Tempi lunghissimi e scarsa fiducia nei magistrati: la fotografia Ue della giustizia italiana di Simona Musco Il Dubbio, 13 luglio 2020 Nel 2018 ci sono voluti più di 1.200 giorni per concludere un processo in via definitiva. Crolla la fiducia nelle toghe: il 55% ha un parere negativo. Cala la fiducia della cittadinanza nei confronti della magistratura, avvertita come sempre meno indipendente, mentre rimane alto il numero di giorni necessari per risolvere le controversie. È il quadro dipinto dalla Commissione europea nella valutazione della Giustizia per il 2020, che mette a confronto l’efficienza, la qualità e l’indipendenza dei sistemi giudiziari di tutti gli Stati membri dell’Ue. Se, da un lato, si registra un costante miglioramento dell’efficienza dei sistemi giudiziari in molti Stati membri, dall’altro secondo i risultati di un’indagine Eurobarometro, i cittadini hanno sempre meno fiducia nell’operato della magistratura, avvertita come sempre meno indipendente. “È incoraggiante constatare che in molti Stati membri i sistemi giudiziari funzionano meglio e che i cittadini europei possono chiedere efficacemente giustizia - ha sottolineato V?ra Jourová, Vicepresidente per i Valori e la trasparenza. Ciò che però mi preoccupa è il fatto che, in alcuni paesi, il livello d’indipendenza della magistratura percepito è molto basso e viene principalmente ricondotto alla pressione politica”. Stando ai dati pubblicati nel rapporto, il tempo necessario per la risoluzione dei casi civili e commerciali vede l’Italia al secondo posto, dopo la Grecia, per lunghezza delle controversie, con un notevole miglioramento rispetto al 2012, ma non quanto basta per rimanere negli standard previsti dall’Europa. Per arrivare ad una sentenza di primo grado servono, dunque, 525 giorni in media, con un miglioramento di circa 80 giorni rispetto al 2012, quando ne occorrevano circa 600. Una cifra pazzesca se si considera che il Paese più veloce, la Lituania, ci mette poco più di 50 giorni per una sentenza di primo grado. In Francia sono necessari circa 400 giorni, mentre in Germania poco più di 200. “Un sistema giudiziario efficiente gestisce il suo carico di lavoro e il suo arretrato di casi e formula giudizi senza indebito ritardo - si legge nel rapporto -. Guardando i dati disponibili dal 2012 in casi civili, commerciali e amministrativi, l’efficienza è migliorata o è rimasta stabile in 11 Stati membri, mentre è diminuita, sebbene spesso solo marginalmente, in 8 Stati membri. Si possono osservare sviluppi positivi nella maggior parte degli Stati membri che sono stati identificati nel contesto del semestre europeo per far fronte a sfide specifiche”. Ma l’Italia balza al primo posto quando si tratta di far arrivare i processi in Cassazione: per ottenere una sentenza definitiva, nel 2018, è stato necessario attendere anche 1200 giorni, ovvero tre anni e quasi quattro mesi, mentre ci sono voluti, invece, quasi mille giorni per una sentenza di secondo grado. Il paragone con la Francia è impietoso: oltralpe per concludere un processo in via definitiva ci vogliono meno di 350 giorni. Tale lentezza è dovuta, soprattutto, al numero di cause pendenti: in Italia se ne conta una ogni cento abitanti. I costi della Giustizia - In Italia, la spesa della Giustizia è composta, in larghissima parte, da salari e stipendi di giudici e personale giudiziario, compresi i contributi sociali: si tratta di oltre il 60% della spesa. L’altra grossa fetta (circa il 25%) riguarda costi operativi per beni e servizi consumati dai tribunali, come affitto di immobili, uffici, materiali di consumo, energia e assistenza legale. Le spese fisse, come edifici e software per tribunali e altre spese, costituiscono circa il 5% della spesa. Secondo il rapporto, “risorse adeguate e personale qualificato sono necessari per il buon funzionamento del sistema giudiziario”. Indipendenza dei magistrati - In termini di percezione dell’indipendenza dei giudici, in Italia la situazione è disastrosa, con un netto calo, nel 2018, rispetto al 2017: solo poco più del 30% ha un grado di considerazione che va da abbastanza a molto alto, oltre il 40% ha un parere abbastanza negativo, il 15% molto negativo e il restante 15% non ha un’opinione in merito. L’Italia si trova così al terzultimo posto in termini di fiducia: peggio di noi solo la Slovacchia e la Croazia. Prima, invece, la Danimarca, sesta la Germania e undicesima la Francia. “L’indipendenza giudiziaria, che è parte integrante del compito decisionale giudiziario, è un requisito derivante dal principio di effettiva tutela giurisdizionale di cui all’articolo 19 Tue e dal diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un organo giurisdizionale sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (articolo 47) - si legge nel documento. Il quadro di valutazione Ue 2020 della Giustizia mostra indicatori aggiornati in relazione all’indipendenza percepita di tribunali e giudici, le garanzie legali sui procedimenti disciplinari riguardanti giudici, istruzioni ai pubblici ministeri in singoli casi e nomina dei membri dei consigli di magistratura e due nuove rassegne sui procedimenti disciplinari riguardanti i pubblici ministeri”. Tra le principali ragioni di tale sfiducia, in Italia, spicca la pressione subita dalla politica (40% circa), quasi alla pari con pressioni economiche e altri interessi specifici, mentre poco sopra il 25% si piazzano lo status e la posizione dei giudici. Oltre duecento giudici non fanno i giudici di Alessandro Giuli Libero, 13 luglio 2020 Sono decine quelli in aspettativa o “fuori ruolo presso altri uffici”. Intanto Bruxelles ci bacchetta: in Italia processi troppo lenti. Fare il magistrato? Sempre meglio che lavorare. Lo si dice con il dovuto rispetto, figurarsi, e ammettendo subito che la battuta nasce in riferimento ai giornalisti. E tuttavia, per capire che siamo in buona compagnia e che c’è qualcosa di schiettamente disfunzionale nel mondo dei togati italiani, basta sfogliare il rapporto annuale sullo stato dei sistemi giudiziari dell’Ue appena diffuso dal commissario europeo alla Giustizia, il belga Didier Reynders, e concedersi subito dopo una breve passeggiata sul sito del Consiglio superiore della magistratura. Reynders non fa che confermare quanto Bruxelles sostiene ormai da anni: in Italia la giustizia è lenta, non troppo indipendente e sempre meno popolare; per arrivare a una sentenza di primo grado ci vogliono poco più di 500 giorni, che possono diventare 1.200 per giungere al verdetto della Cassazione. Il che, in estrema sintesi, è dovuto a un sistema troppo farraginoso nel quale si contano ogni cento abitanti almeno 4 contenziosi affidati a un organico largamente insufficiente: 9.408 sarebbero infatti i magistrati in servizio secondo le ultime stime ufficiali risalenti al 2017 (più di tre anni fa!). Di qui il bisogno di riformare la giustizia il prima possibile e di allargare gli effettivi chiamati a farla funzionare. Nel frattempo, e veniamo così al Csm e ai suoi mirabili appannaggi, non sarebbe il caso di far lavorare i 200 e più togati fuori ruolo che rappresentano oltre il 2 per cento dell’organico? Domanda retorica, convalidata da uno sguardo attento ai nomi e alle funzioni all’origine della non trascurabile voragine in questione. Ebbene, tolti i 2 magistrati in aspettativa per congiungimento coniugale e altri 20 sottratti al loro lavoro per via degli incarichi elettivi (3 sono in Parlamento; 16 vengono impegnati nel Csm e uno, il governatore pugliese Michele Emiliano, risulta “in aspettativa per assumere funzioni di governo”), ce ne sono 149 “fuori ruolo presso altri uffici o enti” e altri 44 “fuori ruolo non rientranti nel limite dei 200”. In quest’ultimo blocco figurano 18 togati allocati tra la segreteria e l’Ufficio studi del Csm, 22 parcheggiati alla Corte Costituzionale come assistenti di studio e 4 al servizio del Quirinale (un consigliere giuridico, un collaboratore dell’Ufficio affari dell’Amministrazione della Giustizia e due segretari generali della Presidenza della Repubblica). Ma è indagando sul grosso della truppa dei presenti/assenti, ovvero quei 149 magistrati dislocati “presso altri uffici o enti”, che si scoprono i dettagli rivelatori dell’indispensabile casta instradata sulla via di una progressiva (auto) delegittimazione. Stiamo parlando di una lunga lista di persone verosimilmente preparate e meritevoli, le quali tuttavia occupano alcune postazioni tanto prestigiose quanto sindacabili circa la loro utilità. Si va dal presidente e dal capo di gabinetto dell’Autorità garante per la Concorrenza e il Mercato fino a un fantomatico giudice del Tribunale speciale per il Libano (con sede a l’Aja), passando per una pletora di quasi 80 togati impegnati al ministero della Giustizia con le funzioni più disparate: a parte i direttori degli uffici più importanti come il personale e la formazione o gli affari legali, la maggior parte di loro è rubricata al servizio di non meglio precisate “funzioni amministrative”; altri fanno gli ispettori generali, altri ancora si occupano di sistemi informativi automatizzati o collaborano con il gabinetto del ministro Alfonso Bonafede. Parecchio lontani dal Guardasigilli sono invece i fortunati “esperti giuridici” presso le ambasciate o meglio ancora i “magistrati di collegamento” con i dicasteri gemelli degli altri Paesi, come il Marocco e l’Albania o il Principato di Monaco (ufficio di cui s’indovina subito l’importanza strategica). Vengono poi i giudici internazionali o gli “esperti distaccati” alla Corte penale internazionale, alla Corte di Giustizia dell’Unione europea e a quella dei Diritti dell’uomo. Non mancano un “International Prosecutor” stanziato nei Paesi Bassi in quota “Kosovo Specialist Chambers” e alcuni “Esperti della rappresentanza permanente per l’Italia” all’Onu ma anche in Perù o a Vienna e naturalmente a Bruxelles e Strasburgo (Consiglio d’Europa). Meno fortunata, a quanto pare, la “Judiciary expert” inviata a Ramallah assieme alla sua “Prosecution Expert”. Al loro confronto, possono perfino sembrare pochi i sei magistrati occupati nel Consiglio direttivo della Scuola Superiore della magistratura… E così siamo ritornati entro i confini nazionali, dove almeno 4 togati esercitano il mestiere nella Commissione parlamentare Antimafia; due in quella che si occupa del Ciclo dei rifiuti (non è uno scherzo, c’è scritto così); cinque assistono Luigi Di Maio alla Farnesina, tra Cooperazione e sviluppo e affari legali; altri sono stati piazzati negli uffici legislativi dei ministeri dei Trasporti o dell’Ambiente o alla Salute. Beati loro? Chissà. Dopotutto, chi siamo noi per giudicare la qualità professionale e l’importanza di certi servigi resi dai magistrati alla Repubblica italiana? Di una cosa tuttavia possiamo essere certi: quando le nostre vicende giudiziarie finiscono seppellite nei cassetti dei tribunali più ingolfati d’Europa, è lecito ricordarsi anche dei magistrati fuori ruolo che transitano per le porte girevoli di un sistema lubrificato molto selettivamente e di rado a beneficio del cittadino comune. I nomi? Per lo più sono sconosciuti: uno vale uno, come abbiamo appreso dal partito dei giudici che governa da Palazzo Chigi; il problema è che la somma non fa il totale del fabbisogno e i conti della giustizia, in Italia, ancora non tornano. Giustizia per giovani. I sistemi predittivi esigono nuovi giuristi di Marzia Paolucci Italia Oggi, 13 luglio 2020 L’innovazione legale e l’approccio a sistemi di giustizia predittiva richiedono una nuova fi gura di giurista formato sia al ragionamento logico che al pensiero computazionale. Materie che è necessario inserire nel percorso formativo universitario, prima ancora del coding. È la dirompente proposta, ma non la sola, avanzata durante la sessione inglese del terzo congresso internazionale sulla giustizia predittiva organizzato on line dalla Scuola di diritto avanzato nelle giornate del 2 e 3 luglio scorso, dopo le scorse versioni in presenza di Londra e Roma. Altra proposta uscita dall’appuntamento è stata quella di istituire una commissione parlamentare sull’intelligenza artificiale per studiare le potenzialità della tecnologia e per approfondirne opportunità e rischi delle sue applicazioni alla giustizia. L’appuntamento si è distinto per un parterre giuridico internazionale con la presenza di Luigi Viola, avvocato e direttore della Scuola, professore di Giurimetria a Uni- Pegaso Università di Napoli, Iain Grant Mitchell, esperto in IT Law e membro del Consiglio degli ordini forensi della Comunità europea, Oscar Silva Alvarez, professore di diritto processuale civile presso l’Università pontificia cattolica di Valparaíso, in Cile, Ratko Brnabic, professore associato a capo del dipartimento di Diritto commerciale e societario dell’Università di Split, in Croazia e Carlos Agulto Gonzales, professore di Diritto comparato e sistemi giuridici del mondo alla facoltà di giurisprudenza e scienza politica dell’Università Nacional Mayor de San Marcos, in Perú. Per l’Italia sono intervenuti i professori Ugo Ruffolo, Lucilla Gatt, Mauro Bove, Gianfranco D’Aietti, Marco Scialdone, gli avvocati Gaetano Danzi, Veronica Casalnovo, Leo Stilo, Rocco Guerriero e i magistrati Caterina Chiaravalloti, Mirella Delia e Tiziana Caradonio. Ognuno di loro ha illustrato la situazione e l’impatto che l’utilizzo dell’intelligenza artificiale ha o avrà in futuro sul proprio ordinamento insieme al ruolo che modelli matematici e algoritmi possono giocare nel sistema giustizia, tema fondante del congresso. In apertura del congresso, l’intervento del professor Luigi Viola: “Matematica e diritto sono nati insieme. Furono proprio le questioni legali a fornire il principale impulso allo sviluppo della matematica nell’antico Egitto: le inondazioni del Nilo, infatti, causarono la distruzione dei confini tra acri di terra agricola. Di conseguenza, quando le acque si ritirarono, non fu più possibile identificare le singole proprietà; la geometria è nata per risolvere questi conflitti legali”, ha evidenziato il cattedratico che studia l’applicazione della Giurimetria alla previsione degli esiti giudiziari e autore del volume Interpretazione della legge con modelli matematici. E sull’importanza di favorire il giusto pensiero computazionale in un’ottica integrata tra i diversi specialisti a lavoro, ha messo il punto Gianfranco D’Aietti, docente di informatica giuridica alle università di Pavia e Bocconi di Milano, già presidente del Tribunale di Sondrio e autore del software “ReMida” che consente di determinare matematicamente gli assegni di mantenimento per coniuge e figli nelle separazioni e nei divorzi. “Negli anni della mia presidenza del tribunale di Sondrio, mi sono occupato di predittività nelle separazioni e divorzi sviluppando un modello matematico preso da casi concreti analizzati nella loro frequenza statistica e questo ha portato a una metodologia applicabile in tanti settori contraddistinti dalla discrezionalità. Ciò comporta”, deduce il magistrato, “un rapporto stretto tra il giurista che deve analizzare le procedure e costruire mentalmente gli algoritmi e coloro che li vanno a sviluppare: gli analisti. Sono loro che vanno a studiare un settore che non conoscono, ne prendono gli elementi fondamentali che credono di comprendere, lo passano ai programmatori che sviluppano e interpretano a loro volta ciò che gli ha detto l’analista e il più delle volte”, avverte, “il prodotto informatico di tipo decisionale che ne esce è insufficiente. Questa discrasia tra chi pensa e chi costruisce il sistema informatico generando una sequenza di errori è uno dei problemi gravi del mondo giuridico perché manca il pensiero computazionale, il metodo di misurare, valutare e interloquire tra noi operatori del diritto e chi realizza i sistemi informatici così da consentire al giurista di dettare e controllare l’algoritmo”. Magistratopoli e i Pm che da soli valgono un partito di Alberto Cisterna Il Riformista, 13 luglio 2020 Esiste in Italia un partito dei pubblici ministeri? In senso formale sicuramente no. E la stessa risposta negativa si deve dare se si ricorre alla definizione politologica più accreditata di partito: “Un partito è qualsiasi gruppo politico identificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche” (Sartori, Oxford, 1976). La partecipazione alle elezioni e il vaglio del consenso popolare sono indispensabili perché un’azione politica possa dirsi organizzata nella forma-partito. Un’associazione che si definisse partitica e che si sottraesse sistematicamente alle competizioni elettorali sarebbe un guscio vuoto, una polisportiva delle chiacchiere. Partito-elezioni-potere è una triade inscindibile a prescindere, come ricordava Sartori, dal fatto che le votazioni si svolgano liberamente o meno. La storia è piena di partiti fantoccio a copertura di tirannie. Certo, però, se la discussione politica e i mass media - sia pure con accenti più o meno critici - ritengono tutti e da anni che questo partito dei pubblici ministeri esista e operi la questione merita di essere presa in esame secondo prospettive diverse. In questa declinazione vicaria per “partito” si dovrebbe intendere l’agglutinarsi delle toghe intorno ad alcune convinzioni, la condivisione di alcune idee circa la funzione giudiziaria, cui seguirebbe una vera e propria azione di influenza politica. Ma anche questa volta i conti non tornano. I tornei correntizi del Csm disvelati di recente hanno per oggetto, quasi esclusivo, la scelta dei titolari di uffici di procura (Roma, Perugia, Torino, Napoli, la Nazionale antimafia e via seguitando). Da quel materiale emerge che queste competizioni hanno dato luogo a scontri ferocissimi, a raid senza esclusione di colpi. Sino all’idea di una manipolazione delle indagini per sopprimere gli avversari. Insomma, nulla che sia corrispondente al modello di un partito unico dei pubblici ministeri che normalmente circola. I duellanti per il monopolio dell’azione penale nella Capitale o nel borgo più sperduto si guardano in cagnesco, si fanno causa e lanciano veleni e veline di ogni genere gli uni contro gli altri, al punto tale da poterli definire con grande difficoltà componenti di uno stesso movimento o gruppo. E quindi? Una mano ce la può dare il Sommo: “Sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso” (Paradiso, canto XVII, 69). Non esiste un partito dei pubblici ministeri per la semplice ragione che - da un certo punto in poi, dallo sgorgare di una certa smisurata ambizione in poi - l’ego tendenzialmente ipertrofico dell’inquirente volge lo sguardo a sé stesso e rimirandosi (verrebbe da dire) insieme alla sua corte di poliziotti, carabinieri e via seguitando, matura l’idea di essere il migliore o uno dei migliori. Lo ha detto con chiarezza il reprobo ex-presidente dell’Anm: tutti immaginavano di meritare, tutti ritenevano di aver diritto, tutti sentivano di poter primeggiare. E insieme a loro entra in fibrillazione anche la selezionata corte di investigatori da questi scelta nel tempo che, in uno con il nubendo, partecipa dei suoi fasti e soffre per i suoi nefasti, che intravede prospettive di carriera o di promozioni a seconda che il “proprio” pubblico ministero gareggi e vinca oppure soccomba. La questione dovrà essere ripresa e completata, ma un primo punto deve essere messo in evidenza. Certi pubblici ministeri - ma sempre tanti pubblici ministeri - interpretano il proprio ruolo come immancabilmente volto alla costituzione di una immagine mediatica spendibile. Per realizzare questo fine occorre una compagine appropriata che sia cooptata e fidelizzata e che si muova a testuggine, scalzando chiunque si frapponga al successo di quel micro-cosmo e di quel micro-partito in toga. È come in certi consigli regionali o, un tempo, alle Camere in cui bastava anche un solo componente per costruire un gruppo e rappresentare un partito. Talvolta sono i pubblici ministeri a essere fagocitati da apparati investigativi, enormemente più efficienti e capaci di loro, che li trasformano in proprie appendici giudiziarie e trojan nel plesso della magistratura italiana di cui apprendono segreti e maldicenze e di cui condividono odi e alleanze. La combinazione delle due direttrici ha, poi, nei rari casi in cui si realizza, effetti “eversivi” rispetto all’ordinato funzionamento delle istituzioni e all’insopprimibile separazione dei poteri dello Stato. Si creano Leviathan promiscui, ibridi poliziesco-giudiziari, meticci investiganti che si sorreggono vicendevolmente, che scalano posizioni e uffici, che condizionano finanche i vertici ergendosi a poteri autonomi, autoreferenziali e autocontrollati. Meglio ancora se questi “partiti”, nei propri flussi migratori, hanno a disposizione giornalisti embedded da manovrare per mirate fughe di notizie, per tempestive campagne di stampa o per approntare selezionate divulgazioni di atti riservati. Questi raggruppamenti purulenti e maleodoranti aleggiano inquietanti nelle vicende dell’ex presidente dell’Anm e di essi è sembrato, a più riprese, che il dottor Palamara intenda parlare. Non si tratta più di proteggere la corporazione dagli scandali, né le toghe da qualche disdicevole prassi spartitoria. La magistratura italiana - come la Chiesa - è da decenni una “casta meretrix” (Sant’Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca) e da sempre ha ceduto a simili debolezze. La posta in gioco che si intravede nei ritagli delle dichiarazioni sembra essere un’altra e ben più importante. La sola impressione che qualcuno si stia freneticamente operando per mettere in lockdown un’angosciante verità e porre a tacere chi custodisce segreti indicibili dovrebbe allarmare la pubblica opinione. I troppi pm-partito che sono cresciuti all’ombra di questa diversione costituzionale hanno da preoccuparsi e molto per ciò quello che potrebbe avvenire. Non è in discussione un sistema di nomine (se ne troverà un altro), ma il patto scellerato che si potrebbe essere realizzato in alcuni cupi anfratti della corporazione inquirente tra magistrati, pezzi delle forze di polizia e segmenti del giornalismo. Un patto che rappresenterebbe, purtroppo, una parte della Costituzione materiale del paese e sul quale invano, come sempre, aveva lanciato i propri moniti Giovanni Falcone: “Una polizia giudiziaria, che dipende direttamente dal pubblico ministero, ben poco serve ad accrescere la sua autonomia e indipendenza, se poi il pubblico ministero non è in grado di dirigerla” (Interventi e proposte. 1982-1992) o vi instaura reciproche relazioni di servizio e utilità. Magistrati, ogni anno vengono archiviati 1.200 procedimenti disciplinari e nessuno sa perché di Rosario Russo* Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2020 Con il tacito consenso del ministro della Giustizia, ogni anno il Pg presso la Suprema Corte emette mediamente oltre 1200 provvedimenti d’archiviazione disciplinare, ma neppure il Csm li può leggere. Lo scandalo delle Toghe Sporche è oggetto di procedimento penale presso la Procura della Repubblica di Perugia. Inoltre, tutte le condotte dei magistrati inquisiti o coinvolti a diverso titolo dalle intercettazioni pubblicate dalla stampa sono - o saranno - oggetto di indagine disciplinare da parte del Procuratore generale della Suprema Corte di Cassazione. Per legge, il Pg ha l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare, per prevenire che egli possa agire pro amico vel contra inimicum, mentre il ministro della Giustizia ne ha soltanto la facoltà, che esercita in base a valutazioni sostanzialmente politiche. Tuttavia, ricevuta una notizia disciplinare, con motivato provvedimento il Pg può discrezionalmente archiviare se il ministro non si oppone. Questo per effetto della riforma Mastella (2006) con cui è stata abrogata la disposizione che riservava al Csm la declaratoria di non luogo a procedere richiesta dal Pg al Csm, titolare del potere sanzionatorio nei confronti dei magistrati ordinari. Al Consiglio pervengono quindi soltanto le notizie disciplinari discrezionalmente non archiviate dal Pg. Non è l’unica grave anomalia del sevizio disciplinare: malis mala succedunt. Con sentenza 6 aprile 2020 n. 2309 - in netto contrasto con lo spirito dell’Adunanza Plenaria 2 aprile 2020, n. 10 - il C.D.S. ha statuito che l’archiviazione del Pg è accessibile soltanto al ministro della Giustizia, restando perciò interamente opaca per l’autore della segnalazione disciplinare e perfino per il magistrato indagato e il Csm. Perché sono importanti questi rilievi? Perché nel periodo 2012-2018 (sette anni) risultano iscritte mediamente ogni anno 1380 notizie d’illecito disciplinare (segnalazioni con cui avvocati o cittadini denunciano abusi dei magistrati). Ogni anno il 91,6% di tali notizie (cioè 1264) è stato archiviato dal Pg e quindi soltanto per 116 di esse è stata esercitata l’azione disciplinare. Consegue che mediamente ogni anno oltre 1260 archiviazioni sono destinate al definitivo oblio, sebbene conoscerne la motivazione è tanto importante quanto apprendere le ragioni (a tutti accessibili) per cui le sanzioni vengono disposte dal Csm. La ‘casa’ della funzione disciplinare, pilastro e primo avamposto della legalità, è dunque velata senza alcuna concreta ragione. Non è così infatti per altre archiviazioni. In ambito penale, se sia stata emessa l’archiviazione, qualunque interessato (indagato, terzo, denunciante o querelante) normalmente ha diritto di averne copia (art. 116 c.p.p.), essendo venute meno le ragioni della segretezza. Le archiviazioni disciplinari nei confronti degli avvocati sono d’ufficio notificate al denunciante; anche quelle nei confronti dei magistrati amministrativi sono ostese a chiunque ne abbia interesse. La segretezza delle archiviazioni disciplinari del Pg è quindi un inquietante unicum, specialmente a volere considerare che la Corte Costituzionale ha sancito da tempo “l’abbandono di schemi obsoleti… secondo cui la miglior tutela del prestigio dell’ordine giudiziario era racchiusa nel carattere di riservatezza del procedimento disciplinare” (sent. n. 497/ 2000). Anche il Consiglio Superiore della Magistratura ha sposato il principio generale della trasparenza (delibera del 5.3.2014). Le indagini penali nei confronti di taluni magistrati membri del Csm, coinvolti nello scandalo delle Toghe sporche, inevitabilmente hanno avuto - o avranno - anche un risvolto disciplinare. Se in qualche caso il Pg archiviasse - com’è in suo potere - non ne sapremo mai la ragione; eventuali archiviazioni in sede penale sarebbero invece accessibili. Absurdissimum, se si considera che, in sede disciplinare (come in sede penale), per il magistrato indagato l’archiviazione rappresenta l’esito più fausto e ambito (una… medaglia al valore giudiziario), anche rispetto alla sentenza di assoluzione emessa dal Csm o dalle Sezioni Unite (a tutti accessibile). Introdotta finalmente la legge sulla trasparenza (D.lgs. n. 33/2013), è tempo che - specialmente in questa grave contingenza storica - anche la “casa” dell’archiviazione disciplinare cessi di essere opaca senza alcuna plausibile ragione. Se la decisione amministrativa o giurisdizionale si distingue da “un pugno sul tavolo” soltanto in virtù della motivazione, non è ormai accettabile che al cittadino che abbia segnalato qualche abuso dei magistrati si risponda dicendo: archivio perché… archivio. La rinascita della Giurisdizione, disfatta dal recente scandalo delle Toghe sporche, ne presuppone la piena e completa trasparenza. *Già sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione Battisti e il questurino Salvini di Fulvio Abbate huffingtonpost.it, 13 luglio 2020 Cesare Battisti, l’ex terrorista “rosso”, in carcere dopo una lunga latitanza tra portinerie parigine, Messico e Brasile, lamenta ora, laggiù in cella, il bisogno di un cibo adeguato al suo stato di salute. Richiesta umanissima. Propria di uno stato di diritto, qual è - si spera - il nostro. Sciocco ribadire che la pena non può corrispondere al ghigno della vendetta fuori dallo spioncino. Evidentemente, nonostante il transito di Beccaria nella storia del nostro diritto, non tutti hanno acquisito il dato della dignità. Matteo Salvini, per esempio, per l’occasione mostra gli abiti del secondino di complemento. Su tutto, il dubbio che lo faccia per dare soddisfazione alla subcultura - intatta come bene rifugio nell’istinto belluino di molti nostri dirimpettai, talvolta perfino cognati - ma sì, diciamo pure “fascista”. Con chi non è abituato a sottilizzare, inutile ricorrere alle sfumature. “Cibo scarso, troppi fritti e grassi. Ho l’epatite e una prostatite,” così sembra che Battisti, attualmente nel carcere di Massama, in Sardegna, dove sconta due ergastoli per omicidi e rapine commessi negli anni della militanza fra i Proletari armati per il comunismo, abbia lamentato. Infatti, diversamente da altri detenuti, non può acquistare generi alimentari e ancor meno cucinarli in cella, in quanto sottoposto a un regime particolare in un carcere di massima sicurezza, dove è rinchiuso da gennaio 2019. Alle sue spalle, riepiloghiamo, una latitanza quasi quarantennale, la fuga dal carcere di Frosinone, poi Francia, Messico, uno status di “rifugiato politico”, scrittore di “noir”, la solidarietà di molto ceto intellettuale internazionale, infine, nel 2018, la cattura e in breve tempo l’estradizione in Italia. La questione del cibo negato dipenderebbe, insomma, da un dettaglio: il livello di “alta sorveglianza” cui l’uomo è sottoposto. Il suo difensore spiega infatti che “ci sarebbe dovuto rimanere per sei mesi, fino al luglio dello scorso anno. Invece questo regime di detenzione si è inspiegabilmente prolungato e va avanti ancora adesso, nonostante non sia supportato da alcuna sentenza né disposizione di legge”. La macchina burocratica si inceppa anche davanti alle celle, storia nota. Le parole di Battisti sull’inadeguatezza del cibo, nel frattempo, hanno consegnato combustibile nero solido sia alla Lega sia a Fratelli d’Italia, le destre che fronteggiandosi giocano a mostrarsi l’una peggiore dell’altra. Così Salvini: “Taci e digiuna, assassino comunista”. Frase che sembra corrispondere alle iscrizioni da camere di sicurezza con tavolaccio da caserma, ossia quel “mutismo e rassegnazione” proprio dei caporali di giornata. E noi, pensa un po’, lo ritenevamo già Capitano! Giorgia Meloni, calandosi nel fondo del barile di un prevedibile lessico non meno “fascista”, conferma: “Era abituato al caviale... È dura la vita degli assassini che pagano per i loro crimini”. Impliciti invisibili emoticon accompagnano la frase innalzando ora un dito medio ora un faccina-ghigno. Linguaggio feroce, tutto vero. Ciononostante, tornando al leghista, obiettivamente caricaturale, Salvini, in questo tristo caso, par di vederlo nei panni del carceriere guercio e coperto di stracci che appare nelle segrete ora de “L’isola del tesoro” ora de “Il Conte di Montecristo”, calco perfetto della maschera demagogica che le destre offrono all’immancabile risentimento plebeo. Tragicamente, in presenza di un simile linguaggio degradato, perfino il “coatto” Cesare Battisti assume spessore etico, sembra giganteggiare. Intendiamoci, personalmente, in tempi non sospetti, ho scritto parole durissime proprio sull’allora fuggitivo Battisti, soffermandomi sulla sua protervia tracotante, sul tratto, appunto, da “coatto”, sulla sua faccia di. Conquistando insulti e perfino minacce da parte di un segmento di mondo che ancora adesso ritiene che il cosiddetto “partito armato” avesse ragioni palingenetiche per provarci e magari farcela. Ah, se solo fossimo riusciti a prendere il potere…, così era possibile leggere nei commenti, tra le righe. Ho raccolto gli insulti degli ex brigatisti e dei loro nipotini che ancora adesso pensano agli zii e alle zie già armati con la deferenza che va riconosciuta ai titani. Colpevole di avere insultato “Cesare”. Dimenticavo: ho trovato apprezzabili i modi civili dei nostri poliziotti che hanno scortato Battisti dal Brasile di Bolsonaro fino a Ciampino, con Salvini, allora ministro degli Interni, a mostrarsi tronfio, la giacca a vento della Polizia addosso, accanto alla “preda” ormai nel sacco. Negli ultimi mesi, più volte ho però ripensato all’ex terrorista-scrittore Cesare Battisti con gli occhi della compassione, perfino a dispetto della sua trascorsa tracotanza e della ottusa difesa d’ufficio dei suoi “amici” e “compagni”. La pelle dell’orso sconfitto, inchiodata ormai al muro come un trofeo, merita rispetto, assai meno le parole da grevi questurini di Salvini e Meloni. Terribile essere condannati a mostrarsi, ma che dico, a essere migliori di chi vorrebbe governarci schiumando studiato livore. Necessario dimostrare il dolo specifico per il trasferimento fraudolento di valori di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2020 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 12 giugno 2020 n. 18125. Il reato di trasferimento fraudolento di valori si realizza attraverso l’attribuzione ad altri di denaro, beni o altre utilità - suscettibili di confisca a titolo di misura di prevenzione patrimoniale - in base a una vicenda negoziale con effetti traslativi che soltanto all’apparenza faccia acquisire a terzi la titolarità o la disponibilità del bene, in realtà rimasto nel patrimonio e sotto il controllo del soggetto apparente cedente e il delitto può sussistere anche in relazione a un’attività economica in corso, nel senso che il reato può configurarsi non solo con riferimento al momento iniziale dell’impresa, ma anche in una fase successiva, allorquando in un’impresa o società, sorta in modo lecito, si inserisca un terzo quale socio occulto, che, attraverso lo schema dell’interposizione fittizia, persegua le finalità illecite previste dalla norma. In questa prospettiva, ai fini della configurabilità del reato, sotto il profilo materiale, non è sufficiente l’accertamento della mera disponibilità del bene da parte di chi non ne risulti formalmente titolare, ma occorre la prova, sia pure indiziaria, della provenienza delle risorse economiche impiegate per il suo acquisto da parte del soggetto che intenda eludere l’applicazione di misure di prevenzione. Mentre, da punto di vista soggettivo, occorre la dimostrazione del dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale in capo a tutti i concorrenti del reato; tale scopo assumendo un duplice significato: da un lato, riferito all’intenzione dell’agente di provocare un evento lesivo, dall’altro, riferito all’oggettiva idoneità dell’azione a produrre tale risultato. È quando ha stabilito la Sezione VI della Cassazione penale con sentenza 12 giugno 2020 n. 18125. L’identikit del reato - Come è noto, il reato [già] previsto dall’articolo 12- quinquies, comma 1, del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992 n. 356 (ora, disciplinato dall’articolo 512-bis del Cp), è una fattispecie a forma libera, che si concretizza nell’attribuzione fittizia della titolarità o della disponibilità di denaro, beni o altra utilità, realizzata in qualsiasi forma al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando ovvero per agevolare la commissione di delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego di beni di provenienza illecita, con la precisazione che l’espressione “attribuzione” ha una valenza ampia che rinvia non soltanto alle forme negoziali tradizionalmente intese, ma a qualsiasi tipologia di atti idonea a creare un apparente rapporto di signoria tra un determinato soggetto e il denaro, i beni o le altre utilità rispetto alle quali, però, rimane intatto il potere di colui che effettua l’attribuzione o per conto o nell’interesse del quale l’attribuzione è operata. (cfr. sezione I, 10 luglio 2007, Brusca e altri; nonché, sezione I, 26 aprile 2007, Di Cataldo; più di recente, sezione II, 21 gennaio 2019, Riela e altri, secondo la quale il termine “attribuzione” prescinde da un trasferimento in senso tecnico-giuridico, rimandando, non a negozi giuridici tipicamente definiti ovvero a precise forme negoziali, ma piuttosto fa riferimento a una indeterminata casistica, individuabile anche soltanto attraverso la comune caratteristica del mantenimento dell’effettivo potere sul bene “attribuito” in capo al soggetto che effettua l’attribuzione ovvero per conto o nell’interesse del quale l’attribuzione medesima viene compiuta, richiedendosi soltanto l’accertamento che il bene che appaia nella “titolarità o disponibilità” di un soggetto, in realtà sia riconducibile a un soggetto diverso). La condotta di “attribuzione”, finalizzata a creare una situazione di apparenza giuridica e formale della titolarità e della disponibilità dei beni, del denaro o delle altre utilità non corrispondente alla realtà, presuppone comunque, a tal fine, che il soggetto che procede all’attribuzione stessa, o nell’interesse del quale la medesima è effettuata, sia il reale dominus, che ricorre ad atti o operazioni simulate per sottrarsi a eventuali provvedimenti ablativi previsti dalla legislazione in tema di misure di prevenzione patrimoniali o per agevolare la commissione di reati connessi alla circolazione di mezzi economici di provenienza illecita. Da ciò deriva che per la configurabilità del reato è necessario accertare l’esatta identità del “reale” intestatario dei beni, perché solo in tal modo è possibile apprezzare la “fittizietà” dell’attribuzione, da cui può farsi discendere l’addebito concorsuale a carico sia dell’intestatario reale che di quello fittizio (sezione II, 15 marzo 2013, Morra e altro). Assolutamente pacifico, poi, è l’assunto secondo cui il dolo specifico richiesto dalla fattispecie incriminatrice, consistente (fra l’altro) nel fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione, può sussistere non solo quando sia già in atto la procedura di prevenzione, ma anche prima che la procedura sia intrapresa, quando l’interessato possa fondatamente presumerne imminente l’inizio (cfr., ancora, sezione I, 26 aprile 2007, Di Cataldo). In linea con tale affermazione, cfr. di recente, sezione II, 21 febbraio 2018, Fasciani e altri, laddove si è così affermato che anche l’affitto di un ramo di azienda o l’amministrazione fittizia possono integrare ipotesi di attribuzione fittizia, dirette a creare una realtà giuridica apparente nell’interesse del reale dominus; con l’ulteriore precisazione che il reato sussisterebbe anche allorquando l’atto dispositivo sia formalmente posto in essere da un soggetto diverso dal titolare del bene; nonché, sezione VI, 5 giugno 2018, Traina, che si è particolarmente soffermato sull’elemento soggettivo, sostenendo che il reato richiede che tutti i concorrenti nel reato abbiano agito con il dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, per la cui prova in giudizio non è sufficiente dar conto della fittizia attribuzione della titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità: solo il dolo specifico, consistente nella precipua finalità di elusione delle misure di prevenzione patrimoniali, qualifica infatti la condotta, differenziandola da una lecita simulazione di carattere civilistico. Corretto acquisire con le intercettazioni la messaggistica del sistema Blackberry di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2020 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 13 maggio 2020 n. 14725. In materia di utilizzazione di messaggistica con il sistema Blackberry è corretto (e doveroso) acquisirne i contenuti mediante intercettazione ex articoli 266 e seguenti. (in particolare, articolo 266-bis) del Cpp e seguenti, atteso che le chat, anche se non contestuali, costituiscono un “flusso di comunicazioni”. Mentre, per quanto attiene alle modalità di autorizzazione delle operazioni, rispetto a utenze operanti nel territorio nazionale non è necessario procedere a rogatoria all’estero, essendo irrilevante, con riguardo proprio al sistema Blackberry, la circostanza che il messaggio debba essere necessariamente trasmetto in Canada - dove vi è la chiave necessaria alla cosiddetta “messa in chiaro” - prima di essere reinviato al destinatario finale decriptato. Infatti, tale trasmissione attraverso il server canadese assolve solo alla funzione di decriptazione, senza alcuna alterazione del contenuto. Questo il principio espresso dalla Cassazione, Sezione III penale con la sentenza 13 maggio 2020 n. 14725. I precedenti - In senso conforme, sezione III, 10 novembre 2015, Guarnera e altri, secondo cui, in materia di utilizzazione di messaggistica con il sistema Blackberry è corretto (e doveroso) acquisirne i contenuti mediante intercettazione ex articoli 266-bis del codice di procedura penale e seguenti, atteso che le chat, anche se non contestuali, costituiscono un “flusso di comunicazioni”: l’intercettazione, del resto, avviene con il tradizionale sistema, ossia monitorando il codice Pin del telefono (ovvero il codice Imei), che risulta associato in maniera univoca a un nickname. Pertanto, deve escludersi che, per acquisire tale messaggistica, debba procedersi mediante lo strumento del sequestro probatorio ex articolo 254-bis del codice di procedura penale, ove si consideri che il sequestro probatorio di supporti informatici o di documenti informatici, anche detenuti da fornitori di servizi telematici, esclude, di per sé, il concetto di comunicazione e va disposto solo quando è necessario acquisire al processo documenti a fini di prova, mediante accertamenti che devono essere svolti sui dati in essi contenuti. In tale occasione la Corte ha affrontato anche la questione dell’eventuale rogatoria, che ha escluso, ritenendo cioè che non fosse necessario il ricorso a una rogatoria internazionale in quanto, benché la società fosse canadese, le comunicazioni tramite messaggi erano avvenute in Italia, per effetto del convogliamento delle chiamate in un nodo situato in Italia, ove era stata svolta l’attività di captazione, tanto che l’intercettazione, a livello tecnico, era stata gestita dalla sede italiana della società. Applicabilità della scriminante dell’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2020 Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Motivi di particolare valore morale o sociale - Condizioni di applicabilità della scriminante. In tema di circostanze attenuanti comuni, i motivi di particolare valore sociale e morale sono quelli che, in un determinato momento storico, sono riconosciuti come tali e valutati favorevolmente dalla prevalente comunità sociale e che corrispondono a valutazioni morali condivise. [Fattispecie nella quale la Corte ha escluso la sussistenza della scriminante nel caso No Tav ritenendo i fatti oggetto del processo espressione della volontà di opporsi alle forze dell’ordine e alla realizzazione di un’opera pubblica e solo indirettamente espressione dell’interesse alla tutela dell’ambiente e della salute, valore costituzionale generalmente condiviso]. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 1 luglio 2020 n. 19764. Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Motivi di particolare valore morale o sociale - Nozione - Fattispecie. I motivi di particolare valore morale o sociale ai quali l’art. 62, comma primo, n. 1, cod. pen., riconosce efficacia attenuante sono soltanto quelli sul cui intendimento come tali si registra un generale consenso sociale. (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso la configurabilità dell’attenuante con riferimento alla condotta di due genitori, stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, che avevano fatto falsamente figurare il loro figlio naturale come partorito da una cittadina italiana, al fine di fargli acquisire la cittadinanza). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 15 giugno 2018 n. 27746. Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Danno patrimoniale di speciale tenuità - Intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile - Sufficienza - Esclusione - Obiettiva rispondenza a valori etici o sociali riconosciuti dalla società - Necessità - Conseguenze in caso di erronea rappresentazione da parte dell’agente - Fattispecie. Ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, non è sufficiente l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, essendo necessaria l’obiettiva rispondenza del movente della condotta a valori etici o sociali condivisi e riconosciuti come preminenti dalla coscienza collettiva; ne consegue che l’attenuante non può trovare applicazione se il fatto di particolare valore morale o sociale esiste soltanto nell’erronea opinione del soggetto attivo del reato, anche in ragione della disciplina prevista dall’art. 59 cod. pen., in base alla quale le circostanze devono essere applicate per le loro connotazioni oggettive. (Fattispecie nella quale la Corte ha confermato la sentenza di appello che non aveva riconosciuto l’attenuante nella condotta di danneggiamento compiuta dall’imputato, durante una conferenza in un’aula universitaria, per contestare le missioni di pace dei militari italiani all’estero). • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 3 gennaio 2017 n. 197. Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Motivi di particolare valore morale o sociale - Provocazione - Compatibilità - Condizioni - Fattispecie. La possibilità di applicare simultaneamente l’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale e quella della provocazione è subordinata all’accertamento, in concreto, della loro ascrivibilità a distinte situazioni concrete, poiché qualora il fatto che ne è alla base sia unico, per il principio del “ne bis in idem” sostanziale che impedisce la reiterata valutazione del medesimo elemento ai fini della riduzione della pena, deve applicarsi una sola delle anzidette circostanze. (Fattispecie relativa ad omicidio volontario di persona che minacciava la figlia minorenne dell’agente e ne picchiava la convivente, in cui è stato ritenuto corretto il riconoscimento della sola attenuante della provocazione, a fronte di richiesta di valutazione del fatto anche ai fini della concessione dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 29 luglio 2010 n. 29929. Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Motivi di particolare valore morale o sociale - Valori avvertiti dalla prevalente coscienza collettiva - Necessità - Sussistenza. Ai fini del riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 cod. pen., i particolari motivi morali e sociali sono quelli che traggono origine da valori avvertiti dalla prevalente coscienza collettiva. (In applicazione di tale principio la Corte ne ha escluso l’applicabilità in relazione alla condotta volta a rimuovere una situazione ritenuta antisociale da un determinato gruppo politico ma sulla quale risultava mancante un generale consenso sociale). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 13 marzo 2003 n. 11878. Sardegna. La nuova Caienna dei capimafia: 110 in arrivo al carcere di Uta di Mauro Pili L’Unione Sarda, 13 luglio 2020 Il ministro della Giustizia accelera per la conclusione dei lavori nelle celle destinate al regime del 41 bis. U verru, il porco, probabilmente all’inaugurazione non ci sarà. Si è pentito lo scannacristiani, come lo chiamavano i suoi affiliati. Giovanni Brusca, 63 anni, al posto del curriculum vitae ha il registro di un cimitero. Ha raccontato tutta la sua vita, ha fatto nomi e cognomi dei suoi compari. Dal 2021 potrebbe lasciare il carcere di Rebibbia. Per capire cosa sia un capomafia basta leggere la sua deposizione: “Ho ucciso io Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato (sciolto nell’acido, ndr). Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”. Brusca non farà in tempo a partecipare al taglio del nastro della nuova Caienna per capimafia in terra sarda. Il pentimento potrebbe portarlo ad essere un cittadino libero già dal prossimo anno. Come se niente fosse. Non sarà, dunque, tra i nuovi 110 capi dei capi che a fine estate sbarcheranno a Cagliari per occupare il padiglione del 41 bis nel carcere di Uta, a due passi dal capoluogo sardo. Capi dei capi, efferati, numeri uno della criminalità organizzata. Camorristi, mafiosi, esponenti di primo piano di ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita. Tutti in Sardegna, nell’isola del diavolo, come la vecchia Cayenne francese. Con una semplice differenza, quell’isolotto divenuto celebre per la detenzione più dura al largo della costa della Guyana francese era un deserto grande appena 14 ettari. Non è così per la Sardegna, regione insulare, con un milione e 650 mila abitanti e un’estensione di 24 mila km quadrati. Non un isolotto desertico in mezzo al mare. Il nuovo braccio - Giovanni Brusca, dunque, non ci sarà ma a Cagliari arriveranno tutti i suoi adepti e soprattutto il suo capo Leoluca Bagarella. Ci saranno quelli più spietati, uomini dalla fedina penale enciclopedica. Lo sbarco in terra sarda è solo questione di settimane, forse qualche mese. Dal Dap, il dipartimento del ministero dell’amministrazione penitenziaria, non passa giorno che non parta una telefonata alla volta del Provveditorato interregionale per le Opere pubbliche del ministero delle Infrastrutture. La richiesta è perentoria, l’immediata consegna del padiglione per detenuti sottoposti al regime del 41 bis. La sezione dei capimafia nel carcere di Uta doveva essere pronta già dal 2013 ma le alterne vicende del cantiere hanno lasciato in alto mare le celle dei boss. Come capita spesso in Sardegna i blitz si organizzano d’estate, nella distrazione collettiva e il Dap romano vorrebbe compiere il trasloco già a fine agosto, massimo nella prima decade di settembre, quando ombrelloni e sdraio sono ancora dispiegati nelle spiagge dell’isola. Il cantiere lavora alacremente per mettere fine a quell’incompiuta. Lo stanziamento iniziale per quel padiglione dei capimafia era di 18 milioni, su un quadro finanziario complessivo dell’intero carcere che ha raggiunto l’esorbitante cifra di 94,5 milioni di euro. Le opere rimesse in cantiere per la conclusione del padiglione 41 bis della Casa Circondariale Cagliari “Ettore Scalas” costeranno alla fine, salvo nuovi oneri in corso d’opera, un milione e 600 mila euro. Ogni suite per i capimafia nel carcere di Uta costerà la bellezza di 170 mila euro l’una. Un pozzo senza fondo sul quale la magistratura cagliaritana ha puntato i riflettori e il pm Emanuele Secci ha già mandato a processo 12 responsabili tra impresari e funzionari. Un terzo dei capimafia in Sardegna - Il numero uno del dipartimento penitenziario del ministero della Giustizia, poco prima del lockdown, aveva sostenuto la tesi che le uniche celle del 41 bis a norma sono quelle del carcere di Bancali a Sassari e quelle ormai pronte della casa circondariale di Cagliari-Uta. La scusa per trasferire in Sardegna la peggior specie di criminali legati alle più spregiudicate cosche del malaffare è messa nero su bianco, giustificazione a prova di sentenza europea sulla dimensione delle celle e la loro vivibilità. Con l’operazione Uta i capimafia in Sardegna diventeranno 202, 110 a Cagliari e 92 (oggi sono 85) a Sassari. Quasi un terzo dei detenuti in regime di 41 bis saranno nell’isola, sui 700 complessivamente presenti nelle carceri italiane. A questi soggetti di primissimo piano si aggiungono quelli già dislocati nelle carceri di Oristano e Tempio, con tanto di detenuti in alta sicurezza 1, 2 e 3, ovvero detenuti appena usciti dal 41 bis, capimafia degradati, trafficanti internazionali di droga e terroristi legati allo jihadismo estremo. Il connubio con Mesina - Per la Sardegna si rischia un colpo letale con devastanti contaminazioni del tessuto criminale locale e la stessa sicurezza nelle carceri. Due aspetti presi sottogamba e che stanno segnando fatti cruenti sia per i risvolti legati alle infiltrazioni delle grandi organizzazioni criminali nell’economia dell’isola, vedasi energie rinnovabili e rifiuti, turismo e soprattutto droga, sia per quanto riguarda l’incolumità degli agenti negli istituti penitenziari. Nell’ultima relazione semestrale della Direzione Distrettuale Antimafia lo spaccato sardo non lascia adito a dubbi. L’infiltrazione si sta consumando nei gangli della criminalità sarda, da nord a sud dell’isola, passando per l’entroterra nuorese. I vertici dell’antimafia hanno scritto esplicitamente il riferimento al connubio tra Graziano Mesina e le grandi organizzazioni criminali del continente. L’anello di congiunzione, nato nelle carceri sarde e non solo, è figlio di quella contiguità territoriale e criminale nata proprio dal contatto diretto tra delinquenti locali, mafiosi, camorristi e soprattutto esponenti di primo piano dell’Ndrangheta. Scrive la Direzione Distrettuale Antimafia: “Sono tra l’altro noti, ormai da tempo, collegamenti tra i sodalizi criminali di tipo mafioso tradizionali e la criminalità sarda per la gestione del traffico di armi e di droga. A titolo di esempio, si riporta la vicenda di un noto bandito sardo (condannato più volte per i reati di omicidio e sequestro di persona) il quale, scarcerato nell’anno 2004, è stato poi condannato a 30 anni di reclusione, con sentenza del maggio 2018, perché ritenuto al vertice di una organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti, unitamente a esponenti della cosca calabrese dei Morabito. L’episodio testimonia la presenza di proiezioni delle “mafie tradizionali”, che creano relazioni e accordi con le compagini criminali autoctone. Un aspetto, quest’ultimo, evidenziato anche nell’analisi della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo”. 500 agenti in meno - Parole incise a fuoco sul futuro dell’isola, da sempre considerata impenetrabile e che ora, invece, convive con un assedio devastante delle organizzazioni criminali ai massimi livelli. Il pericolo delle infiltrazioni è ovviamente legato agli effetti interni ed esterni alle carceri sarde dei detenuti in regime di 41 bis e di oltre 300 affiliati in alta sicurezza dislocati tra Oristano e Tempio e che finiscono per riversare in Sardegna adepti e familiari. Alcuni hanno già trovato casa. È capitato a Porto Torres e Golfo Aranci. La morsa criminale, però, potrebbe toccare il massimo pericolo con l’arrivo a Cagliari di una nuova ondata di capi dei capi. E come hanno ripetuto anche recentemente autorevoli magistrati il pericolo infiltrazioni rischia di diventare una certezza. A questo si aggiunge la sicurezza nelle carceri, dove si contano 500 agenti in meno di quanto il carico di lavoro preveda. Personale abbandonato a sé stesso, il più delle volte senza direttori a tempo pieno. L’ultima delle note dolenti: nelle garrite di ferro esposte al sole nel carcere oristanese, roventi dal caldo di luglio, l’aria condizionata non funziona. Bagarella e Zagaria verso Cagliari - L’ultimo episodio nei giorni scorsi proprio nel carcere di Massama ad Oristano. Salvatore Azzarelli, con all’attivo la preparazione della strage di Capaci bis per far saltare in aria i giudici della sentenza di condanna per l’omicidio di Giovanni Falcone, ha inscenato un tentativo di rivolta, fortunatamente seguito da nessuno. Poteva andare peggio. Nelle scorse settimane, invece, un agente dei Gom, il nucleo speciale che sorveglia nei bunker di Bancali i capimafia del 41 bis, ha rischiato di perdere un occhio. A tentare di infilzarlo con una penna uno dei soci di Brusca e compagni, tale Leoluca Bagarella, in arte don Luchino. Uno dei vertici di Cosa Nostra, affiliato al clan dei Corleonesi, classe 1944, spietato criminale pluriomicida, l’uomo che ha guidato la strage di Capaci e il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo sciolto nell’acido ad appena 13 anni. Per quell’aggressione i sindacati ne hanno chiesto l’immediato trasferimento. Don Luchino, invece, è ancora lì, in attesa di inaugurare nelle prossime settimane il padiglione del 41 bis del carcere di Cagliari-Uta. E quando ritornerà dalla pausa domiciliare del Covid potrebbe raggiungere il sud Sardegna anche Pasquale Zagaria, mandato a casa in piena pandemia perché non godeva di sufficienti cure mediche. Tutti a Cagliari, la nuova Caienna di Sardegna. Velletri (Rm). Tragedia nel carcere, detenuto 56enne muore nel sonno ilcorrieredellacitta.com, 13 luglio 2020 Tragedia nel carcere di Velletri, dove un detenuto di 56 anni è deceduto questa notte durante il sonno. L’uomo, residente a Nettuno, era andato a dormire tranquillamente quando, durante la notte, il suo compagno di cella si è accorto che il 56enne aveva assunto nel letto una posizione strana. Avvicinatosi all’uomo, ha quindi provato a svegliarlo e a chiamarlo senza avere risposta. Subito il detenuto ha allertato l’agente responsabile di turno che a sua volta ha allertato i soccorsi. Purtroppo all’arrivo dell’ambulanza, i sanitari del 118 non hanno potuto far altro che accertare la morte del 56enne. La causa del decesso sembrerebbe un arresto cardiaco riconducibile ad un infarto. A divulgare la notizia sono stati questa mattina Carmine Olanda e Ciro Borrelli, entrambi sindacalisti del SIPPE (Sindacato Polizia Penitenziaria). Il Sippe da anni denuncia le gravi condizioni di lavoro degli operatori penitenziari. “Sembrerebbe che il detenuto deceduto assumesse una terapia importante per problemi cardiovascolari, e da circa un mese si trovava ristretto nel penitenziario di Velletri in attesa di giudizio senza avere mai dato fastidio a nessuno”. Dichiara Ciro Borrelli. “Come Sindacato questi episodi devono fare riflettere attentamente tutte le Autorità che gestiscono il penitenziario di Velletri - commenta Carmine Olanda, dirigente nazionale del Sippe - perché abbiamo più volte denunciato e sollecitato l’ASL RM6 di Albano Laziale la necessità di avere l’assistenza sanitaria h24 o almeno fino alle ore 20 presso il nuovo padiglione “Reparto D”. Ma a tutt’ oggi i responsabili della ASL RM6 di Albano Laziale del Penitenziario di Velletri continuano ad ignorare l’importanza del servizio. Attualmente i ristretti del nuovo padiglione “Reparto D” fanno capo ad un’unica infermeria centrale situata in un altro padiglione adiacente. A nostro parere la distanza tra i due padiglioni potrebbe essere fatale per i soccorsi in caso di emergenza”. “Auspichiamo - Conclude Olanda - che il Garante dei diritti delle persone detenute, che pochi giorni fa è venuto per verificare lo stato delle condizioni detentive in cui si trovano a vivere i detenuti nel Penitenziario di Velletri e tutte le altre Autorità a cui abbiamo denunciato il disservizio, trovino al più presto una soluzione alla problematica esposta. Non possiamo più accettare che i problemi e la disorganizzazione della ASL RM6 ricadano sugli Agenti Penitenziari e di conseguenza sulla salute dei detenuti”. Perugia. In carcere ripartono i corsi di formazione per i detenuti Corriere dell’Umbria, 13 luglio 2020 Il gel al posto delle strette di mano con i docenti, le mascherine al volto, i guanti, il distanziamento. Regole nuove al tempo del Covid ma sempre stessa motivazione e stesso entusiasmo. Si torna in aula anche all’interno del carcere di Capanne dopo 116 giorni. Riparte il progetto “Argo: percorsi formativi per il reinserimento dei detenuti”, finanziato dalla Regione Umbria tramite finanziamento del Fondo Sociale Europeo, e gestito dall’Ati composta da Frontiera Lavoro, Cesar e Cnos Fap, con 15 detenuti della sezione maschile inseriti nel corso per “Addetto alla cucina”, il primo a ripartire dopo la sosta lo scorso marzo per l’emergenza pandemica, previste 120 ore di didattica. A seguire gli altri percorsi formativi per “Impiantista elettricista”, “Addetto ai servizi di pulizia” e “Addetto alle colture vegetali ed arboree”, in tutto 57 i partecipanti. “Per noi - dichiara Marco uno degli allievi - la formazione professionale e il lavoro sono strumenti di riscatto. Quello che solitamente è un periodo di abbrutimento e degrado, per noi diventa l’occasione per cominciare una nuova vita”. E tornerà quest’anno, probabilmente all’inizio del mese di settembre, anche la cena di gala “Golose Evasioni”, questa volta all’aperto per rispettare le prescrizioni volte a contenere la diffusione del coronavirus. “È una vera gioia riprendere le nostre lezioni in carcere” afferma la chef Catia Ciofo. Le diverse attività progettuali saranno condotte dal personale di Frontiera Lavoro secondo la metodologia che da venti anni contraddistingue il suo operato e che nel corso degli anni ha consentito l’inserimento al lavoro di 107 detenuti. La redazione di un progetto professionale è alla base di una metodologia che ha come presupposto l’adesione attiva del beneficiario al percorso di educazione al lavoro. “Come dimostra l’esperienza che abbiamo maturato anche in altri contesti - sostiene Luca Verdolini, coordinatore del progetto - la rieducazione dei detenuti è efficiente sia per loro che per la società e la formazione professionale è la forma più adeguata per perseguirla. L’esperienza formativa, infatti, aumenta il grado di stima dei detenuti consentendo una riscoperta della loro dignità, permette il recupero dei legami familiari favorendo una rinnovata socialità e, infine, incide sulla recidiva, migliorando i comportamenti individuali e le abitudini sociali”. Proprio per questo il progetto “Argo” rappresenta un’occasione unica per i detenuti di sperimentare un contesto reale con cui misurarsi. Regole, responsabilizzazione, dignità. Si scoprono così, in carcere. “Resto meravigliato, - dice Gaetano - davanti ai piatti che riesco a realizzare. La bellezza aiuta a vivere, ridà speranza. È vero per tutti, perché non dovrebbe esserlo anche per noi?”. Cagliari. “Sanità in carcere: disattese le linee guida”. L’intervento di Fsi-Usae buongiornoalghero.it, 13 luglio 2020 “Le segnalazioni che pervengono al sindacato Fsi, relative alla riorganizzazione della medicina dei servizi presso il carcere di Uta e l’Ipm di Quartucciu, in contrasto con le linee guida regionali sono ormai quasi quotidiane. In proposito abbiamo inviato urgentemente una lettera al Commissario Straordinario Dott. Steri, al Direttore Sanitario dott. Locci e, per conoscenza all’Assessore regionale alla Sanità dott. Nieddu” spiega la Segretaria nazionale confederale dell’Fsi-Usae Mariangela Campus. La turnazione attuale nella medicina dei servizi avviene con la ripartizione della giornata in 6 e 12 ore la mattina (08.00-14.00), il pomeriggio (14.00-20.00) e la notte (20.00-08.00), poi i festivi e i prefestivi in 12 ore. La distribuzione delle mattine, pomeriggi e notti avviene secondo un principio di rotazione ed equità. Nel caso specifico, il responsabile vorrebbe: affidare ai medici in convenzione la presa in carico dei singoli detenuti come se, gli stessi, fossero medici di medicina generale; definire la giornata lavorativa, dei medici che hanno 17-20-24-26 ore settimanali (il maggior numero di ore), in di 4 ore e più ore/die con la presenza costante, per almeno 4 giorni continuativi a settimana. I medici di Medicina Generale che completano il loro orario con le ore della medicina dei servizi, sono obbligati, secondo il responsabile, all’impegno dei quattro giorni consecutivi in carcere, ovvero diventando “medici di famiglia in carcere”. É stata indetta, dalla Responsabile Dott.ssa Frau, degli Istituti penitenziari di Uta, Quartucciu e Isili una riunione alla presenza di tutti i medici, compreso il responsabile che non ha sortito alcun effetto. Il 18 maggio viene presentato dal Dott. Fei il suo progetto riguardante “la Riorganizzazione del Carcere”, questo nuovo assetto contrasta con le linee guida regionali e sorge il dubbio sulla fattibilità per diversi motivi, per esempio: le linee guida prevedono, per le carceri con una media di detenuti superiore ai 200, la presenza dell’ H24, che deve essere effettuato solamente da un medico della medicina dei servizi o da un medico dipendente. Sicuramente non ci sono sufficienti medici dipendenti, e non si può affidare il compito ai medici del 118, che per loro contratto, non possono fare altro che urgenze ed emergenze, e quindi non è previsto che vedano un nuovo detenuto; il turno di mattina o del pomeriggio, secondo il programma Fei, avrebbe tre/quattro medici a ciascuno dei quali andrebbe attribuito un agente di polizia penitenziaria ed un infermiere (da destinare per tutto il turno di visita), ma l’organico non lo permette facendo rischiare al medico di restare da solo con una cinquantina di detenuti, con il pericolo di essere sequestrato od altro. Questo modello prevede una parcellizzazione dell’orario di presenza del medico della medicina dei Servizi che comporterà un maggior numero di accessi e di conseguenti rimborsi chilometrici per i medici. Chi li pagherà, visto che i fondi non basteranno? Oltretutto, i medici convenzionati per la medicina dei servizi svolgono altre attività professionali in altre sedi di lavoro, che gli verranno impedite o limitate dalla parcellizzazione dell’incarico. Chi li indennizzerà? Tutto ciò, altera i singoli equilibri e renderà impossibile lo svolgimento di ulteriori attività che venivano svolte precedentemente, con conseguente danno da lucro cessante. Infatti, secondo il nuovo progetto-FEI non sarebbe possibile scambiare i turni né recuperare il turno non effettuato per motivi di forza maggiore provocando così una ulteriore perdita economica. “Il comitato aziendale che si è riunito per discutere della riorganizzazione del carcere a tutt’oggi non ha prodotto alcun esito. Chiediamo quindi un intervento risolutorio tenendo presente che la riorganizzazione del carcere avverrà dopo il 14 luglio a seguito del rinnovo dei contratti dei medici” conclude la Segretaria nazionale confederale dell’Fsi-usae Mariangela Campus. Padova. Il questore Fusiello: “Droga? La vera piaga della città, andrò nelle scuole” di Marina Lucchin Il Gazzettino, 13 luglio 2020 È la droga la vera piaga della città. O meglio: chi la vende. Ma anche chi la consuma. Per i pusher c’è l’arresto, ma è difficile restino in cella più di qualche notte: hanno poca roba in tasca quando vengono scoperti dalle forze dell’ordine, e questo non basta ad aprire loro le porte del carcere. L’unico vero modo per far sparire lo spaccio, dunque, è quello di educare i ragazzi a non acquistare e a non consumare stupefacenti. Niente clienti, niente spacciatori. Parola del questore Isabella Fusiello, che, a tal proposito, sta già organizzando un progetto innovativo nelle scuole a partire dalla loro riapertura: “I ragazzi hanno bisogno di esempi, non di parole. E su questo concetto si baserà il progetto che ho in mente”. E intanto continuano gli incontri con i residenti che lamentano un problema di sicurezza nei vari quartieri. Dopo il primo, avvenuto martedì scorso al parco Usignolo, stasera Fusiello sarà all’Arcella alle 21. “Sono fatta così, parlare con i cittadini, direttamente, è il mio modo di fare. Mi comportavo nella stessa maniera anche negli altri luoghi dove ho prestato servizio - precisa il questore - C’è una tale confusione a volte che il cittadino non sa a che santo votarsi. Però i momenti migliori arrivano proprio quando i cittadini ti ringraziano per il tuo operato, come successo in via Dalmazia”. Proprio qui, nell’Ansa Borgomagno, i residenti di questo rione dell’Arcella avevano iniziato a protestare: “Non ci sentiamo liberi di fare due passi fuori dalle nostre abitazioni per via di tutti questi spacciatori, per cui di sera ci viene imposto una sorta di coprifuoco, e le ragazze e le donne si trovano particolarmente a disagio nell’uscire di casa” avevano raccontato al Gazzettino qualche giorno fa. “Appena ho letto l’articolo - evidenzia Fusiello - ho mandato il Reparto mobile. E i residenti hanno applaudito gli agenti. Continueremo a eseguire servizi di questo genere, la sicurezza e il senso di sicurezza dei cittadini sono il nostro obiettivo. È stato bellissimo veder riconosciuto il nostro impegno in via Dalmazia”. E proprio stasera il questore sarà all’Arcella per incontrare i residenti del quartiere più multietnico e popoloso della città. “A me non spaventa il confronto coi cittadini. Noi stiamo facendo già tutto quel che possiamo in base alle nostre forze e alle leggi che abbiamo a disposizione”. Nell’ultima settimana sono avvenuti pero alcuni episodi di violenza in centro. Il più eclatante è stata l’aggressione a una donna in piazza dei Frutti, rea di aver fatto l’elemosina a uno straniero. “Non è che possiamo star dietro a tutte le intemperanze dei cittadini - evidenzia il questore - la cosa importante però è che il violento sia stato identificato”. Era un bellunese 37enne, con precedenti per droga E poi c’è stata l’aggressione a Palestro, con una residente che dopo aver cercato di cacciare un pusher, volto noto della zona, è stata aggredita dall’amica del malvivente. Risultato? Un dito rotto. “La legge non consente di mandare queste persone in galera, perché è piccolo spaccio. Quindi o cambia la legge oppure li rincorriamo da un quartiere all’altro - spiega Fusiello. Il problema è che oltre ad adulti, tra i clienti ci sono molti ragazzini che evidentemente non sono stati educati, non conoscono i pericoli cui vanno incontro drogandosi. D’altro canto ormai i genitori sono presi dal lavoro, la scuola è quello che è, e non ci sono più centri di aggregazione. L’unico loro modo di aggregarsi è la movida. Ma appena le scuole inizieranno, ho in mente un progetto. I ragazzi hanno bisogno di esempi e non di parole. Speriamo di poter fare qualcosa”. Pisa. Il carcere di Volterra e il suo Teatro Stabile di Renzia D’Inca e Roberto Rinaldi articolo21.org, 13 luglio 2020 “Felice per l’avvio dei saggi archeologici per realizzare il Teatro Stabile in carcere - così dichiara l’assessore alla Cultura del Comune di Volterra Dario Danti - e orgoglioso di essere assessore alle culture in una città dove vogliamo realizzare il Teatro Stabile in Carcere. Quando ricoprivo il medesimo ruolo a Pisa, nel 2014, lanciammo con l’allora assessora regionale Cristina Scaletti, l’idea della Rete delle città per il Teatro Stabile nel Carcere di Volterra. Desidero anche ringraziare in modo particolare l’ex-Garante dei detenuti della Regione, Franco Corleone, per la tenacia dimostrata in tutti questi anni, finalizzata a dare concretezza a un sogno. In meno di un anno - i lavori sarebbero dovuti partire a metà marzo -, ma l’emergenza Covid ha rinviato tutto, abbiamo dato la svolta politica necessaria. Questa accelerazione è stata resa possibile dalla determinazione dalla nuova amministrazione comunale di Volterra e da Monica Barni, vice-presidente della Giunta regionale, che ha saputo coordinare e far dialogare tutte le istituzioni per conseguire l’obiettivo. Al di là del ruolo istituzionale che in questo preciso momento ricopro - continua Dario Danti -, mi sento di fare un ringraziamento particolare ad Armando Punzo e Cinzia De Felice, a nome di tutti: sono persone a cui mi unisce un senso profondo dello stare al mondo da una precisa parte della vita. Quella che accoglie e ri-conosce il valore di ogni forma di vita. Che non ritiene la legge del taglione la cifra per giudicare e condannare, assolvere o rimandare. La parte buona della vita non si misura, si pratica ogni giorno attraverso il dono”. L’idea era stata rafforzata dalla presenza dell’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, presente alla prima di Santo Genet al Teatro Verdi di Pisa che incontrò i detenuti-attori alla fine dello spettacolo. Da allora sono trascorsi ben sei anni. Di fatto oggi il finanziamento del Ministero della Giustizia, ammonta a 1,2 milioni di euro, denari che dopo anni di attesa, potranno finalmente essere impiegati. Nel mese di luglio sono iniziati i saggi archeologici per realizzare la struttura del Teatro Stabile in Carcere: un progetto importante per la città di Volterra, ma anche per la cultura teatrale in generale. Armando Punzo, regista e attore, artefice del progetto, insieme a Cinzia de Felice dell’associazione Carte Blanche, ne ha realizzato di fatto l’utopia. Punzo infatti da ben trent’anni dirige la Compagnia della Fortezza formata da attori - detenuti dentro la Fortezza Medicea. La struttura adibita a carcere, è perfettamente incardinata fra le mura dell’architettura medievale della città di origine etrusca, che l’ha resa famosa, arricchendola di turismo internazionale anche grazie al Festival di teatro che si è tenuto per decenni nel mese di luglio in concomitanza con l’esperienza dentro il Teatro in carcere. Il lavoro di Armando Punzo con gli attori è una esperienza artistica che ha fatto il giro del mondo: rientra ad ampio spettro negli studi della letteratura della Storia del Teatro, oggetto di studi, tesi di laurea ed esempio di buone pratiche di lavoro di riabilitazione delle persone incarcerate, secondo un preciso dettato di un articolo della Costituzione italiana, da decenni oggetto di salvaguardia da parte della Regione Toscana, che ha fatto del territorio toscano un presidio di attenzione e cura delle situazioni carcerarie. La notizia- ufficiale, dell’inizio dei lavori, ha innescato sui social una polemica anche dai toni accesi: su Facebook, l’ex sindaco della città Marco Buselli, in carica dal 2009 fino al 2019 per due legislature alla guida del Comune in Piazza dei Priori (eletto con una lista civica appoggiata da partiti di Destra), da cittadino volterrano ha reso noto la sua non contentezza rispetto alla realizzazione del Teatro Stabile in Carcere a Volterra. Nell’aprile 2019, dopo elezioni amministrative, l’attuale Giunta volterrana ha come sindaco Giacomo Santi eletto in una lista di centro sinistra dove Dario Danti ricopre il ruolo di assessore alle Culture. Scrive l’ex sindaco Marco Buselli sul suo profilo personale Facebook: “Se avessi dovuto sceglier delle priorità su cui spendere energie sarebbe stato oggi come ieri (ma con l’emergenza ancor di più) Lavoro, Ospedale, Servizi e Strade. Probabilmente ho solo detto quello che molti pensano ed il mio non è neanche un pensiero di cui detengo l’esclusiva”. Migranti. Il piano del Viminale: requisire navi e caserme per isolare i positivi al Covid-19 di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 13 luglio 2020 Le strutture saranno vigilate all’esterno per evitare disordini. Lunedì vertice europeo a Trieste con i ministri dei Paesi africani. Per isolare i migranti irregolari in arrivo Italia si utilizzeranno navi e caserme. Già nelle prossime ore il governo requisirà un traghetto, come già accaduto per la Moby Zazà che si trova a Porto Empedocle, e sta individuando strutture militari dove gli stranieri dovranno trascorrere la quarantena. Poi metterà a disposizione della Regione Calabria un immobile gestito dall’agenzia dei beni confiscati proprio per fare fronte all’emergenza di queste ore. Chi è risultato positivo al tampone rimarrà invece lontano dagli altri e sarà sottoposto a costanti controlli sanitari. Intorno a queste strutture saranno effettuati servizi di vigilanza per impedire ingressi di estranei e fermare eventuali proteste. La collaborazione della Ue - Un vero e proprio cordone anche per impedire che il malcontento dei cittadini possa essere sfruttato da formazioni politiche proprio come accaduto in passato nelle periferie delle città quando gli stranieri ottenevano gli alloggi popolari. È il piano messo a punto per contrastare l’arrivo di migliaia di persone nella consapevolezza che gli sbarchi si intensificheranno nei prossimi giorni. E inevitabilmente il pericolo che giungano altre persone positive al coronavirus. Gli analisti confermano che dopo il blocco dei voli da numerosi Paesi, compresi quelli africani, le organizzazioni criminali si sono già organizzate per far entrare le persone in Italia, garantendo anche il trasferimento in altri Stati europei. Per questo nel vertice internazionale in programma oggi a Trieste la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, tornerà a chiedere la collaborazione della Ue sottolineando il rischio di dover contrastare migliaia di arrivi nel corso dell’estate. Impennata di sbarchi - Secondo i numeri aggiornati dal Viminale al 10 luglio gli arrivi del 2020 sono stati 8.087 contro i 3.165 dello stesso periodo di un anno fa. Nelle ultime ore sono stati almeno 800 i migranti sbarcati, anche in maniera autonoma su spiagge e insenature, e circa 80 quelli risultati infetti da Covid-19. Il timore è che in realtà siano molti di più, sfuggiti ai pattugliamenti e tuttora in giro. Ecco perché è stata segnalata a questori e prefetti la necessità di intensificare i controlli sul territorio e segnalare l’identità di chi risulta giunto recentemente nel nostro Paese in modo da effettuare le verifiche e scongiurare il pericolo che si tratti di positivi. Navi e caserme - Oltre al Moby Zazà, traghetto che è stato ancorato a Porto Empedocle e ospita gli stranieri sbarcati dalla Ocean Viking la scorsa settimana, un’ordinanza della protezione civile o del Viminale metterà a disposizione un’altra nave che sarà invece portata sulla costa orientale della Sicilia, in modo che sia reso più agevole il trasferimento di chi sbarca in Calabria. Servirà a tenere gli stranieri in sorveglianza e a curare i positivi. Altri migranti saranno invece sistemati nelle caserme e di loro si occuperà il personale della Croce Rossa. La linea del ministero dell’Interno è reperire il maggior numero di posti disponibili per far fronte agli arrivi delle prossime settimane che certamente non saranno esigui. Nonostante il blocco dei porti, le navi dell Ong e le barche autonome continuano infatti a far rotta verso l’Italia. Oltre 10.000 pronti a salpare - Le stime dell’intelligence parlano di almeno 10.000 migranti pronti a salpare dall’Africa. Di questo si parlerà nella riunione che si svolgerà oggi a Trieste, voluta da Lamorgese proprio per mettere a punto una strategia comune. Oltre ai rappresentanti della Ue, parteciperanno i ministri di Francia, Malta, Spagna, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania. La presenza degli Stati africani viene ritenuta importante proprio per pianificare un progetto comune che preveda anche aiuti agli Stati di provenienza. Trafficanti e passeur - Lamorgese renderà noti gli ultimi risultati dell’attività di forze dell’ordine e intelligence, concordi nell’evidenziare come “le reti criminali si siano ormai organizzate per gestire il raggruppamento dei migranti in luoghi sicuri in attesa di raggiungere siti e porti di partenza con il trasporto via mare e via terra verso le coste e le frontiere terrestri in vista dello smistamento nella località di destinazione finale che in genere sono i paesi del centro e del Nord Europa”. L’Europa ha messo a disposizione degli Stati del Nord Africa un miliardo e 200 milioni per progetti di sviluppo, ma non basterà questo a fermare le partenze. La minaccia arriva dal mare con i trafficanti che hanno ripreso a utilizzare i cosiddetti “navigli a perdere”, “per consentire la partenza dalle coste affidandosi a scafisti improvvisati reclutati tra gli stessi migranti”. Ma anche da terra “con passeur che organizzano l’attraversamento delle frontiere italiane verso la Svizzera, la Francia e l’Austria. Autisti occasionali che si recano nei luoghi di ritrovo degli stranieri come la stazione centrale di Milano accordandosi direttamente con i migranti per portarli verso una destinazione prescelta”. Migranti. Nel weekend mille sbarchi a Lampedusa: adesso a preoccupare è la rotta tunisina di Fabio Albanese La Stampa, 13 luglio 2020 Il sindaco dell’isola: “Da Roma un silenzio assordante”. Il pm di Agrigento: “Siamo tornati a qualche anno fa”. Da giovedì a ieri a Lampedusa sono arrivati più di mille migranti. Con gommoni, barchini, barconi, in piccoli gruppi o a centinaia su una stessa imbarcazione. Se si eccettuano le due partite dalla Libia, tutte le altre provenivano dalla Tunisia. Sull’isola, ancora sabato, in 600 erano nell’hotspot che dovrebbe contenere 96 persone. Ieri sera la situazione è migliorata perché man mano che arrivavano gli esiti dei tamponi anti-Covid, finora tutti negativi, i migranti sono stati imbarcati sulle due navi traghetto che ogni giorno collegano l’isola delle Pelagie a Porto Empedocle, e anche sulle motovedette militari, per essere trasferiti nei centri di accoglienza di Sicilia, Calabria e Puglia. Il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella, il pm che segue le inchieste sugli sbarchi, lo aveva previsto settimane fa: “Questa estate avremo numeri importanti e i migranti arriveranno quasi tutti a Lampedusa dalla rotta tunisina; sembra di essere tornati a qualche anno fa”. Che non vuol dire si tratti solo di tunisini, che pure da anni restano il gruppo più numeroso: solo quest’anno, duemila degli ottomila arrivati in Italia. Perché tutti adesso? Il mare calmo, anzitutto; unico, vero “pull factor” al posto di quello addebitato alle navi Ong. Solo che in questi giorni di navi Ong in mare non ce ne sono perché o sotto sequestro o in quarantena o in manutenzione. E poi c’è la crisi sociale ed economica in Tunisia, uno dei pochi paesi africani con cui l’Italia ha un accordo di collaborazione per la gestione dei migranti ma che fatica a stare dietro le tante partenze. Anche ieri ne ha bloccate diverse, almeno 5 per un totale di 200 persone. Ma nel frattempo a Lampedusa arrivavano le ultime 107 su tre diverse imbarcazioni; altre 30 su due barchini erano arrivate nella notte. Un flusso costante che dal 9 luglio a ieri sera non si è mai fermato: “In Tunisia deve esserci stato un certo rilassamento in questi giorni”, dice il sindaco di Lampedusa, Totò Martello, che sabato, quando la situazione al molo Favaloro e nell’hotspot si è fatta molto difficile, ha nuovamente chiesto l’aiuto di Roma e lo stato di calamità per la sua isola, commentando amaro: “Ma c’è solo un silenzio assordante”. In realtà, rivela lui stesso, in serata ha ricevuto la telefonata del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese: “Mi ha detto che parlerà con il presidente Conte della situazione, che sarà oggetto di un incontro al quale dovrei partecipare”. Martello vorrebbe anche dire al premier che quello dei migranti non è l’unico problema della sua isola perché ci sono i pescatori egiziani e ciprioti che calano le reti nel loro mare e mettono in pericolo i nostri pescatori, e c’è il turismo che stenta a ripartire. Anche il presidente della Sicilia, che è andato sull’isola per rendersi conto della situazione, punta il dito contro il governo nazionale: “Abbiamo bisogno di risposte immediate da Roma, Lampedusa non può diventare una terra di frontiera”. Lampedusa, però, terra di frontiera lo è anche senza incremento delle partenze di migranti. Perché dista appena 200 km dalle coste della Tunisia, da Zarzis, da Sfax e dalle isole Kerkennah da dove prendono il mare molti dei barchini. Lo sanno bene pure i trafficanti libici che, anche secondo gli investigatori agrigentini, hanno in parte trasferito le loro attività in Tunisia adattandole alle nuove esigenze: niente più gommoni fatiscenti per percorrere solo poche miglia ma barche o gommoni di buona qualità per completare la traversata. “Prima da lì arrivavano solo tunisini - spiega il pm Vella - adesso arrivano anche migranti di Bangladesh, Pakistan, mediorientali e subsahariani”, quelli cioè che prima partivano dalla Libia. “Gli arrivi sono aumentati se comparati allo scorso anno - avverte il portavoce dell’Oim, Flavio Di Giacomo - ma sono ancora bassi se rapportati a due anni fa, per non parlare di 3 o 4 anni fa. E la rotta tunisina non è una novità”. Migranti. Il volontario parla straniero: riconoscenza e voglia di aiutare gli altri di Giulio Sensi Corriere della Sera, 13 luglio 2020 Uno studio promosso da Csvnet fotografa l’impegno sociale degli immigrati. Sono istruiti, attivi, integrati e portano i valori e la cultura dei Paesi di origine e sono protagonisti in prima linea nelle associazioni. Sxyed Hasnain è un trentunenne afgano che a 10 anni è fuggito dai talebani per costruirsi una nuova vita. Da 12 anni vive in Italia e da subito si è battuto perché la voce dei rifugiati fosse ascoltata. Ha fondato un’associazione di volontariato che si chiama Unione nazionale italiana per i rifugiati ed esuli (Unire). Nel direttivo di Unire ci sono anche un sudanese, una curda e un’eritrea, un nigeriano e un algerino. Fabian Nji Lang ha 50 anni, è nato in Camerun ma da 25 vive in Italia, tra Ferrara e Bologna. Ha tre figlie e insieme ad un gruppo di lavoratori stranieri nel 2000 ha fondato l’associazione Universo di cui è presidente. Universo opera per facilitare l’integrazione attraverso uno sportello informativo e l’organizzazione di corsi di italiano. Carla Bellafante invece è nata in Italia, ma fin da piccola è emigrata in Venezuela con la famiglia. Con la crisi del Paese sudamericano e dopo alcune difficili vicende lavorative è rientrata nel Paese di origine due anni fa con la sua famiglia ed ha ricominciato da capo, impegnandosi prima di tutto come volontaria per l’associazione Emozioni. Associazione che opera a Francavilla al Mare con servizi essenziali a favore della comunità. Sxyed, Fabian e Carla hanno in comune storie personali di riscatto e rinascita, ma non sono solo le vicende personali a segnare la loro vita: è l’impegno per gli altri, nonostante le difficoltà, ad accumunare le loro nuove esistenze. Sono tre dei quasi 700 cittadini di origine immigrata che hanno accettato di raccontarsi per contribuire alla prima ricerca sugli immigrati che fanno volontariato in Italia. Lo studio si chiama “Volontari inattesi”, è stato promosso da CSVnet -il Coordinamento nazionale dei centri di servizio per il volontariato- e curato dal Centro studi Medì. Il ritratto - “Volevamo indagare come i nuovi cittadini si impegnassero nel solco del tradizionale impegno sociale del nostro Paese - spiega il presidente di CSVnet Stefano Tabò - cioè con attività più o meno organizzate, svolte gratuitamente, in modo spontaneo e a beneficio dell’intera collettività. La risposta è stata sorprendente grazie ai 55 Centri di servizio sul territorio e alle associazioni nazionali che hanno accettato la sfida e contribuito in modo determinante a coinvolgere i volontari”. A curare lo studio sono stati in particolare il sociologo delle migrazioni dell’Università di Milano Maurizio Ambrosini, responsabile scientifico del Centro studi Medì, e la sociologa dell’Università di Genova Deborah Erminio. Il ritratto degli immigrati volontari è una sorpresa: sono piuttosto giovani, istruiti, molti di loro lavorano, più della metà è femmina e 4 su 10 hanno già ottenuto la cittadinanza. La voglia di riscatto - “Hanno tanta voglia -racconta Ambrosini- di partecipare e raccontarsi. Un aspetto sorprendente è il profilo sociale e culturale: c’è un legame stretto fra l’integrazione avanzata e il fare volontariato”. “Uno degli obiettivi - aggiunge - era anche indagare il potenziale di nuove risorse. Molte associazioni lamentano la scarsità di giovani: ne abbiamo scoperta una bella quantità che hanno voglia di partecipare”. I tratti più comuni dei volontari immigrati sono chiari: oltre ad essere istruiti, attivi e integrati, si impegnano portando i valori e la cultura del loro Paese di origine e spesso per restituire alla società italiana ciò che hanno ricevuto e sentirsi protagonisti dopo essere stati accolti, ma anche per imparare nuove cose e socializzare. E lo fanno pure per combattere una narrazione negativa sugli immigrati che ritengono ingiusta. Come Sara Sayed, musulmana nata in Italia da genitori egiziani che da quando ha 17 anni fa volontariato. Oggi si impegna nell’associazione Progetto Aicha che combatte la violenza contro le donne nella comunità islamica e non solo. Sara rivendica il suo diritto a fare volontariato, indossando il velo e, racconta, “mandando in tilt gli schemi di chi inizialmente mi guardava solo come una straniera”. Sul territorio - Le persone di origine immigrata si impegnano spesso in associazioni fondate da loro, ma sono presenti anche nelle classiche realtà del volontariato. Come nel Fondo ambiente italiano (Fai): ha più di 100 volontari attivi di 45 Paesi diversi che partecipano alle iniziative aperte al pubblico in siti e luoghi solitamente inaccessibili nella veste di narratori di opere d’arte, fornendo spiegazioni in italiano o nelle proprie lingue madri; 48 sono quelli che animano le iniziative del Touring Club, mentre 1889 indossano la divisa delle Misericordie e provengono da 89 Paesi esterni all’Ue. L’Avis annovera 47.252 donatori di sangue di origine immigrata, mentre l’Aido conta fra le sue liste 33.713 potenziali donatori di organi e li arruola con la diffusone di materiali nelle diverse lingue. “La sfida - conclude Ambrosini - è valorizzare questi volontari di origine immigrata come ponte per raggiungerne altri sia come potenziali volontari sia come beneficiari”. Stati Uniti. Lo stato di Washington consentirà alle persone detenute in carcere di votare Il Messaggero, 13 luglio 2020 Washington DC consentirà alle persone detenute in carcere di votare, una mossa significativa perché gli Stati Uniti hanno da tempo privato del diritto di voto coloro che hanno subito condanne penali, anche dopo aver scontato la pena dietro le sbarre. A metà del 2018 erano più di 6 milioni gli americani che non potevano votare. Il piano di Washington DC si sarebbe allineato solamente con altri due stati del paese. Washington DC ha un tasso di detenzione molto elevato e fino a 4.500 persone potrebbero essere colpite dalla misura, inclusa nella legislazione di riforma della polizia che ha approvato il consiglio comunale questa settimana. “L’ampliamento dei diritti di voto alle persone in carcere è un passo storico per la democrazia americana”, ha dichiarato in una nota Nicole Porter, direttrice della difesa del Sentencing Project, un gruppo di riforma della giustizia penale. “Spero che l’azione del Distretto ispirerà gli stati a riconoscere il valore del suffragio universale e l’impegno di tutti i suoi cittadini”. Egitto. I medici del Covid che protestano contro la mancanza di tutele finiscono in galera di Ariane Lavrilleux Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2020 I medici del Cairo si sono radunati a qualche centinaia di metri dalla piazza Tahrir lo scorso 27 giugno, circondati da decine di agenti delle forze dell’ordine. La conferenza stampa del sindacato che doveva essere trasmessa in diretta Facebook è stata annullata, ufficialmente per “motivi tecnici”. Ma “il vero motivo è stato politico”, ci ha detto un sindacalista. Quel giorno un medico del delta del Nilo, Mohamed Fawal, è stato arrestato per “appartenenza a un gruppo illegale” e “diffusione di notizie false”. Tre giorni prima, Fawal aveva duramente criticato il primo ministro egiziano, Moustafa Madbouli, per il quale se l’epidemia di Covid-19 continua a crescere in modo esponenziale in Egitto, dove il virus ha ucciso almeno 3.300 persone, è per colpa dell’assenteismo dei medici. “Ci insulta accusandoci di contagiare e di uccidere le persone. Il governo ha fallito e sta cercando di scaricare su altri le sue responsabilità. Nelle ultime settimane - dice Khaled Samir, docente di medicina - gli ospedali sono stati sommersi dai pazienti. Ma il governo sostiene che gli ospedali sono occupati solo al 23% e rifiuta di aprire delle strutture da campo”. Samir è medico chirurgo all’ospedale Aïn Chams del Cairo occupato al 90% da pazienti malati di Covid-19. Dopo le parole del primo ministro, il sindacato dei medici ha chiesto al governo delle scuse pubbliche ricordando “l’eroismo e i sacrifici” dei camici bianchi. Da settimane il profilo Facebook del sindacato si è trasformato in necrologio. Ogni giorno vi compaiono nuovi volti su sfondo scuro con la scritta “martire”. Da marzo, almeno 106 operatori sanitari sono morti di Covid-19 e più di 900 sono stati contagiati, secondo il sindacato. Il ministero della Salute rifiuta da due mesi di rivelare il numero reale delle vittime. Ufficialmente i medici e gli infermieri morti di Covid-19 sono solo undici. In Egitto, dove si pensava che l’epidemia non sarebbe arrivata per via dell’età media molto bassa della popolazione (il 60% ha meno di 30 anni), l’elevato numero di morti tra gli operatori sanitari, vicino a quello registrato in Italia (dove sono morti circa 200 sanitari), è diventato un segnale d’allarme. Il pediatra Mohamed Hashad, morto a 35 anni a giugno, è diventato il simbolo dell’abnegazione di un’intera professione. Pochi giorni prima della sua morte, un collega lo aveva fotografato mentre saliva le scale dell’ospedale portando a mano un’enorme bombola di ossigeno. “Ho paura di morire, ma è mio dovere lavorare e non conosco nessun medico che ha smesso di lavorare, contrariamente a quanto sostiene il governo”, osserva un medico generico, che ci dice di essere remunerato 150 euro al mese. “Non vedo più la mia famiglia e non parlo più ai vicini per evitare di contaminarli”, aggiunge il giovane dottore, sulla trentina, che si è messo in isolamento di sua iniziativa per quattordici giorni dopo aver sviluppato i sintomi del Covid. Ma, avendo solo febbre e tosse, non può sottoporsi al tampone, riservato ai casi più gravi. I medici egiziani denunciano in tutto il paese la carenza di mascherine e di tute. Il governo, che in un primo tempo ha promesso loro dei compensi bonus, è passato alle minacce. Il sito di informazione al Manassa ha rivelato che un responsabile del ministero della Salute ha minacciato di portare davanti al tribunale militare i medici che osavano protestare. È stato inoltre ordinato a tutti i medici, indipendentemente dalla loro specializzazione, di farsi carico dei pazienti Covid e di rimandare a casa tutti gli altri. La capo redattrice di al Manassa è stata arrestata il 25 giugno scorso. Le minacce a parole si sono trasformate in atti. Da dati di Amnesty International, oltre al sindacalista fermato il 27 giugno, sono stati arrestati da marzo in Egitto sei medici e due farmacisti. Il crimine commesso? Avere espresso timori e rabbia nel vedere l’esercito egiziano inviare casse di mascherine in Italia e negli Stati Uniti mentre non ce n’erano abbastanza per gli egiziani. Ormai, dall’elezione del maresciallo Abdel Fattah al-Sisi nel 2014, e col pretesto della lotta contro il terrorismo, la legge egiziana consente di mettere in prigione, senza processo, per “attacco alla sicurezza nazionale” chiunque si mostri critico nei confronti del governo. Un membro del comitato dei giovani medici è “scomparso” per una settimana, sequestrato dalle forze di sicurezza. Un clima di paura si è instaurato negli ospedali dove, secondo i sindacati, la pressione e le sanzioni disciplinari sono in aumento. “Molti operatori sanitari preferiscono pagare di tasca propria i dispositivi personali di protezione per evitare di essere sanzionati. Ci costringono a scegliere tra la prigione e la morte”, denuncia un membro del sindacato dei medici nel rapporto di Amnesty. I medici dell’ospedale Mounira, al Cairo, volevano cominciare a fare sciopero dopo la morte di un collega di 32 anni. Per dissuaderli sono intervenuti degli agenti della polizia politica. I media asserviti al potere hanno inoltre accusato i medici ribelli di appartenere al movimento dei Fratelli Musulmani, un’organizzazione classificata come terrorista dal ritorno dei militari al potere. Secondo i bollettini ufficiali, quasi 74 mila persone sarebbero state contagiate dall’inizio dell’epidemia in Egitto. Ma i numeri sono molto al di sotto della realtà anche per il ministro egiziano dell’istruzione superiore, Khalid Abdul Ghaffar, per il quale il numero effettivo di contagi deve essere tra cinque e dieci volte superiore. All’ospedale Bakri del Cairo, una delle 440 strutture del paese autorizzate a ricevere pazienti malati di Covid-19, i tamponi si fanno col contagocce. “La metà dei pazienti che muoiono con i sintomi del nuovo coronavirus non vengono conteggiati. Con molti infermieri ammalati, anche i laboratori di analisi sono a corto di personale, i tamponi effettuati sono pochissimi e ci vuole quasi una settimana per ricevere i risultati”, spiega il ginecologo Hamada al- Jiouchi. L’afflusso di pazienti negli ospedali è cresciuto da fine maggio. Da un giorno all’altro il governo ha decretato che quasi tutti gli ospedali pubblici del paese avrebbero ormai dovuto farsi carico dei pazienti Covid, fino a quel momento inviati solo in alcune cliniche specializzate. Ma questi centri, mal preparati e spesso reticenti ad accogliere questi malati, si sono trasformati in focolai e nel giro di poco tempo erano già saturi. “È una catastrofe sanitaria. Ogni giorno 500 malati si presentano in ospedale, ma noi possiamo ricoverarne massimo una decina, se sono abbastanza fortunati da arrivare quando si liberano dei letti”, aggiunge il medico. Un giorno, racconta, si è trovato a dover trasferire d’urgenza una donna che aveva appena partorito per non farle incrociare i malati in fila che tossivano. “Il 70% del personale medico è contagiato. Dal momento che non ci sono abbastanza letti per tutti, alcuni pazienti tentano di corromperci”, dice Mariam (nome di fantasia), un’infermiera dell’ospedale copto del Cairo. Intanto su Facebook si moltiplicano le richieste di aiuto. Una dottoressa disperata di Assuan ha scritto di essere stata costretta a “scegliere” quali pazienti salvare a causa della carenza di respiratori. Nonostante il numero dei contagi sia in aumento, il governo, per paura di una crisi economica ancora più devastante, ha deciso di allentare il coprifuoco e di far ripartire molti settori dell’economia. Caffè, ristoranti, cinema e luoghi di culto sono stati parzialmente riaperti. Un sollievo per migliaia di lavoratori sprofondati nella miseria dal lockdown. “Lo Stato dovrebbe trasformare scuole, moschee, campus universitari in ospedali da campo per poter assorbire tutti i pazienti”, propone Hamada al-jiouchi, diplomato alla facoltà islamica dell’università Al-azhar. Ma le autorità restano sorde alle critiche e ai consigli dei medici e si mostrano anzi soddisfatte. Stando all’ufficio stampa del governo egiziano, sentito dall’agenzia Reuters, la gestione della crisi sanitaria in Egitto è “una delle migliori al mondo”.