Per l’ingiusta detenzione aria di intesa alla Camera di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 luglio 2020 Aperture bipartisan sul testo bocciato in Aula un anno fa. Prove di “larghe intese” fra governo e Forza Italia sulla giustizia. Il punto d’incontro potrebbe essere raggiunto a breve sulla proposta di legge in materia di valutazione disciplinare dei magistrati a seguito di accoglimento della domanda di riparazione per ingiusta detenzione. Presente il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis (Pd), l’azzurro Pierantonio Zanettin ha iniziato ieri in Commissione giustizia a Montecitorio l’esame del testo del ddl presentato lo scorso maggio dal collega di partito Enrico Costa. La discussione è avvenuta in un clima molto sereno. Segno evidente che non ci sono al momento posizioni ostili in maniera preconcetta su un tema molto delicato e scivoloso come questo. Il provvedimento, infatti, introduce per la prima volta l’obbligo di trasmissione agli organi titolari dell’azione disciplinare nei riguardi dei magistrati (il procuratore generale della Cassazione ed il ministro della Giustizia, ndr) delle sentenze che accolgono le domande di riparazione per ingiusta detenzione, con una ulteriore disposizione in merito alla responsabilità disciplinare dei magistrati. Il testo riproduce essenzialmente quello, presentato sempre da Costa, che era stato respinto l’anno scorso alla Camera. Rispetto al 2019, però, molte cose sono cambiate. Dal punto di vista politico il governo ha l’impellente necessità di allargare la maggioranza parlamentare in vista dell’autunno quando si troverà a fronteggiare una crisi economica durissima dovuta agli effetti del Covid- 19. E sul fronte magistratura, invece, l’affaire “Palamara” ha lasciato il segno: difficile in questo momento trovare qualcuno in Parlamento pronto a stracciarsi le vesti per la difesa senza se e senza ma delle toghe. Si sente da più parti la necessità di un cambio di passo nel rapporto politica e magistratura. Il Pd, il principale alleato di governo, non pare pronto ad immolarsi per una nuova battaglia in difesa delle guarentigie dei giudici. Anche fra i 5S il clima è diverso. Il ministro Alfonso Bonafede ha recentemente predisposto a via Arenula un monitoraggio dei casi di ingiusta detenzione. Il legislatore, con la legge nel 2017 di riforma delle misure cautelari, ha previsto che nella relazione che il governo deve presentare annualmente al Parlamento sull’applicazione delle misure cautelari personali, debba altresì dare conto dei dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione pronunciate nell’anno precedente, “con specificazione delle ragioni di accoglimento delle domande e dell’entità delle riparazioni, nonché i dati relativi al numero di procedimenti disciplinari iniziati nei riguardi dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, con indicazione dell’esito, ove conclusi”. Ad oggi, però, il governo non ha ancora adempiuto: l’ultima relazione sullo stato di applicazione delle misure cautelari è stata trasmessa dal governo Gentiloni e contiene dati relativi all’anno 2017. Siglato progetto per il Sud dal Dipartimento Giustizia minorile di Francesco Bolognese ilreggino.it, 15 luglio 2020 L’interessante iniziativa è finalizzata a costituire e rafforzare le reti territoriali dei servizi di inclusione sociale, con riferimento a particolari categorie di soggetti a rischio di devianza. Nascere e crescere in un contesto familiare di ‘ndrangheta o con essa colluso induce, come dimostrano centinaia di sentenze passate in giudicato, tanti figli (minori e non) a seguire le orme paterne, a percorrere gli stessi circuiti criminali, a scalare con tenacia (quasi fino alla “scissione”) la “gerarchia mafiosa” per fregiarsi di quei “galloni” che darebbero “rispetto” (sic). Ed invece danno il carcere, sin dall’adolescenza. Talvolta anche la vita! Ma le pene, come hanno scritto i Padri costituenti del 1948, “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Con più zelo, forse, se di mezzo ci sono dei giovani con una vita davanti, che non sono stati “liberi di scegliere”. Su questo dirimente versante si può e si deve fare di più. È di questi giorni, presso il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità del ministero della Giustizia, la sigla del contratto per l’avvio del Pon legalità FESR/FSE 2014-2020: “Innovazione Sociale dei Servizi per il reinserimento delle persone in uscita dai circuiti penali”. L’interessante iniziativa è finalizzata a “costituire e rafforzare le reti territoriali dei servizi di inclusione sociale, con riferimento a particolari categorie di soggetti a rischio di devianza ossia persone, in carico agli Uffici di Esecuzione penale esterna, in fase di uscita o usciti dai circuiti penali nelle regioni Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia”. In particolare “intende favorire formule di accoglienza, mettere in risalto le competenze per orientare le scelte adottate dai destinatari del progetto”. È previsto a tal proposito “l’inserimento di duecento persone in tirocini di orientamento e inserimento lavorativo, propedeutici alla stabilizzazione occupazionale”. Anm verso l’autunno caldo: “No a riforme punitive” di Errico Novi Il Dubbio, 15 luglio 2020 Il “Sindacato” convoca per settembre un’assemblea che può aprire il conflitto col governo. Il momento per la magistratura non è facile. Forse è peggiore di quello vissuto un anno fa, all’esplosione del caso Palamara. Ora si profila l’ondata di ritorno sollevata da quella vicenda, sotto forma di riforme non proprio indolori per le toghe. Ci sono almeno tre fronti aperti a preoccupare l’Anm. Innanzitutto la riforma del Consiglio superiore, con le ipotesi di sorteggio (temperato) tutt’altro che sepolte, dopo il parere favorevole espresso persino da togati di Autonomia e Indipendenza, una corrente degli stessi magistrati, e visto il pressing di Forza Italia. Poi c’è la sottovalutata questione delle sanzioni disciplinari per giudici e pm “lenti”: la norma, ritenuta punitiva dall’associazione presieduta da Luca Poniz, è nel ddl sul processo penale, che inizia a muovere i primi passi a Montecitorio. E sempre nella commissione Giustizia presieduta dalla deputata M5S Francesca Businarolo ieri si è materializzata la non ostatività (quanto meno) del governo a un’altra proposta degli azzurri (illustrata in un altro servizio del giornale, ndr): creare una specifica fattispecie di responsabilità per quei magistrati che chiedono e ordinano misure detentive di cui poi si svela l’ingiustizia. Partite che sabato scorso hanno indotto l’Anm a convocare l’assemblea nazionale per il prossimo 19 settembre: un evento che rischia di trasformarsi nell’apertura di un conflitto politico molto aspro fra la magistratura e il governo. Di fatto a preoccupare Poniz, il segretario Giuliano Caputo e in generale le correnti è il vento che cambia. L’aria da resa dei conti che si respira attorno al caso Palamara e che potrebbe spingere un ministro pur aperto al confronto come Alfonso Bonafede a scegliere con le toghe la linea dura. Un paradosso, se si pensa al mito dei cinque stelle legati alla magistratura da una presunta organicità. Solo un mito appunto. Come le tensioni Bonafede-Di Matteo hanno dimostrato. Il paradosso è reso persino più insopportabile, per la magistratura associata, se si considera la tendenza a proporre alla politica misure per limitare carrierismo e percorsi preordinati sulle nomine: basti pensare al documento approvato sempre nello scorso fine settimana dall’assemblea di Area, il gruppo delle toghe progressiste, che arriva a proporre anche il divieto di assumere nuovi incarichi direttivi per quei colleghi che già guidano un ufficio. Vorrebbe dire che un procuratore della Repubblica dovrebbe tornare almeno per un paio d’anni a fare il sostituto semplice, anche a fine carriera. Paiono riaffiorare tensioni degne del ventennio berlusconiano. Certo, la governance dell’Anm è nelle mani di un progressista moderato come Poniz. Però lo stesso presidente dell’associazione, nell’ultimo parlamentino, ha fatto un paio di puntualizzazioni da non trascurare: “Negli ultimi giorni si è assistito ad attacchi concentrici di segno opposto” sia al “sindacato” dei giudici sia “alla magistratura tutta”. Riferimento non solo al “caso Palamara” o alle rivelazioni postume sulla condanna del Cav. A essere considerata “irricevibile”, da Poniz, da Caputo e dall’intera giunta dell’Anm, è “ogni riforma che muova da una idea di inefficienza della magistratura, così come ogni proposta di sanzione disciplinare in caso di deroghe a termini processuali”. Una previsione tutt’altro che ipotetica, appunto: è inserita nel ddl penale insieme con un’altra pure definita, da Caputo, inaccettabile, ossia “l’obbligo di discovery degli atti” in capo ai pm. Naturalmente le toghe sono in tensione anche perché, come ha ricordato Poniz, “si torna a parlare di sorteggio e di separazione delle carriere”. Ma mentre questi dossier non si sono ancora tradotti in testi di legge, nel caso delle sanzioni per i giudici e i pm “lenti” si tratta di norme già deliberate in Consiglio dei ministri e incardinate a Montecitorio. E, come spiega un altro componente della giunta Anm, Marcello Basilico, “non ci è ancora del tutto chiaro se la previsione di vincolare il giudice a tempi preordinati per fase possa entrare anche nel ddl sul processo civile. Il testo oggi non lo contempla, ma quando, all’ultimo tavolo a via Arenula, ho espressamente chiesto se sono da escludere sanzioni per la magistratura civile, non ho avuto risposta”. Di fronte a tutto questo, la scelta di convocare l’assemblea nazionale dell’Anm per il 19 settembre va letta proprio come snodo chiave di un possibile, forte conflitto politico fra la magistratura e l’attuale maggioranza di governo. Spiega ancora Basilico: “L’assemblea andava convocata comunque perché è l’organo titolato a decidere sul ricorso appena presentato da Luca Palamara contro la propria espulsione. Ma è un punto che riguarda un solo singolo magistrato, mentre le nuove sanzioni incombono su tutti e novemila i magistrati italiani: è chiaro che simili aspetti delle riforme saranno il tema chiave dell’assemblea”. In cui davvero rischia di divampare un incendio. Tar e Consiglio di Stato: 24mila ricorsi pendenti e giudici impegnati altrove di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 15 luglio 2020 Ai giudici la Costituzione garantisce l’indipendenza dal potere politico, proprio perché le sentenze devono considerare la legge come unico metro di riferimento. Ed è più difficile farlo quando hai rapporti stretti con gli altri poteri dello Stato. A giudicare la legittimità degli atti della pubblica amministrazione contro possibili abusi ai danni delle imprese o singolo cittadino, ci pensano i Tribunali amministrativi Regionali e il Consiglio di Stato. L’organo di primo grado è il Tar, con sede nei 20 capoluoghi di regione, più nove sezioni staccate. Il contenzioso è vario: dalle gare d’appalto alle delibere urbanistiche, dai concorsi, ai provvedimenti delle Autorità garanti, fino al ritiro dell’arma o al “no” alla regolarizzazione dell’extracomunitario. Contro una sentenza del Tar si può ricorrere in appello al Consiglio di Stato che è, dunque, il decisore finale. Ma un ricorso può bloccare qualsiasi attività della Pubblica amministrazione perché prima di arrivare a una sentenza passano anche anni. La causa: un gigantesco arretrato. Il Consiglio di Stato però è anche il massimo organo di consulenza dell’Esecutivo. Fornisce pareri sui decreti e sulle norme del governo, sui singoli ministeri, sugli schemi generali dei contratti pubblici. E questa è la funzione consultiva prevista dalla Costituzione. Ma vi è anche un’attività di consulenza. Fatta da singoli giudici al di fuori del ruolo istituzionale che è svolto con la stesura delle sentenze. Chi fa consulenza sostiene di farlo nel tempo libero. Ma se c’è tempo libero allora come mai non si riesce a smaltire l’arretrato? I numeri e i tempi dei ricorsi - Nelle statistiche del Consiglio di Stato non si rintracciano i tempi medi di definizione di un processo. Quelli pubblicizzati sono rapidi, meno di due mesi. Ma sono relativi alla prima fase, dell’urgenza: la procedura cautelare che si può chiedere solo in caso di pericolo di subire un danno. Per i giudizi in materia di appalti sono 37 giorni. È nelle fasi successive però che tutto si rallenta. Al Tar possono volerci mesi. Al Consiglio di Stato anni. Come si assegnano gli incarichi extra - Per alcuni incarichi la Pubblica Amministrazione chiede la competenza di “un” magistrato, e a indicare il nome è il consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (Cpga). È il sistema C, del “conferimento” che garantisce indipendenza e imparzialità. Per altri invece al Consiglio di Stato arriva la chiamata diretta “voglio tizio”. È il sistema A, quello dell’”autorizzazione”, che può essere giustificata per i ruoli di vertice in cui vi è un rapporto fiduciario (capo di gabinetto, vice, o dell’ufficio legislativo), ma per tutti gli altri ruoli è difficile comprenderne la ragione. Ci sono magistrati richiesti con funzioni vaghe di “esperto” o di “consigliere giuridico” presso il Dagl (dipartimento affari giuridici e legislativi della presidenza del consiglio dei ministri), i ministeri, oppure i commissari straordinari del governo, dove spesso non viene nemmeno indicato l’oggetto dell’attività. Il problema numero uno: chi va in “fuori ruolo” lascia un posto vuoto con il relativo carico di lavoro, poiché non esistono supplenti. Chi invece continua a fare il giudice, e ha un incarico esterno, salta da un ruolo all’altro nella stessa giornata, accumulando ritardi nella definizione dei fascicoli. Fra le attività extra-giurisdizionali c’è anche l’insegnamento. Per alcuni è una forma di collaborazione con le università, per altri un’attività parallela con compensi fino a 60 mila euro lordi per 32 giornate. Problema numero due: la commistione. C’è chi era segretario alla presidenza del Consiglio, ha poi avuto la nomina al Consiglio di Stato su proposta del governo e un mese dopo è tornato allo stesso posto a palazzo Chigi. Ci sono due sorelle, entrambe con incarichi esterni, una è fuori ruolo da anni. C’è chi ha sfondato il tetto massimo di 10 anni fuori ruolo e, anziché farlo rientrare, si è ritenuto che il periodo svolto fuori ruolo presso l’Authority non sia da conteggiare. Anche qui, come nella magistratura ordinaria, c’è il tema delle “porte girevoli” con la politica. Lo stesso presidente Filippo Patroni Griffi è stato ministro della Funzione Pubblica, nel governo tecnico di Mario Monti, e poi è rientrato tra quelli che lui ama definire i “guardiani del potere”. Indipendenza a rischio? Il punto critico dunque non è solo quantitativo, ma di opportunità. La funzione consultiva, istituzionale ed extra, rischia di minare l’indipendenza dei magistrati dal potere politico, poiché il Consiglio di Stato può giudicare, o intervenire come consulente, sulle stesse questioni di cui è investito in sede giurisdizionale. Un controllore che è allo stesso tempo consulente del controllato sarà sempre al di sopra delle parti? I giudici nominati dal Governo - L’indipendenza è messa a rischio anche dalle nomine governative. Un quarto dei consiglieri di Stato viene proposto dall’Esecutivo e reclutato tra alti funzionari dello Stato: professori universitari o avvocati con alti meriti. In genere il Cpga dà il via libera. Ma per 2 degli ultimi 4 nomi arrivati da Palazzo Chigi c’è imbarazzo. L’ex vicecomandante generale dei carabinieri Riccardo Amato e l’ex prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro hanno già avuto il via libera. Gli altri due, Antonella Trentini e Luca di Raimondo, sono stati rinviati in commissione per approfondimenti su profili di opportunità e incompatibilità. Nella loro audizione, il 2 luglio, si è parlato dei requisiti richiesti. Primi fra tutti gli “insigni meriti nell’ambito professionale”. Antonella Trentini partecipò al concorso del Tar nel 2014, ma non fu tra i vincitori. Adesso spera di rientrare, dal portone laterale, direttamente al Consiglio di Stato con la nomina governativa. Vanta un’esperienza di avvocato degli enti locali, ma è conosciuta soprattutto per la sua attività sindacale che svolge tutt’ora all’interno dell’Unaep (Unione Nazionale enti Pubblici). Secondo alcuni non sono meriti insigni, altri evidenziano che la sua attività sindacale l’ha portata a una costante mediazione con il potere politico. Diversa la situazione di Luca Di Raimondo. Anche lui avvocato, del Foro di Roma, stimato amministrativista con un’intensa attività di difesa di Enti Pubblici e con incarichi in molteplici commissioni ministeriali. A oggi sono pendenti sia presso il tar che il Consiglio di Stato ricorsi che portano la sua firma. Non potrà impedire che il suo studio continui l’attività anche davanti agli organi della Giustizia amministrativa: quindi, da giudice, si troverà di fronte avvocati che prima sedevano nella stanza accanto. Visto che c’è l’obbligo di astenersi dal giudizio nei confronti delle parti difese o di quelle contro cui si è agito, quante volte dovrà farlo considerata la sua intensa e apprezzata attività? Il voto è fissato per il 17 luglio. Per prassi il parere è sempre stato con voto palese. Stavolta, invece, è stato dato mandato alla commissione competente di modificare il regolamento per introdurre il voto segreto. Tu chiamala, se vuoi, trasparenza. Arriva la riforma dell’abuso d’ufficio, ridotte le condotte punibili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2020 Alla fine il riferimento ai margini di discrezionalità è rimasto, vincendo anche le perplessità del ministero della Giustizia. Nel testo del decreto legge sulle semplificazioni che, a più di una settimana dall’approvazione con l’ormai proverbiale formula “salvo intese”, si avvia alla pubblicazione in “Gazzetta”, si mette nero su bianco che la responsabilità penale scatta, con pena da 1 a 4 anni, nel caso di violazione di norme “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Dove, a fronte di poche righe, il cambiamento potrebbe essere assai significativo. Perché la norma attuale del Codice penale, l’articolo 323, di discrezionalità non parla proprio, come pure non fa riferimento a specifiche regole di condotta, e il riferimento agli atti aventi forza di legge è sostituito da quello ai regolamenti. A confrontarsi sono così stare 2 diverse prospettive di intervento; una, fatta propria soprattutto dal Presidente del Consiglio, che alla fine ha avocato a sé la soluzione, più estrema, indirizzata a ridurre in maniera assai drastica l’area del penalmente rilevante, l’altra, del ministero della Giustizia appunto, più orientata a semplici ritocchi e meno dirompente. Nei fatti, il reato di abuso d’ufficio, una sorta di “classico” per il pubblico amministratore e peraltro soggetto negli anni a plurime modifiche, rappresenta una fattispecie che vede aprirsi ogni anno migliaia di procedimenti, a fronte poi di poche decine di condanne (tanto per dire, nel 2017, 6. 582 fascicoli aperti e 57 condanne, ma nel 2016 erano state 46, con 6.970 procedimenti) e che ha però una efficacia deterrente nell’inibire spesso scelte a elevato tasso di discrezionalità. Nella direzione di rivedere in profondità questa realtà è andata la proposta di Conte, con il pieno consenso del Pd. Il riferimento agli atti aventi forza di legge al posto dei regolamenti, nelle intenzioni degli sponsor dell’intervento, vede cancellata un’anomalia, quella che vede sanzionati sul piano penale comportamenti in trasgressione non solo di legge o di misure a queste equivalenti, ma anche di semplici misure regolamentari. Nello stesso tempo, l’assai controverso riferimento ai margini discrezionalità, che proprio non piaceva in via Arenula, punta a rendere punibili solo le condotte a forte contenuto di trasgressione, contribuendo anche a sbloccare forme più gravi di burocrazia passiva. Certo, bisognerà valutare poi nei fatti come la riforma verrà applicata e, in questo senso, a essere stata superata è anche la perplessità sull’introduzione di norme di diritto penale sostanziale all’interno di un decreto legge, con un possibile effetto di depenalizzazione su procedimenti in corso. Carriere separate, le ragioni di un no di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 15 luglio 2020 L’ancoraggio del Pm alla cultura della giurisdizione è nel nostro sistema un elemento di garanzia irrinunciabile. Caro direttore, contraddizione, anche aspra, fra giustizia e politica c’è in tutte le democrazie moderne. Lo “specifico” del caso Italia (oltre alla tenace persistenza della corruzione e di collusioni con la mafia) sta nella pretesa di molti politici di sottrarsi alla giustizia comune in forza del consenso ricevuto (mentre la responsabilità politica e morale è stata relegata in soffitta). Ci sono poi le campagne organizzate contro i magistrati “scomodi” che osano applicare la legge in maniera uguale per tutti. Con sullo sfondo una “inefficienza efficiente”, vale a dire l’irredimibile agonia di un sistema giustizia che per certi versi appare funzionale alla tutela di coloro che non vogliono mai pagare dazio. Un’inefficienza che di fatto serve anche a “limare le unghie” della magistratura. È all’interno di queste specificità che va inserito il dibattito sulla “separazione delle carriere” fra magistrati del pubblico ministero e giudicanti, per poter cogliere, al di là dei proclami, l’essenza del problema. Forse un capitolo della strategia di mortificazione della magistratura? Oppure un modo per - se non impedire - almeno sterilizzare l’esercizio indipendente della giurisdizione? Sia chiaro: differenziare Pm e giudici è una necessità, per ragioni di sostanza e di immagine. Occorre evitare commistioni improprie. Chi è stato Pm non può comparire il giorno dopo come giudice nello stesso tribunale in cui ha esercitato per anni funzioni requirenti (o viceversa). Ma questa è la separazione delle funzioni, che nel nostro ordinamento è ormai acquisita. Ben diversa è la separazione delle carriere, che postula due diversi concorsi di “reclutamento”, due diversi Csm e carriere (appunto) separate fra Pm e giudici. Chi si batte per questa opzione è convinto che i giudici non controllano con sufficiente rigore l’operato dei Pm perché sono colleghi (fa tendenza la semplificazione del caffè preso insieme al bar...), mentre uno “status” separato li libererebbe dai condizionamenti dell’accusa arginando lo strapotere di quest’ultima. Affermazione tanto suggestiva quanto errata: se nel processo fosse necessaria una eterogeneità di estrazione e di “appartenenza” tra controllori e controllati, ad essere separate dovrebbero essere piuttosto le carriere dei giudici di appello e quelle dei giudici di primo grado... Ma nessuno può ragionevolmente proporlo. Per vero, senza nulla togliere alla peculiarità delle funzioni del Pm, è evidente come il suo ancoraggio alla cultura della giurisdizione sia, nel nostro sistema, un elemento di garanzia irrinunciabile. Che con la separazione delle carriere sarebbe inevitabilmente travolto, perché il Pm verrebbe attratto in una diversa orbita. Quale? Le strade sono due. La prima sfocia nella creazione di una sorta di inedito potere: una casta ristretta di magistrati inquirenti, autonomi, non assoggettati a controlli esterni. Sarebbe però un “monstrum” inaccettabile, mai visto in nessuno stato democratico (paradossalmente proprio quel “partito dei Pm” di cui taluno favoleggia per sostenere la separazione). L’altra strada che si apre ad un corpo separato di Pm porta, inesorabilmente, a perdere l’indipendenza dal potere esecutivo. Tra ordine giudiziario ed esecutivo, infatti, non esiste un “tertium” dotato di autonomia. E ciò per un ragionamento istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente. Con il rischio che di indagini sulla corruzione o sulla zona grigia o sui misteri dei servizi deviati non se ne facciano più. Il che, magari, consentirebbe a qualcuno di proclamare la scomparsa della corruzione, delle collusioni con la mafia e delle deviazioni. Ma sarebbe una falsità. Estremamente pericolosa. Il Pm legato alla cultura della giurisdizione è un magistrato - con tutti i suoi limiti ed errori - che ricerca la verità processuale come “parte pubblica”. Vede quello che scienza e coscienza gli impongono di vedere. Magari senza entusiasmo, perché a nessuno piace sapere che gli arriveranno addosso palate di fango sol perché fa il proprio dovere. Ma è proprio questo il modello di magistrato (non burocrate né conformista) che dà fastidio a chi preferisce i “servizi” alle decisioni imparziali. Per cui, se la separazione delle carriere è incompatibile con tale modello, chiederla è contro l’interesse dei cittadini e della loro tutela giudiziaria imparziale. Le controindicazioni della digitalizzazione del sistema giudiziario di Bruno Ferraro* Libero, 15 luglio 2020 La digitalizzazione è stato uno degli obiettivi primari degli ultimi governi ed è considerata una necessità del Paese, per essere al passo dei tempi e dei Paesi più avanzati in tale campo. E ancora da capire però se e in che misura è perseguibile nel settore giudiziario, stante la peculiarità dei nostri sistemi processuali. Negli anni Settanta un consulente tecnico giustificava la scrittura a mano e non a macchina della relazione affermando a giustificazione l’intento “di non far conoscere i segreti della giustizia alla sua segretaria”! Personalmente, da presidente del Tribunale di Cassino, con la determinante collaborazione di un giovane magistrato e di un cancelliere autodidatta, realizzai a metà degli anni novanta il primo sito Intenet di un ufficio giudiziario italiano: attuammo anche il primo esempio di un’udienza tenuta dallo stesso magistrato stando a casa, con gli avvocati in tribunale, ma, dopo dieci anni e quando da cinque ero andato a dirigere un altro tribunale, figuravo ancora per mancato aggiornamento come presidente a Cassino! Ho citato i due episodi per sottolineare che l’informatizzazione ha suscitato un grande fascino sui pionieri; da tempo è una filosofia sposata da tutti o quasi; consente di automatizzare i flussi informativi e documentali tra utenti esterni (avvocati, consulenti) ed uffici giudiziari; rende possibile per gli avvocati depositi ed iscrizioni a ruolo in modo automatico; velocizza i tempi di esecuzione delle attività manuali dei cancellieri. Tutto questo si è reso possibile in conseguenza degli interventi operati dal ministero della Giustizia a partire dal 2001, passando per l’istituzione nel 2009 della posta elettronica certificata (Pec) per la trasmissione degli atti processuali, le comunicazioni e le notificazioni degli atti; con la legge di stabilità del 2013 si è dato corso, a partire dai fascicoli iscritti dopo giugno 2014, all’obbligatorio invio degli atti processuali. La connessione in rete di tutti gli uffici giudiziari (cosiddetta Rug) e la soluzione dei fondamentali problemi di sicurezza e protezione dei dati hanno richiesto costi notevoli ed impongono oneri economici non indifferenti per gestione e manutenzione. Può essere non lontano il traguardo della totale dematerializzazione dei fascicoli processuali, con la completa sparizione del cartaceo. E allora, perché restano dubbi e perplessità? Disservizi, instabilità del sistema, carenza di assistenza, mancanza di un ufficio del giudice, mancanza di disciplina dei limiti di lunghezza degli atti di parte e relativi allegati, persistenza del vecchio attaccamento al cartaceo, non ancora attuata revisione di molte norme processuali non più compatibili con la realtà telematica. sono problemi di carattere tecnico-gestionale sui quali massimo dovrà continuare ad essere l’impegno del ministero. Alle perplessità appena accennate ne aggiungo due più di principio. La qualità degli atti giudiziari, in particolare i provvedimenti dei giudici, ne risulterà diminuita, anche per il comodo adagiarsi su interpretazioni consolidate attraverso il copia-incolla? Per gli atti del civile e per il processo penale in cui conta il contatto diretto con i soggetti interrogati (imputati e testimoni), come temperare la rigidità della digitalizzazione? *Presidente aggiunto onorario Corte di Cassazione Contro-processo alla giustizia di Annalisa Chirico Il Foglio Quotidiano, 15 luglio 2020 Le rivelazioni sui colleghi dalle carriere facili. I 133 testimoni chiamati in causa per denunciare il correntismo. Una pazza chiacchierata con Luca Palamara. Lei è pronto per la politica. Nel centrodestra. “Non scherziamo”, Luca Palamara si schermisce ma ci pensa. “In questo momento devo difendermi - dice la toga al centro dello scandalo nomine in una intervista al Foglio - Poi si vedrà: nella vita bisogna sempre farsi trovare pronti, e io ho accumulato un patrimonio di conoscenze, certo”. Si sente il capro espiatorio, quello che paga per tutti perché nessuno paghi. “Quello che hanno fatto a me può capitare a chiunque - prosegue Palamara - Gli ultimi dieci anni mi hanno certamente allontanato dalla giurisdizione, mi sono occupato di altro, ero nell’epicentro di un sistema clientelare e ho gestito il potere. Ho maturato esperienze politiche e associative che hanno trasformato sensibilmente il mio ruolo”. Lei può essere il testimonial perfetto del magistrato redento. “La politica attiva rappresenterebbe un percorso del tutto nuovo, in questo momento devo concentrarmi sulla difesa, poi si vedrà”. Lei ha le ore contate nella magistratura: lo sa, vero? “Siamo in uno stato di diritto: voglio far emergere la verità utilizzando gli strumenti che l’ordinamento mi mette a disposizione”. La carica dei 133: tanti sono i testi da lei convocati davanti alla sezione disciplinare del Csm, e alcuni nomi servono ad avvalorare la tesi che le condanne a carico di Silvio Berlusconi siano state politicamente orientate. “Non voglio usare frasi a effetto ma certi fatti e vicende vanno chiariti”. Proprio lei così antiberlusconiano. “Non sono mai stato anti o pro qualcuno, né ho mai coltivato ostilità nei confronti dell’ex presidente del Consiglio. Quando ero alla guida dell’Anm, era mio preciso dovere difendere l’indipendenza della magistratura. Ho sempre cercato di agire seguendo ciò che istinto e ragione mi suggerivano”. Il suo amico Nicola Zingaretti è sparito? “Sparito”. Neanche una telefonata? “Penso che abbiano paura di chiamarmi dopo la storia del trojan”. Il Cavaliere potrebbe arruolarla come l’ex toga che apre il vaso di Pandora e conferma tutto ciò che l’ex premier sostiene da una vita a proposito dei magistrati politicizzati. “Che certi colleghi siano mossi dal pregiudizio politico è fuor di dubbio. È una preoccupazione fortemente sentita tra gli stessi magistrati”. Su whatsapp lei apostrofava l’allora vicepremier Matteo Salvini con un linguaggio da trivio, paragonandolo a un escremento. “La frase è stata totalmente decontestualizzata, continuo a dubitare di averla mai pronunciata. Poi, lei lo sa, nei messaggi si tende ad accorciare le frasi, a contrarre i pensieri, cullandosi nell’illusione di esercitare il diritto costituzionale alla segretezza delle comunicazioni. Quella espressione non la ripeterei per nessuna ragione al mondo”. Dalle chat emerge che nell’agosto 2018 lei condivideva l’azione politica del ministro dell’Interno sul fronte immigrazione ma riteneva che andasse comunque attaccato. “Alcuni magistrati erano particolarmente esposti nel dibattito pubblico in ragione delle iniziative giudiziarie intraprese. Era mio dovere difendere l’indipendenza della magistratura pur ribadendo un principio: mai dobbiamo dare l’idea di una magistratura pregiudizialmente orientata”. Lei è pronto per la politica. “In questo momento non spetta a me dare suggerimenti o indicazioni di sorta”. In questo momento, non sia mai. “In una democrazia la politica deve avere il coraggio di decidere. E ogni potere deve esercitare il ruolo che la Costituzione gli assegna senza travalicare il proprio perimetro”. A sette giorni dall’udienza che si terrà il 21 luglio, non si conoscono ancora i componenti della sezione disciplinare che dovrà giudicarla. A Palazzo dei marescialli la voglia di celebrare ‘sto processo è poca. “Mi dispiace ma io andrò avanti e non intendo fermarmi. Nutro profonda amarezza per i cittadini che assistono a questo scempio e per i magistrati che negli anni sono rimasti ingiustamente esclusi da questo meccanismo”. Lei sostiene che, se in magistratura non sei iscritto a una corrente, non vieni promosso. “Confermo: senza una corrente che ti sostiene, non fai carriera. Glielo dico meglio: solo se sei iscritto a una corrente puoi fare carriera. La magistratura deve recuperare credibilità, e se qualcuno vuole far credere che sia tutta colpa di Palamara si sbaglia di grosso”. La carica dei 133: tante persone, con ruoli diversi, in un unico calderone. C’è il rischio che l’istinto autodifensivo si trasformi in foga distruttiva? Della serie: muoia Sansone con tutti i Filistei. “La lista testi non è pensata contro qualcuno”. Ma sembra finalizzata a una gigantesca e generalizzata operazione di sputtanamento. “È uno strumento indispensabile per la mia difesa. Devo difendermi nei modi consentiti dall’ordinamento. Lo devo fare per ristabilire la verità dei fatti. Io so con certezza una cosa: non ho mai barattato alcuna nomina con gente esterna alla magistratura, né privati cittadini né politici”. Tra i testi compare Stefano Erbani, consigliere giuridico del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e anello di collegamento tra il Quirinale e il Csm. Palamara scassa tutto? “Non è nei miei intendimenti”. Il capo dello Stato presiede il Csm. “Ci sono situazioni molto sensibili, anche a livello istituzionale”. A proposito dell’indagine che la vede coinvolto a Perugia, lei accredita la tesi del complotto. Anzi, del disegno superiore: quale? “Mi lasci dire che la cosa per me più importante è che l’ipotesi corruttiva, legata all’accusa infamante di aver ricevuto 40mila euro per una nomina, è caduta per decisione degli stessi pm di Perugia. Per il resto, mi limito a notare che il trojan installato sulla mia utenza doveva servire a individuare un episodio di corruzione smentito dagli stessi magistrati. In compenso, si sono scoperti gli accordi tra due gruppi associativi, Unità per la Costituzione e Magistratura indipendente, offrendo un quadro sicuramente parziale di ciò che avveniva all’interno della magistratura. Non sappiamo, ad esempio, di che cosa discutessero gli altri gruppi e consiglieri. Anche se il Corriere della sera ha ventilato alcune ipotesi”. Quali? “L’ufficio di Roma non voleva l’arrivo di Marcello Viola come procuratore capo”. Lei si riferisce alla tribolata successione di Giuseppe Pignatone, suo capo e mentore e maestro. “Ci siamo reciprocamente sostenuti, lo scriva. Collaborazione reciproca”. Nella guerra degli esposti incrociati il pm Stefano Fava ha mosso accuse pesanti a carico di Pignatone e di Paolo Ielo. C’era il suo zampino dietro l’iniziativa di Fava? “Assolutamente no. È stata una sua iniziativa del tutto autonoma, e rispetto ad essa io mi sento totalmente estraneo all’addebito che mi viene contestato. Fava aveva problemi interni all’ufficio in relazione alla gestione di un fascicolo, ha deciso autonomamente di rivolgersi al Csm. Lo dimostrerò nel processo”. Intanto il suo rapporto con Pignatone si è interrotto bruscamente. E i suoi sogni da procuratore aggiunto a Roma sono andati in frantumi. “Con il senno di poi, penso che se, all’epoca, non avessi coltivato quella che era una mia legittima ambizione, molte cose non sarebbero accadute. E se, dopo la stagione al Csm, non fossi rientrato a piazzale Clodio, luogo che consideravo e considero tuttora la mia seconda casa, molte cose non sarebbero accadute”. Quando si è rotto il sodalizio con l’ex procuratore capo? “Ci sono state fondamentalmente grandi incomprensioni. Dal momento del mio ritorno in procura nel gennaio dello scorso anno, ho percepito che qualcosa era cambiato, e non riuscivo a capire cosa. Con Pignatone avevo avuto un rapporto di strettissima collaborazione che si stava sgretolando, e non ne capivo le ragioni”. Nel mezzo c’è l’inchiesta Consip. Forse i suoi rapporti confidenziali con alcuni soggetti coinvolti, come Luca Lotti, possono aver inciso. Non crede? “Io ho sempre seguito una stella polare: le indagini della magistratura competono solo ed esclusivamente alla procura della Repubblica, quando c’è un’indagine non c’è amicizia che tenga. I fatti vanno valutati con obiettività ed imparzialità”. Lei insinua che la procura di Roma abbia mancato di obiettività nella vicenda Consip? “Ci sono dei procedimenti in corso, soltanto in quella sede si potrà chiarire”. Tra i testi convocati davanti alla sezione disciplinare, compaiono ufficiali e sottufficiali del Gico della Finanza. “Dovranno spiegare perché il trojan funzionava a intermittenza. Sto ascoltando personalmente i 3500 file audio collezionati, tutti momenti della mia vita privata e privatissima, financo intima e mi fermo qui. Non è piacevole, soprattutto quando scopri che in talune situazioni, in taluni incontri, le registrazioni si interrompono inspiegabilmente”. Sono registrati i colloqui tra lei e Cosimo Ferri, coperto dall’immunità; altre volte invece il trojan non registra, per esempio la sera del 21 maggio 2019 quando lei incontra l’allora pg della Cassazione Riccardo Fuzio. Secondo i bene informati, in quell’incontro ci sarebbero riferimenti al ruolo della presidenza della Repubblica. “Non posso aggiungere altro. Ribadisco che non riesco a comprenderne la ragione. Il trojan, e lo dico da pm, funziona come una cimice che registra un segmento di vita senza interruzioni. Voglio andare a fondo”. Tra gli incontri registrati, c’è la cena a casa del procuratore aggiunto Ielo in cui, insieme ad altri colleghi, parlate anche di nomine e incarichi. “È la dimostrazione che i miei rapporti interni alla procura erano idilliaci, da sempre improntati al massimo rispetto, anche nei confronti di chi ha svolto indagini a mio carico. Dietro le iniziative di Fava non c’è la regia Palamara: io mi sono limitato a riportare gli episodi che lui mi riferiva”. Lei ha esercitato un enorme potere, e il potere corrompe. “Chi ha vissuto con me quegli anni sa benissimo che ero soltanto uno dei protagonisti degli accordi, non agivo da solo ma insieme agli esponenti dei vari gruppi associativi, cercando sempre di trovare una sintesi con la componente laica e i partiti politici di riferimento. Se c’era da nominare il procuratore capo di Milano che doveva essere di Area, cercavo di assicurare alla mia corrente la nomina di Bologna. Bisognava rispettare un principio di equilibrio all’interno della magistratura e tra gli uffici giudiziari. L’equilibrio è tutto: questo è Palamara”. Il Csm con Giovanni Legnini vicepresidente ha portato a compimento una vasta opera di rinnovamento, con centinaia di nomine, anche in conseguenza dell’abbassamento dell’età pensionabile. “Abbiamo affrontato una fase complicata, di sfrenato carrierismo. Già nel 2007, l’abolizione del criterio di anzianità, in un mondo dominato dall’idea che il più bravo era sempre e comunque il più vecchio anagraficamente, ha portato un cambiamento profondo. Non è stato facile, nelle centinaia di valutazioni che abbiamo effettuato, bilanciare il merito, il profilo professionale, con l’esigenza di fare scelte equilibrate rispetto al peso delle correnti. Non è colpa mia se le correnti hanno perso ogni traccia di idealità e si sono ridotte a centri clientelari. Io mi sono ritrovato nell’epicentro di questa logica clientelare”. Ne viene fuori un mercato delle nomine indecoroso, lei se ne occupa in maniera compulsiva. Come fanno i cittadini a fidarsi di questa giustizia? “I cittadini devono sapere che l’assegnamento degli incarichi direttivi non ha nulla a che fare con l’esercizio imparziale della giurisdizione”. Facile a dirsi. “È la stessa differenza che passa tra un leader sindacale, con funzione di rappresentanza, e il lavoratore che manda avanti la macchina”. La carica dei 133 sembra la mossa estrema di chi sa di avere le ore contate nella magistratura dalla magistratura e annuncia: aprés moi le deluge. “La mia vicenda descrive il meccanismo di funzionamento del sistema correntizio: i vari attori dialogano tra loro ma la decisione finale compete solo e soltanto al Csm. Io mi occupavo con altri della fase preparatoria, necessaria per coagulare il consenso su un candidato. La scelta finale la prendevano tutti i consiglieri seduti nella sala 42”. Il suo telefono ha smesso di squillare. “È l’ultimo dei miei problemi. La storia delle intercettazioni ha alimentato un panico diffuso”. Lei ha convocato pure due ex Guardasigilli convocati, Giovanni Maria Flick e Andrea Orlando? “Con il secondo ho condiviso momenti importanti da presidente dell’Anm e da consigliere del Csm. Flick, da profondo conoscitore del sistema, potrà confermare l’esistenza di una prassi costante e di lunga data”. Glielo lasceranno celebrare ‘sto processo? “Non lo so, me lo auguro”. Guida in stato di ebbrezza, l’assunzione di farmaci contenenti alcol non esclude la responsabilità penale di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2020 Tribunale di Campobasso - Sezione penale - Sentenza 15 novembre 2019 n. 621. Chi assume un farmaco contenente alcool, eventualmente idoneo a influire sull’esito dell’alcoltest, deve astenersi dal bere e dal mettersi alla guida, oppure controllare attraverso gli appositi test di trovarsi in condizioni tali da poter guidare. L’assunzione di farmaci di tal tipo, infatti, non esclude di per sé la configurabilità del reato di guida in stato di ebbrezza. Anzi, in tali ipotesi, la condanna per tale reato “deriva proprio dall’imprudente e negligente scelta del soggetto agente di porsi alla guida dell’autovettura senza attendere un ragionevole lasso di tempo a seguito dell’assunzione di alcolici o di farmaci a base alcolica, al fine di scongiurare il permanere di un tasso alcolico nel sangue penalmente rilevante”. Ad affermarlo è il Tribunale di Campobasso nella sentenza n. 621/2019. Il caso - Protagonista della vicenda è un ragazzo chiamato a rispondere del reato ex articolo 186 comma 2 lett. c) del Codice della Strada, per essersi posto alla guida di un’autovettura in stato di ebbrezza con rilevazione del tasso alcolemico pari a 2,04 g/l. Nel processo a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, era emerso però che costui all’epoca dei fatti assumeva, una volta al giorno, un farmaco utile per contrastare una forma di faringite che lo affliggeva da oltre due anni. Da relativo foglio illustrativo allegato, si evinceva una componente alcolica idonea ad alterare gli esiti dell’alcoltest, per cui la difesa chiedeva l’annullamento della condanna. La decisione - Tale assunto lascia però indifferente il Tribunale, che dichiara l’imputato colpevole dell’ipotesi più grave del reato di guida in stato di ebbrezza. Il giudice afferma che è vero che il risultato dell’esame alcolemico può essere confutato, quando ad esempio si dimostri la sussistenza di vizi dello strumento utilizzato ovvero l’utilizzo di una errata metodologia nell’esecuzione dell’aspirazione, o anche quando vi sia una alterazione del tasso alcolemico riscontrato a causa dell’assunzione di farmaci. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, deve essere dimostrata, o meglio, puntualizza il Tribunale, devono essere forniti gli elementi probatori “in ordine sia all’effettiva assunzione del farmaco sia alla concreta riconducibilità del rilevato tasso alcolemico a detta assunzione”. Nel caso di specie, invece, la difesa si è limitata a una mera allegazione della certificazione medica attestante l’assunzione del farmaco potenzialmente idoneo a influenzare l’esito del test, senza indicare però che l’assunzione del farmaco è stata effettivamente la causa del rilevato tasso alcolemico, mentre sarebbe stato, a ogni modo, onere dell’imputato “accertarsi della compatibilità dell’assunzione del farmaco, avente una componente alcolica, con la circolazione stradale, prima di mettersi alla guida”. “Beyond any reasonable doubt”, quando la sua violazione ha una irragionevolezza evidente di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2020 Rileva in sede di legittimità. L’adozione nel codice di rito della regola di valutazione dell’”oltre ogni ragionevole dubbio” - principio del cosiddetto “b.a.r.d.”, acronimo dell’inglese “beyond any reasonable doubt” - è stata effettuata con la riforma del giusto processo (Legge n. 46 del 2006), orientata a rafforzare la struttura accusatoria del rito anche attraverso l’importazione di alcuni elementi del processo anglosassone ed in particolare di quello nordamericano. In proposito, con la sentenza n. 18313/2020 depositata il 16 giugno scorso, la Corte di cassazione ha chiarito che non ogni “dubbio” sulla ricostruzione probatoria può tradursi in una “illogicità manifesta” deducibile in sede di legittimità, essendo piuttosto necessario che sia rilevato un vizio di tale gravità da incrinare in modo severo, la tenuta logica della motivazione del giudicante. Segnatamente una frattura della coerenza razionale del percorso argomentativo non solo “visibile”, ma anche “decisiva”, in quanto essenziale per la tenuta giustificativa della condanna penale. La vicenda - La Corte d’appello confermava la condanna dell’imputato per il reato di rapina aggravata dall’uso delle armi. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione il difensore che deduceva violazione di legge e vizio di motivazione: era stata violata la regola di valutazione “b.a.r.d.” de “l’aldilà di ogni ragionevole dubbio”. La testimonianza, in particolare, si esprimeva in un riconoscimento incerto, complessivamente inattendibile, a causa di un tenore perplesso, insicuro e fondato sulla incoerente valorizzazione di elementi non caratterizzanti. La decisione - Nel processo statunitense l’esortazione a giudicare “oltre ogni ragionevole dubbio” fa parte delle “instructions” che il giudice deve impartire alla giuria, la quale decide con verdetto immotivato. Si tratta a ben vedere di una raccomandazione che in quell’Ordinamento non ha alcun precipitato controllabile nella motivazione. A seguito dell’importazione della formula in questione nel costrutto codicistico italiano, autorevole dottrina e maggioritaria giurisprudenza hanno collegato il canone alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27 comma 2 della Costituzione repubblicana. L’indagine ermeneutica ha ritenuto inoltre che il criterio valutativo in questione segni il superamento del principio del “libero convincimento del giudice” e, quindi, della necessità che la condanna sia fondata sulla valorizzazione delle prove assunte in contraddittorio, le quali, per rispettare il canone valutativo, devono avere una capacità dimostrativa sufficiente a neutralizzare la valenza antagonista delle possibili tesi alternative. Deriva che il criterio in argomento non può tradursi nella valorizzazione di uno “stato psicologico” del giudicante, soggettivo ed imperscrutabile, ma sia indicativo della necessità che il giudice effettui un serrato confronto con gli elementi emersi nel corso della progressione processuale e, nei casi in cui decida su un’impugnazione a struttura devolutiva, anche con gli argomenti di critica proposti dall’appellante oltre che con le ragioni poste a sostegno della decisione. La Corte di cassazione evidenzia inoltre che il mancato rispetto di tale regola di valutazione non può dar luogo alla invocazione in sede di legittimità di una differente valutazione delle fonti di prova. La (presunta) violazione di tale regola valutativa può al contrario essere invocata in Cassazione laddove sia riscontrabile una illogicità evidente, palese, a ben vedere manifesta e allo stesso tempo decisiva, della parabola motivazionale del giudicante. Ciò in quanto l’oggetto del giudizio di legittimità non è la valutazione di merito delle prove, bensì la tenuta logica della motivazione della sentenza di condanna. In altre parole il parametro di valutazione dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio” opera in modo evidentemente diverso nella fase di merito rispetto a quella di legittimità. Unicamente davanti alla giurisdizione di merito tale parametro può essere invocato per ottenere una valutazione “alternativa” delle prove, sulla base delle allegazioni difensive. Differentemente in sede di legittimità la regola del “b.a.r.d.” rileva soltanto nella misura in cui la sua inosservanza trasbordi in una lampante illogicità del tessuto motivazionale. In buona sostanza può essere sottoposta al giudizio di Cassazione solo l’idoneità deduttiva della motivazione, non la capacità dimostrativa delle prove. L’apprezzamento della capacità persuasiva delle singole prove, come anche dei complessi indiziari, è attività tipica ed esclusiva della giurisdizione di merito e non può essere devoluta alla giurisdizione di legittimità della Corte di cassazione se non nei limitati casi in cui si deduca, e si alleghi, un chiaro travisamento. Il precipitato conseguente è che la regola del “beyond any reasonable doubt” rileva in sede di legittimità esclusivamente se la sua violazione dimostri una irragionevolezza evidente e per ciò stesso determinante del tracciato argomentativo posto a giustificazione della condanna penale. Lazio. Domani presso il Consiglio regionale presentazione degli Sportelli dei diritti dei detenuti Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2020 Giovedì 16 luglio alle ore 12,00, presso la Sala Mechelli del Consiglio regionale del Lazio in via della Pisana, il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, presenterà alla stampa e agli interlocutori istituzionali presenti gli Sportelli per l’informazione e l’orientamento delle persone detenute che, a partire dalle prossime settimane, saranno attivi negli Istituti penitenziari di Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Rieti, Roma e Viterbo. A seguito di un bando pubblico, gli Sportelli saranno affidati a Università e associazioni qualificate che svolgeranno un servizio di front-office per conto del Garante negli Istituti penitenziari. Parteciperanno all’incontro il Presidente del Consiglio regionale del Lazio, on. Mauro Buschini, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, dott. Carmelo Cantone e i legali rappresentanti degli Enti affidatari. Per ragioni organizzative legate alle misure anti-covid in relazione alla capienza della Sala, è richiesta la conferma della presenza attraverso mail all’indirizzo info@garantedetenutilazio.it Napoli. Ammalato di sla, finisce in carcere. L’appello: la sua vita è a rischio di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 15 luglio 2020 È stato uno dei primi detenuti in Italia ad ottenere la scarcerazione durante i giorni più duri del lockdown. Parliamo di Giosuè Belgiorno, recentemente condannato in appello a venti anni come responsabile dell’omicidio D’Andò, che ottenne il beneficio degli arresti domiciliari grazie al Riesame, forte di una perizia sulle sue condizioni di salute. Ricordate il caso? Stando al Riesame di Napoli, Belgiorno è un soggetto immunodepresso, colpito da una malattia genetica, destinato a scontare il saldo con la giustizia italiana non in cella, ma agli arresti domiciliari, di fronte alle gravissime condizioni di salute che lo rendono un soggetto a rischio, specie se detenuto in una cella affollata. Ora però le sue condizioni sono nuovamente cambiate, tanto da far mettere in moto una sorta di corsa contro il tempo, con la richiesta di un intervento di urgenza al Tribunale di Sorveglianza. Ma in cosa consiste il nuovo caso a metà strada tra giustizia e sanità? In questi giorni, Belgiorno è stato arrestato e tradotto nel carcere di Secondigliano, dove deve scontare un residuo di una vecchia condanna per fatti di camorra. Il suo fine pena scadrebbe l’undici settembre anche se, con il calcolo della cosiddetta buona condotta, dovrebbe essere scarcerato con largo anticipo. Difeso dal penalista napoletano Raffaele Chiummariello, Belgiorno non ha ottenuto al momento risposte. tanto da incassare una sorta di beffa. In mancanza di informazioni, per lui l’udienza è stata fissata addirittura ad ottobre, quando ormai il residuo di pena sarà già scontato da tempo. Eppure - fa notare il legale di parte - ci dovrebbe essere un raccordo tra le autorità giudiziarie, dal momento che pochi mesi fa il Riesame aveva stabilito, anche in seguito a una perizia disposta dai giudici, che Belgiorno non può rimanere detenuto in un carcere italiano. Si tratta di un documento prodotto dinanzi ai giudici di Sorveglianza, a cui spetta il compito di intervenire, di fronte alla particolare gravità delle sue condizioni. Stando a quanto emerso finora, è stato ancora l’avvocato Chiummariello a chiedere un incontro ai giudici di Sorveglianza, ma come è ormai noto da tempo, si tratta di una sezione particolarmente gravata da fascicoli, al netto di risorse ridotte al minimo. Indicato come killer della camorra scissionista, Belgiorno ora è in attesa di una risposta da parte delle istituzioni, in sospeso tra due provvedimenti: da un lato quello del Tribunale del Riesame, che gli ha concesso gli arresti domiciliari, di fronte alle sue gravi condizioni dì salute; dall’altro quello che ripristina il suo arresto in carcere, in attesa che la sorveglianza intervenga sul suo caso. Gorizia. Un nuovo giallo scuote il Cpr di Gradisca d’Isonzo Il Gazzettino, 15 luglio 2020 Un 28enne albanese è stato trovato ieri mattina senza vita all’interno della struttura che ospita il Centro di permanenza per il rimpatrio. Ferito gravemente il compagno di stanza. La Procura di Gorizia ha aperto l’inchiesta per chiarire le cause, nel frattempo divampano le polemiche con il sindaco gradiscano che chiede si accerti al più presto la verità mentre al Cpr gli altri migranti per protesta hanno scatenato una nuova rivolta, provocando un incendio. Sul caso al momento c’è il più stretto riserbo da parte della Squadra Mobile della Questura di Gorizia, che sta compiendo le indagini rispetto al decesso del giovane di 28 anni che si trovava al centro migranti isontino per la quarantena relativa al contenimento da Coronavirus. Secondo quanto si è appreso, il compagno di stanza dell’uomo, un cittadino marocchino, è stato ricoverato in ospedale in gravi condizioni, anche se non in pericolo di vita. Gli investigatori e il medico legale non avrebbero tuttavia individuato segni di lotta o colluttazione tra i due. Del caso si sta occupando la Procura della Repubblica di Gorizia. Nel pomeriggio di ieri, non appena si è diffusa la notizia, gli altri ospiti del centro hanno dato vita ad una nuova rivolta: poco prima delle 14 gli stranieri sono stati sentiti gridare e battere sulle sbarre; per protesta hanno appiccato le fiamme ad alcuni materassi mentre nella zona blu, quella dove si trovavano i due ragazzi, sono stati sequestrati tutti i cellulari. Sul posto sono intervenuti i Vigili del fuoco per spegnere il rogo. A chiedere che venga fatta chiarezza al più presto il sindaco di Gradisca, Linda Tomasinsig. “A sette mesi dalla apertura del Cpr giunge purtroppo la notizia di un’altra morte e di un ricovero d’urgenza al Pronto soccorso tra i detenuti di questa terribile struttura. Le notizie in mio possesso sono che la morte non è avvenuta in un contesto di fuga o rivolta, ma è stata scoperta al mattino dagli operatori dell’ente gestore durante un controllo di routine ha specificato il sindaco -. Chiedo con forza, e non nutro dubbi in proposito, che la verità emerga con celerità e attenzione, così come che vengano resi noti gli esiti delle indagini sulla morte, avvenuta il 19 gennaio di quest’anno, di Vakhtang Enukidze”. Il riferimento è al 38enne georgiano deceduto, secondo l’autopsia, per un edema polmonare, sulle cui cause però si sta ancora indagando. All’epoca il procuratore di Gorizia Massimo Lia aveva spiegato che non si poteva “escludere al cento per cento cause di tipo violento”. Il deputato di Radicali +Europa Riccardo Magi, dopo aver ascoltato alcuni ospiti, aveva raccontato che Enukidze sarebbe stato “picchiato ripetutamente”. “Attualmente il Cpr di Gradisca ha raggiunto, con i recenti arrivi dal sud, il massimo della sua attuale capienza (circa 80 detenuti) non senza problemi per la gestione di questi arrivi tanto più durante l’emergenza sanitaria in corso”, ha aggiornato sempre ieri Tomasinsig. Nei giorni scorsi sono stati registrati ripetuti episodi di autolesionismo e di forme di protesta, come lo sciopero della fame. Il sindaco chiede ancora la chiusura del Cpr. “In sei mesi ci sono stati due morti e diverse persone ricoverate e gli ultimi episodi di oggi dimostrano che la situazione è pericolosa ed è necessario un cambiamento chiaro di strategia, non certo altre strutture del genere come paventato da Fedriga”, dice il consigliere regionale Pd Diego Moretti. “Nè un carcere né un Cpr sono luoghi in cui si deve entrare correndo il rischio di morire, eppure in un pugno di giorni registriamo due decessi, a Trieste e a Gradisca. Non si può restare indifferenti e continuare ad archiviare come fatalità questi fatti”, dice la deputata Debora Serracchiani (Pd). Roma. Rebibbia, l’Asl vieta i colloqui all’aperto tra minori e genitori detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 luglio 2020 I detenuti non vedono i loro figli piccoli da mesi, la notizia si era appresa grazie a una lettera degli studenti universitari del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso, indirizzata a Rita Bernardini del Partito Radicale. Su Il Dubbio la lettera è stata pubblicata a fine giugno. Il 2 luglio - come ha appreso sempre l’esponente radicale - la direttrice del carcere Rossella Santoro ha diramato un avviso a tutta la popolazione detenuta per dare la possibilità di far usufruire il colloquio visivo con la presenza di un familiare adulto e un minore di 18 anni, figlio o nipote. Ma la modalità è il colloquio stile 41 bis, ovvero con un vetro o plexiglas divisorio e citofono per poter parlare. Quella modalità che - e chi vive in carcere duro lo sa - traumatizza i figli piccoli. Sono, d’altronde, le inevitabili disposizioni che servono per evitare la diffusione del Covid 19 all’interno dei penitenziari. Eppure una soluzione ci sarebbe. Il carcere di Rebibbia Nuovo Complesso ha una area verde con tanto di sedie e gazebo, usata già per i colloqui e per garantire al meglio l’affettività. La stessa direttrice del carcere ha riferito a Rita Bernardini che a suo avviso i colloqui all’aperto - presi alcuni semplici accorgimenti - sono “sicuri” dal punto di vista sanitario, ma la Asl (per il momento) non li ha autorizzati. Non è un problema da poco il discorso della genitorialità in carcere. Il mantenimento della relazione tra un genitore detenuto e un figlio è un elemento di primaria importanza per varie ragioni: sia perché dare continuità a quelli che sono i legami familiari permette una possibilità di recidiva del detenuto tre volte minore rispetto alla rottura di tali legami, sia perché è necessario prevenire i rischi psichici e comportamentali sul bambino che le lunghe separazioni carcerarie possono creare. Su Il Dubbio abbiamo raccontato la storia di una bambina di quasi due anni, traumatizzata dal giorno dell’arresto del padre. Con il passar del tempo ha dato segnali di squilibrio. Sguardo assente, problemi di deambulazione e di linguaggio. Il responso è stato scioccante, ovvero che la figlia ha subito un trauma così enorme tanto da rifiutarsi di crescere senza suo padre. La mamma non la porta in carcere, quello calabrese di Arghillà, perché poter vedere il padre senza poterlo abbracciare rischierebbe di traumatizzarla ancora di più. Storie che in realtà sono purtroppo di ordinaria amministrazione. Il diritto alla genitorialità in carcere è di vitale importanza. In America varie sono le organizzazioni che si occupano di creare programmi di sostegno alla genitorialità in carcere: ad esempio The Center for Children of Inacrcerated Parents, California, che si occupa di ricerca e formulazione di progetti a sostegno della relazione genitore detenuto e figlio e in particolar modo per rompere il ciclo di criminalità organizzata; in Canada sono state istituite dal Commisioner of the correctional service of Canada delle Visite private Familiari (Pfv) in cui si dà la possibilità alla famiglia e al detenuto di passare 72 ore ogni due mesi in una piccola struttura con due letti, bagno e cucina sempre all’interno dell’istituto penitenziario. In Europa varie sono le associazioni e i progetti di sostegno alla paternità detenuta. L’Eurochips è il comitato europeo per i bambini di genitori detenuti, è un’associazione presente in 5 paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Italia, Olanda) che propone diverse attività di formazione, informazione e sostegno della relazione con il minore il carcere. Bambini senza sbarre, inserita dal 2001 nell’associazione europea Eurochips, propone da vari anni attività sia di accompagnamento del minore al colloquio con il genitore detenuto e sia gruppi di ascolto di padri detenuti e colloqui individuali di sostegno psicopedagogico per il genitore. Grazie a questa associazione è stato possibile adottare un protocollo d’intesa divenuto la “Carta dei figli dei genitori detenuti”. Venezia. Sentenze copia e incolla scritte prima delle udienze: i penalisti chiedono un’ispezione di Simona Musco Il Dubbio, 15 luglio 2020 Caos in Corte d’Appello, la presidente: “Nessuna sentenza, erano bozze di valutazione”. Ma il capo dei penalisti insorge: “Prassi che sviliscono il principio del contraddittorio”. Sentenze copia e incolla, scritte prima ancora della discussione di pm e avvocati. È questa la grave accusa mossa dalla Camera penale di Venezia, che ha chiesto al ministero della Giustizia l’invio degli ispettori presso la Corte d’Appello, “al fine di restituire chiarezza ai rapporti processuali e al giudizio di appello nella nostra Corte”. Il fatto risale al 6 luglio, quando un avvocato ha denunciato, nel corso di un’udienza davanti alla I Sezione penale, di aver ricevuto già tre giorni prima, via pec, la sentenza relativa al caso trattato. Un errore d’invio, spiega al Dubbio il presidente della Camera penale Renzo Fogliata, perché la mail, in realtà, avrebbe dovuto contenere la relazione scritta. Ma in allegato gli avvocati si sono ritrovati “l’ordito motivazionale della sentenza, comprensivo del dispositivo, che disattende le tesi degli appellanti”. E, si legge ancora nella nota inviata a via Arenula, le motivazioni della sentenza di rigetto sarebbero state ricavate “attraverso quello che appare essere il copia e incolla di altra sentenza redatta nell’ottobre del 2016”. La “svista”, spiega Fogliata, nasce da un malvezzo di base: “in Corte d’Appello a Venezia vige questa cattiva abitudine, l’aver sostituito la relazione orale con la relazione scritta, probabilmente perché è comoda come bozza di sentenza, dal punto di vista dei fatti. Ma in questo caso è stata inviata direttamente la decisione”. Il fatto è stato identico per un’altra avvocatessa, che aprendo il fascicolo, al posto della relazione, ha trovato il dispositivo, “naturalmente sfavorevole”. Si tratta di casi in cui bisognava decidere se applicare la prescrizione o accogliere i motivi d’appello e, quindi, assolvere l’imputato. “Ma agli atti, prima ancora che le parti si esprimessero, c’era il respingimento dei motivi d’appello”, aggiunge il presidente dei penalisti. Da qui la richiesta di chiarimenti, da parte di tutte le Camere penali del Veneto (sette in totale), che hanno sottoscritto la nota inviata al ministro Alfonso Bonafede e la richiesta di chiarimenti inviata alla presidenza della Corte d’appello di Venezia e alla Procura Generale, con la quale veniva chiesta copia delle sentenze “già scritte” in questione, ovvero sette. “Alcune erano incomplete, ma almeno un paio - spiega ancora Fogliata - erano complete, dall’intestazione fino al dispositivo. Ed erano già nel fascicolo, prima della discussione delle parti. La situazione si commenta da sé”. Il dubbio, spiega ancora il penalista, “è che si tratti di una prassi. Non possiamo affermarlo con certezza - aggiunge - ma il sospetto c’è”. Dal canto suo, la presidente della Corte d’Appello, Ines Marini, dopo aver trasmesso copie autentiche dei verbali delle udienze e le sette pronunce “complete di motivazione e di dispositivo”, ha provato a spiegare la vicenda respingendo le accuse. “Nessuna sentenza già scritta - ha spiegato a Il Gazzettino -, ma una semplice bozza di ipotesi di decisione, predisposta dal giudice relatore sulla base di uno schema predisposto dal Csm e come consentito dalla Cassazione. Le decisioni - ha aggiunto - vengono prese in camera di consiglio, dopo aver ascoltato tutte le parti. Sono sorpresa della decisione di rivolgersi al ministero. Comprendo che gli avvocati possano avere frainteso, ma sono amareggiata”. La relazione, dunque, verrebbe “anticipata agli avvocati invece che letta in aula, per cercare di accelerare i processi e poterne trattare un numero superiore”. Ma la risposta non ha convinto i penalisti veneziani, secondo cui si tratta di “uno sconcertante quadro documentale che rischia di legittimare l’ipotesi che esista una sorta di prassi di precostituzione del giudizio non solo rispetto alla camera di consiglio ma anche alla discussione delle parti. Una prassi che mortificherebbe il nostro ruolo, renderebbe vuoto il contraddittorio e finendo con il delegittimare l’intera Corte di appello e i tanti giudici che praticano con convinzione il giudizio dialettico”. Le udienze, nell’imbarazzo generale, sono state rinviate al 2021. “E loro stessi hanno parlato di “una sorta di anticipazione della valutazione”, ammettendo per primi, dunque, che si tratta proprio di questo. Per me è incomprensibile parlare di bozze di valutazione consentite dal Csm: intanto si offende l’intelligenza di tutta l’avvocatura - continua Fogliata -, perché dovremmo essere degli sprovveduti per confonderle con una sentenza. E mai il Csm potrebbe autorizzare una prassi di questo tipo, perché sarebbe contra legem, in modo brutale”. L’indignazione è stata condivisa, in aula, dal sostituto procuratore generale, Alessandro Severi, che ha chiesto chiarimenti sull’accaduto. Ora si attendono le verifiche del ministero, ma intanto i laici del Csm Stefano Cavanna (Lega) e Alberto Maria Benedetti (M5S) hanno chiesto al Comitato di presidenza di aprire una pratica per “effettuare un’approfondita istruttoria” e “conseguentemente, accertare l’eventuale sussistenza di fatti e/o condotte rilevanti nell’ambito delle competenze del Consiglio, nonché al fine di adottare le iniziative meglio ritenute”. E nel caso in cui venisse fuori che altre sentenze, in passato, siano state scritte in anticipo, spiega il capo dei penalisti, le conseguenze potrebbero essere molteplici, “a partire dalla nullità del processo. Quel che è certo - conclude - è che questo episodio è la spia di uno squilibrio: se anche volessimo, violentando la realtà delle cose, definire quegli atti delle bozze, allora va detto che le stesse sono gravemente irrispettose del ruolo delle parti e del ruolo del processo, ma anche del ruolo stesso del giudicante, che così è svilito e mortificato. Chi giudica senza celebrare un processo non è più un giudice, ma un funzionario amministrativo, come un Prefetto, e non c’entra più la giurisdizione. Esistono giudici che credono nella funzione della dialettica e del contraddittorio, che ascoltano le parti davvero e fanno il loro lavoro tutti i giorni. Ma accanto a loro esiste un filone di magistrati che, molto spesso, vive la difesa come un fastidio o un ostacolo. Non possiamo negarlo Venezia. Verdetti precompilati, è bufera politica: interviene il Csm di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 15 luglio 2020 La Corte penale di Venezia è nel mirino, accusata di arrivare alle udienze con sentenze “precompilate” prima ancora della discussione in aula. Il caso è emerso per l’errore di un giudice che ha fatto partire una mail tre giorni prima del verdetto. Scoppia la bufera politica. E il Csm accende un faro. La presidente della Corte d’Appello: “Non è la prassi” Una pratica del Consiglio superiore della magistratura per verificare che cosa sia successo e se ci siano profili di intervento. Una richiesta da parte delle Camere penali venete al ministero della Giustizia di aprire un’ispezione presso la Corte d’appello lagunare. E anche l’intervento di un leader nazionale come Matteo Salvini (Lega), che denuncia l’”ennesimo episodio che macchia la credibilità della Giustizia, già messa in discussione dalle intercettazioni contro la Lega e contro Berlusconi” e auspica “una riforma profonda del sistema, anche per non mortificare la stragrande maggioranza dei magistrati che lavorano con passione e serietà”. La Corte penale lagunare è nel mirino, accusata di arrivare alle udienze con sentenze “precompilate” prima ancora della discussione in aula, dopo quanto accaduto nel corso dell’udienza del 6 luglio, o meglio nei giorni precedenti: il 3 luglio infatti gli avvocati che tre giorni dopo avrebbero discusso l’appello di una vecchissima vicenda di vongolari abusivi - prescritta ma con gli enti locali come parti civili - hanno ricevuto una Pec in cui avrebbe dovuto essere allegata la “relazione scritta” di presentazione del processo da parte del magistrato relatore; e invece c’erano due pagine che iniziavano con “ragioni della decisione” e si concludevano con il famigerato “PQM” (“per questi motivi”) dopo che al punto 3 era scritto “l’appello è infondato”. In aggiunta, in calce c’era una firma diversa da quella del relatore e una data di quasi quattro anni fa - il 25 ottobre 2016 - che ha fatto gridare anche al “copia incolla”. Il documento iniziava con la sintesi dei motivi di appello, proseguiva con dei riferimenti di Cassazione ed era chiaramente incompleto, visto che c’erano frasi tronche e delle “X” da riempire. Su richiesta del presidente della Camera penale veneziana Renzo Fogliata, poi, la presidente della Corte d’appello Ines Marini ha rilevato che quel giorno c’erano altre sei “sentenze” analoghe già scritte, alcune anche meno abbozzate. “È vero che l’appello parte da atti scritti e che il giudice relatore che li legge si può già fare un’idea - commenta Fogliata - ma poi dovrebbe essere in grado di azzerarla e ascoltare le parti prima di decidere. Scrivere già una traccia significa predisporre un binario, che rischia di essere condizionante. Il giudizio di appello non può essere questo, altrimenti che cosa andiamo a fare in aula?”. Il presidente dei penalisti veneziani assicura che non è una questione personale, ma di difesa della professione. “Non mi si dica che sono solo delle bozze di valutazione perché a smentirlo sono le stesse ordinanze che hanno rinviato a gennaio 2021 quei procedimenti - continua - La dicitura è chiara: “nella relazione sono contenuti elementi di valutazione anticipatori del giudizio”. Tanto che la Camera penale veneziana ha prima ricevuto la solidarietà e l’appoggio dei colleghi delle altre sei province venete e poi ha coinvolto anche l’Unione camere penali nazionale, chiedendo inoltre l’intervento del ministero con gli ispettori “al fine di restituire chiarezza ai rapporti processuali e al giudizio di appello nella nostra Corte”. Ma ora anche lo stesso Csm è entrato in campo, dopo che ieri i due consiglieri laici Stefano Cavanna e Alberto Benedetti hanno depositato una richiesta di apertura di una pratica presso la segreteria del comitato di presidenza per svolgere un’”approfondita istruttoria” e accertare “l’eventuale sussistenza di fatti e/o condotte rilevanti”. E anche l’ex membro del Csm e attuale deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin sta valutando se presentare un’interrogazione. “Anche se forse la materia è più di carattere disciplinare”, spiega. “L’errore del magistrato ha rivelato una prassi che ritengo disdicevole e inaccettabile, poiché dà l’impressione che la decisione sia già stata presa dal magistrato prima della discussione finale - prosegue Zanettin. È vero che il Csm ha dato delle linee guida, ma relative alle cause seriali. Non può passare l’idea che la discussione sia solo un teatrino, altrimenti sarebbe da abolire”. Bari. In carcere da innocenti, record per il distretto di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 15 luglio 2020 Bari supera Milano e Roma per risarcimenti da ingiusta detenzione e dal quarto posto del 2018 balza al secondo dopo Reggio Calabria. Ecco i dati della relazione del ministero della Giustizia: l’anno scorso ci sono stati 67 innocenti arrestati. Per la Corte d’appello di Bari sono stati versati 2,5 milioni di indennizzi, 2 milioni a Lecce. In Puglia negli ultimi otto anni pagati 20 milioni. Milano e Roma superate da Bari che è seconda dopo Reggio Calabria. Con 67 casi di ingiusta detenzione nel 2019, il Distretto di Corte d’Appello è balzato dal quarto al secondo posto per i casi di risarcimento dei danni dopo sentenze di assoluzione e proscioglimento per donne e uomini che sono stati reclusi in attesa di essere scagionati. È questo il quadro emerso dalla relazione che ogni anno l’ispettorato generale del ministero della Giustizia invia al Senato della Repubblica sia sull’andamento delle misure cautelari emesse, sia sui dati relativi alle detenzioni scontate ingiustamente che gravano sul bilancio dello Stato, perché dopo le richieste di risarcimento arriva un assegno direttamente staccato dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Lo scorso anno Bari era al quarto posto dopo Reggio, Milano e Napoli mentre adesso stacca il capoluogo lombardo con 3 casi in più. Il risarcimento del danno per ingiusta detenzione garantisce all’imputato il diritto ad ottenere un’equa riparazione per la detenzione subita ingiustamente prima dello svolgimento del processo e, quindi, prima della sentenza. Sono diverse le valutazioni che incidono sulle decisioni della corte d’appello. L’ingiusta detenzione può causare infatti non soltanto danni di immagine, ma anche professionali. Di tutti questi parametri si tiene ovviamente conto nel calcolo della somma erogata. Dei 67 casi di ingiusta detenzione 44 sono stati decretati con sentenze emesse dal gup o dal tribunale (in primo grado), 15 in Corte d’appello e 8 per elementi genetici, ovvero per errori veri e propri nell’emissione della misura cautelare. Ma quanto costano allo Stato questi risarcimenti? Tantissimo. A Bari sono state emesse l’anno scorso 78 ordinanze di risarcimento per 2,5 milioni di euro. A Lecce 37 ordinanze per un risarcimento che sfiora i 2 milioni. In tutta la Puglia lo Stato paga 4,5 milioni di euro all’anno per detenzioni illegittime. Per l’anno 2019 l’esborso complessivo, quindi per tutti i tribunali d’Italia è stato pari a 43milioni euro, 10 milioni in più rispetto al 2018. È un dato riferito a mille ordinanze (895 nell’anno 2018), con un importo medio di 43mila euro per provvedimento (a Bari è di 32mila euro). Gli esborsi di maggior entità riguardano provvedimenti dell’area meridionale e i pagamenti più consistenti sono stati emessi in relazione a provvedimenti della Corte d’appello di Reggio Calabria con quasi 10 milioni di euro di risarcimento. Oltre settecento sono i casi di ingiusta detenzione negli ultimi otto anni in Puglia. Per una spesa in indennizzi e risarcimenti che supera i 20 milioni di euro. Nel capoluogo salentino, negli ultimi otto anni il totale di persone a cui è stata applicata ingiustamente una custodia cautelare (in carcere o agli arresti domiciliari) sono state in tutto 410. Il numero più alto di casi di ingiusta detenzione si è fatto registrare nel 2012 (97), quello più basso l’anno successivo (37), quando però sono stati risarciti anche 2 errori giudiziari. Quanto a Bari tra il 2012 e il 2019 si sono verificati 510 casi di ingiusta detenzione. L’anno nero è stato il 2015 (con 105 casi), quello più virtuoso è stato invece il 2012 (soltanto 29 indennizzi). Lo scorso anno le sentenze di riparazione per ingiusta detenzione si sono fermate a 73. Passiamo a Taranto. Qui la Sezione distaccata della Corte d’appello ha fatto segnare numeri molto più modesti: il massimo si è raggiunto nel 2015, con 9 casi, e nel 2013 (7 casi). Lo scorso anno le ingiuste detenzioni sono state, per fortuna, soltanto quattro. Reggio Calabria. Riaperto il bando per il “Garante dei detenuti delle persone private della libertà” di Danilo Loria strettoweb.com, 15 luglio 2020 L’Assessore alle politiche sociali Lucia Anita Nucera: “una figura importante a tutela dei diritti e dei bisogni dei detenuti”. Sono stati prorogati i termini per le candidature per la nomina a “Garante dei detenuti delle persone private della libertà personale”, istituito con delibera n. 56 del 22/10/2015. “Il Garante dei detenuti - spiega l’Assessore Lucia Nucera - svolge le proprie funzioni con l’assistenza del Servizio Integrazione Multietnica e inclusione sociale del Settore Servizi alla Persona Welfare e famiglia, e con la collaborazione tecnica, a titolo gratuito dei componenti dell’ufficio del Garante. La figura espleta la propria attività in piena autonomia e con indipendenza di giudizio, ed è tenuto a presentare al consiglio comunale un’apposita relazione annuale che viene trasmessa, tra gli altri, anche al Garante Nazionale per i diritti dei detenuti. Il Garante, che opera a titolo gratuito e senza percepire alcuna indennità, resta in carica cinque anni dalla nomina e l’incarico può essere rinnovato una sola volta”. La nomina del Garante dei detenuti rientra nell’ambito delle azioni a difesa dei cittadini portate avanti dall’Amministrazione comunale: “Stiamo continuando a lavorare per l’individuazione della figura che svolge un’attività importante a tutela dei diritti e dei bisogni delle persone private della libertà personale che potranno trovare un punto di riferimento con cui interloquire su varie problematiche. L’istituzione del Garante per i detenuti si inserisce nel solco tracciato dall’Amministrazione comunale a tutela dei cittadini, soprattutto dei soggetti più fragili, dei loro bisogni e delle loro necessità. L’ obiettivo è di ridare dignità e speranza ai cittadini che meritano di vedere riconosciuti i propri diritti. Per questo, proseguiamo nel nostro lavoro, superando le difficoltà, nell’ottica di migliorare sempre di più la nostra azione amministrativa ed operare nell’interesse dei cittadini. Invito pertanto tutti coloro che abbiano i requisiti richiesti dal bando pubblicato sul sito del comune di Reggio Calabria e vogliano ricoprire la figura, a presentare la propria candidatura entro 10 giorni dalla presentazione dell’avviso”. Napoli. Nasce “Brigata Caterina”: una pizzeria per agenti e detenuti di Poggioreale di Marco Belli gnewsonline.it, 15 luglio 2020 Sarà inaugurata questa sera, all’interno della Casa circondariale di Napoli Poggioreale “Giuseppe Salvia”, la pizzeria “Brigata Caterina” che permetterà a detenuti e personale in servizio nell’istituto di poter degustare in carcere la vera pizza napoletana. L’iniziativa trattamentale nasce dalla collaborazione tra il ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e la Diocesi di Napoli. Fra i primi ad assaggiare la pizza di Poggioreale, ospiti del direttore dell’istituto Carlo Berdini, il Cardinale Crescenzio Sepe, il capo di Gabinetto del ministro della Giustizia Raffaele Piccirillo, il provveditore regionale della Campania Antonio Fullone e il direttore generale del Personale e delle risorse del Dap Massimo Parisi. Il progetto sperimentale, patrocinato della Camera dei deputati e finanziato dalla Cassa delle ammende, prevede la realizzazione di un laboratorio artigianale di pizzeria e friggitoria dentro il carcere di Poggioreale e permette di avviare al lavoro alcuni detenuti, dopo averli formati professionalmente all’esercizio di questi mestieri. L’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi Napoli, per rendere ancora più concreta la prospettiva di professionalizzazione esterna, in vista di una reale e stabile occupazione, ha promosso la creazione di una rete di attori istituzionali con i quali sono stati realizzati dei protocolli d’intesa. Sono stati pertanto coinvolti l’Università degli Studi di Napoli Federico II, l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa e l’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna per la Campania (Uiepe) per la selezione e la verifica dei contesti familiari dei ristretti da avviare alla selezione; le Associazioni dei Pizzaioli Napoletani per favorire la possibilità di collocamento lavorativo dei detenuti formati presso i loro associati e il tutoraggio in una prospettiva di lavoro autonomo e, infine, la Regione Campania per il finanziamento del placement e, a partire dalla seconda annualità della progettazione, delle attività formative. Una seconda fase del progetto prevede la realizzazione di una pizzeria esterna al carcere, in un locale non più adibito al culto, collocato nel Centro Storico cittadino e messo a disposizione gratuitamente dalla chiesa di Napoli. Tale locale era una volta la chiesa di Santa Caterina al Pallonetto di Santa Chiara, da cui il nome “Brigata Caterina”. La fase di formazione prenderà l’avvio nel prossimo mese di settembre. Seconda trasmissione radiofonica dalla Redazione di Ristretti-Parma Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2020 Eccoci alla 2° puntata della trasmissione dedicata ai detenuti di via Burla e alla cittadinanza. Dal 6 luglio ci siamo uniti alla grande famiglia Eduradio che ha portato nella casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna la propria voce nel periodo di interruzione delle attività con operatori esterni a causa dell’emergenza sanitaria, il 27 settembre. Loro hanno socchiuso una porta che si sta sempre di più aprendo e attraverso la quale anche la nostra redazione ha pensato di entrare proprio per avvicinare i liberi ai ristretti, portando anche le nostre voci dentro il carcere e, nello stesso modo, facendo conoscere storie, sentimenti, pensieri di chi vive nelle celle detentive. Cominciamo questa puntata con la rubrica curata da Carla Chiappini “Scrivere di sé” Solo pochi minuti in cui ospiteremo scritti brevi raccolti nelle carceri che verranno letti ogni volta da un ospite differente, e oggi è il turno di Antonio, attore detenuto del Laboratorio Teatrale di via Burla, cui va il nostro ringraziamento per il suo bellissimo contributo sul tema della paternità, raccolto da Germana Verdoliva. Passeremo poi la parola a Maria Inglese, psichiatra dell’azienda Usl Parma, per una chiacchierata con il dott. Faissal Choroma su un argomento particolarmente caldo che ha interessato anche molti giornali negli ultimi tempi: salute e carcere e, in particolare, Covid-19. Faissal Choroma è medico infettivologo, dal 2015 Direttore del Programma Salute negli Istituti penitenziari dell’azienda Usl di Parma, ha coordinato lo Spazio Salute Immigrati. In chiusura vi proporremo un breve contributo tratto dall’intervista a due voci condotta da Carla Chiappini con Ornella Favero presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttore di Ristretti Orizzonti e Luigi Pagano già vice - capo del Dap, provveditore e per 14 anni direttore del carcere milanese di San Vittore. I nostri ospiti parleranno della propria esperienza e del proprio percorso per leggere e comprendere le complessità della realtà carceraria. Vi ricordiamo che siamo in onda tutte le settimane il lunedì dalle 8 alle 8,30 ogni ora fino a mezzanotte sul canale 292 RTR, con repliche il venerdì. La puntata al link https://liberidentrohome.files.wordpress.com/2020/07/puntata-2-finale.mp4 Sulla tutela dei diritti umani Italia ancora in ritardo di Oreste Pollicino Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2020 Oggi inizia il mio mandato quinquennale quale membro titolare del Management board dell’Agenzia dell’Unione europea per diritti fondamentali di Vienna che ha il compito di vegliare sul livello di protezione dei diritti in Europa. In primo luogo però c’è da rimuovere il prima possibile uno scheletro nell’armadio italico: l’assenza - unico stato Ue - di una Commissione nazionale indipendente per la protezione e promozione dei diritti umani, nonostante una Risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu, sottoscritta dall’Italia nel 1993, ne imponga l’istituzione. Non è solo una questione formale di inadempimento agli obblighi di diritto internazionale, già di per sé significativa, ma è un i tema sostanziale in cui il quadro di protezione per chi denuncia una violazione dei diritti umani è meno articolato e meno efficace rispetto alla generalità Unione. Oggi in Italia per fare valere una violazione di un diritto umano tutelato a livello internazionale, serve, non potendo rivolgersi alla Commissione nazionale, attendere tre gradi di giudizio e, ammesso si sia ancora in vita, adire anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. In questo quadro si inserisce la proposta di legge n. 855 presentata il 3 luglio 2018 alla Camera dei deputati. Da tale proposta, la Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna già nel 1993 ha riaffermato il ruolo cruciale delle istituzioni nazionali per la promozione e la tutela dei diritti umani, in particolare attraverso la loro capacità di fornire consulenza alle autorità competenti. La creazione di una Commissione indipendente per i diritti umani, con compiti anche ispettivi, è quindi un impegno internazionale al quale l’Italia non ha ancora adempiuto. Qualcosa sembra però poter cambiare negli anni. Proposte di legge sono presentate con più frequenza e il clima politico istituzionale sembra essere più sensibile a liberarsi definitivamente dello scheletro nell’armadio e del suo fardello reputazionale. Il momento è propizio e bisogna agire senza esitazioni, cercando di cogliere l’opportunità per l’istituzione di un meccanismo di garanzia dei diritti umani in linea con quanto richiesto dalle Nazioni Unite. Ciò che deve essere compreso è che la Commissione non andrà a sovrapporsi agli ambiti di applicazione delle tutele dei diritti già previste dalle Autorità esistenti, dalla autorità indipendenti di protezione esistenti. Dal garante per la protezione dati a quello per i diritti delle persone detenute, solo per fare qualche esempio. Al contrario: ne rafforzerà le istanze creando una cornice unitaria. Non solo, l’istituzione della Commissione farà emergere, accanto alla dimensione reattiva, quella promozionale, al momento quasi assente, di protezione dei diritti umani. Ciò grazie alla possibilità per la Commissione di formulare pareri, raccomandazioni e proposte, anche con riferimento a provvedimenti di natura legislativa o regolamentare, al Governo e alle Camere su tutte le questioni concernenti il rispetto dei diritti umani, sollecitando ove necessario la firma o la ratifica delle convenzioni e degli accordi internazionali. Si tratta quindi di un obiettivo impellente, la cui realizzazione non potrà che impattare positivamente su due livelli: l’effettività della tutela dei diritti umani e la credibilità internazionale per il nostro Paese. Migranti. Via le multe alle Ong e tornano gli Sprar. Ecco come cambiano i decreti Salvini di Fabio Tonacci La Repubblica, 15 luglio 2020 Il sì della maggioranza alla bozza di riforma presentata dalla ministra Lamorgese. Entro 10 giorni il testo definitivo. Per i migranti che nel Paese d’origine rischiano di subire trattamenti inumani torna la protezione umanitaria. Le multe alle Ong spariscono, anzi no. Non del tutto, rimangono ma cambiano forma giuridica, e saranno decise da un giudice. Sulla questione politicamente più ostica della riforma dei Decreti Sicurezza - le maxi-sanzioni volute da Salvini per le navi che violano divieti di ingresso in acque territoriali - i delegati della maggioranza riuniti ieri al Viminale sembrano aver trovato una quadra, un compromesso accettabile per il Pd e non mortificante per il Movimento 5 Stelle, che quelle spropositate sanzioni aveva introdotto e autorizzato durante il governo precedente. Sbrogliato il nodo multe, dunque, sul resto della bozza di riforma (10 pagine suddivise in 9 articoli) presentata dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese è stato raggiunto l’accordo tra le parti. La prossima riunione, in calendario entro una decina di giorni, potrebbe essere quella del varo finale, dopodiché il testo sarà portato al Consiglio dei ministri. Ma non prima di Ferragosto, vista la fitta agenda politica di questi giorni. Il nodo delle multe - Si torna allo status quo ante Salvini. Vengono soppresse le multe amministrative, attualmente emesse dalle prefetture a carico dell’armatore e che con il Decreto sicurezza Bis erano state alzate fino alla spropositata cifra di un milione di euro. La riforma Lamorgese stabilisce che se una nave effettua un soccorso in mare, e lo comunica sia al Centro di coordinamento competente sia al proprio Stato di bandiera, non incorre in alcun divieto. In caso contrario, al momento dell’ingresso in acque territoriali rischia la violazione del Codice della navigazione, reato penale che per la fattispecie assimilabile alla forzatura di un blocco (come accaduto in passato con la Sea Watch della comandante Carola Rackete e la Mare Ionio della piattaforma civica italiana Mediterranea) prevede fino a 2 anni di carcere e una sanzione pecuniaria di 516 euro. La ministra ha trovato un punto di mediazione inserendo, nella bozza, il comma che modifica la cornice edittale e innalza la sanzione tra i 10 mila e 50 mila euro. La stessa cifra prevista nel primo Decreto sicurezza. I partiti al tavolo di maggioranza (Pd, Iv, M5S e Leu) hanno ancora qualche giorno per proporre aggiustamenti. La protezione “speciale” - Altro caposaldo della riforma Lamorgese: torna di fatto la protezione umanitaria per i migranti, cancellata da Salvini. Non si chiamerà più così, ma “protezione speciale”, e anche se non riuscirà a coprire, come l’umanitaria, il 25 per cento delle richieste di chi non aveva diritto allo status di rifugiato, garantirà protezione internazionale a una serie ampia di categorie sensibili, in primis a coloro che nel proprio Paese rischiano di subire torture o trattamenti inumani. Approvata anche la parte della bozza che rende convertibili in permessi di soggiorno per motivi di lavoro la maggior parte dei permessi concessi: per protezione speciale, per calamità, per attività sportiva, per motivi religiosi, per assistenza minori. “È stata una riunione fondamentale”, commenta il viceministro dell’Interno Matteo Mauri. “Abbiamo lavorato su un nuovo testo messo a punto da Lamorgese sulla base delle proposte che i gruppi di maggioranza hanno avanzato nei precedenti incontri. Mancano ormai solo alcuni particolari”. Ripristinato il sistema Sprar - Dove si percepisce maggiormente l’intenzione di cancellare le restrizioni volute dall’ex ministro dell’Interno è nell’articolo 4, che ripristina l’accessibilità al sistema di accoglienza Sprar, da cui erano stati espulsi i richiedenti asilo. Con una differenza: il baricentro si sposta dai prefetti ai sindaci. Sono i comuni, infatti, che già prestano i servizi di accoglienza per i titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati, a poter accogliere i richiedenti asilo, nelle medesime strutture e offrendo servizi che favoriscano l’inclusione sociale (come l’insegnamento della lingua). Ai richiedenti asilo viene riconosciuto il diritto di iscriversi all’anagrafe e saranno dotati di una sorta di carta di identità, riconosciuta dallo Stato italiano, valida per tre anni. Migranti. Decreto Salvini, verso l’accordo in maggioranza: le multe alle Ong scendono a 560 euro di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 15 luglio 2020 La proposta formulata dalla ministra Lamorgese: applicare il codice della navigazione in caso di violazioni. In questo caso le sanzioni verrebbero decise dalla magistratura e non dai prefetti. Si va verso l’accordo sulla riscrittura dei decreti sicurezza voluti dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini. È quanto emerge al termine di un incontro avvenuto martedì al Viminale tra la ministra Luciana Lamorgese ed esponenti della maggioranza. Il punto principale riguarda le multe per le ong che effettuano soccorsi in mare e che dovessero violare i divieti di ingresso nelle acque territoriali italiane: la sanzione scenderebbe a 560 euro contro la “forbice” che va da 250.000 a 1 milioni di euro prevista dall’attuale decreto Salvini. Alla riunione di martedì - la quarta della serie - seguirà un’altra la settimana prossima per mettere a punto gli ultimi dettagli. La previsione è quella di un accordo politico sul testo a breve con presentazione del decreto però a settembre per evitare che non si faccia in tempo a convertirlo in estate. Sulle multe alle Ong, a lungo il motivo di disaccordo tra le componenti della maggioranza la proposta della ministra Lamorgese è quella di applicare il codice della navigazione che prevede appunto la multa di 560 euro o la reclusione fino a 2 anni. In ogni caso a decidere la sanzione non sarebbe più il prefetto ma la magistratura. L’attuale norma prevede anche il sequestro immediato dell’imbarcazione e l’arresto per il comandante. Anche queste misure scomparirebbero. Altri punti salienti della bozza proposta dal Viminale sono l’ampliamento dei casi in cui è possibile applicare la protezione umanitaria, il ripristino di alcune forme di accoglienza (ad esempio in piccoli gruppi distribuiti nei piccoli comuni) e l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe. Su quest’ultimo punto c’è stato proprio pochi giorni fa un intervento della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime alcune parti del decreto Salvini. Nel testo vengono estesi i permessi speciali a chi rischia di subire “trattamenti inumani e degradanti” nel proprio Paese, a chi necessita di cure mediche, a chi proviene da Paesi in cui sono avvenute “gravi calamità”; si dimezzano anche i tempi di trattenimento nei Cpr (da 180 a 90 giorni). Migranti. Cpr di Gradisca d’Isonzo, secondo morto in sette mesi di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 luglio 2020 Un 28enne albanese senza vita e un cittadino marocchino in stato di incoscienza sono stati trovati ieri mattina in una cella di isolamento del centro di permanenza per il rimpatrio friulano. Nella stessa struttura, il 19 gennaio scorso, era deceduto Vakhtang Enukidze. Per avere qualche sicurezza in più bisognerà attendere l’autopsia. Al momento le certezze sono due: ieri mattina in una cella d’isolamento del Cpr di Gradisca d’Isonzo un giovane albanese di 28 anni è stato trovato morto, con lui un cittadino marocchino agonizzante; in sette mesi è il secondo decesso di una persona in custodia dello Stato nella stessa struttura. Una prima versione diffusa in mattinata aveva ipotizzato un omicidio seguito da un tentativo di suicidio. Ma i medici che hanno visitato il marocchino e la prefettura smentiscono la presenza di segni che facciano pensare a episodi di violenza. I reclusi contattati dal manifesto raccontano di non aver sentito alcun rumore particolare durante la notte precedente ed essersi resi conto della presenza di un morto dall’improvviso ingresso di molti agenti e dall’uscita di una salma avvolta in un sacco di plastica. Nel pomeriggio ci sono stati disordini e sono state incendiate alcune suppellettili. Che ci fossero una persona deceduta e una agonizzante era stato scoperto intorno alle 9 dal personale dell’ente gestore, la cooperativa Edeco, che ha chiamato il 118. I medici hanno solo potuto constatare la morte del cittadino albanese e trasferire in ospedale quello marocchino. Arrivato in stato di incoscienza, è migliorato nel corso della giornata e sarebbe fuori pericolo di vita. La sua testimonianza e l’autopsia, di cui non è stata ancora stabilita la data, saranno elementi fondamentali per provare a ricostruire l’accaduto. Nelle stanze del Cpr non sono presenti telecamere. La persona che ha perso la vita era stata trasferita nel Cpr il 10 luglio, non proveniva da un hotspot e stava scontando la quarantena nella struttura. Nei giorni scorsi il centro aveva raggiunto la sua capienza massima: 80 trattenuti, al momento diventati 78. I Cpr sono tornati ad affollarsi con molti trasferimenti di persone appena sbarcate che dopo la quarantena, sulla Moby Zazà o a terra, e il passaggio da un hotspot finiscono dietro le sbarre. Questa dinamica sta facendo crescere la tensione nelle sette strutture per la detenzione amministrativa sparse sul territorio nazionale. A Gradisca nei giorni scorsi c’erano stati scioperi della fame ed episodi di autolesionismo. I reclusi denunciano, tra le altre cose, la pessima qualità del cibo e la scarsa assistenza medica. “Non ho fatto niente, perché mi hanno messo in prigione?”, chiede al telefono uno di loro. La sindaca di Gradisca Linda Tomasinsig (centro-sinistra) pretende chiarezza: “Le notizie in mio possesso sono che la morte non è avvenuta in un contesto di fuga o rivolta. Chiedo con forza, e non nutro dubbi in proposito, che la verità emerga con celerità e attenzione, così come che vengano resi noti gli esiti delle indagini sulla morte, avvenuta il 19 gennaio di quest’anno, di Vakhtang Enukidze”. Enukidze, cittadino georgiano di 38 anni, è morto dopo un calvario tra Cpr, carcere di Gorizia e di nuovo Cpr. L’autopsia effettuata il 27 gennaio aveva escluso il decesso a seguito di percosse, identificandone la causa in un edema polmonare. Non si conoscono, invece, i risultati degli esami istologici e tossicologici. Erano attesi entro 60 giorni. Sia il perito di parte civile che quello del pubblico ministero hanno chiesto una proroga d’indagine per le proprie conclusioni autoptiche, concessa il 30 giugno. In occasione della vicenda di Enukidze il deputato di +Europa Riccardo Magi aveva effettuato un’ispezione presso la struttura, denunciando di aver incontrato molti reclusi “evidentemente sotto effetto di calmanti o psicofarmaci. Alcuni in stato confusionale”. Tra Edeco e la Asl territoriale esiste un protocollo sanitario che prevede la presenza di personale del Centro di salute mentale e del Sert. Il Covid ha però di fatto sospeso il protocollo e le visite in presenza sono state sostituite da consulenze telefoniche per diminuire il rischio che il virus entri nel Cpr (cosa comunque accaduta a marzo e poi ad aprile). Presumibilmente, però, non si è interrotta la somministrazione dei farmaci in questione. La rete LasciateCientrare, che per prima aveva appreso la notizia del decesso, parlato in un comunicato di un possibile “eccesso di sedativi e tranquillanti”, ma specifica: “siamo in attesa di dettagli”. “Due morti in sette mesi, oltre ai diversi casi di Covid, significano che la struttura è fuori controllo e la situazione ormai insostenibile”, afferma Gianfranco Schiavone, vice-presidente di Asgi. La rete “No Cpr, no frontiere - Fvg” ha manifestato ieri sera chiedendo la chiusura del centro. Covid e salute mentale. Mai più manicomi di Stefano Cecconi Il Manifesto, 15 luglio 2020 L’emergenza da coronavirus ha prodotto pesanti conseguenze sulla vita di tutti i cittadini e la crisi economica e occupazionale che si profila alimenterà i danni sociali. Effetti certamente più gravi per le persone con sofferenza mentale, per i più anziani, per le persone con disabilità e con malattie croniche, per i detenuti e per tutte le persone “rinchiuse in istituti”. Effetti resi ancor più duri dai tagli alla sanità e alle politiche sociali di questi anni. In questa emergenza abbiamo assistito al fallimento del modello di cura custodialista, fondato sul ricovero (sulla restrizione, sull’internamento). Quando l’ospedale - ma si pensi alle residenze per anziani - è stata la risposta prevalente all’epidemia abbiamo visto cosa è successo, in termini di maggiori sofferenze e di morti. Questa drammatica esperienza ci insegna che occorre rilanciare il “modello di salute e di cure di comunità”, praticato nei luoghi della vita quotidiana, a domicilio, nei servizi territoriali di prossimità: proprio il modello che si è radicalmente opposto all’istituzione manicomiale e che ancora oggi, per la salute mentale, per la non autosufficienza, per la stessa esecuzione della pena, può ispirare l’innovazione necessaria del nostro welfare. In piena emergenza pandemica, nel mese di aprile 2020, come Osservatorio stopOPG e Coordinamento Rems-Dsm, abbiamo realizzato il 2° monitoraggio sulle Rems, per capire cosa stava succedendo in strutture che, diversamente dalle carceri, erano rimaste fuori dai riflettori. E per rimettere in marcia il processo riformatore della legge 81/2014, che chiudendo gli Opg ha avviato un nuovo percorso per affrontare il complesso tema del rapporto fra diritto alla tutela della salute mentale e giustizia. Dalla rilevazione offerta dal questionario, pur considerando i limiti di un monitoraggio effettuato a distanza e solo su alcuni indicatori, viene segnalata una buona risposta all’emergenza Covid-19 del sistema Rems, indicate alcune linee di lavoro e riflessioni sul futuro: fino a prevedere altre soluzioni abitative che potrebbero affiancarsi (o persino sostituire) i modelli residenziali Rems per favorire misure non detentive. Intanto però, anche se l’importante sentenza (99/2019) della Corte Costituzionale sul diritto a misure alternative alla detenzione anche per gli infermi di mente e sul fatto che le Rems non abbiano sostituito gli Opg, offre una via d’uscita, sappiamo che la “riforma gentile” è incompleta. Ed è ancora una volta messa in discussione: preoccupante è la questione della legittimità costituzionale sulle Rems sollevata dal Tribunale di Tivoli (Ordinanza 11.5.2020), sulla quale richiamo il commento di Pietro Pellegrini (Il superamento degli Opg le Rems. Oltre le buone intenzioni). Ritorna così evidente la necessità di organizzare un nuovo rapporto di collaborazione tra Giustizia (Magistratura) e Sanità (Regione, Asl, Dsm), grazie al quale i progetti di cura dei pazienti siano definiti concordemente, distinguendo il mandato sanitario da quello custodiale. In questo senso è indispensabile un accordo quadro nazionale Stato Regioni e occorre sia riattivato l’Organismo di monitoraggio nazionale. Infine, bisogna riaprire il dibattito sulla modifica del codice penale per misure di sicurezza e imputabilità: un’utile base di discussione è la proposta di legge elaborata da Franco Corleone e fatta propria dalla Conferenza dei Garanti regionali dei diritti delle persone private della libertà personale, per superare finalmente quel “doppio binario”, figlio della logica manicomiale, riservato solo ai “malati di mente incapaci di intendere e volere autori di reato” e sancire pari diritto di cittadinanza per tutti. Di tutto questo riprenderemo a discutere nel webinar del prossimo 16 luglio, accessibile a questo link: https://global.gotomeeting.com/join/223426477 Stati Uniti. Eseguita la prima condanna a morte federale da 17 anni di Andrea Marinelli Corriere della Sera, 15 luglio 2020 La Corte Suprema ha autorizzato l’esecuzione di Daniel Lewis Lee, giudicato colpevole di aver ucciso una famiglia di tre persone nel 1996. Alle 8.07 di martedì mattina gli Stati Uniti hanno eseguito la prima condanna a morte a livello federale degli ultimi 17 anni. Neanche la Corte Suprema ha salvato Daniel Lewis Lee, ex suprematista bianco condannato per l’omicidio, nel 1996, di una famiglia di tre persone, che ha speso le sue ultime parole per ribadire la propria innocenza. “Non sono stato io”, ha detto prima che gli fosse somministrata l’iniezione letale nel penitenziario di Terre Haute, in Indiana. “Ho commesso parecchi errori nella mia vita, ma non sono un assassino. State uccidendo un innocente”. Inizialmente prevista per lunedì sera, l’esecuzione era stata bloccata all’ultimo dalla Corte d’appello di Washington insieme a quella di altri tre detenuti che dovrebbero ricevere l’iniezione letale nelle prossime settimane: contro la decisione si era appellato il dipartimento di Giustizia, e il massimo tribunale americano nella notte ha dato l’autorizzazione a procedere. “La ripresa delle esecuzioni federali”, hanno scritto però i giudici di area progressista Stephen Breyer e Ruth Bader Gingsburg, “promette di fornire esempi che spiegano la difficoltà di amministrare la pena di morte in accordo con la costituzione”. Il ritorno della pena di morte a livello federale - A sancire il ritorno della pena di morte a livello federale era stato, lo scorso anno, il ministro di Giustizia William Barr, fedelissimo di Donald Trump, che ordinò al Bureau of Prisons di procedere con l’esecuzione di “detenuti nel braccio della morte condannati per l’omicidio, la tortura o lo stupro delle persone più vulnerabili della società: bambini e anziani”. La decisione di Barr ha dato il via a una serie di battaglie legali, anche perché l’ultima esecuzione federale risaliva al 2003, quando fu eseguita la condanna a morte di Louis Jones Jr., un veterano della Guerra del Golfo colpevole di aver ucciso la soldatessa Tracie Joy McBride nel 1995. Nonostante - dopo una doppia sentenza della Corte Suprema - la pena di morte sia tornata legale a livello federale dal 1988, le esecuzioni finora sono state piuttosto rare: secondo i dati del Death Penalty Information Center, 78 persone hanno ricevuto una condanna a morte a livello federale fra il 1988 e il 2018, ma soltanto 3 sono state poi effettivamente portate a termine. L’opposizione dei familiari delle vittime - Il primo a finire nella saletta delle esecuzioni è stato dunque Lee, 47 anni, che nel 1996 torturò e uccise una coppia e la loro figlia, gettando i corpi in un lago dell’Arkansas. A opporsi alla sua esecuzione è sempre stata Earlene Peterson, nonna materna della bambina, oggi 81enne, per la quale il colpevole dovrebbe passare il resto della vita dietro le sbarre, come il suo complice. “Daniel Lee ha distrutto la mia vita, ma non penso che prendersi la sua cambierebbe qualcosa”, ha sempre sostenuto Peterson, che fino all’ultimo ha provato a bloccare l’iniezione letale sostenendo anche di non poter assistere a causa della pandemia. Ora, nel braccio della morte federale, restano in attesa 61 detenuti, fra cui i tre - tutti condannati per aver ucciso bambini - che dovrebbero ricevere l’iniezione letale durante l’estate. Brasile. Nelle carceri il Covid corre veloce e a giugno +800% dei casi di Luigi Spera Il Fatto Quotidiano, 15 luglio 2020 La gravità della situazione ha spinto 200 ong attive nella difesa dei diritti umani a inviare un documento all’Onu, alla Commissione interamericana dei diritti umani e alla stessa Oms, per denunciare le mancanze del governo. Nel limbo tra periferie e carcere, dove i confini tra dentro e fuori si confondono lungo perimetri estremamente porosi che dividono l’interno delle celle sovraffollate dal degrado esterno fatto di crimine, povertà e ingiustizia sociale, il coronavirus si diffonde rapido. Sfuggendo alle statistiche. Secondo una ricerca del Consiglio nazionale di giustizia del Brasile, soltanto a giugno nelle carceri del Paese è stato registrato un aumento del’800 per cento rispetto a maggio dei casi di infezione da coronavirus. Una situazione che preoccupa l’organo legato al sistema giudiziario del Paese, dal momento che gli 8.924 detenuti sottoposti al test dall’inizio della pandemia, rappresentano solo l’1,2 per cento della popolazione carceraria che alla data del 31 dicembre 2019 era costituita da 748.009 persone a fronte di una disponibilità di 435.884 posti. Secondo i dati del Dipartimento penitenziario nazionale (Depen), a 2.351 carcerati è stato diagnosticato il Covid-19, mentre quasi mille casi sospetti sono in attesa di conferma. Non è un caso che lo stesso Depen stimi che la mortalità per coronavirus in carcere sia 5 volte maggiore rispetto a quella del Paese. All’inizio della pandemia 32mila e cinquecento detenuti in regime di carcere semi-aperto o con situazioni di salute compromessa, hanno lasciato le unità carcerarie per disposizione del governo che ha accolto una raccomandazione della Cnj. Numeri irrisori di una misura che comunque non rappresenta la soluzione. A offrire uno spaccato della situazione carceraria brasiliana, è il ricercatore italiano Sergio Grossi, profondo conoscitore della realtà che per l’Università di Padova ha realizzato una ricerca sul sistema educativo nei penitenziari brasiliani. “La tubercolosi e altre malattie erano già endemiche e non adeguatamente trattate in carcere, anche io nel corso della ricerca sono stato infettato. Tutte le persone che lavorano in queste strutture fatiscenti sono a rischio, come lo sono le loro famiglie e la società in generale. La precarietà della risposta medica sta uccidendo molti giovani”, afferma Grossi. “A causa del coronavirus la settimana scorsa è deceduto un ragazzo di 28 anni che era stato arrestato per il possesso di 10 grammi di marijuana. Le celle sembrano esplodere. Nella penombra sono ammassate decine di persone che fanno i turni per dormire e si imbottiscono di psicofarmaci per resistere alla violenza strutturale. Difficile proteggersi in queste condizioni disumane”. Lo stato di abbandono in cui versano i penitenziari del Paese in un momento così drammatico come quello della pandemia è fotografato dal sondaggio “Agenti carcerari e la pandemia Covid-19”, condotto dall’istituto di ricerca Fondazione Getulio Vargas pubblicato a giugno, secondo cui solo il 32,6 per cento degli agenti ha dichiarato di aver ricevuto dispositivi di protezione individuale al lavoro e solo il 9,3 per cento ha dichiarato di avere una minima formazione per affrontare la pandemia. Più della metà dei 301 agenti intervistati, il 54,8 per cento, ha raccontato di avere un collega o un familiare infettato dal virus. La stragrande maggioranza degli agenti, l’82,4, per cento, ha affermato di aver paura di contrarre covid-19 in carcere. Di fronte a questa situazione drammatica il presidente del Brasile Jair Bolsonaro ha posto il veto su alcuni articoli della legge che regola l’obbligo dell’uso di mascherine protettive negli spazi pubblici di tutto il Paese, cancellando l’obbligatorietà delle mascherine proprio per agenti penitenziari e detenuti. “Questa misura avrà l’effetto di accelerare il contagio delle persone che il governo considera sacrificabili come i detenuti”, afferma Grossi “ma anche i lavoratori delle carceri e le loro famiglie, che pure sono in gran parte espressione delle fasce meno abbienti della popolazione, afro-discendenti e residenti delle periferie”. Secondo il ricercatore, “la necro-politica neoliberale del governo che riapre le attività economiche con gli ospedali pubblici al collasso, sembra volerci comunicare esplicitamente: morite presto per favore, infettati mentre noi stiamo lavorando su zoom, vogliamo ritornare a bere Caipirinha nelle spiagge di Copacabana. Il governo sembra perseguire con astuzia comunicativa le scellerate politiche che aspirano alle immunità di gregge. Ovvio, il gregge appartiene ad una certa classe sociale e una razza”. La gravità della situazione carceraria in Brasile ha spinto 200 organizzazioni non governative attive nella difesa dei diritti umani a inviare un documento all’Onu, alla Commissione interamericana dei diritti umani e alla stessa Organizzazione mondiale della sanità, per denunciare le mancanze del governo. Tra le misure entrate nel mirino delle Ong, la proposta di istallare container all’esterno dei padiglioni carcerari dove posizionare temporaneamente i detenuti ammalati di Covid. Una misura discutibile che mina ancora una volta il principio stesso della detenzione. “Il carcere si legittima con l’idea di educare le persone a non commettere infrazioni. Come può essere efficace se la stessa istituzione commette illegalità”, si chiede Sergio Grossi, che sottolinea “come si può educare qualcuno attraverso la violenza e la violazione della dignità umana? Le ricerche più interessanti disponibili vedono il carcere al centro di una serie di meccanismi che stanno portando avanti una politica genocidaria delle persone che non si sottomettono docilmente all’avanzare della precarizzazione delle condizioni lavorative. In Brasile ogni giorno ci sono decine di Floyd: cosa succederebbe se le più di 800.000 persone attualmente incarcerate si sommassero alle 600.000 persone morte per omicidio negli ultimi dieci anni? Bolsonaro riuscirebbe ancora a dormire tranquillamente? Purtroppo siamo noi - difensori dei diritti umani - che abbiamo visto e non riusciamo a dormire”. Egitto. Giornalisti: facile morire in carcere al Cairo per nulla di Roberta Zunini Il Fatto Quotidiano, 15 luglio 2020 Il vicedirettore del quotidiano Youm 7 incarcerato per una frase detta su Al Jazeera: in carcere ha subito il contagio letale. Dopo aver criticato la risposta delle autorità egiziane all’emergenza Covid-19 ed essere finito dietro le sbarre per aver fatto il proprio mestiere di giornalista con la schiena dritta, Mohammed Monir è morto per aver contratto il virus in prigione. Mohamed Monir, 65 anni, è deceduto in un’unità di isolamento dell’ospedale del Cairo - ha confermato la sua famiglia - dove era stato ricoverato due settimane fa dopo il suo rilascio dal carcere di Tora a causa delle sue cattive condizioni di salute. Dopo il suo rilascio, Monir aveva scritto un post su Facebook lamentando mancanza di respiro e dolore toracico, deducendo di aver contratto il coronavirus. “Anche brevi detenzioni durante questa pandemia possono significare una condanna a morte”, ha dichiarato Sherif Mansour, coordinatore del programma per il Medio Oriente del Comitato per la protezione dei giornalisti, chiedendo pertanto alle autorità di rilasciare giornalisti detenuti. Monir, giornalista molto noto in Egitto per autorevolezza e indipendenza, negli scorsi mesi aveva criticato la gestione da parte del governo della pandemia in varie occasioni e su diversi media tra cui la tv internazionale del Qatar, Al Jazeera, bandita dal regime di al-sissi essendo da lui ritenuta espressione della Fratellanza Musulmana, invisa al presidente egiziano. La polizia aveva arrestato Monir il 15 giugno, accusandolo di essere membro di un gruppo terroristico, di diffondere notizie false e abusare dei social media. I detenuti possono essere trattenuti per anni con accuse vaghe o palesemente fabbricate, non per forza collegate a esempi specifici tratti dagli articoli o interviste televisive. Dallo scorso febbraio, le autorità hanno dato il via a una campagna di arresti di giornalisti e medici che hanno osato denunciare l’incapacità del governo egiziano di gestire la pandemia sottolineando i pericoli ancora più allarmanti per coloro che sono detenuti. Fra gli altri giornalisti arrestati ci sono Awni Nafee, cronista sportivo prelevato da una struttura di quarantena dove alloggiava dopo il suo arrivo dall’Arabia Saudita - ave va criticato il trattamento da parte del governo dei rimpatriati egiziani prima della sua detenzione - Mostafa Saqr e Sameh Hanein. A maggio, le autorità egiziane avevano costretto la giornalista del britannico Guardian, Ruth Michaelson, a lasciare il Paese dopo aver riferito di uno studio scientifico secondo cui l’egitto probabilmente aveva molti più casi di coronavirus di quanto fosse stato ufficialmente confermato. Ma sono sempre di più anche i medici, gli operatori sanitari e persino i farmacisti ad aver conosciuto le patrie galere. Un medico è finito in manette dopo aver scritto un articolo sulla estrema fragilità del sistema sanitario pubblico egiziano. Un farmacista è stato prelevato durante l’orario di lavoro poco dopo aver pubblicato online la scarsità di equipaggiamento protettivo per gli operatori sanitari e per sé e i propri colleghi. Un editore è stato prelevato nella camera da letto durante la notte poco dopo aver espresso sui social la propria perplessità circa i dati ufficiali del coronavirus. Una dottoressa invece è stata arrestata per aver prestato il telefono dello studio a un collega che intendeva denunciare alle autorità un sospetto caso di coronavirus allo scopo di far ricoverare in ospedale il paziente molto probabilmente contagioso. Sarebbero almeno 10 i medici e 6 i giornalisti arrestati da quando il virus ha colpito l’egitto, lo scorso febbraio, secondo le organizzazioni non governative che si battono per il rispetto dei diritti umani sanciti dalle Convenzioni Internazionali e ratificati anche dal Cairo. Nel frattempo, altri operatori sanitari e giornalisti hanno fatto sapere a queste Onlus di aver ricevuto moniti non proprio blandi da parte degli amministratori pubblici in cui gli intimano di stare in silenzio, altrimenti verranno puniti. Un corrispondente straniero è fuggito dal paese, temendo l’arresto, e altri due sono stati ammoniti per “violazioni professionali”. Il coronavirus intanto continua a diffondersi nel paese di 100 milioni, minacciando di sopraffare gli ospedali. “Ogni giorno che vado al lavoro, sacrifico me stesso e tutta la mia famiglia”, ha detto al Fatto un medico del Cairo, che ha parlato a condizione di anonimato per paura di ritorsioni, come tutti i medici menzionati finora. “All’inizio ne arrestavano pochi ma in modo eclatante per inviare agli altri un messaggio di terrore neanche troppo subliminale. Non vedo alcuna luce all’orizzonte”. I medici affermano di essere costretti ad acquistare maschere chirurgiche con i loro magri salari. La pandemia ha spinto il Sindacato medico egiziano, un gruppo professionale non politico, a ricoprire il nuovo ruolo di unico difensore dei diritti dei medici. Fino ad ora 117 medici, 39 infermieri e 32 farmacisti sono deceduti per Covid-19, secondo i dati dei membri del sindacato. Iran. Giustiziata “spia della Cia”: risposta agli incidenti nel sito nucleare? di Guido Olimpio Corriere della Sera, 15 luglio 2020 Dopo la misteriosa serie di esplosione a Natanz, gli ayatollah mandano a morte un iraniano, dipendente del ministero della difesa, sospettato di passare informazioni sul programma missilistico ai nemici Il cittadino iraniano Reza Asgari, accusato di essere una spia della Cia, è stato giustiziato pochi giorni fa. Lo ha annunciato il sito Mizan. L’ex dipendente del Ministero della Difesa era stato arrestato dai servizi di sicurezza che lo ritenevano coinvolto in operazioni per trafugare segreti militari. Informazioni poi finite nelle mani degli americani. In particolare - secondo la versione diffusa dalle autorità - avrebbe venduto dati riguardanti il programma missilistico, una delle punte del dispositivo strategico iraniano. Un mese fa circa era stata eseguita un’altra sentenza capitale, a finire sul patibolo un uomo ritenuto legato all’uccisione in Iraq del generale Qasem Soleimani. Uno dei molti episodi della guerra strisciante che contrappone Teheran a Usa e Israele. Dal 29 giugno l’Iran è stato teatro di numerosi incidenti, alcuni dei quali sono stati attribuiti ad atti di sabotaggio del Mossad. La lista si è aperta con le fiamme in una fabbrica di missili (regione di Parchin) ed è proseguita coinvolgendo siti industriali e militari, compreso il centro nucleare di Natanz (qui lo speciale del Corriere sugli incidenti nel sito). L’ultimo caso lunedì con un rogo nell’impianto di Kavian Fariman, Mashad, evento per il quale non si conoscono le cause. L’esecuzione di Reza Asgari può essere solo un elemento “collaterale”, ma che comunque rientra nella strategia del confronto, con gli ayatollah che mandano un segnale all’esterno. Non è la prima volta che in fasi critiche o di tensione Teheran annuncia retate o punizioni per gli avversari interni. Insieme alla morte della spia sono arrivate altre misure: 2 curdi sono finiti sul patibolo in quanto avrebbero organizzato un attentato a Mahabad nel 2010 (12 le vittime) e tre persone verranno mandate sul patibolo perché hanno partecipato alle proteste del 2019. I colpi segreti non precludono comunque altre strade. Comprese quelle negoziali. Gli Usa hanno rilasciato e rimandato in Libano l’uomo d’affari Kassim Tajideen che era stato condannato perché parte della rete di finanziamento del movimento filo-iraniano Hezbollah. La decisione è una coda dello scambio che ha portato alla liberazione di due cittadini statunitensi da parte di Siria e Iran. C’è la cosiddetta guerra segreta, ma anche un’attività diplomatica riservata attraverso canali speciali. Bahrein. Due condannati a morte perdono l’ultimo ricorso di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 luglio 2020 Il 13 luglio la Corte di cassazione del Bahrein ha rigettato l’ultimo possibile ricorso giudiziario di Mohamed Ramadhan Issa Ali Hussain e Hussain Ali Moosa Hasan Mohamed, condannati a morte dopo che erano stati giudicati responsabili di un attentato dinamitardo in cui, il 14 febbraio 2014, era rimasto ucciso un agente di polizia. Moosa, impiegato d’albergo, venne arrestato una settimana dopo; Ramadhan, addetto alla sicurezza dell’aeroporto internazionale del Bahrein, il 20 marzo. Durante gli interrogatori nella sede del Dipartimento per le indagini criminali, i due uomini vennero torturati per giorni: Moosa sottoposto a pestaggi e a scariche elettriche, Ramadhan picchiato e sospeso a testa in giù. Alla fine, Moosa si arrese a “confessare” e a incriminare Ramadhan. Il processo di primo grado si concluse il 29 dicembre 2014 con la condanna a morte, confermata in appello il 27 marzo 2015 e in Cassazione il 16 novembre dello stesso anno. Nel marzo 2018 l’Unità per le indagini speciali inviò all’ufficio del Procuratore un memorandum contenente le conclusioni di un gruppo di medici del ministero dell’Interno, che confermavano le denunce di Ramadhan sulle torture subite. Correttamente, il 22 ottobre 2018 la Corte di Cassazione annullò la sentenza e chiese all’Alta corte d’appello di rifare il processo. Da lì, una nuova condanna a morte emessa il 20 gennaio di quest’anno e, ieri, la conferma della Cassazione.