Il virus sia lo sprone per svuotare le carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 luglio 2020 Le raccomandazioni del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura. La pandemia ha colpito più duramente nei luoghi di detenzione in cui le precedenti raccomandazioni (spesso piuttosto datate) dello stesso Comitato non erano state attuate, invitando gli Stati membri a cogliere le opportunità generate dall’emergenza nonché a stabilizzare talune misure adottate durante la pandemia. È la conclusione della dichiarazione rilasciata dal Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt) in merito ai principi relativi al trattamento delle persone private della libertà personale nell’ambito della pandemia di Coronavirus. Il Cpt ha anche esortato gli Stati membri a metter fine al sovraffollamento carcerario, a ridurre il ricorso alla custodia cautelare in carcere, a ricorrere meno possibile alla detenzione di migranti e a progredire nella deistituzionalizzazione delle cure per la salute mentale. Inoltre, il Comitato aggiunge che le restrizioni non più necessarie dovranno essere immediatamente revocate. Il documento è stato tradotto dall’ unità relazioni internazionali del garante nazionale delle persone private della libertà ed è consultabile sul sito. Si legge che a seguito della pubblicazione dei Principi relativi al trattamento delle persone private della libertà personale nell’ambito della pandemia del coronavirus (Covid-19) del 20 marzo 2020, il Cpt ha chiesto a tutti gli Stati membri di fornire un resoconto delle misure concrete adottate nelle carceri come in altri luoghi di privazione della libertà. Il Cpt ha espresso il suo apprezzamento per le costruttive e dettagliate risposte giunte da quasi tutti gli Stati membri. Le informazioni fornite suggeriscono che in molti Stati sono stati prontamente presi provvedimenti per proteggere le persone private della libertà da possibili contagi e sono state introdotte misure per compensare le restrizioni imposte per motivi di salute pubblica. In particolare, gran parte degli Stati membri fa riferimento al maggiore ricorso a misure non custodiali come alternative alla detenzione, come la sospensione/differimento dell’esecuzione della pena, l’impulso dato alla libertà condizionale, la libertà provvisoria, la trasformazione della reclusione in arresti domiciliari o in un uso prolungato del monitoraggio elettronico. “Misure di questa natura possono chiaramente avere un impatto positivo sul diffuso fenomeno del sovraffollamento carcerario”, scrive il Cpt. Infine, il comitato ha ricordato l’importanza cruciale nella prevenzione dei maltrattamenti delle attività di monitoraggio dei luoghi di detenzione da parte di organismi indipendenti, nazionali e internazionali, di tutela dei diritti umani. In particolar modo ricorda il ruolo fondamentale del garante nazionale delle persone private della libertà. Ingiusta detenzione, la legge sbarca in Commissione giustizia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 14 luglio 2020 Enrico Costa, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Montecitorio, è stato di parola: trascorso il periodo previsto dal regolamento della Camera per ripresentare una proposta di legge bocciata dall’Aula, lo scorso maggio ha depositato per la seconda volta il testo di riforma della norma sulla riparazione per ingiusta detenzione. Quella dell’azione disciplinare a carico dei magistrati che arrestano gli innocenti è un vecchio cavallo di battaglia dell’ex vice ministro della giustizia del governo di Matteo Renzi. L’anno scorso, per poco, l’obiettivo non venne raggiunto. Ma andiamo con ordine. La riforma voluta da Costa prevede che all’articolo 315 del codice di procedura penale sulla riparazione venga inserito il comma tre bis: “La sentenza che accoglie la domanda di riparazione è trasmessa agli organi titolari dell’azione disciplinare nei riguardi dei magistrati, per le valutazioni di competenza”. Cioè il ministro della Giustizia e il procuratore generale della Cassazione. Inoltre, viene previsto come illecito disciplinare per i magistrati quello di aver arrestato una persona, che risulterà poi essere innocente, con “negligenza e superficialità”. Nel 2019, governo giallo verde ante Papete, la riforma sembrava cosa fatta. Il 19 giugno, in particolare, il testo era stato approvato all’unanimità in Commissione giustizia alla Camera. Trascorsa una settimana era però stato bocciato dall’Aula con 242 voti contrari, 100 assenti e 5 franchi tiratori tra gli esponenti della maggioranza. “Si tratta di una norma di civiltà”, aveva detto Costa, affermando la necessità di “abbandonare la cultura della comoda deresponsabilizzazione” secondo la quale al magistrato che arresta un innocente non succede nulla. Nella scheda di presentazione della riforma Costa ha ricordato come “dal ‘ 92 ad oggi 28mila persone sono state arrestate ingiustamente e risarcite per una cifra complessiva che supera gli 800 milioni di euro. Ora sarà possibile promuovere l’azione disciplinare nei confronti di quei magistrati responsabili di ingiuste detenzioni”. La discussione in Commissione lo scorso anno era stata articolata e molto approfondita: fra gli auditi anche i giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, creatori del sito errorgiudiziari.com, il portale che da anni raccoglie i casi di ingiusta detenzione. Come spesso accade sui temi sensibili per le toghe fra il voto in Commissione e quello dell’Aula era intervenuta l’Anm con lungo comunicato in cui bocciava senza appello la riforma voluta dal parlamentare azzurro. “La modifica proposta - dissero i vertici dell’Anm - è inutile e può costituire un rischio di condizionamento nell’adozione di iniziative cautelari in palese contrasto con l’invocata necessità di un maggiore severità a tutela della sicurezza dei cittadini”. “Il nostro ordinamento - sottolinearono le toghe - già prevede efficaci strumenti per l’accertamento di eventuali errori e un rigoroso sistema di responsabilità civile e disciplinare”. Parole che fecero presa sui parlamentari. Questa volta dovrebbe andare diversamente. Il testo ha infatti l’ok del Guardasigilli. Vale la pena ricordare che attualmente il 90 per cento delle ingiuste detenzioni non viene risarcito sulla base del presupposto che il sottoposto a cautela ha “contribuito” colposamente all’errore ad esempio, nell’ambito delle normali strategie difensive, avvalendosi della facoltà di non rispondere. I numeri forniti da Costa, allora, sarebbero molto più alti. Relatore della riforma è il forzista Pierantonio Zanettin, ex componente del Csm nella scorsa consiliatura. Quel diritto negato al cibo sano non riguarda solo Battisti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 luglio 2020 “Ai detenuti e agli internati è assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima”. Così recita l’articolo 9 dell’Ordinamento penitenziario. In carcere il diritto al cibo deve, o dovrebbe, essere contemplato. All’indomani della notizia che l’avvocato di Cesare Battisti, Gianfranco Sollai, ha presentato un reclamo segnalando la scarsità e la bassa qualità del cibo somministrato, subito si sono avvicendate polemiche trasversali. Da Matteo Salvini che scrive su Facebook “assassino comunista si lamenta del menù in carcere? Taci e digiuna, vigliacco”, all’onorevole del Partito democratico Stefano Pedica che commenta: “Evidentemente, dopo essere sfuggito alla giustizia per anni, pensava di poter scontare l’ergastolo in un hotel a 5 stelle”. Si ripete la retorica che i detenuti stanno quasi un albergo, perché mangiano e dormono gratis. Peccato che non sia vero. In realtà è il detenuto che paga. Infatti, secondo il nostro codice penale, è obbligato a rimborsare all’erario dello Stato le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena, e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili e immobili, presenti e futuri. Infatti, quando finisce di scontare la pena, arriva il conto a casa. Non si capisce, anche alla luce di questo, perché un detenuto non debba rivendicare il diritto al cibo sano e sufficiente. Nelle carceri italiane l’alimentazione è competenza esclusiva dell’Amministrazione Penitenziaria. Il ministero della Giustizia fornisce le cosiddette “Tabelle vittuarie”, degli elenchi di alimenti da fornire durante la giornata ripartiti in due versioni, una estiva ed una invernale. L’approvvigionamento degli alimenti viene fatto attraverso gare di appalto che forniscono il cibo durante tutto l’anno. La consegna è quotidiana, a causa della deperibilità di molti dei prodotti forniti. Nelle tabelle sono indicate anche la varianza settimanale dei cibi ed il numero dei pasti da fornire alle persone detenute. Alcune strutture penitenziarie hanno reso obsolete le cucine (perdendo posti di lavoro retribuiti a detenuti) e si sono avvalse di catering esterni, realizzando una spesa complessiva minore. E non di rado, accade anche che riducono così tanto i costi che il cibo non è sufficiente. Qualche anno fa, come riportato sul Dubbio, il Tar del Piemonte ha sospeso la gara indetta dal ministero della Giustizia relativa all’affidamento del servizio di mantenimento dei detenuti. I giudici hanno specificato come la diaria giornaliera (€ 3,90 per detenuto per tre pasti quotidiani) indicata a base d’asta non fosse sufficiente a garantire una offerta di qualità, competitiva e remunerativa. D’altronde se con tre euro e 90 viene garantita la colazione, il pranzo e la cena di ciascun detenuto, non è difficile immaginare che nessuno di loro riesca a sfamarsi con quello che lo Stato ha offerto. Solo Cesare Battista subisce il problema del cibo scadente? Ovviamente no. Proprio in questi giorni, abbiamo ricevuto una lettera collettiva dei detenuti del carcere di via Spalato, a Udine. “Dichiariamo - scrivono i reclusi - che è da mesi che ci lamentiamo per la piccola quantità di cibo che viene distribuita, e anche, altra cosa grave, che alcuni di noi hanno portato in visione all’ispettore di turno cibo crudo, cibo scaduto e maleodorante”. Non solo, denunciano che alcuni detenuti hanno trovato nel loro piatto di spinaci e gnocchi anche scarafaggi morti. “Tutto questo lo lamentiamo da mesi - scrivono i detenuti del penitenziario di Udine - e anche veniva portato in visione il mangiare scaduto e avariato ad un ispettore di turno, e lui lo segnalava anche, ma continua tutt’ora lo stesso; addirittura persone che hanno avuto problemi alla pancia, chi vomito ed alcuni, più fortunati, si astengono al ritiro del vitto”. Il diritto al cibo nelle condizioni di privazione della libertà è vitale. Situazioni come queste descritte, sono delle violazioni disumane e degradanti. Le indignazioni scaturite contro l’istanza presentata dall’avvocato di Battisti sicuramente assecondano le pulsioni popolari, ma alimentano l’idea di un sistema penitenziario simile alle carceri turche come il celebre film “Fuga di mezzanotte”. Battisti chiede caviale? No, solo riso in bianco di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 luglio 2020 Sta scontando la pena all’ergastolo nel carcere di Oristano, da quasi due anni è in isolamento e non può neanche cucinare. Ha problemi di salute e ha bisogno di un’alimentazione sana. “Taci e digiuna, assassino comunista”. “Era abituato al caviale. È dura la vita per gli assassini che pagano per i loro crimini”. Non si sono certo tirati indietro Matteo Salvini e Giorgia Meloni con commenti che mai potrebbero apparire sulla bocca del loro alleato storico Silvio Berlusconi. L’assassino di cui parlano è naturalmente Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Pac che sta scontando la pena dell’ergastolo nel carcere di Massama, in Sardegna. La notizia è (dovrebbe essere) di ordinaria amministrazione carceraria: un detenuto il quale, durante una seduta del tribunale di sorveglianza, spiega il perché di una richiesta avanzata all’amministrazione penitenziaria. In questo caso si parla di salute, di un cittadino di 65 anni con diverse patologie che chiede un’alimentazione adeguata alla propria situazione sanitaria. Magari vorrebbe potersi cucinare un riso in bianco con una zucchina bollita. Oppure una patata lessa. Ma scoppia il finimondo. Perché, quando si parla di Cesare Battisti, la bava alla bocca si fa subito schiuma e le invidiuzze sociali si accompagnano a qualche frustrazione di chi si crede intellettuale e non riesce a convincere gli altri di esserlo. Quindi picchia duro sul più debole, il carcerato. Così, a uno sbrigativo Alberto Torreggiani che ha deciso essere l’alimentazione preferita di Battisti “ostriche e pasta alle vongole”, si accompagna immediatamente l’insulto più sanguinoso, “gauche caviar”, l’equivalente francese del nostro “radical-chic”. Perché quello che infine si rimprovera a Cesare Battisti, mentre delle migliaia di terroristi che hanno rapinato e ucciso negli anni settanta nemmeno uno è in carcere, non è solo il fatto di aver assassinato, ma di esser diventato uno scrittore e di esser stato difeso da una parte consistente dell’intellighenzia francese di sinistra. Perché a Parigi, durante gli anni di latitanza protetti, i suoi come quelli di tanti altri, dalla “dottrina Mitterand”, lui ha pubblicato diversi noir e ha trovato la solidarietà di Fred Vargas (che sul suo caso ha anche scritto un libro), di Bernard Henry Levy e persino di Gabriel Garcia Marquez. Erano tutti convinti della sua innocenza? Difficile dirlo, come del resto della gran parte dei tanti italiani che in quegli anni si erano rifugiati in Francia. Ma una cosa è certa, che i giuristi francesi che avevano esaminato le leggi emergenziali e le procedure con cui si conducevano le inchieste sul terrorismo in quegli anni in Italia erano inorriditi. Largo uso dei collaboratori di giustizia, processi indiziari e celebrati, come nel caso di Battisti, in contumacia, non sarebbero mai stati possibili in Francia. E questo è il motivo principale per cui una persona pur condannata all’ergastolo (l’unico comunque tra i suoi ex compagni) ha potuto godere di un cordone protettivo durato molti dei quasi quarant’anni della sua latitanza. A nessuno interessa particolarmente del cittadino detenuto Cesare Battisti, neanche dei suoi diritti più elementari. Il giorno del suo arrivo in Italia e dell’arresto pareva un uomo piccolo e spaventato atterrato non sapeva dove. E il ministro Bonafede (ma si può definirlo “ministro” uno così?) si è fatto regista di un bel filmatino con tanto di musica rock per celebrare l’evento e umiliare il corpo di un prigioniero. Una volta arrestato e timbrato sulle mani lui è stato internato in un carcere sardo, ben lontano dal luogo dei suoi processi, Milano, in modo che si potesse torturare ben bene chiunque, parenti o amici, avesse la peregrina intenzione di andare a trovarlo. È in isolamento illegittimamente, mentre una sentenza diceva “sei mesi”, e lui è separato da chiunque altro da oltre due anni. Chiede di essere curato e gli danno Voltaren e Tachipirina. Nessuna visita specialistica, per lui. Non può cucinare perché i terroristi, come i mafiosi e altri ultimi della terra, non ne hanno diritto. Chiede infine che, oltre a tutti i problemi di salute che ha già, non gli si faccia venire anche un’ulcera perforante, e viene irriso: volevi il caviale, eh? No, volevo il riso in bianco. Gli fanno pagare le sue tante vite, perché da proletario e rapinatore è diventato terrorista e politico, e poi scrittore e amico di tanti intellettuali. E infine una sorta di migrante, in giro per il mondo, per sfuggire a quel che poi, infine, gli è capitato. In fondo a una lettera, che ha scritto quando gli è stata rifiutata la possibilità di scontare la pena, nei mesi per pericolo di contagio da Covid-19, a casa di suoi parenti, cita la famosa frase di Victor Hugo che consigliava, prima di dare il proprio giudizio sulla civiltà di un Paese, di visitare le sue prigioni. Pensate che scandalo se il pensatore francese avesse parlato anche del cibo! Taci e digiuna, miserabile, qualcuno avrebbe potuto dirgli. “Condannate a morte Battisti, fate prima” di Simona Musco Il Dubbio, 14 luglio 2020 Davide Steccanella, difensore dell’ex Pac: “Sulla vicenda del cibo una strumentalizzazione ignobile. Ma così lo Stato smette di essere credibile”. “Faccio questo lavoro perché pensavo di stare in uno Stato di diritto. Ma alla luce di tutto quello che accade, cosa dovrei dire, che aveva ragione Battisti a contrapporsi allo Stato?”. Davide Steccanella di mestiere fa l’avvocato. E difende una persona scomoda, Cesare Battisti, da sempre personaggio controverso, che solletica i peggiori istinti forcaioli. L’ultimo scandalo che lo riguarda - perché tale è diventato - è quello relativo al cibo. Il fatto è semplice: essendo malato di epatite e prostatite, racconta Steccanella al Dubbio, il cibo del carcere fa male alla sua salute. Vorrebbe avere, come gli altri detenuti, la possibilità di cucinare da sé, con un fornelletto, il cibo più adatto alle sue condizioni. Ma la cosa si è trasformata subito in qualcos’altro. Ovvero nella richiesta di un privilegio, di un trattamento di favore, agli occhi di chi, il giorno del suo arrivo in Italia, sfilava all’aeroporto come sopra un palco. Il tutto nonostante Battisti, da un anno, viva una condizione di isolamento illegittima. Per i giudici di esecuzione, il suo ergastolo - da scontare per omicidio e rapina, commessi ai tempi della sua militanza fra i Proletari armati per il comunismo - è uguale a quello di altri detenuti comuni. Niente 41bis, niente isolamento. Ma il ministero della Giustizia, per lui, ha disposto l’alta sorveglianza, spedendolo in un carcere - quello di Massama, in Sardegna - dove è l’unico in tale condizione. E quindi da solo, nonostante il suo periodo di isolamento, stabilito da una sentenza, fosse di soli sei mesi. In quelle condizioni, dunque, il fornelletto in cella non è ammesso. Così come inutile è chiedere perché sia ancora isolato da tutti: nessuno risponde. Avvocato, come sono andati i fatti? Come sempre è stata fatta una strumentalizzazione vergognosa. Battisti ha fatto presente le sue condizioni di salute e non si è lamentato del menù in carcere, come qualcuno ha detto, ma ha semplicemente chiesto al magistrato di sorveglianza la possibilità di poter cucinare nella propria cella i cibi che gli vengono procurati e che sono più giusti per la sua alimentazione, cosa che viene concessa a tutti. Quindi non si trattava di una lamentela per il cibo cattivo? No e sarebbe stata una scemenza, anche perché non si va dal magistrato di sorveglianza a dire che non ti piace il menù del carcere. Reclamava il diritto, che hanno gli altri detenuti, di poter cucinare in cella gli alimenti compatibili con il proprio stato di salute, perché ha notato un peggioramento delle proprie condizioni a seguito della somministrazione del cibo carcerario. Che sarà buono o cattivo, ma non è quello il fatto in discussione: contiene un certo tipo di grassi che gli provoca dei disturbi. Questa era la notizia, che è diventata “Battisti si lamenta del menù”. E ieri sera, sinceramente, vedere il Tg5 intervistare il figlio di Torregiani mi è sembrato troppo. Torregiani è una vittima, perché per lei è sbagliato? Massimo rispetto per le vittime, ma cosa significa intervistarlo sul problema del cibo in carcere per Battisti? Cosa c’entra questo con il diritto della vittima ad avere giustizia? Cosa c’entra con la giustizia riparativa? È normale, da vittima, che risponda che è abituato a mangiare le ostriche. Ma non è giusto che rivendicare un diritto venga fatto passare come una lamentela. Così come se dice che è preoccupato del contagio, perché ha l’epatite, diventa uno che ne approfitta per andare a casa libero e bello per il Covid. Tutto, sin dall’inizio, è stato affrontato così. Sin dal suo arrivo in Italia, con il ministro che si faceva i selfie in aeroporto. Qual è lo status di Battisti, attualmente? Si trova in isolamento, in maniera illegittima, da un anno. Perché il ministero lo ha classificato come “As2” (alta sorveglianza, ndr) in un carcere in cui sapeva non esserci altri detenuti nella stessa situazione. Il che significa che, scontati i sei mesi di isolamento stabiliti dal tribunale 41 anni fa, doveva essere messo in condizione di vivere la detenzione come tutti gli altri. Ma hanno fatto in modo di mandarlo in un isolamento, di fatto, irreversibile, che tuttora perdura. Ho scritto al presidente del Dap, al dirigente, al Garante, a tutti, segnalando l’illegittima detenzione in isolamento che dura da più da un anno. Nessuno mi ha risposto, esclusa una comunicazione verbale da parte del carcere con la quale è stato spiegato che la declassificazione è stata respinta. Perché? Quando ho chiesto di conoscere le motivazioni, dato che l’ultimo delitto di Battisti risale al 1979, in un periodo storico ben preciso, non ho ricevuto risposta. Sono state più di 6mila le persone condannate per i fatti di quegli anni, nessuno di loro è stato in alta sorveglianza, quindi vorrei capire perché farlo 40 anni dopo i fatti. Che alta sorveglianza ci vuole? Scrivetemelo! Ma non è possibile avere risposta. Non credo che uno Stato democratico possa permettersi di non fornire le motivazioni di un provvedimento. Che conseguenze ci sono? Intanto la vicenda del fornelletto, che di per sé potrebbe essere una stupidaggine, ma si riverbera sulla sua salute. Ma anche per poter parlare con il figlioletto di 5 anni in Brasile, in collegamento Skype, abbiamo fatto il diavolo in quattro. È riuscito a parlarci dopo oltre un anno di detenzione. È giusto che Battisti sconti la pena, ma perché deve farlo in un regime speciale 41 anni dopo il fatto? È questo che non comprendo. E dopo tutto questo, la soluzione che ventilano è di mandarlo a Rossano Calabro, ancora più lontano dalla famiglia - che non ha le risorse per sostenere le spese per le visite - e dal difensore. Quindi il soggetto non è condannato ad una forma, legittima, di detenzione, ma ad una tortura, perché è isolato da tutti. Senza nemmeno poter cucinare in cella. Ma tale regime speciale è frutto della decisione di un giudice? No: i magistrati di esecuzione, nel rigettare la mia richiesta di concedere i 30 anni di reclusione, così come sottoscritto dall’Italia con il Brasile, hanno stabilito che non deve essere sottoposto a regimi speciali, ma a quello ordinario, perché i fatti risalgono al 1979. Il ministero ha però deciso, a suo insindacabile giudizio, che va tenuto in regime di alta sorveglianza. E in alternativa di mandarlo a Rossano, insieme ai terroristi islamici. Ha senso questo? Io di mestiere faccio l’avvocato, sono figlio di un magistrato e ho fatto il carabiniere, devo credere nelle istituzioni, ma vedo un ex vice premier che di fronte ad una richiesta del genere dice “taci e digiuna, assassino vigliacco” e vedo che viene intervistato Torregiani perché venga a dire al pubblico che è abituato a mangiare le ostriche. Mi trovo ad assistere una persona il cui nome scatena gli istinti più beceri e quello che trovo grave è che lo Stato finisca per essere ostaggio dell’opinione pubblica. Perché questo trattamento ingiusto è frutto dell’incapacità di andare contro la pancia della gente. Non trovo altra spiegazione. Battisti viene presentato come un mostro, come se avesse inventato lui la lotta armata, ma mentre chi lo ha fatto evadere, nel 1981, ha continuato a combattere lo Stato, salvo poi magari pentirsi o dissociarsi scontando due anni di galera, lui è andato via dall’Italia, senza continuare quella lotta. Qual è la sua colpa, quella di non essersi costituito? Forse quella di aver passato tanti anni da uomo libero… Ma lo Stato non può far scontare altro oltre alla pena che ha stabilito. Una volta che è stato preso, prendendo peraltro con il Brasile un impegno che non ha rispettato, ha pensato solo all’effetto retributivo della pena, non certo a quello rieducativo. Aveva 25 anni all’epoca, in un periodo storico decisamente diverso, che pericolo rappresenta, a 65 anni, per la collettività Cesare Battisti? Qual è il criterio per cui mettere un detenuto in alta sorveglianza? Il rischio che riprenda la lotta armata? Bisogna ricordare che nel frattempo è vissuto nella legalità, come libero cittadino, con tanto di documenti, che viveva alla luce del sole e che non ha più commesso un reato. L’ultimo risale al 1979. Perché secondo lei c’è questo regime speciale? Perché si vuole fargli pagare il fatto che per 40 anni non sono riusciti a prenderlo. Ma questo non è colpa sua. A parte che tutti dimenticano che, tra una cosa e l’altra, ha passato circa 10 anni di carcere. Mi va bene che sconti la sua pena, ma perché così? Oltretutto dovrebbe trovarsi a massimo 300 km di distanza dai parenti, invece così non può nemmeno ricevere visite. Ma tutto ciò non espone lo Stato al rischio di violazioni di legge? Certo, però qui il problema è prima di tutto pratico. E io mi aspetto che il ministero, seppur tardivamente, prenda atto dell’illegittimità di quello stato di detenzione e provveda. Invece gli negano la declassificazione e mi negano la possibilità di ricorso amministrativo. Non riesco a capire la motivazione, se non che si chiami Cesare Battisti. E questo nonostante appena rientrato in Italia, come primo atto, abbia chiamato, mio tramite, il procuratore Nobili, ammettendo di aver preso parte ai Pac, come peraltro non ha mai negato. Non rivendica nulla, ma qualsiasi cosa faccia viene immediatamente stigmatizzato. Sono allibito. E alla fine non è un problema solo di Battisti. In che senso? Se scardini la cultura del diritto del nostro Paese e consenti ad un leader politico di parlare così, senza indignazione, travolgi il sistema dei diritti e dopo i danni saranno per tutti. Un giorno ci accorgeremo delle conseguenze di ciò che abbiamo fatto per seguire questa pancia forcaiola. Ci rimetteremo tutti, ce ne pentiremo, ma sarà troppo tardi. Se vogliamo la giustizia sommaria, allora mettiamo francamente una forca in piazza, che ci costa anche meno. Ma da avvocato non voglio fare da complice, perché così fornisco un alibi, fingendo che vada tutto bene, perché data la mia presenza il diritto di difesa è garantito. Si dica chiaramente che per Battisti e Vallanzasca non valgono le regole, non servono avvocati né giudici e allora quei soldi spendiamoli per altre ragioni. Però si abbia il coraggio di dirlo, senza spacciarci per Stato di diritto: lo abbiamo abbandonato, il diritto, in questi casi. Uno Stato debole, che è soggetto alla pancia del Paese, per non scontentarlo, ha abdicato alla sua funzione. Battisti, a suo tempo, voleva combattere lo Stato, torna dopo 40 anni in Italia, lo convinco, contrariamente a quanto pensava allora, che è un Paese in cui il diritto esiste, cosa devo dire vedendo queste cose, che alla fine aveva ragione lui? Trovo a questo punto difficoltoso fare questo mestiere. Perché? Ho capito che finché non faccio cause che interessano mediaticamente la pancia del Paese allora posso stare tranquillo. Ma non appena difendo Vallanzasca o Battisti, che invece scatenano i peggiori istinti, si perde ogni ragione. Allora io dico: mi rivolgo ad uno Stato o mi rivolgo alla tribuna popolare del sabato sera? Cosa faccio, rinuncio al mandato per impossibilità di svolgere la mia funzione? Non è bello. C’è una continua costruzione del mostro ed è aberrante. Posso capire la stampa scandalistica e una certa propaganda politica, che però è ignobile, ma mi aspetto di avere uno Stato serio, che di fronte a queste cose si indigna. Dovrebbe risponderle il ministro della Giustizia… Ma visto che quando Battisti è arrivato in Italia si faceva i selfie la vedo un po’ dura. Il concetto è: buttate via la chiave. Se volete ripristinare la pena di morte, allora fatelo, facciamo prima. Ma non si può sventolare la Costituzione il giorno della festa e poi disattenderla in maniera così plateale. Non posso accettarlo. Non sono un eversore: voglio uno Stato serio e credibile, non uno Stato vendicativo da Far West. Vivere il carcere in sicurezza, ecco la nostra proposta fpcgil.it, 14 luglio 2020 Non è una battaglia tra detenuti e poliziotti. Aumenta il fenomeno delle aggressioni da parte dei detenuti ai danni del personale di Polizia penitenziaria, regna il sovraffollamento e diminuisce la sicurezza, a scapito del personale che lavora nelle carceri. Servono nuove regole che diano dignità al percorso dei detenuti e sicurezza ai lavoratori. Le vecchie misure non sono efficaci. La nostra proposta, presentata oggi al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, è quella della “progressione premiale”, un modello che valorizza il percorso rieducativo dei detenuti e che tutela il personale. Da sempre è in corso una diatriba su come dovrebbe funzionare il sistema delle carceri in Italia, su quanto sia realistica la possibilità del detenuto di riscattarsi e reintegrarsi nella società. Uno scontro epico tra chi vede quelle quattro mura come una semplice punizione e chi ne coglie l’aspetto rieducativo. E in questa diatriba c’è chi, da una parte, ha a cuore i diritti del detenuto e chi, dall’altra, pensa alla sicurezza degli agenti di Polizia penitenziaria e di tutte le altre figure che lavorano nel carcere. Come se una delle due cose dovesse escludere l’altra. Il carcere è un ambiente che il detenuto tanto quanto il poliziotto e tutte le figure che ci lavorano, hanno il diritto di vivere con serenità e secondo il fine stesso per cui è pensato. Convivere in un sistema detentivo costruttivo per il detenuto e sicuro e funzionale per i lavoratori è possibile, ma i problemi di sovraffollamento che le carceri italiane si trascinano da tempo ne hanno impedito la realizzazione. Basti pensare che la popolazione detenuta è aumentata in soli 4 anni di oltre 8 mila unità (passando dalle 52.164 del 2014 alle 60.760 del 2019). Oggi gli istituti penitenziari sono suddivisi in ‘circuiti detentivi’ in relazione ai reati commessi, e ad ognuno di essi dovrebbe corrispondere una diversa offerta trattamentale e una diversa vigilanza. Ma a causa del perenne sovraffollamento, la maggior parte delle carceri si sono trasformate in contenitori con detenuti in eccesso e di tutti i tipi. Ma come ristabilire un’organizzazione sicura e dignitosa per lavoratori e detenuti? La nostra proposta, presentata oggi al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, è quella di applicare la cosiddetta “logica della progressione premiale”. Cosa significa? Significa che la detenzione, per permettere il riscatto sociale del detenuto e per garantire la sicurezza di chi lavora, deve essere pensata come un percorso progressivo diviso in step. Vediamoli. Primo step: il detenuto ha l’obiettivo di rispettare tutte le regole dell’ordinaria convivenza e deve partecipare ad un programma trattamentale con risultati positivi, partecipando anche ad attività lavorative volontarie. In questa fase l’apertura della camera detentiva è minima e la vigilanza attenta e costante. La vigilanza deve avvenire con modalità differenti che non prevedano il contatto diretto che esporrebbe il personale di polizia penitenziaria ad un rischio troppo alto. Inoltre, visto il costante aumento del fenomeno di aggressioni al personale, i poliziotti devono potersi difendere: una soluzione potrebbe essere quella di dotarli di taser elettrico. In generale, la sezione deve essere resa più sicura: sistemi anti-scavalcamento sul muro di cinta, video-sorveglianza, postazioni di sentinella protette, impianto di allarme centralizzato e altro ancora. Secondo step: se il detenuto ha guadagnato la fiducia dell’amministrazione, il programma prosegue. In questa fase ha più tempo a disposizione da trascorrere fuori dalla camera detentiva, sempre in compagnia di detenuti che stanno facendo lo stesso percorso. La vigilanza verrà proporzionata al tipo di detenuti e di reato. In caso di condotta contraria alle regole e di violazione del patto di fiducia instaurato, il detenuto viene retrocesso al primo livello. Apertura delle camere detentive. Pensare che si recuperi la sicurezza all’interno delle carceri chiudendo i detenuti in cella per 22 ore al giorno è del tutto fuori strada. In questo modo si può produrre unicamente un aumento esponenziale dell’aggressività. Il detenuto deve essere spronato a vivere la propria detenzione in modo virtuoso: l’offerta di un maggior tempo da vivere all’esterno della camera detentiva è un’opportunità che, se sfruttata, consente la conquista di una vita detentiva migliore. Al contrario, non cogliere questa opportunità e assumere una condotta contraria all’ordine e alla sicurezza e tradire la fiducia concessa, significa privarsi di progredire verso condizioni migliori. Ampliamento delle opportunità lavorative. Il lavoro è un elemento fondamentale dentro il carcere: dà dignità alla condizione restrittiva e disincentiva dalla perpetrazione criminale. È inoltre uno strumento di nuove opportunità, che può favorire un giudizio positivo nei confronti dei detenuti che gli permetterà di accedere allo step successivo del percorso di progressione premiale. Una proposta, la nostra, che tenta di ridare dignità al percorso detentivo e vuole tutelare il personale di polizia penitenziaria, gli educatori, gli assistenti sociali, i dirigenti e tutte le figure che operano nel carcere, che non possono lavorare sentendo minacciata la propria incolumità. Questa non è una battaglia tra carcerati e carcerieri, è una battaglia per la dignità di tutti. E dobbiamo vincerla. Palamara chiama 133 testi per “processare” le correnti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 luglio 2020 Nella lista ex ministri, toghe entrate in politica, procuratori e membri del Csm. L’atteso elenco delle persone da convocare davanti al “tribunale dei giudici” martedì 21 luglio. Cento trentatré testimoni per processare la magistratura italiana e il suo sistema di autogoverno anziché lui, Luca Palamara, accusato di gravi illeciti disciplinari, tra cui l’indebita interferenza nelle “funzioni costituzionalmente previste” del Consiglio superiore della magistratura. Il tanto atteso elenco delle persone da convocare davanti al “tribunale dei giudici”, nel “processo” che comincerà martedì 21 luglio, è arrivato: l’ex pubblico ministero romano inquisito dalla Procura di Perugia per corruzione, e per il quale la Procura generale della Cassazione ha esercitato l’azione disciplinare, prova a ribaltare gli addebiti denunciando un andazzo generale al quale lui si sarebbe semplicemente adattato. Una linea difensiva che si trasforma in attacco, attuata citando i nomi più noti e altisonanti del mondo togato e istituzionale, della politica giudiziaria e dei Csm avvicendatisi negli ultimi trent’anni. Mancano il capo dello Stato Sergio Mattarella e il suo predecessore Giorgio Napolitano, ma ci sono i rispettivi consiglieri giuridici. E poi gli ex ministri della Giustizia Giovanni Maria Flick e Andrea Orlando, l’ex titolare della Difesa Roberta Pinotti; i magistrati (o ex magistrati) già parlamentari del Pd Anna Finocchiaro, Gianrico Carofiglio e Donatella Ferranti; i procuratori di Milano Francesco Greco, di Napoli Giovanni Melillo, di Palermo Francesco Lo Voi, di Bologna Giuseppe Amato, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho; ex magistrati di grido come Edmondo Bruti Liberati, Guido Lo Forte e Antonio Ingroia; gli ex presidenti dell’Anm Francesco Minisci e Eugenio Albamonte; gli ex vicepresidenti del Csm Cesare Mirabelli, Nicola Mancino, Michele Vietti, Giovanni Legnini, componenti passati e presenti del Consiglio, compresi alcuni componenti della Sezione disciplinare che deve processarlo. Un elenco sterminato, con il quale Palamara intende dimostrare che “esisteva una prassi costante, di “strategia” e comunque di interlocuzione” tra togati ed ex togati del Csm, le correnti di appartenenza e “i loro diretti referenti del mondo della politica” per ogni nomina, o quasi. E che lui era amico dei colleghi Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, vittime secondo la Procura generale di un tentativo organizzato di denigrazione. Palamara vorrebbe istruire un processo al “correntismo”, ma l’accusa disciplinare è circoscritta: a parte le trame contro Pignatone e Ielo, avrebbe tentato di pilotare dall’esterno del Csm la nomina del nuovo procuratore di Roma, come è emerso dall’ormai famosa riunione intercettata all’hotel Champagne di Roma con gli allora deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti (imputato a Roma) e 5 componenti del Consiglio, poi dimissionari. Un fatto specifico, per il quale la Sezione disciplinare del Csm dovrà decidere se ammettere o meno le decine e decine di testimonianze (compresa quella dell’autore di questo articolo, in relazione a due colloqui intercettati con Palamara nel maggio 2019) con le quali l’ex pm cercherà di sostenere che non c’era niente di strano nella sua manovra tesa a far nominare un procuratore di Roma al posto di un altro. Dalla lista di Palamara si evince che l’accusato vuole mettere sotto accusa decine di altre decisioni del suo Csm e di quelli precedenti. Qualcuno l’ha invitato a diventare “il Buscetta della magistratura”, ed ecco spuntare i richiami alle “nomine “a pacchetto” e alle vicende relative alle nomine dei presidenti di sezione della Cassazione successive alla sentenza del 1°agosto 2013 nei confronti dell’onorevole Berlusconi”. Su quest’ultimo punto, tornato al centro del dibattito politico nelle scorse settimane, Palamara vorrebbe chiedere lumi all’ex collega del Csm Piergiorgio Morosini (di Magistratura democratica) “sugli accordi tra gruppi successivi alla sentenza” che condannò definitivamente Berlusconi, facendolo decadere dal Parlamento. Molto più sobria e contenuta la lista dell’ex consigliere del Csm Luigi Spina: 16 testimoni (più tre co-incolpati, tra cui Palamara) per parlare del fatto contestato: i contatti e gli accordi della primavera 2019 per la nomina del procuratore di Roma. Giuliano Amato: “Si danno i remi in testa. Spero che la gente dica: ora basta” di Carlo Fusi Il Dubbio, 14 luglio 2020 Intervista a Giuliano Amato: “Nonostante l’occasione fornita dall’epidemia di comportamenti ispirati all’interesse della collettività alle prese con una sfida mai finora provata, le parti politiche sembra che proprio non riescano ad assumere comportamenti coerenti con l’esigenza di unità”. Nella settimana forse più difficile per il governo Conte che sulla vicenda Autostrade rischia l’osso del collo; con alle spalle le polemiche sullo stato d’emergenza e davanti il Consiglio europeo di venerdì che deve decidere sul Recovery Fund, cioè il futuro dell’Italia o giù di lì, vien voglia di chiedere (per il sottoscritto, una voglia incontenibile) a Giuliano Amato di mettere l’orecchio a terra alla moda dei pellirosse nei film western di quando eravamo bambini, e chiedere cosa sente battere nel cuore profondo del Paese, quale sentimento alligna negli italiani: se prevale la rabbia, la paura, la speranza. “È una buona domanda e me lo stavo chiedendo io stesso”, risponde il due volte ex premier e oggi giudice costituzionale. “Vede, a mio avviso la questione è questa. Noi abbiamo nell’agone politico atteggiamenti che continuano a riflettere una animosa e assai forte ostilità reciproca. Nonostante l’occasione fornita dall’epidemia di comportamenti ispirati all’interesse della collettività alle prese con una sfida mai finora provata, le parti politiche sembra che proprio non riescano ad assumere comportamenti coerenti con l’esigenza di unità”. Una demonizzazione l’un verso l’altro che ha poco di razionale e molto di viscerale… “Quando ne parliamo, il mio vecchio amico don Vincenzo Paglia commenta così: “È vero, dicono tutti che siamo sulla stessa barca, ma ci siamo per darci i remi in testa!”. Non proprio le parole che uno si aspetterebbe da un arcivescovo… Però è un commento corretto”. E al fondo di questo quasi voluttuoso randellamento, presidente, cosa c’è? “Non possiamo non dire che questa reciproca e insistita ostilità che presuppone un non reciproco riconoscimento, riflette certo fratture vecchie e fratture nuove che si sono prodotte nella nostra società. Ma col passare del tempo rispetto a quando queste fratture si sono aperte e manifestate ciò che mi chiedo se non altro l’intensità di questo darsi i remi in testa non rifletta una modalità comportamentale che è interna al ceto politico corrispondente a malanimo che soprattutto nella Rete si manifestano, ma forse non il maggioritario e profondo sentimento degli italiani che potrebbero a questo punto avvertire il fortissimo bisogno di un ceto politico che sia più ispirato al bene comune che non a questo continuo malmenarsi proprio con quei remi che dovrebbero al contrario servire per procedere vogando nella medesima direzione”. Litigando si affonda tutti insieme: è questo che sta dicendo, presidente? “Ho fatto mia non a caso la metafora di monsignor Paglia. Mi spiego. Tre anni fa, un grande sociologo spagnolo a me coetaneo: Victor Perez Diaz, fece ricerca che poi si tradusse in più scritti ed un libro sul rapporto tra la società civile spagnola e la politica, nella quale metteva in evidenza che nonostante la forza che stavano manifestando i due nuovi partiti che esprimevano il populismo “anti” - che poi erano Podemos da una parte e Ciudadanos dall’altra e che effettivamente ridimensionavano le forze politiche tradizionali - a domanda risponde: “La stragrande maggioranza degli spagnoli esprimeva come critica maggiore alla politica quella di non sapere trovare accordi sulle cose fondamentali da fare per il Paese”. Questo accadeva nel 2017. Io rimasi sorpreso da questa ricerca. Che tuttavia anticipava una evoluzione politica che la Spagna ha finito per avere, con un ridimensionamento se non dei partiti nuovi senz’altro della loro foga “nati”, e con certo un governo di minoranza e partiti tradizionali sempre in posizione minoritaria, ma con un consenso popolare che appare superiore a quello che esiste tra le forze di maggioranza e minoranza. Riflettendo su quella analisi, mi chiedo se gli italiani non comincino ad essere stanchi di un teatro politico che somiglia a quello dei burattini che a Roma si svolge al Gianicolo, dove c’è sempre una marionetta che picchia col bastone in testa ad un altro. Il cui principale messaggio è che l’altro sbaglia; che l’altro non sa fare nulla. Uno scenario di lite e non di costruzione di piattaforme condivise”. Presidente, quel è la maledizione che ci costringe al teatrino “bastonatorio” che lei descrive? “È una giusta domanda. Dobbiamo tornare molto indietro. L’Italia ha sempre avuto un problema del genere. Quando celebrammo il 150esimo dell’Unità d’Italia, ritornò in voga l’ode di Manzoni Marzo 1821: Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor. Diciamo che in quel modo Manzoni davvero gettava l’anima oltre l’ostacolo perché ad essere realisti non nel marzo del 1821 ma nel ‘61 era una d’altare se va bene, ma certo non di lingua, non di memoria, non di sangue o di cor. L’Unità d’Italia, l’unità degli italiani è sempre stato un fine da perseguire più che un risultato già acquisito. Nacque il Regno d’Italia e dovendo avere la Capitale a Roma già per questo nel giro di dieci anni arriva una frattura che riguardava la religione maggioritaria degli italiani, più pronti a seguire il parroco che non l’autorità politica. Per non parlare del Mezzogiorno col brigantaggio. E poi buona parte di quelli che avevano contribuito a realizzarla cominciarono a parlare di un’altra Italia: i giudizi di Mazzini, di Garibaldi, di Carducci che si scagliava contro i “brutti” francobolli, le brutte divise, eccetera. L’Italia nasce, vive e contiene in sé ciò che in linguaggio moderno definiamo “una coesione sociale incompiuta”. E così arriviamo al punto odierno, al proseguimento del randellamento reciproco e alle sue conseguenze. “Il punto è che, per limitarci agli anni di vita della nostra Repubblica, noi abbiamo avuto una leadership politica che si è posta come problema principale quella di suturare quelle fratture. Da De Gasperi a Togliatti a Nenni a Moro, abbiamo una sequenza di scelte politiche tutte consapevoli del fatto che c’è una frattura, che ciascuno di loro rappresenta una parte ma lavora perché ci sia una ricomposizione del tutto. Lo fa perfino Togliatti che rappresenta l’alternativa di sistema votando l’articolo 7 della Costituzione perché non vuole rappresentare soltanto una parte del Paese. È l’idea di Partito della Nazione che vuole percorrere un futuro che non concerne solo il pezzo d’Italia che rappresenta. Pensando a chi mi fu tanto amico, cito un libretto non tra i più noti di Antonio Ghirelli che racconta il lavoro di Nenni e Moro che insieme cercano di rafforzare le radici di una democrazia fragile, percependo che l’aver messo insieme i lembi del centro con quelli della Sinistra attraverso i socialisti è un passo che serve a rinsaldare l’unità degli italiani. E quindi entrambi sacrificano obiettivi a cui ambiscono, al valore dello stare insieme. dando così più forza ad una democrazia che cresce grazie a loro. Questa resterà sempre la ragione della grandezza di Aldo Moro: la percezione che se c’è una parte della società che resta “fuori”, beh va ricondotta dentro il circuito democratico-rappresentativo perché altrimenti siamo deboli. Segnalo anche un altro elemento decisivo. A quell’epoca c’era rispetto degli uni verso gli altri, nonostante le distanze. Anche perché alla fine c’era rispetto per chi comunque rappresentava così tanti elettori”. Dunque tornando per un secondo alla esperienza spagnola e a quello che insegna, lei sta dicendo che gli italiani sono più maturi di chi li rappresenta... “Direi di sì. Voglio insistere su un punto. Quando negli anni 70 una parte delle fratture si va ricomponendo - ricorda quando si parlava di solidarietà nazionale? - maturano le condizioni di una nuova, profonda frattura. Per due ragioni: i partiti che si essiccano, diventano più palazzo che società e la corruzione che prende piede in misura superiore al tollerabile generando Mani Pulite. Questo è il primo alimento dei movimenti populisti che arriveranno dopo, avvalendosi e agitando una nuova frattura. Quella tra “noi” cittadini e il Palazzo; noi e le élite, noi e la Casta che diventerà ancora più grave quando la crisi economica accentuerà le diseguaglianze togliendo futuro a molti. Ecco i populismi, che sono in partiti di governo e di opposizione. Ma hanno una caratteristica comune: che non legittimano più l’altro. Non operano più come parte che vuole connettersi al tutto bensì come parte che è il tutto. La maggioranza ha titolo a ignorare gli altri, decide anche contro il resto del Paese”. La domanda è semplice: esiste un antidoto a tutto questo? “L’antidoto è se alla lunga tutto questo per gli italiani diventa insostenibile. C’è chi vive di quel comportamento divisivo, scrivendo cattiverie nei social contro un altro e il giorno che finissero le cattiverei finirebbero anche lui o lei. Ma è ben possibile che esista una maggioranza di italiani che dice: ora basta. Basta. Ora insieme dobbiamo scegliere la via. Ora per cortesia i remi usateli per remare”. Presidente, per ricomporre chi deve fare il primo passo? “Ho sempre pensato e penso che le responsabilità sono diffuse. Ma chi governa ha quelle maggiori anche in questa fattispecie. Non c’è niente da fare. Ed è assodato che in una democrazia parlamentare, fare in modo che le decisioni si prendano in Parlamento, non limitandosi a dare agli altri un diritto di tribuna ma discutendo seriamente delle proposte degli uni e degli altri, e facendo in modo come si seppe fare negli anni ‘50 e ‘60 in un Parlamento molto più diviso di adesso, di far emergere le ragioni di tutti, se si riesce a fare questo gli italiani, anche quelli che appaiono più esasperati, si sentiranno maggiormente tranquilli e in mani più sicure”. Presidente, c’è un aspetto che in queste ora sta dividendo tutto e tutti: la decisione di prorogare lo stato d’emergenza per il Covid. Dal punto di vista del giusto bilanciamento dei poteri in una democrazia, è una scelta che lei condivide? “L’emergenza è una cosa grossa assai… Bisogna capire cosa intendiamo per stato d’emergenza, tenendo ben presente l’aspetto tecnico della questione. Penso che i giuristi che ne hanno scritto, a partire da Sabino Cassese, hanno illustrato bene alcuni termini del problema. Una cosa sono le urgenze cautelari di tipo sanitario e una cosa le misure d’emergenza che può stabilire la Protezione civile. Finora, per così dire, l’una si è infilato nell’altra”. E adesso, presidente? “Allora lo dico così. Io sono un ultraottantenne. Alcuni giorni fa ho letto un’inchiesta sul New York Times in base alla quale ho una probabilità 50 o 60 volte superiore di essere ucciso dal Covid rispetto a generazioni più giovani. Ebbene se in Italia l’emergenza finisce il 31 luglio e se con essa termina l’obbligo a mantenere le distanze sociali, a indossare la mascherina nei luoghi affollati e quant’altro…, beh personalmente mi sentirei piuttosto preoccupato. La mia domanda è: per tranquillizzare le persone serve lo stato d’emergenza o è sufficiente il potere di intervento che le ordinanze conferiscono al ministro della Salute?”. Aggressioni a medici e infermieri, pene fino a 16 anni di Marzio Bartoloni Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2020 Il Senato varerà nei prossimi giorni la legge per difendere gli operatori sanitari: oltre a inasprire le sanzioni il provvedimento prevede la procedibilità d’ufficio, salta l’obbligo per As1 e ospedali di costituirsi parte civile. Era diventata una vera e propria emergenza prima dello scoppio dell’emergenza Covid che per qualche mese ha rallentato il fenomeno. Ora però contro le violenze e le aggressioni contro medici e infermieri negli ospedali è in arrivo a giorni un’arma di difesa in più. Atteso da oltre un anno da tutto il comparto della sanità entro luglio il Senato dovrebbe definitivamente varare il giro di vite contro le violenze in corsia che con il ritorno degli accessi nei pronto soccorso, tra i luoghi più a rischio per chi indossa un camice, stanno purtroppo lentamente riprendendo dopo la forte attenuazione nei mesi del lockdown. Il provvedimento che nei giorni scorsi ha incassato il via libera della commissione Igiene e Sanità del Senato dove il Ddl è tornato dopo le modifiche della Camera prevede un inasprimento di pene e sanzioni per chi aggredisce operatori sanitari, ma anche campagne informative, un Osservatorio nazionale e una Giornata di sensibilizzazione ad hoc. Secondo un sondaggio del sindacato Anaao Assomed, il 65% dei medici afferma di essere stato vittima di aggressioni fisiche o verbali, soprattutto tra chi lavora al Pronto Soccorso. Mentre a essere aggrediti sono anche circa 5mila infermieri l’anno, secondo la Federazioni degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi). Si tratta però di stime. In molti casi, infatti, questi episodi non vengono denunciati. Per arginare questo fenomeno, divenuto appunto vera e propria emergenza di Sanità pubblica, il disegno di legge prevede la procedibilità d’ufficio, senza la querela della persona offesa, trattando i sanitari quasi come un pubblico ufficiale. In particolare il cuore del provvedimento sta nel fatto che si modifica l’articolo 583-quater del codice penale ai sensi del quale le lesioni gravi o gravissime sono punite con pene aggravate: per le prime reclusione da 4 a 10 anni e per le gravissime da 8 a 16 armi. La novità consiste nell’applicare le stesse pene aggravate quando le lesioni gravi o gravissime siano procurate in danno del personale “esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria nell’esercizio delle sue funzioni o a causa delle funzioni o del servizio, nonché a chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso”. Tra le circostanze aggravanti comuni del reato viene inserito l’avere agito nei delitti commessi con violenza e minaccia proprio in danno degli operatori sanitari o socio-sanitari. La legge attesa al varo dell’aula del Senato nei prossimi giorni prevede poi il monitoraggio dei cosiddetti “eventi sentinella”, che spesso anticipano le violenze. Inoltre fa nascere l’Osservatorio nazionale con il compito di monitorare l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione a garanzia di medici, infermieri ed operatori socio-sanitari. Dal testo finale è stato invece soppresso l’articolo che prevedeva che Asl e ospedali obbligatoriamente si costituissero parte civile nei processi di aggressione ne confronti dei propri dipendenti. “Accanto al rafforzamento delle condizioni penali, si aggiungono tanti altri strumenti, ad esempio abbiamo protetto tutti gli operatori sanitari ma anche i sociosanitari e sociali nell’esercizio delle loro funzioni indipendentemente dalle loro condizioni”, avverte Paolo Boldrini (Pd) relatrice del Ddl in commissione. “Ritengo innanzitutto - aggiunge la senatrice - sia bene promuovere la sicurezza sul lavoro perché è la base di un’assistenza sanitaria efficace e che le violenze, le intimidazioni, le aggressioni e le minacce possono ostacolare o impedire la prestazione di cura, che invece devono essere protette nel modo più efficace possibile”. “Con questo governo la Sanità - conclude Boldrini - ha assunto una rinnovata centralità anche prima del Covid e ora ancora di più con le risorse stanziate a seguito dell’epidemia con un incremento importante del Fondo sanitario malvisto prima, senza contare l’investimento tra attrezzature, infrastrutture e tecnologie. Anche il rafforzamento delle risorse umane nel Ssn è un aiuto fondamentale per evitare aggressioni dovute molto spesso ai disservizi causati per mancanza di personale”. Napoli. Detenuto affetto da un cancro alla gola, ignorate le istanze di trasferimento di Manuela Galletta giustizianews24.it, 14 luglio 2020 Tutelare la salute sempre e comunque. Anche se il diritto da preservare è quello di una persona che ha commesso un reato ed è in carcere per il saldare il suo debito con la giustizia. Così dovrebbe essere ma così non è. Non sempre. La storia di Antonio Avitabile, 44enne di Torre Annunziata (in provincia di Napoli), è una di quelle che racconta come sia difficile, per un detenuto, vedersi riconosciuto il diritto alla tutela della salute garantito dalla Costituzione. Una storia non rara, ma che raramente fa scalpore e sollecita l’interesse dei politici che, al contrario, sono sempre vigili quando si è in presenza di una scarcerazione concessa (per gravi motivi di salute). Avitabile è attualmente detenuto nel carcere di Poggioreale dove sta scontando una condanna definitiva per rapina. Tuttavia, denuncia l’avvocato Michele Riggi, la casa circondariale partenopea non è in grado allo stato di assicurargli tutte le cure adeguate al suo particolare e grave stato di salute. Avitabile è affetto da cancro della laringe, patologia attestata alla fine del giugno scorso dal medico legale Ernesto Izzo (nominato dall’avvocato Riggi). Il tumore si è ripresentato dopo molti anni a causa “di cure non adeguate”. E, adesso, rischia di mettere Avitabile in serio pericolo di vita. “Il mio assistito ha bisogno infatti di cure specialistiche e di un intervento chirurgico non più procrastinabili”, spiega l’avvocato Riggi che da diverse settimane lotta, a suon di istanze agli enti preposti, affinché ad Avitabile venga concesso il trasferimento in “una struttura sanitaria adeguata e attrezzata al delicatissimo e gravissimo caso concreto”. Una battaglia, quella del penalista, contro i mulini a vento. La malattia ha provocato ad Avitabile anche perdite di sangue dalla bocca, come certificato di recente dalla medicheria del carcere e riscontrato dal dottor Izzo. “È prevedibile che la protrazione dello stato di detenzione possa cagionare un grave pregiudizio per la integrità psico-fisica del condannato tale da esporlo al pericolo di vita considerata la grave patologia a prognosi infausta, difficoltà ed impossibilità eseguire da detenuto da quanto rappresentato, si specifica infine che le attuali condizioni di salute del signore Avitabile sono totalmente incompatibili con il suo stato di detenzione”, è un passaggio della relazione del dottor Izzo. Parole chiare, chiarissime. Che l’avvocato Riggi ha allegato nelle sue istanze. Ad oggi però Avitabile resta detenuto. Il penalista ha anche inviato una Pec al ministero della Giustizia chiedendo un intervento del ministro della Giustizia. Al momento non è arrivato alcuna risposta. Eppure il quadro clinico di Avitabile è complesso e delicato. E, come evidenzia con rammarico l’avvocato Riggi, “ogni giorno perso nell’approntare gli strumenti terapeutici più adeguati al gravissimo tumore da cui è affetto il sig. Avitabile, sarà un giorno in cui le speranze di salvare la vita del detenuto si assottiglieranno sempre di più”. Venezia. “Sentenze precompilate”. Bufera in Corte d’Appello di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 14 luglio 2020 Le Camere penali chiedono l’ispezione al ministero: “Gravità enorme”. Corte d’appello di Venezia nell’occhio del ciclone. L’Unione delle Camere penali del Veneto e i 7 presidenti delle Camere penali della regione, informata l’Unione nazionale delle Camere penali, hanno sollecitato il ministero della Giustizia a disporre un’ispezione urgente per quelle che ritengono essere bozze di alcune sentenze già scritte, con tanto di condanna e indicazione dei termini di deposito delle motivazioni, prima ancora che l’udienza venisse discussa. Un fatto di “enorme gravità”, ha denunciato il direttivo della Camera penale veneziana in una lettera inviata ieri a tutti gli avvocati per informarli di quanto accaduto e auspicare che venga restituita al più presto “chiarezza ai rapporti processuali ed al giudizio d’appello nella nostra Corte”. “Nessuna sentenza già scritta, ma una semplice bozza di ipotesi di decisione, predisposta dal giudice relatore sulla base di uno schema predisposto dal Csm e come consentito dalla Cassazione”, replica la presidente della Corte d’appello lagunare, Ines Marini. Tutto ha preso il via a seguito della segnalazione pervenuta da due legali veneziani in relazione all’udienza dello scorso 6 luglio di fronte alla prima sezione penale della Corte. Un avvocato comunica alla Camera penale di aver ricevuto a mezzo pec, con tre giorni di anticipo rispetto all’udienza di discussione, “le motivazioni della sentenza di rigetto ricavate attraverso quello che appare essere il copia e incolla di altra sentenza redatta nell’ottobre del 2016”. Quindi, il giorno dell’udienza, un’avvocatessa segnala che alle difese, prima che iniziasse la discussione, era stato consegnato “l’ordito motivazionale della sentenza, comprensivo del dispositivo, che disattende le tesi degli appellanti”. In aula chiede informazioni anche il sostituto procuratore generale, Alessandro Severi, e i casi vengono rinviati al 2021. Si trattava di procedimenti che, dopo la sentenza di prima grado, si erano prescritti per il troppo tempo trascorso, ma la decisione era in ogni caso attesa per la presenza di parti civili che reclamano un risarcimento per i danni sofferti. E, nel caso di condanna, poi prescritta in appello, il risarcimento è comunque dovuto. La Camera penale veneziana a sua volta protesta nei giorni successivi scrivendo una dura lettera sia alla presidente della Corte d’appello, che al procuratore generale, Antonello Mura. Ines Marini si attiva immediatamente chiedendo una relazione alla presidente del collegio giudicante, Luisa Napolitano e al coordinatore delle sezioni penali, Carlo Citterio, per poi dare riscontro alla richiesta di spiegazioni degli avvocati, trasmettendo loro i documenti richiesti. Le “copie autentiche dei verbali delle udienze e di ben 7 pronunce complete di motivazione e di dispositivo”, precisa la Camera penale veneziana, presieduta da Renzo Fogliata. “Uno sconcertante quadro documentale che rischia di legittimare l’ipotesi che esista una sorta di prassi di precostituzione del giudizio non solo rispetto alla camera di consiglio, ma anche alla discussione delle parti”, denuncia il direttivo dell’associazione che riunisce i penalisti della provincia di Venezia. In sostanza gli avvocati ritengono che le sentenze siano state scritte prima della discussione del processo, e dunque senza neppure ascoltare pubblico ministero e difensori. “Quegli schemi, del tutto legittimi, sono stati trasmessi per errore agli avvocati, gettando ombre su decisioni che vengono sempre prese in camera di Consiglio, dopo aver ascoltato tutte le parti - precisa Ines Marini. Sono sorpresa della decisione della Camera penale di rivolgersi al Ministero: non appena ho ricevuto la loro segnalazione mi sono immediatamente attivata per assumere i provvedimenti necessari, a garanzia della massima trasparenza e dunque trasmettendo tutti gli atti richiesti. Comprendo che gli avvocati possano avere frainteso, ma sono amareggiata. Le decisioni non erano state prese, lo ribadisco”. La presidente della Corte ricorda gli enormi sforzi compiuti in questi anni dalla Corte veneziana per cercare di gestire gli enormi arretrati con una cronica carenza di personale: “Abbiamo introdotto la relazione introduttiva scritta, anticipata agli avvocati invece che letta in aula, per cercare di accelerare i processi e per poterne trattare un numero superiore. Insomma, per offrire un servizio migliore. Spiace che si vogliano gettare ombre su un’attività svolta sempre nell’ambito dei confini costituzionali”. Napoli. “Fuori dalla gabbie”, il legame positivo tra il detenuto e il suo cane di Antonella Barone gnewsonline.it, 14 luglio 2020 Gli effetti positivi dell’interazione tra persone in stato di detenzione e cani o altri animali da compagnia sono ormai documentati da numerosi studi e ricerche. I risultati più apprezzabili sono stati riscontrati sul piano socio-relazionale dei detenuti e su quello della responsabilizzazione che il prendersi cura di un animale comporta. Il successo dei tanti progetti già avviati in istituti penitenziari italiani ha portato a una loro progressiva estensione ad altre realtà carcerarie e a diverse tipologie di detenuti. È di pochi giorni fa la sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra la Fondazione Cave Canem e la Casa circondariale di Napoli Secondigliano per la realizzazione del progetto “Fuori dalle gabbie”. La Fondazione, già partner di un’analoga collaborazione con la casa di reclusione di Spoleto, attiverà a breve un percorso formativo che offrirà ai detenuti coinvolti competenze per l’assistenza e la cura dei cani e dei gatti randagi, vittime di abbandono o di maltrattamenti. Il progetto, che inizierà con la parte teorica il 20 luglio, oltre a fornire un’occasione di riscatto sociale offre anche delle competenze spendibili all’esterno in prospettiva di un futuro reinserimento lavorativo. Il progetto “Qua la zampa” all’interno della casa circondariale di Pavia prevede, invece, la realizzazione di un canile negli spazi verdi del carcere. Protagonisti dell’accordo sono l’associazione di volontariato “Amici della mongolfiera Onlus”, il Dipartimento Veterinaria Ats Pavia, la clinica veterinaria S. Anna e la scuola cinofila “Il Biancospino” di Casteggio. La struttura consentirà soprattutto ai detenuti con problemi di carattere psichiatrico di prendersi cura degli animali e di conseguire il patentino di educatore cinofilo, una volta attivati i relativi corsi di formazione. Il progetto, finanziato dalla Fondazione Banca del Monte, rientra tra le azioni promosse dal Tavolo permanente in tema di sicurezza psichiatrica per il contenimento del disagio psichico delle persone detenute nel territorio della provincia pavese. Aversa (Ce). Piccole attività industriali in carcere pupia.tv, 14 luglio 2020 Piccole attività industriali in carcere: come la produzione di pannelli fotovoltaici, ad esempio. Una proposta concreta da inserire nel programma di Italia Viva per le Regionali 2020 in Campania, formulata da Mariano Scuotri, 21 anni, componente dell’Assemblea Nazionale del partito di Renzi e consigliere comunale della città di Aversa. “Data la consistenza della popolazione carceraria in Campania (terza regione italiana per popolazione) - spiega Scuotri - l’ente Regione può finanziare questa attività, trattandosi di una sua competenza (quella della formazione professionale): non farebbe concorrenza alle aziende già esistenti e ciò formerebbe i detenuti sia per la produzione industriale che per la posa in essere del prodotto”. “Trattandosi, poi, di attività che sono finanziate dal Fondo sociale europeo, - continua - i manufatti realizzati sarebbero già di proprietà della regione che li potrebbe poi cedere agli enti locali che ne facessero richiesta per i loro consumi energetici. In questo modo avremmo costruito una filiera no profit piena”. “Aggiungo - conclude Scuotri - che ci sono tanti brevetti industriali scaduti di attrezzature del genere che potrebbero essere rilevati a costi irrisori, e anche l’impatto sul sociale sarebbe immenso: ci sono comuni che impegnano parti importanti delle loro risorse per l’assistenza ai familiari dei detenuti, specialmente ai minori”. Napoli. Le Lazzarelle escono di galera napolicittasolidale.it, 14 luglio 2020 L’associazione che opera nel carcere di Pozzuoli apre un bistrot a Galleria Principe. Apre uno scorcio sui più bei progetti di rinascita carceraria italiani: il bistrot Le Lazzarelle. Ci lavoreranno le detenute del carcere di Pozzuoli dove la cooperativa Le Lazzarelle opera con la torrefazione del caffè dal 2010. Il 22 luglio alle 18 inaugura Lazzarelle Bistrot nella Galleria Principe a Napoli, in uno dei luoghi più belli e suggestivi della città. Il Bistrot, realizzato grazie al supporto della Fondazione Charlemagne, aspira a diventare un luogo di socialità, incontri e appuntamenti culturali, dove bere il nostro ottimo caffè e mangiare in modo sano ed economico. Un punto di snodo e di intreccio di relazioni autentiche che ospiterà anche i prodotti che provengono da tutte le realtà detentive del nostro paese e dove continueremo la nostra esperienza di riscatto ed emancipazione tutta femminile. Sono circa 70 le donne che la cooperativa ha seguito e formato dal 2010 all’interno del carcere nel progetto del caffè Le Lazzarelle, adesso è giunto il momento di uscire fuori dalle sbarre. “Questo è un progetto che abbiamo da un paio di anni - spiega la presidente Imma Carpiniello, aprirsi alla città era diventato fondamentale per delle donne chiuse in carcere tanto tempo. Vogliamo dare la possibilità alle detenute che lavorano con noi apprendendo la torrefazione di fare l’ultima parte della pena lavorando in esterna, grazie ai benefici delle misure alternative. Quando sei deprivato della libertà ti manca l’orientamento e la possibilità di relazionarti all’esterno ed è difficile cominciare a ripensare al quotidiano invece la chiusura del cerchio fa sì che le detenute possano reintegrarsi nella società in modo protetto e graduale. Le statistiche dicono che laddove inizi un percorso lavorativo in carcere la recidiva cala del 90%. L’abbiamo visto nel lavoro all’interno, e speriamo di riconfermarlo all’esterno”. Lo stato di emergenza e la sindrome da trincea di Antonio Polito Corriere della Sera, 14 luglio 2020 Il ritorno alla normalità è sempre un momento difficile per chi ha vissuto tempi eccezionali. Non si può avere nostalgia di un’epidemia, come non si può averne della guerra. Ma anche chi ha vinto una guerra, come Churchill, ha avuto nostalgia dello stato di emergenza che essa portava con sé, perché consentiva di chiedere al popolo “sangue, lacrime e sudore” e di ottenerlo senza discutere. La storia ci dimostra che questa nostalgia è perniciosa per i politici, e che a volerla prolungare oltre il dovuto si può finire per perdere le elezioni dopo aver vinto la guerra, come accadde proprio allo statista inglese nel 1945. Ma il ritorno alla normalità è sempre un momento difficile per chi ha vissuto tempi eccezionali. Perfino de Gaulle soffrì di questa sindrome della trincea: liberata la Francia, ma deluso dal tran tran democratico del dopoguerra, si ritirò dalla politica nell’”esilio” di Colombey-les-Deux-Églises. In tale compagnia, Giuseppe Conte può dunque essere scusato se, annunciando la proroga dello stato d’emergenza, ha dato la sensazione di trovarcisi a suo agio. I critici potrebbero notare che “emergenza” è qualcosa che emerge, un problema che si appalesa all’improvviso, ma purtroppo per noi il Covid-19 è tutt’altro che questo, nel senso che è emerso da tempo, viene da lontano e va lontano, ne conosciamo la pericolosità e abbiamo anche imparato a combatterlo molto meglio. Si potrebbe anzi dire che continuando a proporlo come un’emergenza il premier sottovaluti la capacità mostrata dal suo governo e dalle istituzioni pubbliche italiane nel fronteggiarlo e rinchiuderlo in sacche e focolai. Ciò che sta “emergendo”, piuttosto, è la crisi economica e sociale; ma quella non si risolve con i Dpcm. Qui non è in discussione se il Covid sia oppure no ancora attivo e pericoloso: lo è eccome, visto che ha appena fatto il record mondiale dei contagi in un giorno. E negli Stati governati dai negazionisti, come Usa e Brasile, le cose vanno anche peggio. Il dubbio è se vada ancora affrontato come un’emergenza. È del resto lo stesso governo a dirci che dobbiamo imparare a conviverci, che sarà ancora lunga. Ma se la convivenza è la nuova normalità, come si concilia con lo stato d’eccezione? C’è davvero bisogno di uno stato di emergenza per far rispettare norme già esistenti ma ormai dimenticate, come il divieto di assembramento e l’uso della mascherina? La nostalgia dell’emergenza può prendere non solo chi si è trovato ad avere in mano le leve del potere, ma anche i semplici cittadini. Al netto del dolore e del cordoglio che ha davvero unito tutti, ci sono tra i sei e gli otto milioni di italiani abbastanza fortunati da avere un lavoro che si può fare a distanza; e che dunque non solo non l’hanno perso, ma riusciranno anche a conciliarlo meglio con la famiglia e il tempo libero. Se sono uomini, non donne costrette a scegliere tra il figlio e il lavoro, e se hanno anche una casa comoda e spaziosa, immagino che molti di loro non siano così ansiosi di tornare alla vita di prima. È probabile che anche i percettori di reddito di cittadinanza, e in generale di sussidi o bonus non legati a un posto di lavoro, temano il momento in cui finirà l’emergenza, perché finiranno anche i soldi. Luglio e agosto si prestano bene all’evidente clima di rilassatezza nazionale. Ma che accadrà a settembre, se non si torna alla normalità? Ci sono pericolose distorsioni che lo stato d’emergenza inevitabilmente induce. Per esempio: sembra che la salute pubblica si misuri oggi con le variazioni percentuali del bollettino dei contagi, che si applicano tra l’altro a numeri ormai fortunatamente piccoli. Ma se pubblicassero un bollettino quotidiano dei malati di tumore in lista d’attesa negli ospedali scopriremmo che c’è purtroppo una “normalità” non meno grave e precedente all’emergenza. Verrebbe da pensare che l’indifferenza per i 37 miliardi resi disponibili dal Mes nasca proprio da questo strabismo: più facile tamponare l’emergenza che riformare il sistema sanitario. È apprezzabile che la presidente Casellati abbia deciso di mettere fine alla “invisibilità” della sua Camera (si vede che l’altro presidente, Fico, ritiene invece la sua visibilissima). Ma il problema non è tanto farsi vedere, anche se questa è sicuramente un’attività in cui al nostro premier - non il primo né l’ultimo - piace eccellere. Il guaio è che lo stato di emergenza è l’humus ideale per i rischi di “dispotismo democratico”, per quanto benevolo esso possa apparire; perché è la situazione tipica in cui “chi rifiuta di obbedire alla volontà generale vi sarà obbligato, lo si forzerà a essere libero”, e per cui si può chiedere a ogni cittadino “l’alienazione totale, con tutti i suoi diritti, alla comunità”. Sono, come è noto, frasi tratte da Il Contratto sociale di Rousseau. E spiegano bene perché la piattaforma dei Cinque Stelle non si chiami “Voltaire” o “Kant”. Intellettuali in rivolta: viva la diversità d’opinioni, basta col politically correct di Michele Marsonet Il Dubbio, 14 luglio 2020 Molti intellettuali americani e inglesi si sono apertamente ribellati alla dittatura del politically correct. La rivista Harper’s Magazine ha infatti pubblicato un manifesto firmato da nomi prestigiosi e di tutte le tendenze politiche. Insomma progressisti e conservatori uniti per di contrastare un fenomeno che negli Stati Uniti e in Inghilterra ha assunto dimensioni epocali, e giudicato dai firmatari pericoloso per le sorti della democrazia liberale. Il problema di fondo è il seguente. È lecito che qualcuno si veda censurare un articolo solo per il fatto di aver espresso opinioni discordanti da quelle dei talebani del politically correct? E può una rivista licenziare un collaboratore che osa mettere in dubbio il “pensiero unico” che si va diffondendo a macchia d’olio? Si può, infine, consentire a un ateneo la messa al bando di grandi personaggi del passato che hanno contribuito alla sua fondazione? Se parlassimo di Cina, Russia o Iran la risposta sarebbe implicita. In quei contesti sono le autorità governative a decidere cosa è corretto e cosa non lo è. Il dissenso degli intellettuali, ma anche dei comuni cittadini, non è ammesso e, al contrario, viene represso con durezza a volte estrema. Basti ricordare il caso di Hong Kong per rendersene conto. C’è una Verità di regime che i capi del partito al potere impongono senza remore per impedire che nella società civile si sviluppi il libero dibattito. Ora molti rappresentanti del mondo culturale e accademico anglo- americano hanno deciso che la misura era colma, e che occorreva fare qualcosa per impedire che Usa e Regno Unito diventino pericolosamente simili ai tanti regimi tirannici e autoritari che purtroppo prosperano nel mondo. Superando le differenze politiche, anche grandi, che li dividono, questi intellettuali hanno ritenuto opportuno parlare con voce unica per ribadire che la diversità d’opinione è sacrosanta e va difesa in ogni caso, anche quando non si concorda con quanto qualcuno dice e scrive. Per ricordare a quale livello di intolleranza siamo giunti, è importante osservare che tra i firmatari figura persino Noam Chomsky, celebre linguista e filosofo del linguaggio considerato - da sempre - un guru della sinistra radicale americana. Innumerevoli le sue prese di posizione contro l’establishment Usa, senza fare distinzioni tra democratici e repubblicani. Ebbene, anche Chomsky, uno dei simboli della contestazione studentesca degli ultimi decenni, ha firmato ed è sceso in campo per spezzare una lancia in favore della libertà di opinione e di parola. Con lui femministe storiche come Margaret Atwood e Gloria Steinem, intellettuali conservatori quali Francis Fukuyama, romanzieri colpiti dall’anatema degli ayatollah iraniani come Salman Rushdie. Ma anche l’autrice della saga di Harry Potter J. K. Rowling, messa in croce per aver detto che la distinzione tra uomo e donna appartiene alla natura, è non è un’invenzione culturale delle élite al potere. Un altro dei firmatari, il saggista anglo-olandese Ian Buruma, licenziato dalla New York Review of Books per aver pubblicato un saggio non in linea con le opinioni correnti, ha notato a questo proposito che “l’aria si è fatta irrespirabile”. O si trova il modo di porre termine a questa incredibile ondata di intolleranza (e di violenza), oppure le nazioni culla del liberalismo sono destinate in breve tempo a diventare dei Paesi autoritari. Chomsky, tuttavia, ha aggiunto considerazioni interessanti anche perché riguardano un’icona del pensiero marxista come Antonio Gramsci, tuttora popolare non solo in Italia e in Francia, ma anche nell’ambiente accademico anglo- americano. Il famoso linguista, oggi 92enne, sostiene che occorre battersi contro la “fabbrica del consenso”, indipendentemente dal fatto che, a proporla, sia la destra o la sinistra. Aggiunge inoltre che la celebre “egemonia culturale” elaborata da Gramsci, con i suoi corollari quali le figure degli “intellettuali organici”, altro non è che un tipico strumento della suddetta fabbrica del consenso. Chi la teorizza è convinto di stare dalla parte giusta perché ha compreso lo sviluppo inevitabile delle leggi marxiane della Storia, ed è quindi autorizzato ad imporre agli altri la propria visione del mondo. Cosa succede se non si riesce a convincere qualcuno circa la bontà della suddetta visione? In quel caso si deve ricorrere, sempre in nome della Storia, a metodi coercitivi (per il suo stesso bene). In altri termini lo si “rieduca”, magari in appositi campi come accadeva in passato nell’Unione Sovietica e accade ancor oggi nella Repubblica Popolare Cinese. Chomsky, socialista libertario (e spesso confuso), rifiuta nettamente questo metodo affermando che abbiamo a disposizione soltanto due strade: “possiamo fare come Hitler e Stalin o possiamo difendere la libertà di parola”, e tertium non datur. Adesso bisogna ora capire fino a che punto il manifesto sarà efficace, e se le tante autorità accademiche e giornalistiche che hanno ceduto senza combattere ai nuovi talebani avranno dei ripensamenti. La situazione è particolarmente grave in un’America che appare in guerra con sé stessa, proprio quando la Cina comunista sta sviluppando la sua battaglia per l’egemonia globale. Anche Chomsky, per quanto in tarda età, ha compreso che la tolleranza nei confronti delle opinioni altrui - e la loro difesa - rappresenta il vero baluardo della democrazia. Il razzismo della paura e il sospetto oscuro sui migranti di Luigi Manconi La Repubblica, 14 luglio 2020 Penso che quanti, ad Amantea (Cosenza), hanno bloccato una strada provinciale per protestare contro l’arrivo, in un vicino centro di accoglienza, di tredici migranti positivi al virus, non siano razzisti. Ci sarà pur stato qualcuno seriamente convinto dell’inferiorità genetica degli asiatici ma, a muovere la gran parte di loro, è stata, presumo, una condizione di ansia. Tanto più intensa quando la minaccia dell’epidemia appare destinata a insidiare la propria comunità dall’esterno. Dall’esterno: questo è il cuore della questione. Perché, altrimenti, non si spiegherebbe come mai analoghe manifestazioni, con relativo blocco stradale, non siano state organizzate contro gli spettatori - “poche le mascherine” - del più importante concorso ippico nazionale; o contro i 300 partecipanti alla festa notturna tenutasi a Porto Ercole sabato scorso; o, ancora, contro i bagnanti che hanno “assaltato” le spiagge romane senza il minimo rispetto delle misure di sicurezza (traggo queste notizie dalle cronache del Messaggero). In ogni caso, al netto di un’ombra di antico pregiudizio xenofobo, va notato che il rapporto migrante pandemia sembra costituire un nuovo motivo di allarme sociale. In parte pretestuoso perché, se è vero che dal primo gennaio 2020 a ieri in Italia sono approdati 8.988 profughi, quasi tre volte quelli dello stesso periodo del 2019, è altrettanto vero che si tratta di circa la metà degli sbarcati del 2018. Dunque, non si può parlare in alcun modo di “invasione”. Tuttavia, quella della prevenzione, del contenimento del contagio e dell’isolamento dei positivi è una questione molto seria. Ma essa si pone - non è un paradosso nei confronti degli italiani con altrettanta, e forse maggiore, urgenza di quanto si ponga per gli stranieri. D’altra parte, ad avviso del governo, più preoccupanti sarebbero i focolai che si accendono tra la Croazia e la Bulgaria, dovuti non a extracomunitari clandestini, bensì a cittadini europei scarsamente responsabili. Per quanto riguarda chi arriva via mare, la possibilità di controllo sanitario è agevolata dal fatto che a condurli sulle nostre coste sono navi mercantili, militari o delle Ong (più difficile il monitoraggio di quanti arrivano in piccoli gruppi sui cosiddetti “barchini”). Saggiamente, il ministro dell’Interno, già ad aprile, aveva predisposto un bando per la realizzazione di “strutture ricettive”, capaci di “assicurare l’applicazione delle misure di isolamento o di quarantena con sorveglianza attiva”. Che ne è di questo progetto? Potrebbe essere la soluzione più idonea a garantire quelle condizioni di sicurezza giustamente reclamate, capaci di contenere il contagio quanto, se non più, possono fare le misure previste per la popolazione italiana. Non solo: un’attenta vigilanza sanitaria è in grado di disinnescare, almeno in parte, quel sospetto oscuro e quella diffidenza inconscia verso gli stranieri. In proposito giova ricordare che il pericolo rappresentato dai bengalesi risultati positivi si deve, in primo luogo, a una clamorosa falla del nostro sistema di prevenzione: ovvero il tardivo blocco dei voli provenienti dal Bangladesh. Tutto ciò per dire che siamo in presenza di problemi e di umori e sentimenti - anche questi possono essere pesanti come pietre - molto seri, ma risolvibili grazie a provvedimenti razionali e intelligenti. Assai più complessa e di ardua soluzione resta la questione della dislocazione in altri Paesi dei profughi sbarcati in Italia. L’accordo di Malta del 23 settembre scorso, certo parziale e precario eppure lungimirante, ha risentito anch’esso degli effetti perniciosi del Covid-19. Qualche spiraglio, tuttavia, si è aperto. E potrebbe ulteriormente ampliarsi se il governo italiano si mostrerà capace di cogliere l’opportunità offerta da questa fase di così intensa attività politico-diplomatica a livello continentale. La disponibilità di ingenti risorse economiche, una notevole spinta alla cooperazione e alle intese bilaterali, una assidua negoziazione e una maggiore integrazione, costituiscono il tessuto più fertile dove collocare il tema dell’immigrazione come grande questione europea. Una questione che presenta notevoli criticità ma che, allo stesso tempo, può rivelarsi una risorsa preziosa. Migranti, dopo il Covid meno diritti di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 luglio 2020 La detenzione amministrativa dei migranti rischia di tornare a una normalità “minore”, cioè ancora più “scevra di diritti e garanzie”. Lo denuncia il rapporto “Detenzione migrante ai tempi del Covid” pubblicato ieri dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild). I dati sono del periodo marzo-giugno e riguardano le tre casistiche di privazione della libertà personale dei cittadini stranieri: navi quarantena; hotspot; centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Sulla recente prassi di imporre il periodo di isolamento in mare, la Cild afferma la necessità di rispettare il principio di proporzionalità e tenere in conto il vissuto di chi arriva sulle coste italiane. C’è da chiedersi se sia stato “proporzionale” disporre la quarantena per i 180 naufraghi salvati da Sos Mediterranée dopo averli costretti per giorni sulla nave umanitaria, tanto da creare forti tensioni a bordo, e nonostante l’esito negativo dei tamponi. Tasto dolente rimangono i Cpr dove sono venute meno le stesse basi legali per la detenzione amministrativa. Questa dovrebbe essere finalizzata al rimpatrio dei migranti ma perdura nonostante i voli siano bloccati e il Decreto Rilancio abbia disposto la sospensione dei provvedimenti di espulsione fino al 15 agosto. Sono sette i Cpr attivi sul territorio nazionale. A inizio luglio trattenevano 332 persone. Un numero cresciuto rapidamente, dopo il minimo toccato a maggio (204), perché le autorità trasferiscono chi sbarca prima negli hotspot e da lì nei Cpr. Questo nuovo flusso di ingressi sta facendo salire la tensione nelle strutture. A Gradisca d’Isonzo negli ultimi 10 giorni si sono registrati scioperi della fame ed episodi di autolesionismo. Il più grave è stato denunciato dalla rete “No frontiere-Fvg” che ha pubblicato un video girato all’interno che ritrae un uomo con le braccia e il busto pieni di sangue, segnati dai tagli di lametta. Secondo la ricostruzione a corredo delle immagini, si sarebbe trattato di una forma di protesta estrema contro le manganellate ricevute dagli agenti durante una perquisizione. “Ci raccontano che questa persona è svenuta diverse volte ogni giorno nei quattro giorni seguenti, in una di queste occasioni all’interno del Cpr gli è stata fatta una rianimazione cardiopolmonare ed è stata portata al Pronto soccorso di Gorizia”, si legge ancora su nofrontierefvg.it Migranti. Soldi alle polizie africane per fermare gli sbarchi di Carlo Lania Il Manifesto, 14 luglio 2020 Addestramento delle forze di polizia dei Paesi di origine e di transito dei migranti e finanziamenti per dotarle di attrezzature utili a contrastare il traffico di essere umani. Almeno sulla carta, come se quanto accade ogni giorno in Libia grazie al sostegno dato alla Guardia costiera di Tripoli non dimostrasse già abbastanza come le organizzazioni criminali non si preoccupino molto degli sforzi che l’Europa fa per fermarle e di come questi finiscano per colpire soprattutto i migranti. Eppure è proprio questa la strada che l’Unione europea, Italia in testa, sembra voler percorrere ancora una volta esportando il fallimentare modello libico. La decisione è stata presa ieri nel vertice Ue-Africa voluto dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e al quale hanno partecipato i colleghi di Francia, Germania, Spagna e Malta insieme agli omologhi di Libia, Tunisia, Marocco, Mauritania e Algeria. Presenti anche la commissaria europea agli Affari interni Yilva Johansson e il commissario per l’Allargamento Olivér Varhely. “È stato un confronto proficuo che ci permette di rafforzare l’impegno reciproco nel prevenire e combattere il traffico dei migranti”, ha spiegato Lamorgese al termine dell’incontro. Naturalmente non sono mancate rassicurazioni circa il trattamento che verrà riservato ai migranti, come del resto già successo in passato con la Libia. “Tutti i Paesi - ha proseguito infatti la titolare del Viminale - hanno condiviso la sfida che ci impone di garantire il rispetto dei diritti umani e la dignità delle persone, ridurre la sofferenza umana di chi è più esposto a ogni ricatto”. Dietro il vertice c’è la preoccupazione dettata dall’aumento degli arrivi registrati nel nostro Paese, ma soprattutto il timore per quanto potrebbe accadere durante l’estate con una ripresa delle partenze dalla Libia. E questo nonostante finora i numeri si siano mantenuti tutto sommato bassi. Stando infatti alle cifre fornite da Frontex, l’agenzia per le frontiere dell’Europa, i migranti arrivati in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale dall’inizio dell’anno stati quasi 7.200. Un numero facilmente gestibile anche se rappresenta l’86% in più rispetto ai numeri molto bassi del 2019. Tunisia e Bangladesh in testa ai Paesi di origine. Viceversa gli arrivi in Europa sono stati 36.400, un quinto in meno rispetto al 2019, soprattutto a causa della pandemia da Covid. “Abbiamo avuto un aumento degli sbarchi autonomi, non delle ong, quindi difficilmente controllabili”, ha proseguito Lamorgese. “È stato importante avere oggi un’interlocuzione con Tunisia e Libia che sono i Paesi da cui maggiormente provengono i migranti. Ho delle aspettative su questo aspetto, speriamo di vedere qualcosa di concreto dopo l’estate”. E sempre per settembre è in programma un tavolo tecnico tra i Paesi presenti ieri al vertice per concordare come dare seguito alle decisioni prese ieri. Intanto dopo la Moby Zaza, Viminale e ministero dei Trasporti hanno indetto una gara per reperire un’altra nave da inviare in Calabria per la quarantena dei migranti. “Nel giro di due giorni dovremmo avere una risposta, perché ci è arrivata notizia che c’è qualche società interessata”, ha annunciato la ministra. In caso contrario il governo è deciso ad utilizzare le caserme per ospitare i migranti. Stati Uniti. Il boia a pieno regime, dopo 17 anni tornano le esecuzioni federali di Sara Volandri Il Dubbio, 14 luglio 2020 Fino a ieri la pena di morte continuava a essere applicata oltreoceano dai singoli Stati, ma era bandita a livello federale. Ora cambia tutto. Una corte di appello ha infatti emesso una sentenza che consente la prima esecuzione federale da 17 anni a questa parte, a meno di una sospensione dell’ultimo minuto dalla Corte Suprema. L’Amministrazione Trump che si è battuta per il ritorno della pena capitale su tutto il territorio ha programmato altre tre esecuzioni nei prossimi mesi. Daniel Lee, suprematista bianco di 47 anni, è stato condannato nel 1999 per aver ucciso in Arkansas un commerciante d’armi, sua moglie e la loro figlia di otto anni. Per lui, oggi è prevista l’iniezione letale nell’Indiana, nella prigione di Terre Haute. I parenti delle vittime, fra i quali la nonna della bambina, Earlene Peterson, hanno chiesto che l’esecuzione sia rinviata a causa della pandemia di coronavirus. Ma l’ingiunzione temporanea del Distretto Sud della corte distrettuale dell’Indiana, emessa in questo senso, è stata revocata ieri dalla Corte d’appello che ha stabilito di andare avanti con l’esecuzione. La famiglia delle vittime si appellerà “alla Corte suprema degli Stati Uniti per cercare di ottenere l’annullamento”, ha detto il loro avvocato Baker Kurrus. Sperano di ritardare l’esecuzione finché il viaggio verso la prigione non sarà sicuro. La maggior parte dei reati negli Stati Uniti sono processati a livello statale, ma il governo federale si occupa dei casi più gravi, come gli attacchi terroristici o i crimini razziali. Negli ultimi 45 anni, solo tre persone sono state messe a morte dal governo federale, tra cui Timothy McVeigh, che è stato condannato per aver messo una bomba in un edificio del governo e nel 1995, uccidendo 168 persone, e fu giustiziato nel 2001. “Non c’è ragione per cui qualcuno debba eseguire delle esecuzioni in questo momento in cui nel Paese imperversa la pandemia di Covid”, ha detto Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center, accusando l’amministrazione di Trump di fare un “uso politico della pena di morte”. Nel 2019 negli Usa sono state giustiziate 22 persone - per lo più in Texas, Tennessee, Alabama e Georgia - e 2.656 erano nel braccio della morte. In cima alla triste classifica, con 729 in attesa di condanna, c’era la California, dove il governatore democratico Gavin Newsom ha imposto una moratoria, impedendo di fatto il compiersi delle esecuzioni sotto il suo mandato. Altre moratorie sono in vigore anche in Oregon e Pennsylvania. Ma la linea di Trump rischia di vanificarle. Stati Uniti. Una giudice ferma la prima esecuzione federale dopo 17 anni di Anna Lombardi La Repubblica, 14 luglio 2020 Secondo Chutkan, il protocollo potrebbe violare l’ottavo emendamento della costituzione che vieta le punizioni crudeli. E il suprematista bianco Daniel Lewis Lee condannato a morte evita il patibolo. Il boia può attendere. Una giudice federale di Washington, Tanya Chutkan, ha bloccato la ripresa delle esecuzioni federali voluta dall’amministrazione Trump dopo 17 anni di moratoria non scritta. A scamparla ancora una volta è Daniel Lewis Lee, 47 anni. Suprematista bianco, colpevole di aver partecipato al massacro della famiglia di origine ebraica Mueller - il venditore di armi da collezione William Frederick, sua moglie Nancy e la figlioletta Sarah Elizabeth di 8 anni - avvenuto nel 1996 nella cittadina di Russelville, in Arkansas. E di averne poi gettato i corpi in un lago, facendoli affondare legandoli a grosse pietre. Un omicidio istigato dal complice Chevie Kehoe, ex impiegato di Mueller che aveva ordito quel complotto allo scopo di usare il denaro ricavato dalla vendita delle armi rubate, per finanziare un utopico stato bianco da fondare fra Oregon, Idaho e Montana secondo il credo dell’organizzazione di cui era membro insieme al padre e ai fratelli, l’Aryan Peoples’ Republic. Incredibilmente, a Kehoe è toccata però una sorte diversa: nonostante fosse coinvolto perfino all’attentato di Oklahoma City del 1995, è stato condannato “solo” a tre ergastoli: e finirà i suoi giorni in carcere grazie al fatto di essersi dichiarato immediatamente colpevole e aver dunque fatto un percorso giudiziario diverso. Era stato il ministro della giustizia William Barr ad annunciare un anno fa la decisione del presidente Donald Trump di rompere con una moratoria d’altronde mai scritta: e riprendere le esecuzioni capitali di persone già condannate dai tribunali federali. Una prassi abbandonata nel 2003 perché la pena di morte era ormai in vigore solo in alcuni stati della federazione americana e non in tutti. Barr aveva dunque adottato un nuovo protocollo per garantire la sicurezza delle iniezioni letale: passando dall’iniezione con tre farmaci, il vecchio sistema usato finora, all’utilizzo del solo Pentobarbital. Un passaggio di formula dettato del fatto che molti Stati avevano problemi a reperire tutti i farmaci richiesti. Con il calo delle condanne a morte, le case farmaceutiche avevano rallentato la produzione dei farmaci impiegati: il sodium thiopental, per stordire, il pancurium bromide, con effetto paralizzante, e il potassium cloride, per uccidere. Quella di Daniel Lewis Lee doveva essere la prima esecuzione federale in 17 anni. “Lo dobbiamo alle vittime e alle loro famiglie”, aveva detto all’epoca Barr. Ma nel caso di Lee la famiglia di una delle vittime non vuole la morte del condannato. Da anni Earlene Peterson, madre di Nancy Mueller e nonna della piccola Sarah Elizabeth, continua a ripetere che sua figlia si sentirebbe “infangata” da quell’omicidio di stato. E dunque di non volere la morte di Lee, preferendo vederlo finire i suoi giorni in prigione, proprio come il complice Kehoe. Per di più, insiste, “sebbene non ci siano dubbi sulla colpevolezza di Lee, è appurato che Kehoe è più colpevole ancora. Perché far morire l’uno e permettere all’altro di vivere?”. Negli anni, la matriarca, che pure è una sostenitrice di President Trump, ha salvato più volte la vita dell’assassino dei suoi cari. Prima facendo slittare l’esecuzione inizialmente prevista a dicembre 2019. Poi, bloccandola solo venerdì scorso, dopo aver affermato di non potersi recare ad assistere all’esecuzione per paura dell’epidemia, tanto più che pure nel carcere dov’è prigioniero il condannato si sono registrati dei casi. Sembrava averla spuntata anche stavolta. Ma durante il weekend un giudice ha stabilito che assistere alla morte di un condannato è una possibilità, ma non un diritto dei parenti delle vittime: e ha rimesso l’esecuzione in agenda. A salverei nuovamente la vita di quel disgraziato a poche ore dall’esecuzione, ci ha pensato ora la giudice che ha emesso una ingiunzione contro il governo, in attesa che i tribunali esaminino i ricorsi presentati da quattro detenuti nel braccio della morte contro il nuovo protocollo per le esecuzioni federali. Secondo Chutkan, il protocollo potrebbe violare l’ottavo emendamento della costituzione, che vieta punizioni crudeli. I farmaci usati per l’iniezione letale “producono sensazioni di annegamento e asfissia, causando dolore estremo, terrore e panico”. Mentre la morte di Stato deve essere asettica. Già a novembre la Chutkan aveva bloccato le esecuzioni federali. Ma la sua sentenza era stata ribaltata in appello e la Corte Suprema non aveva ammesso il caso. Il dipartimento di Giustizia ha già annunciato un nuovo appello. Daniel Lewis Lee, l’ha scampata di nuovo, ma non è affatto detto che abbia salvato la pelle. Egitto. I genitori di Regeni: “La partita per Giulio non è disperata, ci sono altri testimoni” di Alessandra Ballerini* Corriere della Sera, 14 luglio 2020 La lettera dell’avvocato della famiglia: “Disperato è il gioco di chi pensa che vendendo navi ed armi da guerra a uno Stato dittatoriale possa tutelare la nostra sovranità”. Sull’Eni: “Non vogliamo che l’Eni dedichi borse di studio, né ci interessano targhe” Caro Direttore, abbiamo letto con interesse le considerazioni di Ernesto Galli della Loggia sull’assassinio di Giulio Regeni. Le premesse sono condivisibili: “Un Paese serio sa dire la verità”. E il regime di Al Sisi evidentemente non fa della serietà (né del rispetto dei diritti umani) la sua bandiera quindi non è da lui che dobbiamo aspettarci verità. Ma non per questo possiamo accontentarci della memoria. Non è la memoria che cercano i Signori Regeni, ma la verità, perché senza verità non può esserci giustizia, né pace, né, dunque, memoria. Per questo non ci interessano targhe con inciso il nome di Giulio, ma vogliamo una sentenza che ricostruisca le responsabilità penali, personali e politiche di “tutto il male del mondo” che si è abbattuto su Giulio. E, contrariamente a quello che lei paventa, a quella verità arriveremo, stiamo già arrivando. La nostra Procura ha iscritto un anno e mezzo fa cinque funzionari della National Security egiziana nel registro degli indagati e l’ha fatto evidentemente non per concludere il procedimento con un’archiviazione. Nuovi elementi da allora, grazie anche alle nostre faticose indagini difensive, si sono aggiunti, nuovi testimoni si sono fatti avanti - dei quali per segretezza delle indagini non è dato parlare - e nuovi brandelli di verità, come li definì Erri De Luca, si stanno aggiungendo a ricomporre il puzzle sanguinario che determinò il sequestro, le torture, l’uccisione di Giulio e tutti i successivi depistaggi. La nostra non è una “partita disperata”. Non lo è quella dei genitori di Giulio, determinati da lucida, inflessibile e generosa speranza, né quella delle decine di migliaia di cittadini di tutto il mondo che sanno che solo esigendo verità senza farsi distrarre da cinismo o apatia, saranno più sicuri. Non è disperata neppure la partita che portano avanti da 52 mesi la Procura e gli investigatori italiani, senza sosta né incertezze. Disperata semmai è la partita di Al Sisi, che prova dopo quattro anni e mezzo a rifilare quattro oltraggiose cianfrusaglie ai genitori di Giulio spacciandole per gli effetti personali del loro figlio. Disperato è il gioco della politica che pensa che vendendo navi ed altre armi da guerra a uno Stato dittatoriale possa in qualche contorto modo tutelare la nostra sovranità nei confronti di altri concorrenziali Paesi europei che peraltro quelle navi da guerra non potrebbero vendere se non dopo averle costruite. Disperata è la finzione di chi ancora pensa, oppure vuole far credere, che il nostro ambasciatore possa agevolare la ricerca della verità, quando gli stessi procuratori di Roma auditi in Commissione di inchiesta hanno chiaramente riferito che le uniche forme di collaborazione da parte dell’Egitto si sono avute nel momento in cui il nostro Paese ha avuto la dignità di richiamare l’ambasciatore. Da quando invece nel settembre 2017, l’ambasciatore Cantini è tornato in Egitto è stata una continua, indecente débâcle, fino all’ultimo fallimentare colloquio tra le Procure di due settimane fa. La dittatura egiziana ha capito che non eravamo un Paese serio e ha ricominciato a mentire, infangare, nicchiare, nascondersi dietro silenzi e bugie, continuando peraltro ad accanirsi contro i difensori dei diritti umani. Non vogliamo che l’Eni dedichi borse di studio a Giulio (siamo più che soddisfatti di quelle istituite dal ministro Fioramonti), né ci interessa che i Comuni deliberino affissioni di targhe (che peraltro avrebbero da attendere i dieci anni di legge). Vogliamo semmai che espongano striscioni gialli con la scritta impegnativa “Verità per Giulio”. Vogliamo azioni concrete: richiamare (e non ritirare) l’ambasciatore per consultazioni è una di queste. L’impegno collettivo di verità, quando ci sono promettenti indagini in corso e una sentenza deve essere ancora scritta, si mantiene non gettando la spugna, accontentandosi di una targa che metta tutto a tacere, ma lottando senza distrazioni di sorta. Chi sta dalla parte della verità e della giustizia non può concedersi il lusso della disperazione: deve rimboccarsi le maniche, alzare la testa e se occorre la voce, per Giulio e per tutti i Giuli. *Legale della famiglia Regeni Egitto. Zaky resterà in prigione almeno altri 45 giorni di Victor Castaldi Il Dubbio, 14 luglio 2020 Resterà nella prigione di Tora almeno altri 45 giorni Patrick George Zaky, lo studente egiziano iscritto all’Università di Bologna e attivista dei diritti umani detenuto in Egitto con l’accusa di “propaganda sovversiva” sui social network. Una detenzione che da mesi suscita indignazione e preoccupazione in quanto avvenuta senza prove, con accuse generiche e fuori dalla cornice del diritto alla difesa. Proprio in questi giorni Zaky ha compiuto il suo 29esimo anno di età, un compleanno dietro le sbarre. La notizia del “rinnovo della sua detenzione” preventiva è stata data dal gruppo “Patrick Libero” sulla propria pagina Facebook. Nel post viene specificato che la decisione di tenere Zaky altre due settimane in carcere è stata presa senza che fosse presente nén lui né tantomeno i suoi legali. Una nuova udienza è stata fissata per il 16 giugno. “L’ultima volta che Patrick è apparso di fronte a un pubblico ministero è stato il 7 marzo - si ricorda sempre nel post- il che significa che è tenuto in carcere senza apparire davanti al pubblico ministero per un periodo di circa tre mesi”. L’unico diritto concesso a Zaky è stata la possibilità di scrivere una lettera ai genitori in cui afferma di essere ancora in buone condizioni di salute: “Cari, sto bene e in buona salute, spero che anche voi siate al sicuro e stiate bene. Famiglia, amici, amici di lavoro e dell’università di Bologna, mi mancate tanto, più di quanto io possa esprimere in poche parole”. Sulla questione è intervenuta Amnesty International che ha definito “atroce” la proroga della detenzione e ha invitato il governo italiano e il premier Giuseppe Conte ha esercitare forti pressioni sul Cairo e sulla giunta del generale Al Sisi. Il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury ha citato il caso di Mohamed Amashah, uno studente con doppia nazionalità egiziana americana, arrestato lo scorso anno dai servizi di sicurezza con accuse simili a quelle contestate a Zaky (aveva esposto uno striscione contro al Sisi in una manifestazione). Dopo un lungo braccio di ferro con gli Usa e oltre 400 giorni passati in prigione alla fine Amashah è stato liberato dal Cairo, una circostanza che secondo Noury dimostrerebbe “l’importanza della pressione diplomatica che se condotta con forza ottiene risultati”. Non particolarmente incisive, in tal senso, le parole del ministro degli Esteri Luigi di Maio che si dice “preoccupato”, aggiungendo che il nostro paese “sta monitorando la situazione in modo costante e continuerà a seguire il caso con l’appoggio dell’ambasciata italiana al Cairo, tramite il coordinamento con i partner internazionali ma anche attraverso gli altri canali rilevanti”. Intanto nella prigione dove Zaky è rinchiuso le condizioni sanitarie sono aggravate dall’epidemia di coronavirus che ha colpito l’istituto: “Nonostante le smentite ufficiali, i gruppi egiziani per i diritti umani denunciano la diffusione del Covid-19 nella prigione di Tora. Intanto, per l’Eid sono stati scarcerati 3.000 detenuti tra cui ladri e almeno un assassino ma non Patrick Zaki e gli altri”, ha concluso sempre Noury.