che rende intenzioni e desideri legittimamente ostensibili non è la fondatezza probatoria, ma l’intensità del sospetto, desumibile dal numero di associazioni e collegamenti che è possibile stabilire tra le notizie acquisite. È in questa valutazione quantitativa che la captazione informatica di una microspia diventa centrale, per la sua capacità di condensare la grande mole di dettagli, indizi, associazioni e richiami presenti in una sezione di relazioni personali. Ma la raccolta e l’esibizione indiscriminate di reperti umani si rivelano invasive oltre ogni limite. Non solo perché ignorano qualunque distanza spaziale tra noi e gli altri, liquefacendo nell’iperpubblicità dell’indagine preliminare la privatezza e perfino il pudore di una confidenza. Ma perché, costipando la dimensione del tempo in un presente fatto di attimi captati, riducono la volontà delittuosa a un’espressione, riavvolgono la colpevolezza in un frammento in cui si perde ogni differenza tra un piano e un’intenzione, tra un’intenzione e un desiderio, e tra un desiderio e un’emozione. Il processo mediatico prevale sul processo penale, e un metodo, che non fa onore a chi scrive definire “giornalistico”, tipico del primo, si insinua nel secondo, alimentando una confusione pericolosa. Così si realizza quello slittamento da una giustizia che punta ad accertare la colpevolezza a una che si contenta di rappresentare una pericolosità desumibile da un giudizio sulle intenzioni e sulle relazioni. La confusione non opera solo sovrapponendo un giudizio mediatico a un giudizio penale, e oscurando quest’ultimo a vantaggio del primo. […] Ma c’è ancora uno spazio amplissimo in cui la democrazia italiana ha sdoganato la pericolosità come il fondamento della pretesa punitiva dello Stato: è la legislazione speciale antimafia, interamente fondata sul sospetto, e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische. Il suo libro sacro è il codice per l’applicazione delle cosiddette “misure di prevenzione”, che consente allo Stato di acquisire patrimoni finanziari, immobili e aziende in assenza di un giudicato penale, cioè prima che sia intervenuta una sentenza di condanna. La sottrazione della proprietà avviene con un procedimento in camera di consiglio, che valuta la pericolosità sociale dei titolari dei beni e l’inspiegabile sproporzione tra la ricchezza conseguita e i mezzi professionali e finanziari diretti a produrla. Queste misure di prevenzione sono il sistema normativo più illiberale dell’Occidente. Sono figlie di un diritto cosiddetto “del doppio binario”, un diritto autoritario e senza garanzie, che scorre parallelamente a quello ordinario. Fu adottato dopo l’Unità d’Italia dalla Destra storica per debellare i briganti, usato in seguito dai governi di fine Ottocento contro i primi sindacalisti e i movimenti operai, poi fatto proprio dal fascismo contro i dissidenti, e sopravvissuto fino ai giorni nostri, nonostante la Carta costituzionale non ne facesse menzione, con l’intento, chiaro nei lavori preparatori, di abrogarlo per sempre. È la legge dei cattivi, delle regole spicce, del fine che giustifica i mezzi. Lo abbiamo eternato per combattere la mafia. E lo abbiamo difeso contro ogni evidenza e ogni censura, come quella della Corte di giustizia europea, che ha invano esortato l’Italia a circoscriverne le fattispecie di pericolosità sociale, perché ritenute troppo generiche. Da qualche anno il diritto del doppio binario si è esteso a una enorme serie di ipotesi accusatorie, che vanno dalla mafia al peculato semplice, passando per la corruzione e l’abuso d’ufficio. Così la giustizia somiglia a un luogo dove si può entrare inconsapevolmente ben vestiti e uscirne dopo anni nudi, senza sapere perché. Se quello fin qui compiuto è, a grandi linee, il racconto della luna, da questa complessità il riformismo deve partire. Con un disegno organico, capace di rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, di rafforzare la gerarchizzazione degli uffici delle procure, di riformare il Csm, ridefinendo i confini di un’indipendenza a vantaggio di principi di efficienza organizzativa, di limitare l’abuso della custodia cautelare, di riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività, di cancellare la mostruosa legislazione speciale antimafia, di ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando e riducendo i tempi dei processi, e da ultimo di restituire concretezza ed effettività alle garanzie difensive, mortificate da una prassi inquisitoria che si afferma contro gli stessi codici. Questo progetto riformatore non ha nessuna possibilità di superare le resistenze corporative di un sistema refrattario a qualunque modifica, se non è sostenuto da una retorica autenticamente liberale, alternativa e opposta a quella del giustizialismo. Contro questa trincea difensiva si sono infranti tutti i tentativi di rimetterlo in discussione negli ultimi tre decenni. Ma prima ancora che nel Parlamento e nell’universo del diritto la riforma va costruita nel Paese. C’è un punto della nostra storia repubblicana in cui la notte della giustizia ha gettato l’Italia in un buio asfissiante, in cui l’indagine, il sospetto, l’ansia della punizione sono diventati la grammatica di una “democrazia penale”. Questo non ha coinciso con un singolo provvedimento legislativo, ma con il prevalere di un’idea nel corpo sociale: che conoscere il contenuto delle intercettazioni penalmente irrilevanti fosse giusto e doveroso per illuminare il lato oscuro del potere. Quando un simile convincimento si afferma come una religione civile, di marca illiberale, perfino il valore della trasparenza muta in iper-sorveglianza e la stanza di vetro della democrazia somiglia a una stanza dell’orrore. La riforma della giustizia coincide perciò, più di ogni altro obiettivo politico, con una convincente pedagogia civile, diretta a ricostituire nell’opinione pubblica le ragioni dello Stato di diritto. (Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo un ampio stralcio de “Il Paese e la Luna”, uno dei due importanti capitoli che Alessandro Barbano dedica alla questione giustizia all’interno del suo nuovo saggio, “La visione - Un’altra politica per guarire l’Italia”, Mondadori, 120 pp.). Il Csm azzoppa Palamara, su 133 testimoni ne concede solo 10 di Paolo Comi Il Riformista, 16 luglio 2020 Come un elefante che a un certo momento decide di entrare nel negozio di cristalli. È questa l’immagine che meglio di qualsiasi altra rappresenta la decisione di Luca Palamara di depositare lunedì scorso, per l’udienza disciplinare a suo carico che si terrà il prossimo 21 luglio al Csm, una lista di 133 testimoni. Nessuno si aspettava un elenco simile, sia per il numero monstre dei testi, sia per il loro “spessore”. Nella lista, infatti, compaiono non soltanto ministri, ex presidenti della Corte costituzionale ed alti magistrati, ma soprattutto i due più stretti collaboratori del capo dello Stato Sergio Mattarella: il magistrato Stefano Erbani, consigliere per gli affari giuridici, e l’ex deputato del Pd Francesco Saverio Garofoli, consigliere per le questioni istituzionali. Subito si è messa in moto la macchina per cercare di disinnescare la minaccia ed evitare che ci possano essere testimonianze “imbarazzanti”. Se il teorema dell’accusa è che Palamara con le sue condotte ha prodotto discredito nella magistratura mediante un “uso strumentale della propria qualità per condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste, quale la nomina dei capi degli uffici da parte del Csm”, per la difesa, rappresentata dal consigliere di Cassazione Stefano Guizzi, il pm romano faceva parte di un sistema ben rodato del quale tutti erano perfettamente a conoscenza. In questo modo si spiega la richiesta di citazione degli ex vice presidenti del Csm degli ultimi vent’anni, dei capi delle correnti e dell’Anm. Il primo compito del collegio disciplinare, che ieri non risultava ancora essere stato composto, sarà allora quello di “tagliare” il più possibile la lista testi dell’ex presidente dell’Anm, lasciandogliene al massimo una decina e solo di personaggi di secondo piano. Fonti del Csm dicono che i giudici disciplinari motiveranno l’opera di potatura con il fatto che la lista è “sovrabbondante” e che la maggior parte di questi testimoni è “irrilevante” per gli episodi oggetto delle contestazioni. La Procura generale della Cassazione cercherà in tutti i modi di limitare il perimetro difensivo di Palamara a quanto accaduto la sera del 9 maggio del 2019 all’hotel Champagne di Roma, allorquando il magistrato, alla presenza del deputato del Pd Luca Lotti, espresse duri giudizi nei confronti del procuratore aggiunto della Capitale Paolo Ielo e dello stesso procuratore Giuseppe Pignatone. Chi ha avuto modo di parlare con Palamara in queste ore lo ha sentito consapevole di quelle che potranno essere le mosse della Sezione disciplinare. Sezione che Palamara conosce molto bene avendone fatto parte per quattro anni quando era al Csm. L’esito del disciplinare pare essere scontato. Le parole del procuratore generale Giovanni Salvi, “è stato raggiunto un punto di non ritorno, l’impatto sull’opinione pubblica è pessimo”, non lasciano molti dubbi sul destino di Palamara: rimozione dall’ordine giudiziario. L’ex leader di Unicost, però, non intende accettare il ruolo di capro espiatorio. Chi pensava che la toga prendesse spunto dal motto dei carabinieri, “usi obbedir tacendo e tacendo morir” ha fatto male i conti e ha dimostrato di non conoscere fino in fondo l’uomo. La prospettiva di vedersi radiato dalla magistratura e di trovarsi a 50 anni, dopo una carriera sempre ai massimi livelli, a dover chiedere il reddito di cittadinanza, ha dunque spinto Palamara a giocare il tutto per tutto: quando ci si trova a essere un colpevole designato è difficile rinunciare a una difesa a 360 gradi, anche in vista di sicure impugnazioni. Dopo aver tagliato i testi, il passo successivo della disciplinare sarà poi quello di fare in fretta. Prima Palamara viene espulso dalla magistratura e prima il sistema delle correnti che si è immediatamente ricompattato, vedasi lo scontro sulla nomina del procuratore di Perugia, può riprendere forza e vigore. Per i gruppi associativi sarebbe durissima affrontare la campagna elettorale per il rinnovo dell’Anm, prevista per il prossimo autunno, con Palamara ancora sotto processo e con i vertici delle correnti che sfilano a piazza Indipendenza. È un “incubo” che deve essere evitato a ogni costo. 30 anni di carcere al femminicida della “tempesta emotiva” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 16 luglio 2020 La Corte d’Assise d’appello di Bologna ha annullato lo sconto di pena che Michele Castaldo aveva ottenuto per la “soverchiante tempesta emotiva” motivazione che era stata ritenuta valida per concedergli le attenuanti generiche e ridurre da 30 a 16 anni la pena per l’omicidio di Olga Matei. Trent’anni di carcere per il femminicidio di Olga Matei. La Corte d’Assise d’appello di Bologna annulla lo sconto di pena che Michele Castaldo, 58 anni, aveva ottenuto nel primo processo d’appello quando la Corte aveva considerato quella “soverchiante tempesta emotiva”, dovuta alla gelosia, da cui secondo la perizia psichiatrica era posseduto, come una motivazione valida, insieme ad altre, per concedergli le attenuanti generiche e ridurre la pena da 30 a 16 anni per aver strangolato la donna con cui aveva una relazione da un mese mezzo. La riduzione di pena concessa nel primo Appello aveva sollevato indignazione e stupore da più parti, facendo diventare la sentenza un simbolo della lotta ai femminicidi. Le associazioni in difesa delle donne avevano sottolineato l’allarmante assonanza con il delitto d’onore. E infatti la Cassazione a novembre ha annullato la sentenza, senza entrare nel merito della concessione delle attenuanti, ma disponendo un processo d’appello bis che motivasse in maniera più “razionale” la scelta compiuta. La nuova Corte ieri ha invece deciso che le attenuanti non andavano concesse, la pena da scontare per Castaldo torna ad essere di trent’anni. Sollievo per la sorella della vittima, Nina Pascal: “La memoria della sorella - ha detto il suo avvocato Lara Cecchini - adesso è stata rispettata, ponendo rimedio a una sentenza ingiusta”. L’imputato ieri in aula ha reso dichiarazioni spontanee, dicendosi “pentito” e “deciso a risarcire la figlia e la sorella della vittima” spiega il suo avvocato Gennaro Lupo. La difesa ha anche portato un libro alla cui stesura Castaldo ha partecipato: Vittime di un amore malato, scritto dalla educatrice che lo segue in carcere a Ferrara e che si apre con una lettera d’amore postuma del reo confesso. Nel testo si analizzano alcuni indicatori di partner maschili violenti: “Ma non sono le donne che vanno educate - commenta l’avocato Cecchini -, quanto piuttosto gli uomini e la società”. L’avvocato Filippo Airaudo, che assiste l’ex marito di Olga e la figlia minorenne, si dice “ansioso di conoscere le motivazioni che la Corte depositerà tra 45 giorni. Noi di parte civile abbiamo insistito molto su un punto: è arrivato il momento di abbandonare il vecchio cliché della gelosia come attenuante e considerarla invece un’aggravante. Dopo secoli di storia non si possono più concedere sconti di pena a uomini gelosi, spero che la Corte abbia preso una posizione netta su questo”. “Valuteremo cosa fare dopo il deposito delle motivazioni - spiega l’avvocato Lupo - pensavamo che il percorso di resipiscenza intrapreso potesse essere considerato favorevolmente”. Olga Matei, 46 anni, fu strangolata in casa sua a Riccione il 6 ottobre 2016. Il giorno prima aveva deciso di mettere fine alla relazione proprio per la gelosia di Castaldo. Anche il sostituto procuratore generale Valter Giovannini aveva chiesto la conferma della condanna a trent’anni del primo grado: si trattò di “sentimento feroce - ha detto - manifestato però da persona ritenuta, con convincenti argomentazioni peritali, assolutamente capace di intendere e di volere” e che quindi avrebbe potuto fermarsi prima di uccidere. Intercettazioni irrilevanti al bando della Procura di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 16 luglio 2020 Pubblici ministeri a guardia della privacy nelle intercettazioni. Al bando anche le espressioni offensive non rilevanti per le indagini. È quanto precisa la Procura della Repubblica di Milano, con una circolare (prot. 163/20 del 6 luglio 2020), a firma di Francesco Greco, nella quale si impartiscono direttive a proposito delle norme introdotte dal decreto legge 161/2019. Sotto la lente dei magistrati milanesi c’è l’articolo 268 comma 2 bis del codice di procedura penale. Per attuare compiutamente questa disposizione, la procura di Milano sottolinea che spetta al pubblico ministero assicurare che la polizia giudiziaria effettui una rigorosa selezione delle intercettazioni rilevanti e utilizzabili a fini processuali. In dettaglio, il pubblico ministero e la polizia giudiziaria devono tenersi in costante contatto, anche informale, al fine di non documentare intercettazioni manifestamente irrilevanti o inutilizzabili. Quando vengono in evidenza casi dubbi, gli agenti operanti devono tempestivamente sottoporli alla valutazione del pubblico ministero, anche per le vie brevi. Il magistrato deve vagliare il contenuto delle intercettazioni e decidere se inserirle o meno nei verbali o nelle annotazioni in quanto effettivamente rilevanti. Sulle spalle del pm c’è anche la responsabilità di impedire che nei verbali di trascrizione siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini. Molto opportunamente la circolare corregge una imprecisione dell’articolo 268 citato del codice di procedura penale, che impropriamente parla di “dati sensibili” (termine risalente all’abrogato articolo 4 del Codice della privacy). Ora si deve parlare, infatti, di “dati particolari”. Una nota alla direttiva in commento, pertanto, precisa che per dati sensibili devono intendersi quelli riferibili alle categorie particolari di dati, elencati all’articolo 9 del Regolamento Ue 2016/679 (Gdpr) e cioè i dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona. La direttiva assegna alcuni compiti direttamente alla polizia giudiziaria. E precisamente nei brogliacci di ascolto non si devono riportare espressioni lesive della reputazione, o dati sensibili, e non rilevanti ai fini delle indagini, limitandosi a indicare, se possibile, i soggetti coinvolti e inserendo l’avvertenza “conversazione non rilevante relativa a dati personali sensibili” ovvero “conversazione/parte di conversazione lesiva della reputazione”. Medesime cautele devono essere osservate nei casi di conversazioni con difensori o con parlamentari e di conversazioni irrilevanti ai fini di indagine. No a sequestro per illegittimo rimborso Iva se l’operazione doveva scontare registro di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2020 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 15 luglio 2020 n. 20900. La Cassazione ha annullato il sequestro preventivo di oltre 78 milioni di euro a carico di una nota casa farmaceutica che aveva ottenuto il rimborso dell’Iva versata in occasione dell’acquisto di attività e del portafoglio clienti di una sua società italiana - impegnata nel campo della produzione di vaccini - a essa collegata orizzontalmente. La Cassazione con la sentenza n. 20900 depositata ieri ha ritenuto errata la visione del tribunale per aver proceduto alla misura cautelare in base alla contestazione del reato ex articolo 4 del Dlgs 74/2000 relativo alle imposte dirette e all’Iva, perché lo stesso giudice della cautela - nell’affrontare la vicenda - aveva affermato in primis che l’operazione in realtà costituiva una cessione di ramo d’azienda dalla consorella italiana a quella belga con la conseguenza che l’imposta evasa sarebbe stata in realtà quella di registro. Per cui nel rinvio della decisione l’inquadramento corretto dell’operazione va posto alla base della decisione sul comportamento eventualmente illecito della società che aveva chiesto e ottenuto il rimborso dell’Iva pagata unitamente al corrispettivo in base al regime Iva comunitario. Sciogliere il sospetto - manifestato dallo stesso giudice - che la società e il suo rappresentante abbiano voluto costruire l’apparenza di un’operazione Iva invece di una soggetta all’imposta di registro è presupposto di legittimità per l’applicazione di una misura cautelare sull’Iva ottenuta a rimborso dalla società in base a richiesta al Fisco italiano. Presupposto di legittimità che appare mancante come rilevato dallo stesso ricorrente. Il caso - L’operazione contestata consisteva nella cessione da parte della società di diritto italiano di tutta l’attività di commercializzazione e distribuzione dei prodotti forniti dalla consorella belga, affidando alla cedente solo la produzione di materie prime e di semilavorati destinati alla produzione dei farmaci gestita fino all’immissione sul mercato alla società con sede in Belgio. Legittimo il dubbio del giudice sulla circostanza che più che di beni vi fosse stata la cessione di attività imprenditoriali sottoposte a imposta di registro. Abruzzo. Nasce “Oltre il carcere”, il numero verde per detenuti e familiari di Eleonora Fagnani news-town.it, 16 luglio 2020 Un numero verde dedicato al mondo del carcere, ai disagi dei detenuti e dei familiari, con l’obiettivo di offrire supporto a chi la pena l’ha già scontata e spesso si ritrova a vivere in condizioni di estrema difficoltà, senza casa e lavoro. Si chiama “Oltre il carcere” ed è l’iniziativa realizzata dall’Isola Solidale in collaborazione con il garante dei detenuti della Regione Abruzzo e con la presidenza del Consiglio regionale. Il numero verde totalmente gratuito (800-938080) sarà attivo a partire dalla prossima settimana, dal lunedì al sabato dalle 9 alle 18, e si avvarrà della rete solidale presente nella regione, in particolare dell’associazione Roccaraso Futura grazie alla quale l’Isola solidale ha attivato la sua seconda sede dopo quella principale di Roma. Le richieste di aiuto saranno prese in carico da un team di volontari altamente qualificati e formati nell’ambito del progetto. A presentare l’iniziativa con il consigliere Segretario dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale Sabrina Bocchino, il Garante dei Detenuti della Regione Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, il presidente dell’Isola Solidale Alessandro Pinna e il presidente dell’associazione “Roccaraso Futura” Alessandro Amicone. Per Cifaldi l’attivazione di questo servizio rappresenta “un momento di crescita per la nostra Regione. Il numero verde - ha specificato - offrirà servizi all’interno del carcere andando a semplificare tutta una serie di passaggi burocratici che il detenuto doveva sopportare per dialogare all’esterno. Adesso attraverso un link veloce i detenuti si potranno collegare con l’Ufficio del Garante regionale, dove troveranno persone giovani e competenti a sostenerli. Un servizio - ha sottolineato il Garante dei detenuti - teso ad allargare le tutele anche alla familiarità del detenuto: un segnale di ulteriore apertura al mondo della detenzione”. L’Isola Solidale, presente nella Capitale con una struttura di 40 posti che ospita persone condannate agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica, ha deciso di attivare questo ulteriore servizio durante il lockdown, quando sono emerse in tutta la loro evidenza le innumerevoli criticità degli istituti di pena e le difficoltà patite dai detenuti. “Durante il lockdown molti dei detenuti fatti uscire per motivi di saluti si sono trovati spaesati, senza riferimenti, senza aiuti né soldi - ha spiegato Pinna - molti di loro hanno impiegato mesi per avere effettiva disponibilità del conto corrente, e spesso parliamo di poche centinaia di euro. In quei giorni ci siamo confrontati con una condizione sociale ed economica disastrosa. Abbiamo quindi avviato anche un’attività di sostegno alimentare, economico e psicologico che verrà messa a regime con l’entrata in funzione del nostro numero verde, un’iniziativa resa possibile soprattutto grazie all’aiuto delle persone ristrette ospitate nella struttura”. “Questo servizio - ha affermato Alessandro Amicone - rappresenta un concreto e indispensabile aiuto per le persone che si trovano in questo periodo ancora di più in difficoltà. L’emergenza sanitaria ha stravolto le nostre vite e per chi esce da una situazione detentiva, già privo di punti di riferimento e spesso senza nessun familiare né una casa, sapere che c’è chi può aiutarli e orientarli significa spesso una salvezza. Con l’Isola Solidale stiamo portando avanti bellissimi progetti di assistenza e li ringrazio per il grande lavoro che fanno ogni giorno per contenere il disagio e prevenire con ogni mezzo anche l’eventuale rischio di recidiva”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Suicidio nel carcere, detenuto 40enne trovato impiccato vocedinapoli.it, 16 luglio 2020 La vittima, Luigi Rossetti, aveva 40 anni. L’uomo è stato trovato impiccato. Inutile qualsiasi tentativo di soccorso. Il triste annuncio del Garante per i diritti dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. Ancora un suicidio in carcere per quella che è di fatto una mattanza silente e di Stato. È il quinto suicidio in cella avvenuto in Campania dall’inizio dell’anno. Sassari. Muore legato al letto in Psichiatria di Franco Ferrandu L’Unione Sarda, 16 luglio 2020 Paolo Agri, 30 anni, era stato sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio. Il pm chiede l’archiviazione, la famiglia si oppone: contenzione superflua. Per la Procura di Sassari la morte di Paolo Agri, legato nel letto del reparto di Psichiatria del Santissima Annunziata, è avvenuta per cause naturali. Un evento imprevedibile che non necessita di ulteriori approfondimenti. L’inchiesta su eventuali responsabilità dei sanitari è quindi da archiviare. Per la famiglia del 30enne sassarese, deceduto il 3 settembre del 2018 pochi giorni dopo il trasferimento in ospedale con un trattamento sanitario obbligatorio chiesto dal Centro di riabilitazione Santa Sabina di Pattada, la vicenda deve invece essere ancora chiarita. In particolare per quanto riguarda l’uso della cosiddetta contenzione meccanica, dei pazienti psichiatrici. Paolo Agri sarebbe rimasto legato a mani e piedi al letto, in posizione supina, per più di 16 ore. Un fatto che può aver causato problemi respiratori di tale gravità da portare al decesso. Nei giorni scorsi a Sassari si è svolta un’udienza: da una parte la Procura e dall’altra la famiglia, rappresentata dalle avvocate Maria Teresa Spanu, Anna Ganadu e Antonella Calcaterra. Quest’ultima, milanese, ha già seguito procedimenti simili. Ada Agri, la madre di Paolo, due giorni dopo la morte del figlio aveva presentato un esposto alla Procura e il sostituto procuratore Paolo Piras, aperto un fascicolo, aveva disposto l’autopsia. Per il perito della Procura, il medico legale Franco Lubinu, si era trattato però di “morte cardiaca improvvisa”. Così, in brevissimo tempo era stata chiesta l’archiviazione dell’inchiesta. La famiglia ha deciso di opporsi. Nella memoria difensiva consegnata al Gip c’è una nuova perizia del medico legale Paolo Gasco. Secondo quest’ultimo l’esame necroscopico non ha evidenziato segnali certi riferibili a una causa cardiaca della morte, ma ha evidenziato segni evidenti di problemi polmonari. E la lunga contenzione a letto in posizione supina sarebbe stata il fattore principale che ha determinato l’insufficienza respiratoria e quindi l’arresto cardiaco. Non solo: viene respinta la considerazione della Procura secondo cui la contenzione del paziente era giustificata dalla straordinarietà della situazione. Nell’atto di opposizione alla chiusura indagini viene citata una sentenza del 2018 della Corte di Cassazione, relativa alla morte in condizioni simili dell’insegnante elementare Franco Mastrogiovanni. La Corte ha stabilito che la contenzione meccanica non è un atto medico perché non ha l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente. Serve solo a tutelare il paziente e le persone che sono a contatto con lui. Ma in questo caso, per l’avvocata Antonella Calcaterra, non ci sarebbero state le condizioni. Secondo le testimonianze e il diario clinico Paolo Agri sarebbe rimasto legato dalle 10.30 del mattino fino alle 4.45 del giorno dopo, ora della morte. E alle 17.30, slegato per mezz’ora, non avrebbe dato segnali preoccupanti, tanto che alle 22 non si è resa necessaria la terapia farmacologica. Il Gip Antonello Spanu ha ascoltato le ragioni della famiglia e si è riservato di decidere. Venezia. Sentenze già scritte prima dell’udienza, si muove il ministero di Simona Musco Il Dubbio, 16 luglio 2020 La verifica dopo la denuncia della Camera penale. L’Ucpi: “necessario definire una nuova autorevolezza della giurisdizione”. La battaglia dei penalisti di Venezia ha prodotto un risultato: l’invio degli ispettori, da parte del ministero della Giustizia, alla Corte di Appello della città lagunare, dove ora dovranno svolgere accertamenti preliminari sui presunti casi di sentenze copia e incolla scritte ancor prima della discussione. Un fatto denunciato dalla Camera penale di Venezia, guidata da Renzo Fogliata, che ha trovato l’appoggio di tutti i penalisti del Veneto e dell’Unione delle Camere penali italiane, che ieri, schierandosi a fianco dei colleghi, ha ribadito la necessità di chiarire quanto accaduto. Le sentenze “preconfezionate” - Il fatto, stando a quanto denunciato dagli avvocati, è tanto semplice quanto grave: le sentenze di circa sette processi sarebbero state scritte - in due casi in toto, con tanto di intestazione e dispositivo - ancor prima che pm e difese potessero esprimersi in aula. Sentenze, tutte, di rigetto degli appelli con liquidazione delle spese in favore della parte civile già determinate e indicazione del termine di deposito delle motivazioni, nonché relazioni con motivazioni già strutturate per il giudizio di rigetto dell’appello. Un malinteso, secondo la presidente della Corte d’Appello, dovuto alla prassi di inviare - sulla base di “schemi autorizzati dal Csm e dalla Cassazione” - bozze di ipotesi di decisione, predisposte dal giudice relatore. Spiegazione che non ha convinto l’avvocatura, decisa a fare chiarezza. Tant’è che sulla stampa locale, sottolinea l’Ucpi, “il presidente di Sezione, dottor Citterio, addirittura rivendica paternità e metodo di queste motivazioni precompilate, che non si sottrarrebbero per ciò stesso al ripensamento collegiale, ma contribuirebbero, se condivise, ad implementare l’efficienza produttiva della Corte”. Bonafede invia gli ispettori - Dopo la denuncia della Camera penale, le udienze sono state rinviate al 2021, con la sostituzione del relatore. Ma intanto la macchina ministeriale si è mossa, nel mentre si attendono le decisioni del Csm, al cui Comitato di presidenza i laici Stefano Cavanna (Lega) e Alberto Maria Benedetti (M5S) hanno chiesto l’apertura di una pratica per “effettuare un’approfondita istruttoria” e “conseguentemente, accertare l’eventuale sussistenza di fatti e/o condotte rilevanti nell’ambito delle competenze del Consiglio, nonché al fine di adottare le iniziative meglio ritenute”. Intanto la Giunta dell’Unione stigmatizza il fatto, ritenuto “gravissimo” e meritevole “di nette iniziative sul piano della verifica disciplinare dei comportamenti dei soggetti coinvolti”. Puntando il dito contro una parte della magistratura italiana, che avrebbe “evidentemente abbandonato l’essenza codicistica del giudizio di appello, prospettandone - in una visione efficientistica e violatrice dei diritti - una nuova natura di giudizio meramente cartolare, affidato ad un solo componente del Collegio, in violazione dei principi di contraddittorio sulla prova, di oralità e di pubblicità, che secondo il dettato normativo contraddistinguono la seconda fase del procedimento”. L’Ucpi: “È il momento di intervenire sulle garanzie difensive” - Insomma, per i penalisti italiani, la vicenda di Venezia altro non è che l’esempio di un modo di intendere il processo che relega la difesa ai margini, disattendendo il principio del contraddittorio e che vorrebbe “il giudizio di appello affidato ad un Giudice monocratico, ordinariamente camerale e, nelle ipotesi più estreme, l’introduzione del canone della reformatio in peius. Un sistema processuale dunque - afferma la Giunta - che presuppone l’imputato sempre colpevole per come giudicato nell’unico grado di merito, all’esito del quale deve interrompersi anche la prescrizione”. L’ispezione, però, non basta. La richiesta dell’Ucpi è rivolta anche alla magistratura, alla quale chiede di schierarsi e condividere “una riflessione sulle prassi degenerative in grado di appello e sul recupero dell’effettività del secondo giudizio”. Ma anche per “definire una nuova autorevolezza della giurisdizione, a partire da riflessioni su modelli, diritti, senso delle decisioni, attraverso interventi sul piano ordinamentale e per l’effettività delle garanzie difensive”. Vasto (Ch). Carcere, è polemica: il caso da Bonafede di Paola Calvano Il Centro, 16 luglio 2020 Il deputato Grippa (M5S) visita la struttura con Smargiassi e interroga il ministro: servono più agenti e personale sanitario. Finisce sulla scrivania del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede la delicata vicenda della Casa lavoro di Vasto. Al termine di una visita nella struttura, il deputato del M5S Carmela Grippa ha chiesto al guardasigilli più agenti e più personale sanitario. Nella casa lavoro le tensioni e la preoccupazione non accennano a placarsi. Lunedì a Torre Sinello è arrivata la parlamentare del Movimento 5 Stelle, accompagnata dal consigliere regionale Pietro Smargiassi, ha visitato la struttura e incontrato gli operatori. “Valutata la situazione”, dice Grippa, “ho richiesto al ministero più personale e adeguati presidi anti contagio”. I malumori all’interno e fuori dal perimetro del carcere di Vasto sono iniziati dopo la decisione delle autorità di istituire a Vasto una sezione quarantena per tutti gli arrestati in Abruzzo. Dura la reazione del Sappe, sindacato di polizia penitenziaria. Gli agenti hanno dichiarato lo stato di agitazione e proclamato lo sciopero della mensa. Le proteste delle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria non sono sfuggite a Grippa, che ha deciso di farle arrivate all’attenzione del ministro della Giustizia attraverso una sua interrogazione. Il parlamentare lunedì ha voluto vedere di persona quello che accade a Torre Sinello ed è arrivata a Vasto. “L’emergenza Covid 19 nel nostro Paese”, ha ricordato Grippa, “nonostante i dati che parlano di una situazione in miglioramento, non è del tutto superata. Proprio per questo ho ritenuto opportuno chiedere al guardasigilli attraverso una interrogazione di adottare opportuni provvedimenti, per garantire per tutto il periodo della sussistenza della sezione Covid nell’istituto vastese, l’implementazione di agenti di polizia penitenziaria e di personale sanitario. Sono richieste di buon senso che sono necessarie dopo che ho avuto modo di rendermi conto personalmente della situazione della Casa circondariale durante la una visita ispettiva”. “È importante”, insiste il deputato del M5S, “che si agisca nel pieno rispetto e applicazione di ogni prescrizione per contrastare il contagio e che le attività all’interno dell’istituto siano organizzate con la massima accuratezza con lo scopo di prevenire eventuali rischi per l’incolumità degli ospiti e degli addetti ai lavori che operano nella struttura”. Durante la visita, la parlamentare ha rinnovato la piena e fattiva collaborazione istituzionale per eventuali criticità che dovessero presentarsi. Napoli. Il caso di Giosuè Belgiorno, malato di Sla ma “sequestrato” in carcere di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 16 luglio 2020 Condannato a 20 anni, Giosuè Belgiorno è stato dichiarato incompatibile col regime carcerario lo scorso aprile. Il delitto è stato crudele. La colpa tra le peggiori: uccidere una persona. Ma se la Costituzione con l’Articolo 27 afferma che, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, la giustizia nei confronti di Belgiorno Giosuè si è trasformata in tortura. Ricapitoliamo un pò la vicenda. Lo scorso aprile Belgiorno insieme a Emanuele Baiano e Mariano Riccio, sono stati condannati a 20 anni di carcere. L’accusa è stata di omicidio. La vittima è Antonino D’Andò ammazzato a causa di un’epurazione interna al clan Amato-Pagano. Nella vicenda sono coinvolti anche Ciro Scognamiglio e Mario Ferraiuolo. Tutti insieme, con Riccio mandante dell’agguato e gli altri esecutori materiali dell’assassinio, a marzo rivelarono in Tribunale di essere colpevoli e di conoscere il luogo dove erano sotterrati i resti di D’Andò. Sempre ad aprile il Tribunale del Riesame, Decima Sezione, aveva concesso gli arresti domiciliari a Belgiorno. Quest’ultimo è affetto da una grave patologia, la Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), malattia che lo rende di fatto incompatibile con il regime carcerario. Ma Belgiorno, una volta che la condanna è diventata definitiva, è stato portato di nuovo in carcere (a Secondigliano, ndr) al regime di detenzione ordinaria. “È la morte dello Stato di Diritto - ha affermato l’avvocato difensore Raffaele Chiummariello - in pratica il mio assistito è stato sequestrato. Con la liberazione anticipata Belgiorno potrebbe essere scarcerato ma il Magistrato di Sorveglianza ha fissato l’udienza ad ottobre”. Il legale ha anche depositato l’ordinanza che dichiara l’incompatibilità con il regime carcerario e l’urgenza del caso motivata da ragioni cliniche, “ma per parlare con il Magistrato bisogna inviare una mail e attendere che sia fissato un appuntamento. Perché la giustizia è burocrazia e non più certezza della pena e del diritto - ha dichiarato Chiummariello - l’udienza fissata per luglio ci sarà ad ottobre e intanto a settembre Belgiorno terminerebbe di espiare la pena”. Trieste. Il giudice gli concede i domiciliari ma lui preferisce il carcere: “Sono troppo povero” di Gianpaolo Sarti La Repubblica, 16 luglio 2020 A metà mattina, seduto a una scrivania sommersa da carte, libri e giornali, il gip Massimo Tomassini si lascia andare a una riflessione. “Libertà è partecipazione”? Macché Gaber, per favore no.... o… “Liberi da che cosa”, come canta Vasco?… Sì, già meglio. O forse…Lenin… ecco, Lenin: aveva davvero torto quando diceva “libertà sì, ma per chi? E per fare cosa?”. Il giudice si passa tra le mani l’ordinanza con cui ha appena dovuto confermare il carcere per un trentottenne di origini slovene, di Capodistria, pizzicato dai Carabinieri a Trieste con quasi un chilo di marijuana nascosta nell’armadio dell’abitazione di un amico. Il gip lo ha interrogato al Coroneo. Un chilo non è esattamente un uso personale. Ma per quel reato il magistrato era pronto a togliere il trentottenne dalla cella e dargli i domiciliari. Però non ha potuto farlo. “Sono troppo povero - ha spiegato il detenuto parlando a Tomassini - non ho dove andare. Non ho una casa, non ho da mangiare. Non ho nessuno. Sono troppo povero io, giudice per favore mi tenga qui”. La marijuana - Lo sloveno era finito in carcere dopo una rapida indagine scattata meno di una settimana fa. È giovedì scorso quando i Carabinieri sorprendono una donna e un uomo che si scambiano 13,5 grammi di marijuana. Prima fermano l’acquirente, poi rintracciano la donna (il pusher), e si fanno accompagnare nell’appartamento in cui lei è momentaneamente ospite. Ed è lì che, rovistando qua e là, i militari dell’Arma scoprono lo stupefacente. Quasi un chilo. Tanto il padrone di casa, tanto la donna che poco prima aveva ceduto i 13,5 grammi, sostengono di non sapere nulla della presenza di quel quantitativo di marijuana. Ma in quell’alloggio è ospite anche il trentottenne sloveno. Che si assume tutta la responsabilità. “Sì, è roba mia”, ammette, scagionando così i due amici, che vengono liberati. Per lui si aprono invece le porte del Coroneo. La storia - Tocca a Tomassini, il gip di turno, occuparsi dell’interrogatorio di convalida, dove emerge la storia personale del trentottenne sloveno e la richiesta di restare in cella. Perché lui una casa per i domiciliari non ce l’ha. E non ha neppure da mangiare. “Sono troppo povero, giudice. La prego, mi tenga qui”. L’ordinanza del gip va letta. Perché va ben oltre la fredda giurisprudenza. “Egli (lo sloveno, ndr) - annota Tomassini - ha riferito di abitare a Capodistria, senza tuttavia essere in grado di indicarne la via, e ha palesato uno stato di profondissima difficoltà sotto vari punti di vista. È chiaro, pertanto, che la detenzione a fini di spaccio della sostanza stupefacente fosse, e sia, una necessità, ancor prima che una scelta di natura criminosa. Egli - osserva il gip - per forza di cose utilizzava la droga come unico possibile mezzo di sostentamento (…). La misura maggiormente adeguata e conforme alla effettiva gravità della situazione, cioè gli arresti domiciliari, è impercorribile per mancanza di un domicilio. Inevitabile, pertanto, l’applicazione della custodia cautelare in carcere”. La scelta difficile - Scelta sofferta, per il gip Tomassini. Ma non è la prima volta che si trova a fronteggiare situazioni analoghe. “Mi era successo con uno slovacco che dormiva sui treni. Disse che preferiva stare in cella, che non aveva mai mangiato così bene. E questo trentottenne sloveno, che non ha niente e che non ha nessuno da cui andare, si troverebbe ora nelle condizioni di dover delinquere ancora, o di fare l’elemosina, per sopravvivere. Il fatto incredibile è che questa cosa avviene a Trieste, tra di noi, tre le persone che incontriamo. Non alla periferia del mondo - riflette. Io mi domando, allora, la giustizia è roba da ricchi? O aveva ragione Lenin, sul concetto di libertà? “Libertà sì, ma per chi? E per fare cosa?”. Cagliari. Finalmente assegnato medico di base per i detenuti del carcere di Uta castedduonline.it, 16 luglio 2020 “Finalmente compie un concreto passo il progetto di assegnare ai detenuti della Casa Circondariale di Cagliari un Medico di base. L’associazione SDR ha in più occasioni manifestato l’esigenza di garantire un punto di riferimento costante a quanti, avendo perso la libertà ma non il diritto alla salute, non potevano usufruire dell’assistenza medica personalizzata. La riforma promossa dal Coordinatore sanitario dell’Istituto sembra andare nel verso giusto ma occorre un intervento dell’assessore per garantire almeno due Medici del 118 la notte e durante i giorni festivi, oltre agli Infermieri. Uno sforzo necessario da parte dell’assessorato regionale per una qualità dell’assistenza in un carcere dove sono reclusi in media circa 550 detenuti (27 donne e 130 stranieri). Lo afferma Maria Grazia Caligaris (Socialismo Diritti Riforme), con riferimento al progetto avviato dal Coordinatore sanitario della Casa Circondariale “Ettore Scalas” di assegnare ai Medici dei Servizi un numero fisso di pazienti e a quelli del 118 l’assistenza h 24. “A caratterizzare la Casa Circondariale di Cagliari - osserva Caligaris - è la massiccia presenza (oltre il 30%) di persone private della libertà con problematiche psichiatriche e tossicodipendenze. Esiste però anche una larga fetta di persone anziane con disturbi quali cardiopatie, pneumopatie croniche, artrosi, arteriosclerosi, diabetici e perfino in dialisi. Senza dimenticare le cure odontoiatriche e otorinolaringoiatriche. Nel Centro Clinico, dove sono ricoverati i pazienti in condizioni più delicate da monitorare, il Medico di Base esiste già e grazie anche al lavoro degli Infermieri e degli Agenti della Polizia Penitenziaria, viene garantito un percorso più lineare”. “Rendere la sanità penitenziaria adeguata ai bisogni, così come ha previsto la riforma nazionale - ricorda ancora Caligaris - significa però anche pensare alle donne detenute che non hanno a disposizione un Centro Clinico e neppure uno studio ginecologico. Occorre quindi realizzare un programma che vuole migliorare le condizioni di salvaguardia della vita dei detenuti ma offrire anche garanzie ai Sanitari, con l’adeguamento dei compensi che tengano conto del fattore rischio in un ambiente che purtroppo non sempre è sereno. Di queste problematiche deve farsi carico l’assessore regionale della Sanità che ne è il referente. Alle buone prassi, insomma, occorre affiancare strumenti adeguati e opportuni riconoscimenti, altrimenti - conclude - si corre il rischio di fomentare il malcontento e rendere vano anche il più piccolo gesto destinato a cambiare in meglio un sistema finora trascurato”. Napoli. A Poggioreale apre la pizzeria per i detenuti: “La buona pizza aiuta a cambiare vita” di Rossella Grasso Il Riformista, 16 luglio 2020 Nel carcere di Poggioreale apre la pizzeria “Brigata Caterina” e così detenuti e personale penitenziario potranno assaporare la vera pizza napoletana prodotta direttamente in loco. Si tratta di un progetto sperimentale nato dalla collaborazione tra il Ministero della Giustizia e la diocesi di Napoli, finanziato dalla Cassa delle Ammende, che offrirà la possibilità di mangiare la vera pizza napoletana ai detenuti e al personale dell’istituto, ma anche di formare i reclusi consentendo la qualificazione professionale e l’avviamento al placement. “Da ex detenuto ricordo quando con i miei ex compagni di cella sognavamo di mangiarci una pizza durante la reclusione - racconta Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli - Adesso finalmente questo sogno si realizza”. La pizza è realizzata dai detenuti che hanno svolto il corso di formazione da pizzaiolo e aprirà presto anche una sede a santa Lucia con lo stesso nome. “Poggioreale sta facendo dei progressi - continua Pietro Ioia - Purtroppo è un carcere che ci vuole la bacchetta magica però con il nuovo direttore Carlo Berdini stiamo facendo tanti passi avanti”. La pizza avrà lo stesso costo che all’esterno e appena sfornata va nelle celle. È un progetto di formazione valido e che apre nuove possibilità a chi ha sbagliato ma ha voglia di riscatto. La pizzeria non è solo una possibilità culinaria ma anche e soprattutto un incentivo a cambiare vita, a imparare un mestiere per poi trovare un buon lavoro qualificato una volta scontata la pena. “L’iniziativa, che ha visto la creazione di una rete di attori istituzionali come l’Università Federico II, il Suor Orsola Benincasa, la Regione Campania, l’Uiepe, le associazioni dei pizzaioli, oltre al ministero della Giustizia e alla diocesi di Napoli, rappresenta una vera e propria rivoluzione culturale per il carcere napoletano e una concreta chance per quei detenuti che vogliono rimettersi in gioco e cambiare vita”, ha scritto su Facebook Antonio Mattone, tra i promotori dell’iniziativa. Napoli. Cooperativa Lazzarelle: il 22 luglio l’inaugurazione del Bistrot di Erica Maida Andrea Cupido gnewsonline.it, 16 luglio 2020 A dieci anni dall’inizio dell’attività, la Cooperativa Lazzarelle, impresa sociale tutta al femminile nata nel 2010 nel carcere di Pozzuoli, inaugurerà mercoledì 22 luglio alle ore 18.00 il Lazzarelle Bistrot nella Galleria Principe di Napoli. L’iniziativa, sostenuta dalla Fondazione Charlemagne, si inserisce in un percorso di crescita individuale e professionale, rappresentando un punto di ristoro e di consumo di prodotti realizzati negli istituti penitenziari di tutto il territorio nazionale. Come ha spiegato la presidente Imma Carpiniello, “il progetto dà la possibilità di scontare l’ultima parte della pena lavorando all’esterno, grazie ai benefici delle misure alternative”. “Il contatto con la città è un elemento fondamentale per donne chiuse in carcere da tanto tempo - aggiunge Carpiniello - poiché permette un coinvolgimento attivo delle detenute nel loro reinserimento lavorativo e sociale”. Il progetto negli anni ha coinvolto 56 detenute, dando loro la possibilità di mettersi alla prova producendo caffè artigianale nel rispetto dell’antica tradizione napoletana. Il Caffè delle Lazzarelle è infatti prodotto seguendo i tempi naturali di preparazione e prestando attenzione all’aspetto ecologico: le confezioni di plastica sono prive di alluminio e possono essere smaltite con la raccolta differenziata. Alla prima edizione del Festival nazionale dell’economia civile, organizzato nel 2019 a Firenze da Federcasse, NeXt e SEC - Scuola di Economia Civile, la Cooperativa Lazzarelle ha ottenuto il primo premio ed è stata dichiarata impresa ambasciatrice di sostenibilità. Situato in un luogo storico del capoluogo partenopeo, il Bistrot costituirà la tappa finale di un percorso iniziato nella torrefazione interna del carcere, che ha permesso alle “Lazzarelle” di imparare un mestiere e di prepararsi a rientrare nella società. Milano. L’identikit delle nuove povertà di Federica Furino Elle, 16 luglio 2020 “Siamo partiti con 1.900 famiglie e a giugno siamo arrivati a circa 6.000. In totale, con 10 hub temporanei in città, abbiamo portato la spesa a più di 20.000 persone, di cui circa 13.000 adulti e 7.000 minori”. L’identikit di queste nuove povertà lo traccia Daniela Attardo, responsabile del coordinamento dei servizi sociali territoriali di primo livello del Comune di Milano. “I primi ad avere accesso alla distribuzione dei pacchi alimentari sono stati quelli che già percepivano aiuti. A queste persone, però, settimana dopo settimana, si sono aggiunte famiglie nuove spinte sotto la soglia di povertà dal lockdown. Italiani e stranieri che non avevamo mai visto perché, fino ad allora, ce l’avevano fatta con le loro forze. La comunità filippina, per esempio: mai aveva pesato sui servizi del Comune. Nei giorni del Covid invece ci ha contattati direttamente il loro consolato perché la maggior parte delle persone aveva impiego in lavori domestici e si era trovata senza reddito. Senza dimenticare altre categorie: chi viveva di elemosina, come i rom. O i sex worker. Sono emerse anche figure che non erano visibili: gli immigrati irregolari, persone arrivate con un visto turistico e rimaste qui, spesso con i bambini iscritti a scuola, in case affittate in nero, senza residenza e quindi senza possibilità di accedere agli aiuti pubblici”. Chiedere aiuto, dice, non è facile se non sei abituato a farlo. “Significa riconoscere un senso di fallimento. L’istituzione del numero unico 02.02.02 per ogni genere di richiesta ha reso meno imbarazzante farsi avanti. Molti hanno ammesso di non avere da mangiare solo su richiesta degli operatori”. Attardo è anche coordinatrice delle assistenti sociali di comunità coinvolte nel Programma Qubì - La ricetta contro la povertà infantile della Fondazione Cariplo: una corazzata nata tre anni fa che mette in rete 600 associazioni di 25 quartieri milanesi e che nei giorni dell’emergenza ha fatto da collegamento tra il Comune e il territorio, compilando le liste delle famiglie fragili e coordinando gli interventi. Simona Michelazzi è referente della Rete Qubì di Stadera, nella periferia sud di Milano e ha passato l’emergenza in prima linea. “Si sono affacciate a noi famiglie che in altri momenti non ci avrebbero mai contattati: lavoratori precari o in nero, gente con contratti fragili o non in regola. Avevano un sistema che, pur nella precarietà, teneva e non erano abituati a chiedere aiuto. Improvvisamente, si sono trovati senza poter fare la spesa, perché se hai l’affitto, le bollette, le spese fisse, soldi per il cibo non ne restano. E far fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, se non sei abituato, è durissima. Ma anche in questa Milano che non corre, c’è un’anima forte: ho visto una grande dignità e uno sguardo puntato verso l’alto nonostante le difficoltà”. Continua Emanuela Manni, referente Rete Qubì Padova: “I problemi sono gli stessi per tutti: italiani e stranieri. Ma gli italiani per lo più hanno parenti, amici, una comunità di appartenenza che li aiuta nel momento più critico. Prima di arrivare qui, devono aver perso i contatti sociali”. E infatti, spiega, a loro si rivolgono soprattutto anziani e stranieri. La prima urgenza, dice, è stata per tutti il cibo. “Abbiamo scoperto che c’è una grande differenza tra chi immagina la povertà e chi la vive: il pacco alimentare che consegnavamo, per molti, era molto molto più di quanto fossero abituati a mangiare. Ci sono famiglie di quattro persone che vivono normalmente con 40 euro di spesa al mese. O anziani a cui portavi la cassettina con 4 mele, 4 arance, 5 patate e un cavolo e ti dicevano: troppa roba! Ci sono persone che comprano solo farina, perché con la farina puoi fare tante cose”. L’altra grande urgenza ha toccato i bambini. “Stiamo parlando di nuclei anche di sei persone in 28 metri quadrati. Case in cui il tavolo non c’è, e si fa tutto a terra. Attraverso Whatsapp abbiamo visto bambini fare i compiti davanti a muri ricoperti di muffa, persone che scambiavano il giorno per la notte, due famiglie che dividevano lo stesso bilocale, una stanza a testa. L’assistenza scolastica cercavamo di farla al mattino perché i bambini mantenessero i ritmi sonno-veglia”. Giulia Conti, operatrice all’interno della rete Qubì Parco Lambro, racconta: “Prima del Covid avevamo in carico 33 famiglie, nell’emergenza 76. Molte le abbiamo intercettate su segnalazione dei vicini: famiglie invisibili che vivevano in situazioni di povertà ma non estrema. Per lo più erano stranieri, qualche volta mamme sole, donne che facevano le colf o le babysitter, non si aspettavano di perdere il lavoro e non sapevano come comportarsi perché avevano mandato tutti i soldi a casa. Abbiamo dato aiuti alimentari, pacchi di pannolini e tablet per la didattica. Ora che le attività economiche sono ripartite, stiamo aiutando le persone a cercare lavoro, rivedendo i curriculum e le competenze. Prima li abbiamo aiutati a non cadere, ora li aiutiamo a rialzarsi”. È questa, nello spirito della Milano che corre veloce, l’idea di sostegno. “Siamo certi che questa sia una fase provvisoria”, spiega ancora la vice sindaca Scavuzzo. “Nella fase 3 chiudiamo gli hub dell’emergenza e lavoriamo per rafforzare gli hub contro lo spreco alimentare: a quello di via Borsieri, nato un anno e mezzo fa, ne affianchiamo uno nuovo a Lambrate e siamo impegnati per aprirne almeno altri due a stretto giro. L’esperienza di questi mesi ci ha insegnato molto e ci ha fornito strumenti che potranno tornare utili dovessero servire nuovamente. Una sfida importante è lavorare sui criteri di accesso agli aiuti: vogliamo continuare a dare assistenza senza essere assistenzialisti. Aiutiamo le famiglie anche promuovendo percorsi verso l’autonomia, sostenendo chi temporaneamente ha perso il lavoro, perché non scivoli nella povertà e perché possa trovare occasioni per tornare a essere indipendente. Non abbiamo perso l’ottimismo e la voglia di rimboccarci le maniche, senza lasciare indietro chi fa più fatica”. In carcere con Filosofia di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 16 luglio 2020 “Mille ore in carcere”, il libro di Anna Maria Corradini pubblicato da Diogene Multimedia. Sono diverse le figure che vivono nel carcere e si spendono per migliorare la vita dei detenuti, costruire ponti verso l’esterno e preparare il terreno per l’eventuale reinserimento nella società. Il cappellano, lo psicologo, l’educatore, il volontario che si occupa di mantenere vivi i rapporti con i familiari e tutte le persone che scelgono di condividere il proprio percorso di vita e di aiutare coloro che hanno sbagliato e sono stati privati della libertà. Tra questi c’è chi ha scelto un approccio diverso, fondato sul dialogo con il detenuto (ma l’esperienza riguarda anche educatori, agenti di Polizia penitenziaria e personale amministrativo) per ridare un senso alla sua esistenza e ricollocarla nel rapporto con gli altri. Si tratta del consulente filosofico, una figura che “proprio attraverso il dialogo, deve rispondere alle domande quotidiane che la vita pone. Si rivolge al singolo nella sua relazione con il mondo, non per capire la persona, ma la cosa che ha creato l’inciampo o che ancora crea difficoltà nell’esistenza; deve sottoporre alla riflessione cosciente quei presupposti inconsapevoli del pensare che condizionano comportamenti ripetitivi e imitativi. I suoi obiettivi (la comprensione, la conoscenza e la chiarificazione), se raggiunti e vissuti autenticamente, possono essere in grado di cambiare o semplicemente migliorare la persona, proprio perché mirano a far modificare l’atteggiamento verso le cose”. Anna Maria Corradini, è la presidente di Eutopia e ha introdotto per la prima volta uno sportello di consulenza filosofica negli istituti di pena del Triveneto della Toscana e dell’Umbria perché consapevole che le scienze formali dimostrano, le scienze naturali sperimentano, le scienze umane, filosofia prima di tutte, argomentano. Docente di Storia e Filosofia nelle scuole secondarie per oltre trent’anni, ha potuto leggere, attraverso il contatto diretto con gli studenti, le trasformazioni culturali di questi ultimi anni e il diverso rapporto che le nuove generazioni hanno instaurato con la società. Ma dopo ben “Mille ore in carcere” (il titolo del suo libro, edito da Diogene Multimedia), ha deciso di portare la “sua materia” al di là del muro. Come? “Lavoriamo per mettere ordine al pensiero di chi ci sta di fronte attraverso un dialogo, sul modello di quello socratico. Nel senso che non si arriva ad una soluzione unica condivisa” ci spiega, e sottolinea che: “Il pensiero delle persone che incontriamo in carcere spesso non è strutturato, poco organizzato, il più delle volte confuso. Noi cerchiamo di dargli un ordine e questo non è un lavoro facile perché trova molte resistenze e tanti alibi. La ricostruzione del pensiero - sottolinea Corradini - tende all’autenticità”. La Presidente di Eutopia tiene a precisare che il consulente filosofico non imbastisce dibattiti che abbiano fondamenti logici ed efficacia retorica, “piuttosto ascoltiamo, dialoghiamo, senza approvazione, né biasimo rispetto a quello che dicono, rispettando l’individuo”. Riuscire a vivere (mille ore, appunto) oltre le sbarre ha consentito alla docente di ritrovare agganci con un mondo separato. Con una scrittura godibile e uno stile personale, racconta il suo percorso e la prospettiva “dall’interno” ci offre un punto di vista privilegiato sui detenuti e sulla realtà del carcere, un luogo che segue regole complesse, molte volte crudeli. “Le persone detenute sono le più diverse: l’analfabeta e il laureato, l’imprenditore e il disoccupato, l’italiano e lo straniero; s’incontrano culture e religioni spesso in conflitto: tutte ristrette, mescolate in un affollatissimo albergo in cui le stanze sono, a volte, assegnate a caso. E si conoscono da vicino anche i reati più diversi, si toccano con mano - rivela Corradini -. È un mondo crudo, sospeso, nel quale tutti i differenti modi di essere s’incontrano e scontrano. C’è uno scontro su tutto: con il vicino di camera, con le istituzioni, perfino con la propria stessa esistenza”. Quanto al suo rapporto con gli ospiti, racconta: “Ho dialogato con colpevoli di omicidio, violenza domestica, stalking, rapine a mano armata, corruzione, bancarotta, agguati, traffico di droga e spaccio, contraffazione, estorsione, aggressioni. Reati meditati, o frutto di consueti modi di vivere, reati che sconvolgono famiglie intere, perché imprevisti, o reati che fanno parte della tradizione familiare”. Ma come riesce ad osservare l’ambiente carcerario il consulente filosofico? “Entrata in carcere ho percepito, senza poterla o volerla definire nell’immediato, la vicinanza nella distanza tra il dentro e il fuori le mura. Una vicinanza che un muro allontana e isola in una distanza invisibile ai più; isolamento che può, a mio avviso, moltiplicare in modo altrettanto invisibile grandi problemi di natura culturale, sociale, ambientale” risponde Corradini. “In carcere sono ristretti i cattivi, chiusi in uno spazio sistema, escluso al divenire apparentemente ordinato della gente per bene che è fuori, libera in un altro spazio sistema. Una piccola polis in cui vivono persone provenienti da culture diverse e che hanno offeso, alle volte anche pesantemente perché considerata nemica, quella società da cui provengono, in cui vivevano e di cui hanno assorbito, anche inconsapevolmente, la cultura con tutte le sue contraddizioni”. In questa polis, secondo la professoressa di Eutopia, la consulenza filosofica accende una lampadina e fa vedere cose che prima erano nascoste in un angolo. “Proprio questo è stato uno dei primi feedback di ringraziamento che ho ricevuto: “Grazie, perché lei ci ha fatto vedere questo”. Spesso succede di sentirsi dire: “Non so cosa è successo, mi ha creato confusione, pensavo di essere così sicuro!”. Ringraziano e, chiedendo di tornare per un altro incontro, mi stringono la mano. Vogliono sempre stringere la mano, perché è un segno forte di riconoscimento per quel che si sta facendo assieme. Quelle strette di mano non le dimenticherò mai”. Il “nostro” razzismo quotidiano, pamphlet sulle discriminazioni di Serena Chiodo Il Manifesto, 16 luglio 2020 Nel “Quinto libro bianco” Lunaria ha documentato in Italia 7.426 casi, tra cui 5.340 violenze verbali, 901 violenze fisiche. “Un archivio della memoria delle discriminazioni e delle violenze razziste”: così Grazia Naletto (Lunaria) definisce il Quinto Libro Bianco sul razzismo in Italia, presentato ieri. Un lavoro di analisi e sintesi del monitoraggio sistematico portato avanti dall’associazione con il database presente sul sito www.cronachediordinariorazzismo.org, che prende in considerazione il periodo tra il 1° gennaio 2008 e il 31 marzo 2020. E che parla del razzismo in Italia come di un fenomeno radicato su tutto il territorio nazionale e in ogni livello della società. In dodici anni l’associazione ha documentato 7.426 casi di razzismo, tra cui 5.340 violenze verbali, 901 violenze fisiche, 177 danneggiamenti alla proprietà, 1.008 casi di discriminazione. Dati allarmanti, anche considerando che, come specificano gli autori, sono sottostimati: “La gran parte delle ingiustizie resta confinata nel silenzio di coloro che le subiscono e nell’omertà dei molti che ne sono testimoni passivi e, dunque, complici”, scrive Naletto nel capitolo “2008-2019: un decennio e più di ordinario razzismo”. Un’evidenza che tristemente non stupisce, in un paese caratterizzato da un razzismo istituzionale che attraversa trasversalmente gli anni tra il governo Berlusconi IV (2008-2011) e il secondo governo Conte (2019-2020). Tra le 1.008 discriminazioni riscontrate, in 663 casi i responsabili sono personaggi politici o amministrativi: un dato su cui è necessario soffermarsi per sciogliere quello che Lunaria definisce “l’intreccio stringente tra le parole cattive di chi conta, le rappresentazioni distorte di chi racconta, le offese violente di chi commenta online e le violenze razziste fisiche”. È questa la riflessione alla base dell’osservazione sistematica che Lunaria propone del piano istituzionale, e che fa emergere il profondo nesso tra l’approccio politico all’immigrazione, la rappresentazione dei cittadini di origine straniera nella società, e come quest’ultima agisca nei loro confronti. “Questi anni sono stati attraversati dalla proclamazione di innumerevoli “emergenze”, commenta Naletto, ricordando l’”emergenza” rom, le “emergenze sbarchi”, “l’emergenza” Nord Africa”. Una lettura che facilita l’approccio securitario e che è via via diventata un modello, lasciando spazio a un’accoglienza che non facilita l’inserimento delle persone ma, quello sì, la proliferazione di cattive prassi. Un approccio fallimentare sia per le persone inserite nei circuiti di (mala)accoglienza sia per l’intera società, impaurita dalla cornice proposta dalla destra, composta dai temi “dell’invasione dei migranti e della loro pericolosità sociale”: lo evidenziano Giuseppe Faso e Sergio Bontempelli (Straniamenti) nel capitolo “La lunga parabola del sistema di accoglienza italiano”. Un frame che non è stato decostruito né dalla politica né dai media, anzi: secondo Faso questa narrazione è stata assecondata. Sul ruolo dei media mainstream è intervenuta Paola Barretta (Carta di Roma), portando alla luce due aspetti: uno di continuità, corrispondente all’etnicizzazione della notizia e alla criminalizzazione aprioristica del cittadino straniero; l’altro di discontinuità, legato all’emersione, nell’ultimo anno e mezzo, della voce delle vittime del razzismo, fino a qualche tempo fa invisibili. Un processo risultato “di una maggiore sensibilità dei media e di una crescente visibilità dei rappresentanti della diaspora, che ora assumono protagonismo nella rivendicazione di diritti”. Il percorso dodecennale proposto dal Quinto Libro Bianco smonta ciò che l’antropologa Annamaria Rivera definisce “retorica della prima volta: di fronte a manifestazioni di razzismo, a prevalere nella coscienza collettiva come tra locutori mediatici, istituzionali, politici, perfino fra taluni intellettuali di sinistra, è la tendenza a rimuoverne i segni premonitori e gli antecedenti”. Non ci si stupisca invece di fronte agli insulti a Beatrice Ion, atleta paraolimpica di origine rumena, in Italia da 16 anni. E nemmeno davanti al cittadino del Bangladesh gettato nei navigli a Milano. Episodi troppo recenti per essere inseriti nel Quinto Libro Bianco sul razzismo in Italia, ma che sono frutto proprio di quello che il lavoro descrive e ripercorre. Un lavoro necessario anche se non statistico: lo specifica la stessa Lunaria, che parla di “un racconto ragionato di quella parte di razzismo quotidiano che riusciamo a documentare”. Una rappresentazione preziosa, a fronte della mancanza di dati ufficiali su un fenomeno che permea l’intero paese. Migranti. Il ritorno alla caccia all’untore straniero e le insostenibili “navi quarantena” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 luglio 2020 All’inizio gli untori erano i cinesi, poi gli italiani e ora ricominciano ad essere i migranti, in particolar modo i bangladesi. Dopo le proteste degli abitanti di Amantea, in Calabria, contro la presenza di 28 migranti dal Bangladesh, tra cui alcuni positivi al Covid- 19, quest’ultimi (tredici persone) sono stati trasferiti martedì scorso all’ospedale militare Celio, a Roma. Ieri invece, sempre al Celio, l’Agi riferisce che sono stati trasferiti undici uomini di origine pakistana arrivati in Sicilia a Pozzallo con la nave Fiorillo. Si tratterebbe di casi asintomatici, nessuno avrebbe ancora sviluppato la malattia. I migranti arrivati in Sicilia con la nave Fiorillo e gli altri giunti via terra tramite Porto Empedocle sono al momento ospitati alla struttura Don Pietro in contrada Cifali tra Comiso e Ragusa. Per far fronte al disagio, il Viminale ha pubblicato un nuovo avviso per la presentazione di manifestazioni di interesse relative al noleggio di unità navali da adibire a strutture provvisorie per l’assistenza e la sorveglianza sanitaria di migranti soccorsi in mare o giunti sul territorio nazionale a seguito di sbarchi autonomi. In pratica si tratterebbero delle “navi quarantena”. Eppure non siamo più in fase di lockdown. A Fiumicino se una persona arriva positiva non viene messa in un aereo- quarantena, ma viene invitata a fare la quarantena da solo. Al contrario i migranti sono più tutelati perché c’è un cordone di sicurezza che li porta fino alla struttura, mantenendo le distanze. Per il professor Massimo Galli, direttore del reparto di Malattie infettive dell’ospedale Luigi Sacco di Milano, le misure adottate dal governo Conte sono un “errore colossale”. È sbagliata, a suo dire, la decisione di tenere numerose persone potenzialmente infette stipate a bordo delle imbarcazioni. Intervistato dal Messaggero, il professore ha spiegato che la soluzione migliore sarebbe sottoporre in brevissimo tempo gli stranieri al test del tampone faringeo per poi provvedere a farli sbarcare. Lasciando gli extracomunitari sulla nave, infatti, non si farebbe altro che aumentare il rischio di una maggiore diffusione del virus fra gli ospiti. Per avvalorare quanto afferma, il medico ha ricordato quanto è accaduto a bordo della Diamond Princess, la nave da crociera rimasta un mese bloccata a largo delle coste di Yokohama a causa di numerosi casi di coronavirus fra i passeggieri. La soluzione della nave- quarantena non fece che causare ulteriori danni. Ma non solo. Un conto è la quarantena a casa o a una struttura adeguata, un conto è rimanere isolati su una nave. Tenere le persone per lunghi periodi a bordo di una nave provoca un disagio psicologico. Non dimentichiamo che il 20 maggio scorso - notizia data dal cronista di Radio Radicale Sergio Scandura - un ragazzo tunisino di 28 anni si è gettato in mare mentre era a bordo del traghetto Moby Zazà, in rada a Porto Empedocle con 121 persone a bordo. Si è gettato ed è morto. Migrante morto al Cpr di Gradisca d’Isonzo, De Carlo (M5S) interroga il ministro Il Gazzettino, 16 luglio 2020 Sulla morte del migrante albanese a Gradisca, nel Cpr, la deputata M5S Sabrina De Carlo ha fatto un’interrogazione in Parlamento: “Sono i fatti d’attualità, tornati alla ribalta delle cronache nelle ultime settimane, a confermare quanto già sostenuto in precedenza: urge un intervento normativo mirato nei Cpr che possa garantire maggiore sicurezza e tutela dei migranti detenuti nel nostro Paese”. L’interrogazione “fa seguito ad un lungo lavoro di sopralluoghi e ascolto degli operatori coinvolti nelle strutture, e si è resa necessaria anche alla luce del secondo decesso nel giro di pochi mesi, in questo caso di un ragazzo di nazionalità albanese, il cui corpo é stato rinvenuto da un addetto della cooperativa che gestisce la struttura, nella stanza con altri cinque elementi dove un marocchino in condizioni gravi è stato trasportato in ospedale e ricoverato in terapia intensiva”, spiega De Carlo. “Il preoccupante abuso di droghe e farmaci, come risaputo, é una costante proprio in questi luoghi in cui, per cautela e buonsenso, dovrebbe essere proibito. Il giro di sostanze all’interno dei centri, trova conferma anche nelle parole del Procuratore Lia”, aggiunge De Carlo. “Nelle numerose strutture visitate, infatti, sono emerse sempre le medesime problematiche che evidenziano il deterioramento di servizi e controlli anche sotto il profilo sanitario, l’assenza del supporto psicologo e l’assistenza medica ridotta a poche ore settimanali e non passa inosservata la condizione di sicurezza dei detenuti, delle quali mi sono già occupata in pregressi interventi e interrogazioni. È necessario che il Ministro intervenga per apportare un miglioramento all’interno dei Cpr, un sistema che ha evidenti deficit da colmare con modifiche sostanziali che siano in grado di tenere al sicuro i detenuti per il tempo di permanenza”, conclude. Migranti. Corridoio umanitario per rifugiati, il caso italiano studiato dall’Oms di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 luglio 2020 È in arrivo a Roma il primo corridoio umanitario da quando è iniziato il lockdown per dieci rifugiati da Lesbo. Finalmente, per loro, si apre una nuova vita grazie all’Elemosineria Apostolica e alla Comunità di Sant’Egidio. L’ha voluto Papa Francesco, ma è una storia che inizia quattro anni fa. Infatti i 10 rifugiati si aggiungono ai 57 già venuti in Italia con diversi viaggi. Il primo effettuato il 16 aprile 2016 nello stesso aereo con cui il Papa è tornato a Roma dalla sua storica visita a Lesbo. I profughi, che appartengono a 4 nuclei famigliari, non erano riusciti a partire nel dicembre scorso per motivi contingenti e, successivamente, erano rimasti bloccati dalla pandemia. “Il primo corridoio umanitario dopo il lockdown è stato reso possibile grazie ad una preziosa sinergia tra le autorità italiane e greche”, riferisce la comunità di Sant’Egidio. Le evacuazioni umanitarie e corridoi per rifugiati è un fiore all’occhiello italiano, tant’è vero che è un caso di studio che compare nella guida tecnica dell’Organizzazione mondiale della sanità relativa alle strategie e interventi per prevenire e rispondere alla violenza e agli infortuni tra i rifugiati e migranti. I corridoi umanitari autofinanziati per l’Italia sono stati istituiti alla fine del 2015 sulla base di un Memorandum d’intesa tra il governo italiano e un’iniziativa ecumenica della Chiesa (che incorpora la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Chiesa Evangelica Valdese). Il progetto mira a ridurre i numeri dei viaggi rischiosi attraverso il Mediterraneo e a rischio di sfruttamento dalla tratta di esseri umani. Ha permesso a chi ha ‘condizioni di vulnerabilità’, come ad esempio le vittime di violenza così come le famiglie con bambini, anziani, malati o disabili, di entrare legalmente in Italia, di ottenere visti umanitari con ‘validità territoriale limitata’, e di avere in seguito la possibilità di chiedere asilo. I potenziali beneficiari vengono contattati dai volontari del progetto e poi verificati dal ministro dell’Interno prima della concessione del visto. All’arrivo in Italia, i rifugiati vengono accolti nelle case di volontari impegnati con le Chiese, che si impegnano a insegnare loro l’italiano, a iscriverli scuola, aiutarli a trovare un lavoro e aiutarli ad integrarsi nella società italiana. Nel periodo 2016- 2017, circa 1000 siriani in fuga dal conflitto sono giunti in Italia attraverso tali corridoi umanitari. Alla fine del 2017, un altro accordo è stato firmato con il ministero degli Interni e il ministero degli Esteri per continuare l’esperienza. Altri 1000 beneficiari hanno raggiunto l’Italia nel periodo 2018-2019 con tale coinvolgimento delle organizzazioni cattoliche. L’Italia fa anche le evacuazioni umanitarie. Si tratta di un meccanismo di transito in emergenza istituito dal Ministero dell’Interno italiano e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), in collaborazione con l’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà (Inmp), per trasferire rifugiati e migranti vulnerabili direttamente dal Nord Africa verso l’Italia. Da dicembre 2017 a novembre 2019, è stata fornita assistenza a più di 900 rifugiati e migranti identificati dall’Unhcr sulla base della loro vulnerabilità. Provenivano principalmente dalle carceri libiche o dai centri dell’Unhcr in Niger, dove erano stati temporaneamente allocati dopo un periodo di detenzione in Libia. I migranti, tra cui un’alta percentuale di bambini sotto i 4 anni e di neonati, sono giunti così in Italia in modo sicuro con volo aereo. All’arrivo all’aeroporto militare di Roma, hanno ricevuto una valutazione dello stato di salute secondo le Linee guida nazionali italiane sui controlli alle frontiere, effettuata da un’equipe dell’Inmp composta da professionisti sanitari (medici internisti e infettivologi, dermatologi, pediatri, infermieri e mediatori transculturali). Dopo la visita medica individuale, i rifugiati e i migranti venivano sottoposti a un controllo di identità da parte della polizia e poi trasferiti nei centri di accoglienza in Italia. L’ambulatorio sanitario temporaneo istituito presso l’aeroporto militare è organizzato per garantire le operazioni di valutazione dello stato di salute. Chi mostrava necessità di assistenza sanitaria veniva indirizzato, a seconda dell’urgenza, al pronto soccorso con ambulanza, oppure inviato a un reparto ospedaliero specializzato o infine segnalato al medico del centro di accoglienza. Tutti esempi virtuosi che sono oggetto di studio da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità. Aiuti umanitari in Libia, nuove accuse all’Italia di Nello Scavo Avvenire, 16 luglio 2020 “Lo sviamento degli aiuti umanitari in Libia è una realtà”. Alla vigilia del voto con cui il Parlamento intende riconfermare le operazioni italiane aumentando i fondi a 58 milioni (per un totale di oltre 210 milioni negli ultimi tre anni) le parole di una portavoce dell’Oim pesano come un macigno. Almeno quanto quelle di Federico Soda, capo della missione Oim in Libia, che ieri è tornato a denunciare le “innumerevoli vite perse, altre detenute o trattenute da trafficanti in orrori inimmaginabili”. Le considerazioni dell’agenzia Onu per i migranti, sono riportate nel rapporto sull’uso dei fondi italiani in Libia. Corruzione, violazione dei diritti umani, stanziamenti dirottati. Dopo lo scandalo delle assegnazioni alle municipalità libiche rivelato da Avvenire, con milioni di aiuti mai completamente impiegati per gli scopi a cui erano destinati, ora gli avvocati di Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, gettano altre ombre. E si scopre così che non è stato previsto alcuno strumento per tracciare la filiera che porta i soldi dalle tasche dei contribuenti italiani a quelle dei capi milizia. I legali hanno studiato i bandi assegnati ad alcune Ong italiane e la loro applicazione sul campo. E da subito si capisce che fin dall’istituzione nel 2017 e poi riconfermati negli anni successivi, il governo Gentiloni e i due governi Conte sapevano che in Libia era necessario chiudere un occhio. “I progetti non prevedono, ed anzi vietano espressamente, la presenza di personale italiano in Libia al fine di attuare gli interventi” spiega l’associazione. Tutti e tre i bandi stabiliscono che “vista l’attuale situazione e le difficili condizioni di sicurezza, non è previsto il coinvolgimento e la presenza di personale italiano nelle aree di intervento. Le proposte dovranno prevedere la realizzazione delle attività in loco esclusivamente attraverso il personale locale”. Quel che accade dopo è facile immaginarlo. La ricostruzione degli avvocati, a cui sono stati negati dalle autorità italiane numerosi documenti di bilancio, non lascia spazio a interpretazioni alternative. E così tornano i soliti noti del traffico di esseri umani e petrolio. “Particolarmente preoccupante è la situazione a Tajoura e Tarik al Sikka, centri di detenzione entrambi sotto il controllo di milizie afferenti a Mohamed al-Khoja, vice capo del Dcim (il Dipartimento di contrasto all’immigrazione illegale, ndr), che - si legge - ha le proprie milizie ed è legato al business del traffico di migranti”. Una recente inchiesta diAssociated Press conferma che il centro di Tarik al Sikka “è gestito da milizie afferenti ad al-Khoj a, il quale sarebbe sotto indagine da parte di tre agenzie governative libiche per la sparizione di forti somme di denaro stanziate dal governo di Tripoli per il cibo all’interno dei centri”. Denaro che arriva in gran parte da Paesi donatori esteri. “Le organizzazioni internazionali operanti in Libia sono ben consapevoli della possibilità di malversazioni e sviamento degli aiuti umanitari: una comunicazione interna delle Nazioni Unite - riporta Asgi - affermava l’esistenza di un “alto rischio” che il cibo destinato alla Gdf di Unhcr a Tripoli (la struttura di transito dell’Onu, ndr) venisse in realtà incamerato da gruppi armati”. Ma dei 6 milioni stanziati dall’Italia per gli interventi da affidare alle Ong, chi ha preso la parte maggiore? Rispunta una vecchia conoscenza. La solita. Ecco cosa ha raccontato una fonte citata da Asgi: “Nel centro di Zawiyah, gestito dal clan del noto trafficante Abdul Rhaman al-Milad detto “Bija” e teatro del più corposo intervento (un milione di euro), gli aiuti finiscono “metà ai detenuti metà alle guardie”, e molti beni vengono poi rivenduti sul mercato nero”. Da un punto di vista politico gli interventi corrono l’evidente rischio di legittimare “l’attuale sistema di detenzione di stranieri in Libia”. Stanziamenti “in continuità - conclude il rapporto - con il quadro più articolato di interventi del governo italiano in Libia, tra cui il multiforme sostegno alla cosiddetta Guardia Costiera libica, che hanno come effetto di incrementare il numero di intercettazioni di migranti in mare, successivamente trasferiti nei centri di detenzione”. Deportati direttamente verso gli “orrori inimmaginabili” mai menzionati nella proposta di rifinanziamento oggi all’esame dei deputati. Turchia. Nuova retata di gulenisti nell’anniversario del golpe fallito di Marco Ansaldo La Repubblica, 16 luglio 2020 Il pugno duro di Ergodan a quattro anni dal tentativo di prendere il potere da parte di un gruppo di militari che, secondo il governo, erano ispirati dal predicatore dissidente. Strade deserte. Banche chiuse. Negozi però aperti, nel quarto anno post golpe. “Perché comunque si spera di vendere qualcosa qui, dopo quattro mesi in cui non c’era l’ombra di uno straniero”, dice un venditore di simit, le ciambelle turche con i semi di sesamo, nel quartiere turistico di Ortakoy. Istanbul si presenta così, dopo la riapertura dei voli seguita all’emergenza pandemia, il giorno dell’anniversario del colpo di Stato fallito contro Recep Tayyip Erdogan. Un’atmosfera surreale, con alberghi “al 40 per cento della capienza, se va bene”, dice il direttore di un grande hotel nella zona di Besiktas davanti al Bosforo. Ovunque, nel ricordo del massacro, colossali bandiere rosse con la mezzaluna e la stella sono state appese ai palazzi, coprendone le vetrate. Il giorno del putsch non riuscito, il primo in Turchia finito in un fiasco, viene celebrato con festeggiamenti, ma pure con un’operazione massiccia di arresti. Come quasi ogni giorno del resto, giusto per ricordare il pericolo passato e prevenire possibili intenzioni future. Il quarto anniversario è stato così inaugurato al mattino con un blitz contro la presunta rete golpista di Fethullah Gulen, il predicatore turco auto-esiliatosi in Pennsylvania ventun anni fa e considerato da Ankara l’ispiratore dell’azione di ribellione contro il governo del presidente. All’alba un’operazione di polizia è partita dalla capitale Ankara, dove la procura ha emesso 60 mandati di cattura nei confronti di sospetti affiliati al gruppo, ribattezzato Fetò (da Fethullah). L’accusa: avere truccato esami e concorsi pubblici per favorire l’infiltrazione di membri all’intento delle pubbliche amministrazioni. Il raid delle forze dell’ordine si è quindi esteso ed è stato lanciato ad altre 30 province, concentrandosi in particolare su Istanbul, ma non escludendo il sud. Nella città di Adana, la più grande vicino alla Siria, i magistrati hanno emesso 24 mandati di cattura nei confronti di persone accusate di aver reclutato nuovi membri e gestito le relazioni interne al gruppo, attraverso ByLock, la applicazione di messaggistica per smartphone che, secondo gli inquirenti, veniva adoperata dagli ufficiali ribelli per lo scambio di informazioni criptate. Tra i fermati, molti ex agenti di polizia, accusati di avere aiutato nell’azione golpista i militari contrari al capo dello Stato. Il golpe fallito durò in tutto 4 ore, a cavallo della notte fra il 15 e il 16 luglio 2016. Una fazione delle Forze armate che non riconosceva più Erdogan, puntando a destituirlo e anzi a eliminarlo fisicamente, condusse una serie di azioni soprattutto a Istanbul e ad Ankara, nel tentativo di rovesciare militarmente il governo. Un commando di teste di cuoio arrivò poi a Marmaris, nell’hotel dove Erdogan stava trascorrendo le vacanze. Il leader turco fu avvertito in tempo, e riuscì a lasciare la località fuggendo in aereo solo 15 minuti prima di essere raggiunto. Il suo velivolo fu quindi individuato e affiancato, ma non colpito. Nelle prime due ore sembrava che il colpo di Stato potesse riuscire. E già i proclami di sovvertimento dell’ordine erano partiti. Ma il corso degli eventi fu poi ribaltato per le proteste popolari dei sostenitori del presidente, il quale con grande prontezza si era collegato alla CnnTurk su Facetime incoraggiando la gente alla resistenza, e per una serie di errori strategici dei golpisti e di reazioni interne all’esercito. I morti furono circa 250 morti. I feriti più di duemila. La repressione seguente fu feroce. Con Erdogan dotatosi di poteri straordinari per lo stato d’emergenza, dal giorno successivo a oggi, in quattro anni sono state arrestate quasi centomila persone, più di 150 mila sono state licenziate o epurate. In tutti i settori: forze armate, diplomazia, magistratura, pubblica amministrazione, scuola, sport, cultura. “Dal 15 luglio 2016 a ora - ricorda adesso con un certo orgoglio il ministro dell’Interno, Suleyman Soylu - sono state effettuate 99.066 operazioni contro i golpisti, arrestati 282.790 sospetti e detenuti in 94.975. Attualmente sono 25.912 i detenuti in relazione al colpo di stato”. Molti gli eventi di commemorazione previsti in tutta la Turchia. Il presidente parteciperà a una cerimonia in Parlamento ad Ankara e incontrerà alcuni sopravvissuti e familiari delle vittime. In Italia il golpe fallito è stato ricordato in ambasciata dal rappresentante turco a Roma, Murat Salim Esenli: “Con l’Italia, la Turchia intende condividere l’esperienza maturata nella lotta all’organizzazione terroristica Fetò”, ha dichiarato il diplomatico. Il quale ha commentato come il governo italiano abbia anch’esso “un’enorme esperienza nella lotta alle organizzazioni criminali”, come con “la mafia e il traffico di esseri umani”. E proprio per questo, ha aggiunto, “l’Italia capisce la Turchia meglio di altri”. Anche per la diplomazia italiana le relazioni fra i due Paesi si stanno ultimamente rafforzando. In serata Erdogan parlerà in diretta alla nazione. Ieri ha anche accennato al caso del museo di Santa Sofia, che dal 24 luglio tornerà a essere ufficialmente una moschea. “Restituendo Ayasofya alla sua funzione - ha spiegato il presidente turco - preserveremo il suo patrimonio culturale, come hanno fatto i nostri antenati”. Il riferimento, è ovvio, va all’epoca dell’Impero ottomano. Iran. La campagna per fermare la pena di morte corre sul web di Gabriella Colarusso La Repubblica, 16 luglio 2020 Twitter si scatena per salvare tre ragazzi condannati per aver preso parte alle proteste dello scorso autunno contro il carovita. Amirhossein Moradi, Saeed Tamjidi e Mohammad Rajabi hanno poco più di 20 anni. Sono in carcere in Iran dallo scorso novembre e ieri la Corte suprema ha confermato per loro la condanna a morte. Le accuse: “vandalismo” e “atti di guerra” contro il regime perché, durante le proteste scoppiate in decine di città iraniane lo scorso autunno contro l’aumento del prezzo del carburante, avrebbero assaltato un distributore di benzina e passato le immagini delle manifestazioni ai giornali internazionali. Amnesty ha definito il processo a loro carico ingiusto e gli avvocati dei tre ragazzi hanno scritto una lettera pubblica per denunciare che le confessioni sono state estorte loro con la violenza. Il caso ha scatenato un’ondata di proteste sui social media iraniani contro l’esecuzione dei tre manifestanti e contro la pena di morte a cui l’Iran fa ricorso come nessun altro Paese al mondo, fatta eccezione per la Cina. L’anno scorso le esecuzioni sono state almeno 251, dice Amnesty. Da 24 ore in cima alle tendenze di Twitter c’è l’hashtag in persiano “Non giustiziateli”, alla campagna per fermare l’esecuzione si sono unite migliaia di persone, dentro e fuori dall’Iran, cittadini comuni e personaggi noti come il regista premio Oscar Asghar Farhadi o il calciatore Hossein Mahini, difensore molto amato del Persepolis e della nazionale iraniana. La fashion blogger Mojgan Rezaei, che su Instagram ha più di 200mila follower, ha scritto: “Ogni vita umana è preziosa. #DontExecute”, a lei si è affiancata anche l’attrice Taraneh Alidoosti e su Twitter si è fatta sentire anche l’ex parlamentare Parvaneh Salahshouri, che dopo le proteste di novembre fece un discorso durissimo all’Assemblea iraniana accusando il regime di non ascoltare le esigenze della popolazione stremata dalla crisi economica e denunciando la repressione. Salahshouri promise che non si sarebbe più candidata. Più di 5 milioni di tweet per fermare le esecuzioni La campagna online ha unito tantissime persone di provenienze diverse. Amir Rashidi, che è un ricercatore digitale iraniano e studia l’attivismo online da diversi anni, ci dice che non ha mai visto niente di simile. “Le persone in Iran normalmente hanno paura di partecipare a campagne online perché ci sono innumerevoli casi di cittadini che sono stati arrestati per un tweet. Questa volta sembra che non si stiano curando del rischio: stanno chiedendo a gran voce, come una sola voce, di fermare le esecuzioni. Davvero notevole”. In passato ci sono state altre campagne digitali molto partecipate, in occasione per esempio dei negoziati sul nucleare o per la liberazione di prigionieri politici, “Ma a questo genere di mobilitazioni le persone comuni di solito non partecipano”, ci spiega Rashidi, “sono soprattutto attivisti, giornalisti difensori di diritti umani a farsene carico. Questa volta invece la campagna è partita dagli iraniani e da dentro l’Iran”. L’hashtag “non giustiziateli” ha ricevuto più di 5 milioni di tweet, dice Rashidi. La pressione social è tale che le squadre cyber del regime hanno cominciato subito la contropropaganda con l’hashtag “giustiziateli”. Martedì pomeriggio, secondo i dati di Netblocks, ci sono state diverse interferenze e interruzioni nella connessione internet in Iran, e molti si sono preoccupati: durante le proteste a novembre il governo lo spense per quasi sei giorni, tenendo il Paese isolato dalla rete globale pur di non far uscire informazioni. Alle proteste di novembre, che furono concentrate soprattutto nelle province e nelle zone rurali e a cui parteciparono in massa giovani disoccupati e ceti popolari stremati dalla crisi economica, il governo iraniano rispose con la mano durissima. Le organizzazioni per i diritti umani parlano di almeno 500 morti, secondo la Reuters furono addirittura 1.500. Le manifestazioni furono le più imponenti da anni, con episodi anche violenti contro uffici governativi, e coinvolsero una fetta di popolazione più conservatrice e restia a scendere in piazza, in buona parte la base elettorale e di consenso del regime. Il rischio è che la rabbia riesploda. La situazione economica in Iran è molto difficile, il rial ha perso più del 30% del suo valore dall’inizio dell’anno, le sanzioni americane hanno ridotto al minimo le esportazioni di petrolio e i cittadini accusano il governo di corruzione e inefficienza. Il presidente Rouhani ha dovuto riaprire prima del tempo le città - dopo aver introdotto misure di confinamento per il Covid già molto blande - perché l’economia del Paese non può permettersi nuovi stop. Nei palazzi del potere si teme una nuova ondata di proteste, e anche una campagna online può funzionare da miccia. Le esecuzioni di tre ventenni sono un messaggio molto chiaro per chiunque pensasse di tornare di nuovo in strada a protestare. Tunisia. Blogger in carcere per la satira sul Covid-19 La Stampa, 16 luglio 2020 Il post su Facebook aveva la forma di un versetto del Corano. Inascoltati gli appelli di Amnesty International. Condanna a sei mesi di carcere per la blogger tunisina Emna Charqui, riconosciuta colpevole di “incitamento all’odio tra religioni” da una corte di Tunisi. Due mesi fa, su Facebook, aveva condiviso un post satirico sul Covid-19 scritto sotto la forma di un versetto del Corano. La blogger 28enne, agli arresti da maggio, si è difesa assicurando di non aver voluto offendere nessuno ma soltanto far ridere. Charqui ha già detto che farà appello alla sentenza. Lo scorso 2 maggio la blogger ha condiviso un post che imitava un versetto del Corano: in risposta alla pandemia di coronavirus, il testo invitava la gente a lavarsi le mani e osservare il distanziamento sociale, seguendo le regole del testo sacro dell’Islam. In quei giorni era ancora in corso il Ramadan e la Tunisia stava osservando un lockdown molto restrittivo. In origine l’immagine e il testo erano stati pubblicati da un cittadino algerino ateo che vive in Francia. L’immagine e il contenuto scritto del post hanno scatenato polemiche sui social, denunciati come “offensivi” da decine di utenti, che hanno chiesto alle autorità di punire Charqui, dichiaratamente atea. Pochi giorni dopo la polizia ha interrogato la giovane blogger, aprendo la strada alla sua formale incriminazione. Il 27 maggio Amnesty International ha chiesto alle autorità tunisine di non processarla: un appello rimasto inascoltato. “La messa in stato di accusa di Emna è un’ulteriore riprova che in Tunisia, nonostante progressi democratici, le autorità continuano ad utilizzare la legge repressiva per attaccare e minare la libertà di espressione” ha denunciato Amna Guellali, direttore Amnesty per il Nord Africa.