Sui detenuti morti durante le rivolte di Maurizio Tortorella La Verità, 12 luglio 2020 Dalle rivolte carcerarie di marzo sono trascorsi quattro mesi esatti, ma di quel che è accaduto in quei giorni di violenze e distruzione ancora non si sa praticamente nulla. In quattro mesi, nessun quotidiano ha mai chiesto ragione nemmeno dei morti tra i detenuti. Eppure sono stati tanti: 13, forse 14. Da quattro mesi, la maggioranza di governo tace. Per protestare contro la morte di George Floyd, il nero di Minneapolis soffocato dal poliziotto che lo stava arrestando, Laura Boldrini s’è addirittura inginocchiata in Parlamento, ma sulla strage dei detenuti italiani l’ex presidente della Camera e la sinistra di cui è parte fanno finta di nulla. Il Partito democratico di Nicola Zingaretti ha già archiviato la pratica, nemmeno si fosse trattato di 13 o 14 mosche. Sulla strage, che pure non ha precedenti nella storia repubblicana, in Parlamento nessuno ha chiesto chiarezza se non il deputato della Lega Roberto Turri, con un’interrogazione rimasta senza risposta da parte del ministero della Giustizia. Lo stesso ministro grillino, Alfonso Bonafede, s’è limitato a riferire in Senato, l’11 marzo, che “dai primi rilievi i morti sembrano perlopiù riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie nei disordini”. La sola espressione usata dal guardasigilli, “per lo più”, ha espresso perfettamente il suo interesse per la materia. Da allora, sulla strage è caduto un silenzio vergognoso. Se la morte di 13-14 detenuti è uno scandalo, il silenzio che lo sta coprendo è però uno scandalo anche peggiore. Provate solo a immaginare che cosa sarebbe accaduto se, sotto un governo di centrodestra, si fosse scatenata una rivolta carceraria capace di provocare 13 o 14 morti tra i detenuti, con danni per 30-40 milioni di euro. Riuscite a immaginarlo? I giornali sarebbero partiti all’attacco, giustamente pretendendo chiarezza; le piazze si sarebbero riempite dell’indignazione democratica; e il ministro della Giustizia sarebbe stato travolto dalle polemiche e costretto alle dimissioni. La rivolta di marzo, del resto, è stata innescata proprio dalle decisioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, alle strette dipendenze del ministero della Giustizia. Di fronte alla rapida espansione del Covid-19, il Dap si era mostrato incapace d’individuare contromisure razionali e aveva sospeso di colpo i permessi premio e il lavoro esterno dei detenuti, impedendo anche gli incontri con i familiari. A peggiorare le cose, le 189 prigioni italiane in quel momento scoppiavano: il 29 febbraio i reclusi erano 61.230, 10.000 in più rispetto alla “capienza regolamentare” e 16.000 in più rispetto a quella effettiva. Nelle celle sovraffollate, la paura era stata decisamente rinfocolata dalle decisioni del Dap, all’epoca guidato da Francesco Basentini, il magistrato che due mesi più tardi Bonafede avrebbe indotto alle dimissioni per un altro scandalo, quello delle scarcerazioni di centinaia tra detenuti pericolosi e boss mafiosi. A marzo, nelle prigioni mancavano mascherine, disinfettanti, tamponi. I detenuti si sentivano abbandonati, esposti al contagio e separati dalle famiglie. Da qui sono partite le proteste in 49 istituti di pena: prima in sordina; poi, dal 7 marzo, con violenza. I disordini peggiori si sono verificati a Modena, dove tra l’8 e il 9 marzo i morti sono stati cinque, tutti tunisini. Il carcere, in quei giorni, è stato devastato e reso inagibile. Antigone, un’associazione di volontari che da anni tutela i detenuti, denuncia che altri quattro carcerati (un italiano che avrebbe dovuto essere liberato in agosto, un moldavo e due marocchini) sarebbero morti nei trasferimenti verso altre prigioni. La procura di Modena ha avviato un’inchiesta contro ignoti per omicidio colposo. Giuseppe Di Giorgio, il procuratore aggiunto, ha dichiarato che i primi cinque decessi sono da attribuire a un’overdose di metadone e di psicofarmaci, saccheggiati nell’infermeria del carcere, e che “non emergono segni di violenza di alcun tipo”. Sui quattro morti nei trasferimenti le autopsie sono ancora in corso, tanto che un funerale si è svolto pochi giorni fa, in provincia di Varese. Altri tre detenuti sono morti nel carcere di Terni, e uno in quello di Bologna. Cronache di quattro mesi fa riferivano di un quattordicesimo morto, ma senza individuarne la prigione. Di loro non si sa nulla. Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, annuncia che seguirà le indagini “attraverso la nomina di un difensore e di un consulente medico legale per le analisi degli esiti autoptici”: ha scelto Cristina Cattaneo, anatomopatologa di grido. E l’unico, in questo silenzio vergognoso. Detenuti e polizia penitenziaria: dal contesto detentivo al pensiero politico di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 12 luglio 2020 Se volessi rappresentare il contesto dell’attuale realtà che amministra le nostre carceri (Dap), potrei riferirmi a due raffigurazioni di memoria storica, due assiomi che esprimono chiaramente la situazione nella quale troviamo detenuti ed agenti di polizia penitenziaria: oggi vi parlo del primo e prossimamente dell’altro. Il primo assioma è quello dell’aquila bicipite, raffigurata con due teste separate e rivolte in due direzioni opposte, che vanno ad identificare l’unione di due imperi. Queste due teste, da Costantino in poi, divennero vessillo di case nobili o regnati, che intendevano rappresentare con le due teste, due poteri e due finalità uniti in un solo corpo, per meglio affermare potere, ideazione, imposizione. Parlando di aquila bicipite riferita al mondo penitenziario, da un lato troviamo la situazione del potere che si vuole vincente, all’opposto quella del reo che si vuole punire. Di questa rappresentazione il dipartimento di amministrazione penitenziaria fa scuola d’arte: i civili carcerari e quelli non carcerati; i civili e i militari; le figure amministrative a quelle tecniche; le figure apicali con quelle di base. Per civili si intendono i dirigenti di carcere, i provveditori, e per chiudere i vertici del Dap, tutta quella pletora di direttori generali e funzionari in giacca e cravatta, che non portano l’uniforme e non hanno arma e tesserino perché poliziotti non sono. Il problema è che in questo contesto odierno, le due teste sono in opposizioni, rivolte contro sé stesse per farsi battaglia, con il risultato che il corpo portante anziché affermarsi si indebolisce; le due teste anziché essere opposte per gridare all’esterno il potere del corpo portante si capovolgono e si sbranano tra loro. Questo movimento dell’amministrazione penitenziaria quanto e come potrà durare? Attualizzando lo stemma imperiale al nostro contesto, le teste dei due poteri (quello che viene dal corpo di polizia penitenziaria e quello dei detenuti) non sono rivolti verso l’esterno per gridare i loro disagi e conflitti, ma anche virtù delle quali sono portatori. Sono invece rispettivi poteri che si guardano in aperto conflitto tra loro. La testa dei detenuti grida dolore vivo e vitale per i detenuti, ma anche capacità di superare imposizioni, ritmi, annientamento personale e di gruppo, solitudine. È anche una testa che chiede supporto dall’esterno, frutto di un potere che non cessa con la detenzione ma vi sopravvive. La testa della Polizia penitenziaria, e dell’agente di reparto in modo specifico, esprime un suo potere di supremazia di vigilanza, di ordine ed azione, consacrato sull’altare del dover comunque sopravvivere a questo lavoro, con i turni di lavoro da far trascorrere il tempo possibilmente senza problemi. Ma anche qui, basta un nulla che le due teste anziché rivolgersi all’esterno per cercare aiuto e riconoscimento, si ritrovino a rigirarsi e sbranarsi tra loro senza esclusioni di colpi con mezzi e strumenti propri e specifici di ciascun potere. E così il corpo portante, da cui si ergono le due teste, ne rimane penalizzato, punito ed affievolito. Non è saziando di volta in volta una delle due teste, polizia con promozioni e detenuti con scarcerazioni ed indulti fatti per opportunità, che il corpo si rafforza: se ne alimenta solamente la sua autodistruzione. Il Ministero della Giustizia, concludo, dovrebbe assumersi la responsabilità politica del fallimento del sistema penitenziario e della gestione dei detenuti nella forma del trattamento, come dell’assenza di una concreta e lungimirante progettualità, sia della polizia penitenziaria sia del sistema carcerario stesso. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza “Punire i giudici per gli arresti sbagliati”. L’idea di Forza Italia che piace a Bonafede di Liana Milella La Repubblica, 12 luglio 2020 La proposta di legge di Enrico Costa: se un innocente finisce in prigione non deve pagare solo lo Stato. A sorpresa c’è l’ok del Guardasigilli. Il no di Caputo dell’Anm: “Una norma manifesto che frenerà la magistratura”. Potrebbe essere il primo caso in cui Forza Italia e il governo rossogiallo, alla Camera, si trovano d’accordo sulla giustizia. Indiscutibilmente una notizia. Un assaggio di alleanza sul crinale più delicato possibile. Non è certo il sì alla commissione d’inchiesta per Berlusconi su Mediaset, ma se andasse in porto - e ce ne sono tutte le avvisaglie - sarebbe un possibile voto comune per far scattare una misura disciplinare specifica contro le toghe per gli arresti, “troppi, non necessari, e se riconosciuti ingiusti, poi risarciti dallo Stato con milioni di curo”, come dice Enrico Costa di Forza Italia, chiesti dai pm e autorizzati dai gip. Quelle “ingiuste detenzioni” che l’anno scorso, un migliaio circa, hanno costretto lo Stato a rimborsare quasi 45 milioni di curo. La proposta è del responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa. Da martedì è in commissione Giustizia a Montecitorio. Relatore Pierantonio Zanettin, avvocato ed ex laico del Csm. Ma la sorpresa sta nel fatto che a dare il via libera potrebbe essere proprio il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Il quale peraltro, quando al Senato si è difeso nella mozione di sfiducia per via dell’ex pm Di Matteo, ha ricordato anche che in via Arenula ha dato esplicito mandato al suo ispettorato di monitorare tutti i casi effettivi di “ingiusta detenzione” per verificare se non ci sia stato un comportamento anomalo da parte dei magistrati che hanno chiesto e poi disposto gli arresti. Alla sola notizia di un nuovo e possibile illecito disciplinare i giudici invece vedono rosso. Il segretario dell’Anm, Giuliano Caputo, peraltro pubblico ministero a Napoli, si arrabbia subito: “Abbiamo già efficaci strumenti per accertare eventuali errori e un rigoroso sistema di responsabilità civile e disciplinare. Questa modifica è inutile e rischia di condizionare l’adozione di iniziative cautelari proprio nella fase in cui i magistrati sono chiamati ad operare scrupolosamente, sulla base di elementi frammentari, un difficile bilanciamento tra le fondamentali garanzie di libertà e le esigenze di tutela della collettività. Che si tratti dell’ennesima norma manifesto è confermato dal riferimento alla “superficialità”, concetto e terminologia del tutto estranei al mondo del diritto” Ma Costa la pensa in tutt’altro modo, ed è convinto che anche la maggioranza lo seguirà: “Se viene tolta la ingiustamente la libertà a una persona, non può pagare solo lo Stato, ma occorre fare chiarezza e verificare se ci sono state negligenza o superficialità da parte del magistrato che come pm ha richiesto l’arresto o come gip lo ha disposto. Ci sono vite distrutte per arresti decisi con troppa disinvoltura. Talvolta ai limiti del sequestro di persona”. Nasce da qui la sua mini legge, in tutto due articoli. Il primo, nella procedura di riparazione dell’errore giudiziario riconosciuto come tale, inserisce il passaggio disciplinare, perché “la sentenza che accoglie la domanda di riparazione è trasmessa agli organi titolari dell’azione disciplinare nei riguardi dei magistrati, per le valutazioni di loro competenza”. Un illecito che si trasformerebbe in una vera e propria minaccia per il magistrato chiamato a decidere se arrestare o meno una persona. Malagiustizia, migliaia di errori ma pagano solo quattro magistrati di Viviana Lanza Il Riformista, 12 luglio 2020 I casi di ingiusta detenzione sono un migliaio all’anno in tutta Italia. Le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati sono 53 in tutto, ma in tre anni, cioè nel periodo 2017-2019. Il dato napoletano è tra quelli non indicati nel bilancio dell’Ispettorato del ministero della Giustizia. Resta il fatto che non bisogna essere sofisticati matematici per cogliere una sproporzione tra questi numeri. Se a Napoli, solo nel 2019, ci sono state 129 ordinanze che hanno disposto indennizzi per un totale di oltre tre milioni di euro (3.207.214 a voler essere precisi), vuol dire che ci sono stati 129 casi accertati di ingiusta detenzione. Vuol dire che ci sono state 129 persone che hanno subìto l’arresto e il carcere, senza che vi fossero accuse o presupposti fondati ma sicuramente per disposizione di un magistrato, pm o giudice. E allora viene da chiedersi come mai sono soltanto 53 i magistrati, che in tutta Italia e non solo a Napoli, e in tre anni non in uno solo, sono stati sottoposti ad azioni disciplinari, considerando anche che di questi 7 sono stati assolti, 4 hanno avuto la censura, 9 non doversi procedere e 31 procedimenti sono in corso. Di chi è allora la responsabilità delle centinaia di ingiuste detenzioni risarcite nello scorso anno a Napoli e del migliaio risarcito in tutta Italia? Pur volendo considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il diritto alla riparazione è configurabile anche nel caso di un atto di querela successivamente oggetto di remissione, nel caso di reati in prescrizione o derubricati, resta una sproporzione. Come si spiega? “Vuol dire che c’è un abuso della custodia cautelare”, afferma Raffaele Marino, magistrato di lunga esperienza, attualmente in servizio presso la Procura generale di Napoli. “Bisogna distinguere tra ciò che è fisiologico e ciò che è invece patologico. Se un imputato viene assolto in Appello siamo di fronte a un errore fisiologico ma se viene scarcerato dal Riesame e la posizione archiviata si tratta di un errore patologico, a mio avviso”. Il procuratore Marino sottolinea tuttavia la singolarità di ciascun caso. “Bisogna valutare caso per caso sulla base delle carte, non si può generalizzare”. Ma pur restando distanti da facili generalizzazioni, un problema c’è. “Sta nella mancanza di controlli da parte dei capi degli uffici giudiziari o di volontà di fare controlli - aggiunge Marino. Se, per esempio, l’indagine di un pm viene ridimensionata già al Riesame vuol dire che il pm non ha lavorato bene, e se non ha lavorato bene il pm non deve stare dove sta oppure va controllato. C’è tutto un ragionamento da fare che non viene fatto”. Cosa si può fare? “Bisognerebbe introdurre meccanismi di controllo seri, ora invece tutto è affidato al capo dell’ufficio che dovrebbe essere Superman per controllare tutto e tutti”. Di fronte ai numeri del report ministeriale, Marino non ha dubbi: “Quando abbiamo numeri di questo genere c’è qualcosa che non funziona nella resa giudiziaria e rispetto alla lesione dei diritti primari dei cittadini, perché chi viene messo in galera subisce danni che sono notevolissimi. Per non parlare del processo penale, che oggi ha un fine processo mai grazie a nostro ministro della Giustizia, ed è di per sé un danno, un danno notevole. Al di là del dato economico, quindi, il costo sociale della giustizia in Italia è enorme e questo Paese non può più sopportarlo”. “Ben vengano - conclude il magistrato - proposte come quella di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta che cerchi di capire cosa non funziona e come il progetto di una riforma che parta anche dal Csm per eliminare il potere delle correnti”. Non bisogna rassegnarsi al virus della corruzione di Peppino Ortoleva Il Secolo XIX, 12 luglio 2020 In questi giorni, per diversi motivi. il problema della corruzione è di attualità. Il rischio è che a questo male, tra i più gravi degli Stati moderni in generale e particolarmente acuto in Italia, ci si arrenda come a un fenomeno inevitabile. I suoi costi però sono anche più pesanti di quanto spesso si pensi. E per combattere la corruzione è necessario cambiare alcuni atteggiamenti e modi di vedere diffusi, e sbagliati. È di pochi giorni fa la presentazione del decreto chiamato di semplificazione, con il quale si passa da regole che sottoponevano a complicate procedure tutti gli appalti superiori a 40.000 euro alla possibilità di affidare appalti “per chiamata diretta”, cioè per scelta indiscussa degli amministratori, fino a 150.000 (tre volte e mezzo più di prima). E almeno in alcuni campi si applicano procedure con ampi margini di arbitrio per appalti fino a oltre 5 milioni di euro. Tutto questo contiene un messaggio: se applichiamo norme “rigorose” rischiamo di bloccare tutto; altrimenti in nome della semplificazione dobbiamo rendere la vigilanza contro la corruzione meno stringente. Sempre in questi giorni si parla molto dello scontro tra Paesi “frugali” e quelli spesso definiti “spendaccioni”, a cominciare dal nostro. Ma i privati e le famiglie italiane sono tutt’altro che “spendaccioni”: al contrario, sono stati a lungo i maggiori risparmiatori d’Europa, e se ora lo sono meno è essenzialmente per un impoverimento diffuso che ha ridotto i loro margini economici. Il vero male italiano è il deficit pubblico: a determinarlo è in primo luogo l’enorme debito accumulato negli Anni Settanta-Ottanta, che fu dovuto per una notevole parte alla corruzione definita allora come “il costo della politica”. In secondo luogo pesano gli interessi su quel debito. E oggi, mentre la quantità e la qualità dei servizi continuano a ridursi, il perdurare della corruzione mantiene i costi del settore pubblico decisamente più alti di quanto non potrebbero e dovrebbero essere. I costi del fenomeno corruttivo, inoltre, non sono soltanto economici. Ne viene inquinata qualunque procedura di selezione, per cui vince gli appalti chi è più dotato di denaro e meglio introdotto nelle camere del potere anche se il suo lavoro è inferiore sul piano della tecnologia e della qualità complessiva rispetto a quelli che vengono scartati. Inoltre, chi ha pagato “il pizzo” sa di potere violare molte regole, incluse quelle di tutela della salute e della sicurezza: chi dovrebbe controllarli, essendo loro complice, tende più facilmente a chiudere un occhio su tutte le violazioni. Non stiamo parlando, è giusto ricordarlo, di un male solo italiano. È difficile fare una classifica seria dei Paesi in cui si fanno più sentire le pratiche corruttive: si tratta di un’area di illegalità sulla quale non ci possono essere dati certi. Esiste invece un “indice della corruzione percepita”, cioè della reputazione che i diversi Paesi si sono fatti in materia. Secondo questo indice il Giappone sarebbe percepito come il ventesimo tra i Paesi meno corrotti, e l’Italia come il cinquantesimo. Ferma restando la gravità del male in Italia, quanto è davvero affidabile un indice del genere? La storia del “pochissimo corrotto” Giappone è stata tutta segnata, dagli anni 70 a oggi, da ricorrenti scandali, sia pure relativi spesso a cifre relativamente piccole, che hanno fortemente condizionato la vita politica e finanziaria del Paese. In altri Paesi come gli Stati Uniti (il ventitreesimo tra i “meno corrotti” in quella classifica) accanto alla corruzione vera e propria esistono modi legalizzati di acquistare favori in cambio di denaro o di altri favori, dalle donazioni elettorali all’attività delle lobby. E ci sono alcuni Stati Usa nei quali una o poche grandi compagnie sono in pratica padrone del sistema. D’altra parte, contrariamente a diffuse convinzioni, non è vero che la corruzione sia un male tipico delle democrazie: gli Stati a regime dittatoriale non ne sono per nulla meno colpiti. Si parla di “cleptocrazia” (i ladri al potere) nel caso della Russia, con lo strapotere della cerchia più vicina a Putin, come per le repubbliche dell’Asia centrale dove le famiglie dei dittatori si sono immensamente arricchite. E la Cina conduce ogni pochi anni grandi “campagne anti-corruzione”: il che indica sia che il male è considerato endemico nell’amministrazione pubblica del Paese sia che le politiche condotte per sradicarlo risultano inefficaci, visto che ogni volta si deve ricominciare a combatterlo da capo. Ma questo non ci deve far pensare che la corruzione sia una specie di malattia cronica e inevitabile. Che si può fare per combatterla? Dovremmo tutti, inclusi media e opinione pubblica, riconoscere come colpevoli non solo i corrotti ma anche i corruttori: non solo i politici e i funzionari che percepiscono tangenti, ma anche coloro che le pagano, in cambio di vantaggi che non dovrebbero ottenere. Come del resto prevede il codice penale italiano. Se i corruttori non sono essi stessi puniti più di quanto in generale non siano, rimosso un funzionario corrotto ne troveranno un altro disposto a fare favori in cambio di soldi. E poi, la corruzione consiste spesso anche in tanti piccoli atti che molti considerano inevitabili, per superare qualche ostacolo, o per perdere meno tempo. “Ungere le ruote” non è un fastidio, o un prezzo da pagare ai disonesti che sarebbero sempre altri. La corruzione è un male delle società nel loro insieme, non solo della politica o della burocrazia; un male di cui siamo tutti vittime, ma siamo spesso anche complici e colpevoli. “Il vitto del carcere mi fa male”. È un caso la protesta del detenuto Battisti di Alberto Pinna Corriere della Sera, 12 luglio 2020 “Cibo scarso, troppi fritti e grassi. Ho l’epatite e una prostatite”. Cesare Battisti protesta: nel carcere di Massama sconta due ergastoli per omicidi e rapine commessi negli anni della militanza fra i Proletari Armati per il Comunismo e non può, come invece gli altri detenuti, acquistare generi alimentari e cucinarli in cella. Battisti è sottoposto a un regime particolare in un carcere di massima sicurezza alla periferia di Oristano, dove è rinchiuso da gennaio 2019. Latitante per quasi 40 anni, una fuga dal carcere di Frosinone, prima in Francia e Messico, poi in America Latina, status di “rifugiato politico”, scrittore di noir, nel 2018 è stato catturato e qualche mese dopo rispedito in Italia. Dei tre livelli dell’alta sorveglianza è all’intermedio, AS2. In AS3 ci sono mafiosi, camorristi e rapitori. Dal suo arrivo in Sardegna è in isolamento forzato, il solo detenuto - pare - in un’ala appartata. Spiega il suo avvocato Gianfranco Sollai: “Ci sarebbe dovuto rimanere per sei mesi, fino al luglio dello scorso anno. Invece questo regime di detenzione si è inspiegabilmente prolungato e va avanti ancora adesso, nonostante non sia supportato da alcuna sentenza né disposizione di legge”. A Massama - conferma l’avvocato Paolo Mocci, garante provinciale dei detenuti - non ci sono strutture adeguate per l’AS2 e per certe patologie non può essere assicurata assistenza sanitaria. I pasti vengono forniti da una ditta esterna di catering; non si sa se le pietanze vengano fornite precotte né con quali criteri di alimentazione. Cesare Battisti ha ripetutamente chiesto il trasferimento, ma non lo ha ottenuto: in una delle strutture sarde attrezzate, l’istituto di massima sicurezza di Bancali a Sassari, un reparto AS2 c’è, ma ha problemi di sovraffollamento e carenza di personale, e soprattutto ospita un nucleo di detenuti islamici accusati di terrorismo, militanti dell’Isis; l’amministrazione penitenziaria - che non ha voluto in alcun modo commentare le rimostranze sul cibo - ha ritenuto opportuno evitare ogni contatto. Negati a maggio anche gli arresti domiciliari che Battisti avrebbe voluto scontare a casa di parenti in una località del Lazio: sosteneva che a Massama c’era pericolo di contagio da Covid-19. Per mezz’ora il tribunale di sorveglianza di Cagliari ha ascoltato l’ergastolano/terrorista, che ha chiesto di essere sottoposto a esami clinici, sicuro che confermerebbero l’esigenza di una diversa detenzione e di un più adeguato regime alimentare. La Procura generale si è opposta, i giudici decideranno fra qualche settimana. “Non si tratta di un capriccio ma di seri problemi di salute”, insiste Battisti che ieri, comunicando con un familiare, ha fatto sapere: “Vogliono trasferirmi al reparto AS3, hanno chiesto di firmare il consenso, ma io ho rifiutato”. La protesta sul cibo ha scatenato l’indignazione di Lega e Fratelli d’Italia: “Taci e digiuna, assassino comunista” ha postato Matteo Salvini su Facebook. “Era abituato al caviale... È dura la vita degli assassini che pagano per i loro crimini”, così Giorgia Meloni. A marzo scorso Battisti ha ammesso quattro omicidi: “Era una guerra, ma ora chiedo scusa alle famiglie delle vittime”. Alberto Torreggiani, figlio adottivo di Pierluigi (l’orefice ucciso in una rapina, nella quale Alberto, allora quindicenne, fu ferito e rimase paralizzato), non è convinto del “pentimento” e rincara: “Da latitante mangiava ostriche e pasta alle vongole. Come può piacergli il cibo del carcere? Sono garantista, ma è assurdo che sia ancora un privilegiato”. Sulla solitudine del giudice di cui parla Gustavo Zagrebelsky di Giacomo Costa* libertaegiustizia.it, 12 luglio 2020 Credo che “l’eccedenza di significato” del singolo giudice non esista. La gente incassa le notizie di episodi corruttivi che riguardano singoli giudici con la stessa tranquillità con cui contempla della frutta che si rivela avariata. Il problema si pone quando l’organizzazione giudiziaria nel suo complesso sembra discostarsi da quella ideale. Qui sì c’è un “eccesso di significato”, purtroppo indefinito, perché nessuno sa veramente come dovrebbe funzionare “l’organo di auto-governo della magistratura”. Ciò che sappiamo noi estranei è ciò che siamo venuto a sapere ora e nel 2019, e decisamene non ci piace: “Cricche, congreghe, giri di potere che hanno sbocco nel Csm”. A guardar bene, esse sono la conseguenza del principio democratico, rappresentativo e assemblearistico. Una volta ammesse le correnti, e le elezioni che portano alla ribalta i rappresentanti delle correnti, scatta il principio non detto ma vigente che ciò che importa è di trovare un equilibrio tra le correnti. Della qualità dei suoi rappresentanti è semmai responsabile la singola corrente. “Lo scandalo che abbiamo davanti agli occhi non sta tanto nel metodo, quanto nella collusione con interessi di politicanti e nella qualità degli accordi,” osserva Zagrebelsky, ma “il metodo” ha necessariamente la conseguenza che alle qualità personali si sostituisce l’appartenenza a un gruppo para-politico. Anche la formazione di personale specializzato nella ricerca ed esecuzione di accordi ha una sua logica…economica. Uno che ha contatti in tutta Italia può soddisfare le esigenze dei colleghi di tutta Italia. E siccome gli scambi non possono essere tutti simultanei, conviene alla natura di questi market-maker di poter durare per garantire l’esecuzione di scambi inter-temporali. La prima linea difensiva di Bruti Liberati, Palamara, Cosimo Ferri, è stata che “così va il mondo”, e che non vi sia assolutamente nulla di cui vergognarsi: anzi, queste pratiche contrattuali e consensuali tra le correnti garantirebbero, se gestite da persone abili e responsabili come loro, non solo la massima soddisfazione delle pretese di tutti, ma la qualità delle nomine più importanti. Che fare? Molti, Spataro, Zagrebelsky, Di Matteo, puntano sull’autoriforma morale dei magistrati, ma mi pare difficile sperare nel ravvedimento di persone lucidissime che ritengono di essere già dotate di saldi orientamenti etici. Pare difficile che Cosimo Ferri, maestro di ogni accordo “con i politicanti”, voglia auto-riformarsi. Sarebbe oltretutto ingiusto suppore che non sia convinto dell’eccellenza anche morale delle sue operazioni. Temo che invocare una riforma morale sia un modo per evitare il problema. Resta l’alternativa del sorteggio e della rotazione. Ed è strano che i proponenti dell’inattuabile riforma morale la respingano in quanto disfattista. È probabile che sarebbe efficace nello smembrare la trama degli accordi abilmente intessuta dai nostri in decenni di paziente proficuo lavoro, di industriosa accumulazione di “capitale sociale”. *Economista, saggista e socio di Libertà e Giustizia Caso Zagaria: anche i boss hanno dei diritti di Giulio Negri internationalwebpost.org, 12 luglio 2020 Molta indignazione si sta sollevando per la concessione dei domiciliari ad alcuni esponenti di punta della criminalità organizzata, causa rischio contagio. Ma è da questi provvedimenti che si giudica il grado di civiltà di una Nazione. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Queste parole, attualissime, risalgono addirittura al XVIII secolo, e furono espresse da uno dei più grandi pensatori dell’era moderna: Voltaire. Un concetto, quello della dignità di coloro che vengono sottoposti dalla legge a privazioni di libertà, che bisogna ribadire con grande forza anche ora che un’ondata di indignazione popolare si è sollevata a causa della scarcerazione del boss Pasquale Zagaria (clan Casalesi), sottoposto al 41bis e a cui sono stati concessi i domiciliari come effetto delle prescrizioni anti-Coronavirus che indicano di sfoltire le presenze nelle carceri facendo scontare la pena altrove. Pasquale Zagaria soffre di una grave patologia, il cui trattamento, allo stato attuale delle cose, non è possibile in carcere, vista l’emergenza sanitaria. Prima di lui, stessa sorte era capitata a Francesco Bonura, uomo di spicco di Provenzano. Ovviamente, vista la gravità dei reati commessi da Zagaria, si rende necessario effettuare ulteriori accertamenti, e valutare alternative che evitino la sua scarcerazione, come annunciato dal Guardasigilli Bonafede: “Tra le proposte merita maggiore approfondimento quella che mira a coinvolgere la Dna e le Direzioni Distrettuali Antimafia nelle decisioni relative ad istanze di scarcerazione”. Bonafede, d’accordo col Presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, si è detto pronto ad “intervenire con proposte che verranno inserite nel prossimo decreto legge sulle scarcerazioni per motivi di salute, durante l’emergenza coronavirus, di boss mafiosi”. È indubbio che si tratta di individui di estrema pericolosità, e che si sono resi colpevoli di crimini abominevoli, ma, in attesa di un’alternativa percorribile, la decisione dei giudici (presa, si ricordi, in perfetta autonomia e sulla quale il legislativo e l’esecutivo non hanno potere alcuno) è assolutamente legittima e, forse, persino doverosa. Il sovraffollamento delle carceri è un problema ormai antico che affligge l’Italia da tantissimo tempo, e le prigioni sono di conseguenza tra i luoghi dove è più complesso far rispettare le misure di sicurezza contro il Covid. Per ciò, chiunque sia considerabile in pericolo deve essere messo al sicuro. Diversamente, si tratterebbe di una sorta di pena di morte. E alla morte condannano le mafie, non gli Stati civili. Ad inizio aprile Vincenzo Sucato, 76 anni, che stava scontando la sua condanna per associazione mafiosa, è morto di Coronavirus, a dimostrazione, se fosse ancora necessario, che il problema c’è ed è molto serio. Dall’altra parte, è assolutamente comprensibile lo sgomento dei magistrati antimafia. Non si deve, però, pensare che esso venga dall’intenzione delle misure adottate dai giudici per certe scarcerazioni (ovvero: proteggere la salute dei detenuti). Lo sgomento dei magistrati antimafia viene dal fatto grave che non si sia riusciti a trovare una soluzione alternativa per decongestionare le carceri e riportarle in una condizione accettabile di sicurezza. Non sarebbe meglio, ad esempio, amnistiare o almeno concedere i domiciliari ai piccoli spacciatori e a coloro che stanno scontando una pena per l’uso di droga, che sono tra i principali motivi del sovraffollamento? Magari si potrebbe fare di necessità virtù e cogliere la palla al balzo per portare avanti la sacrosanta battaglia della depenalizzazione delle droghe leggere. Riassumendo, lo Stato non sta facendo “l’amico dei mafiosi” come alcuni hanno provato ad insinuare, e mettere in sicurezza anche i più efferati criminali è un dovere primario di ogni Stato di Diritto. Tuttavia, si potrebbe certamente trovare una soluzione più consona rispetto alla concessione dei domiciliari, e per questo è necessario un imponente intervento legislativo, che si spera arrivi con celerità. Calabria. Candido e Ruffa: in un aggettivo lo stato delle nostre carceri è “disumano” cn24tv.it, 12 luglio 2020 “Come oggi conferma a distanza di 5 anni Pastore, sovraffollamento e carenza di agenti di Polizia Penitenziaria. Volendo riassumere in un aggettivo lo stato delle nostre carceri viene da pensare “disumane”. È quanto affermano Giuseppe Candido (componente del Consiglio Generale del Prntt) e Rocco Ruffa (tesoriere della associazione Radicale Nonviolenta Alm 19 Maggio) in una lettera nella quale aggiungono: “Sarebbe da chiedersi, infatti, come possa definirsi “umano” un sistema carcerario che con riferimento alla sola Calabria presenta più della metà dei suoi istituti di pena (7 su 12) sovraffollati: Castrovillari, Crotone, Paola, Rossano, Laureana di Borrello, Locri e Reggio Calabria “Panzera”. Quando si ha sovraffollamento ovvero il numero di persone detenute supera il numero di posti disponibili il trattamento irrispettoso della dignità della persona detenuta (e -non sporadicamente- innocente) non è una eventualità da accertare ma un dato di fatto che nel corso degli ultimi decenni ha comportato le reiterate condanne dell’Italia di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; di questa cosa il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è ben consapevole perché il numero di posti disponibili è ottenuto fornendo ad ogni detenuto lo spazio minimo (con un margine strettissimo) affinché la detenzione non equivalga ad “un trattamento contrario al senso di umanità” (come prevede la nostra Costituzione); ma quando una cella che è progettata per ospitare una sola persona per non più di 16 ore al giorno, ne “detiene” due per oltre 20 ore al giorno (ma sarebbe altrettanto vero se le celle da 2 o da 3 posti ospitassero anche una persona in più) non ci vuole Renzo Piano ma basta il tecnico di un qualsiasi ufficio comunale per capire che lo Stato italiano sta platealmente violando le sue stesse leggi. Violazione del diritto alla salute resa ancora più manifesta dell’emanazione dei famosi Dpcm 2020 che tentano di arginare la diffusione del “coronavirus 2019” e richiedono a tutti i cittadini un distanziamento fisico reciproco maggiore dell’ordinario”. Candido e Ruffa, prosegue il comunicato, sottolineano che “C’è un altro dato dell’interessante articolo citato che dovrebbe far saltare dalla sedia chi ha a cuore lo Stato di Diritto: se -come sostiene il giornalista- la pianta organica presenta un buco di 419 unità che fine fa il principio, anch’esso di rango costituzionale, secondo cui la pena deve “tendere alla rieducazione del condannato”? Chi come noi del Partito Radicale Nonviolento - grazie all’insegnamento e all’esempio di Marco Pannella- ha imparato a tenere accesa una luce su quanto avviene nelle carceri del nostro Paese, sa bene che una carenza così significativa (superiore al 20%) degli operatori di Polizia si traduce automaticamente in una riduzione dei colloqui con i propri familiari, in un ridotto numero di ore fuori dalla cella, in minori attività lavorative, in minori attività trattamentali e rieducative in genere. Per salvare l’onorabilità della nostra Repubblica si rende necessaria a nostro modesto avviso una riforma della Giustizia e della sua appendice carceraria che prenda in seria considerazione un provvedimento di amnistia e indulto per far uscire il nostro paese dalla flagranza di reato in cui è stato fatto precipitare da decenni di mala-giustizia. Non solo la riforma del sistema di elezione del Csm, ma - con i casi Palamara e Berlusconi - si evidenzia la necessità di arrivare alla separazione delle carriere e alla responsabilità civile dei magistrati (per dolo o colpa grave) così come pure il giudice Giovanni Falcone si diceva favorevole e per cui è stato isolato da molti suoi colleghi. La lotta in difesa dei diritti umani a cui tenteremo di dare forma - assieme a quelle forze politiche responsabili che sentono la stessa urgenza - è quella di essere forza aggregante e rilanciare una stagione referendaria per la Giustizia Giusta”. Trieste. Trovato morto nella cella del Coroneo, è mistero sulle cause della tragedia di Laura Tonero Il Piccolo, 12 luglio 2020 Nicola Buro, triestino di 38 anni, abitava a San Giacomo: era detenuto da pochi mesi. Cosa ha provocato l’arresto cardiaco? Riverso sul letto, morto per un arresto cardiaco, che potrebbe essere stato causato anche da un abuso di farmaci. È morto così, venerdì pomeriggio intorno alle 16.30 il triestino Nicola Buro, 38 anni, residente a San Giacomo. Una notizia che ha creato sconcerto anche tra i residenti del rione e tra i suoi amici che, pur conoscendo la vita talvolta spericolata di “Scrich” questo il suo soprannome, volevano bene a quel ragazzo altruista, innamorato alla follia del suo bambino e con la passione per i cani e le moto. Buro era in carcere da pochi mesi, soffriva di problemi legati alla tossicodipendenza. Venerdì scorso, mentre le celle erano aperte e gli altri detenuti vagavano nelle aree comuni, Buro era rimasto a letto. Va considerato che da tempo al Coroneo, come nelle altre carceri di media sicurezza, vige per i detenuti per i quali non siano previste particolari restrizioni il “regime aperto”, che consente loro di godere per diverse ore al giorno di un perimetro della detenzione che non è più quello della cella, bensì quello della sezione. Un modello penitenziario introdotto dal Dap del 2011 che alleggerisce anche la grave situazione dettata dal sovraffollamento delle carceri. Il trentottenne, poco dopo le 16, era stato chiamato dagli agenti della Polizia penitenziaria per un incontro programmato - forse con un educatore o con l’avvocato - al quale però Nicola non si è mai presentato. Il suo cognome è riecheggiato più volte lungo il corridoio, senza ricevere risposta e senza che il giovane si palesasse al portone d’ingresso della sua sezione. A quel punto, insospettiti dal lungo silenzio, gli agenti si sono precipitati nella cella trovando l’uomo riverso sul letto. A nulla sono valsi i tentativi di rianimarlo del personale sanitario del Coroneo e degli operatori del 118, che arrivati sul posto non hanno potuto far altro che constatare il decesso. Sulle cause che hanno portato all’arresto cardiaco dell’uomo, non è da escludere che a monte ci sia un abuso, un’overdose causata da un cocktail di farmaci. Capita purtroppo spesso che i detenuti accantonino le terapie farmacologiche che vengono loro somministrate, o che facciano anche richiesta di qualche sonnifero per dormire. Poi, invece di assumere il tutto, mettono i medicinali da parte per farne un uso improprio, in una sola volta cercando lo stordimento o lo sballo. In alcuni casi vengono anche ceduti ad altri detenuti in cambio di soldi o altro. Nicola Buro nella vita era già “inciampato” diverse volte. Nel 2004, quando aveva appena 20 anni, era stato arrestato perché coinvolto in un’importate giro di spaccio di ecstasy proveniente dalla vicina Slovenia. Pochi anni fa, con una nuova compagna e la nascita del figlio, sembrava aver messo la testa a posto. Ma la vita tormentata l’ha portato a sbagliare ancora e a finire nuovamente dietro le sbarre di una cella. Una morte, quella di Buro, che ricorda molto quella avvenuta meno di un anno fa nella stessa casa circondariale. Il 13 agosto del 2019, infatti, in una cella singola del Coroneo, era stato trovato senza vita un ventunenne iracheno, morto nel sonno. Nel 2017 a morire nella cella 204 del carcere locale era stato invece il trentaseienne triestino Andrea Cesar. L’autopsia effettuata sul corpo di Cesar stabilì che a causare un infarto e il decesso di quel ragazzo era stata una dose di eroina. La direzione del Coroneo ieri non ha voluto rilasciare dichiarazioni in merito alla morte di Buro. Certamente, verrà fatta chiarezza su cosa possa aver causato l’arresto cardiaco. Riguardo alla situazione della casa circondariale di Trieste, al 30 giugno scorso i detenuti erano 179 (capienza 136), di questi 25 donne e 90 stranieri. Venezia. Pestaggio in carcere, grave detenuto di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 12 luglio 2020 Attimi di tensione venerdì pomeriggio nel carcere di Santa Maria Maggiore. Al secondo piano, nel settore di sinistra, è scoppiata una violenta rissa tra alcuni detenuti di nazionalità albanese e altri originari della Tunisia. Il personale di custodia è intervenuto per porre fine all’episodio di violenza, ma non è stato facile. Alcuni agenti sono rimasti leggermente contusi: un assistente capo ha riportato ferite guaribili in 5 giorni. Le conseguenze più gravi le ha patite un detenuto di nazionalità tunisina, ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale, pare con la milza spappolata: per lui si è reso necessario un intervento chirurgico, Altri detenuti hanno riportato lievi ferite. Secondo le prime ricostruzioni sarebbero stati due detenuti albanesi a dare il via al pestaggio: una sorta di missione punitiva nell’ambito di rapporti sempre più tesi tra le due comunità ospiti a Santa Maria Maggiore. Nonostante la superiorità numerica, i quattro tunisini hanno avuto la peggio. Concluso l’intervento per dividere i contendenti, all’interno del carcere sono state immediatamente adottate le misure necessarie a evitare nuovi contatti tra le persone coinvolte nella rissa e alcuni loro simpatizzanti. Normalmente quando accadono episodi del genere, i detenuti coinvolti vengono divisi e trasferiti in altri penitenziari. La direttrice di Santa Maria Maggiore, Immacolata Mannarella, ieri mattina non ha ritenuto di dover rilasciare alcuna dichiarazione sull’accaduto, facendo rispondere al centralino del carcere che era occupata e non aveva la possibilità di parlare con la stampa. Anche il Garante dei detenuti di Venezia ha preferito non commentare, non avendo ricevuto alcuna notizia sull’episodio. Sergio Steffenoni ha però ricordato le difficoltà croniche del carcere veneziano, penalizzato da un grave fenomeno di sovraffollamento e da una grave carenza di personale di custodia, come denunciano da anni, senza risultato, i sindacati di categoria. In serata l’Unione Sindacati di polizia penitenziaria ha denunciato l’episodio lamentando una situazione sempre più ingestibile. La situazione a Santa Maria Maggiore, così come in tutte le carceri italiane, si è fatta ancora più tesa durante l’emergenza coronavirus: per evitare contagi, infatti, sono stati proibiti tutti i contatti, compresi quelli con i familiari. “The Invisibles”, il documentario sulla battaglia di Aboubakar Soumahoro contro i soprusi di Diana Ferrero* L’Espresso, 12 luglio 2020 La lotta quotidiana del sindacalista che chiede diritti per i braccianti più sfruttati, spesso immigrati, al centro di un approfondimento internazionale. Perché la lotta per difendere gli ultimi non riguarda solo l’Italia. “Il distanziamento sociale è un privilegio”. Parole che ci sono entrate dentro e abbiamo tenuto dentro di noi, per mesi A dirle, come una battuta - con tutta la nuda verità che solo l’ironia fa passare - è stato il sindacalista italo-ivoriano ed ex bracciante Aboubakar Soumahoro in una delle nostre prime, cordiali chiacchierate per telefono. Lui, in treno, bus, in mezzo ai campi o in un cosiddetto “ghetto” - come alcuni ancora li chiamano (un termine che in America sarebbe bocciato come “politically incorrect”). Noi a casa nostra, a Washington, DC, separate dal distanziamento sociale nel semi-lockdown che gli Stati Uniti di Trump non hanno mai imposto seriamente. Dato che tutto è “in remoto” - ho pensato - perché non fare un documentario in Italia, a distanza? Così pensava anche la mia collega Carola Mamberto, altra giornalista e producer italiana a Washington. Così, insieme e improvvisando, abbiamo capito che volevamo raccontare la lotta dei braccianti e dei migranti che cercano voce. La storia era urgente e aveva una dimensione internazionale che risuonava con molte delle tensioni che sono cresciute negli Stati Uniti negli ultimi anni. L’immigrazione, la disuguaglianza razziale, i diritti del lavoro e alla salute. Soprattutto il paradosso di essere “essential workers” e privati di tutti i diritti, dall’assistenza sanitaria al privilegio di poter lavorare da casa e proteggersi dal contagio. Secondo recenti statistiche, solo un americano su quattro lavorava da casa. I numeri ora, in pandemia, sono probabilmente diversi perché molti hanno adottato telelavoro o smart working, ma rendono comunque l’idea di chi può beneficiare di più flessibilità nel lavoro. Secondo questi dati, tra il 25 per cento dei più abbienti, quasi due persone su tre lavorano da casa. Lo stesso privilegio è dato solo a circa una persona su dieci nel 25 per cento di popolazione meno abbiente. Insomma, gli strati più poveri hanno meno probabilità di poter lavorare da casa. E la popolazione nera e quella ‘brown’ (di latino americani), non a caso, sono le più colpite dal Covid. “C’è un sindacalista, un nuovo leader, che mi sento potrebbe essere la nostra guida” mi ha detto Carola. E ho sentito una vibrazione nella sua voce, un’emozione che mi ha convinta. La sera stessa abbiamo mandato ad Aboubakar Soumahoro la nostra richiesta, e lui ci ha - gentilmente, in modo formale ma subito intimo - garantito l’accesso, la fiducia. Da lì sono iniziati due mesi di lavoro ininterrotto. Fare un documentario è un’operazione artigianale. Soprattutto se “fatto in casa” come lo abbiamo fatto noi. Durante il lockdown. A distanza. Io chiusa in camera, scrivendo e facendo reporting sull’Italia, con due bambini che bussavano alla porta per chiedere aiuto a fare i compiti. Carola nel suo basement, dirigendo insieme a me le riprese a distanza, mentre montava il pezzo da sola, sul suo computer, tra un’interruzione e l’altra dei figli. Aboubakar ci ha permesso di seguirlo in un suo breve viaggio in Puglia, quando - sfidando il lockdown e le restrizioni di viaggio - portava mascherine e cibo ai braccianti, affamati e senza lavoro, mentre gli asparagi iniziavano a marcire nei campi. Ci ha dato un accesso breve, ma unico, nello spaccato di vita di migranti senza nome, in un momento in cui tutta l’Italia stava chiusa a casa. Ma quello che ci ha dato - più di tutto - è stata la possibilità di documentare il suo lavoro di ‘documentarista’. Quando abbiamo visto i suoi video, girati al cellulare, e lui stesso fare domande al bracciante dietro di lui che candidamente e in ottimo italiano dice “Ti pagano 4 euro all’ora, 3 euro e mezzo all’ora, senza i contratti e senza i loro diritti” per noi è stato chiaro. Bisognava documentare il suo lavoro, mentre lui stesso documentava la vita e il lavoro dei migranti sfruttati, in condizioni di quasi schiavitù, nei campi e nelle tendopoli del Sud. Bisognava usare i suoi stessi materiali. I suoi stessi video, montati con le nostre immagini ad alta risoluzione (girate in 4K a distanza per noi da un DP locale di Foggia, Sergio Grillo) che riprendono Aboubakar mentre si fa una selfie con i braccianti, o li sistema dietro di sé, come un regista sul set, per filmare il loro coro di denuncia. “Siamo esseri umani, non braccia! Siamo esseri umani, non braccia” dicono i braccianti in un suo video su Facebook, uno dei tanti che hanno attirato l’attenzione di 150,000 followers e sono diventati un potente strumento narrativo. Potente perché viene da lì. Viene dai campi. Viene da un lavoratore che ammette “Io da questa miseria ci sono nato”, che ne è venuto fuori laureandosi in Sociologia all’Università di Napoli, e sa cosa significa il sudore e spaccarsi la schiena per 14 ore al giorno per pochi spicci da dividere con il caporale di turno. E sa anche che invece c’è un altro modo. Ci sono dei diritti che devono essere garantiti a tutti, senza distinzione di provenienza, razza e religione, ed è il momento di reclamarli. La storia dello sfruttamento dei migranti - che siano braccianti, muratori, colf o badanti che dedicano la loro vita a contribuire al nostro benessere senza uno straccio di contratto di lavoro - è una storia vecchia in Italia. E anche il loro sfruttamento e la loro estorsione da parte delle mafie locali. Ma quello che ci è sembrato diverso in questa storia - e importante da documentare in questo momento - è che ora c’è un leader, c’è un movimento, ci sono istituzioni pronte ad ascoltare. Come il Sindaco di Milano Giuseppe Sala - che dice: “Personalmente mi espongo su questa battaglia di Aboubakar perché la trovo una cosa giusta e perché in questa fase, in questa crisi che stiamo vivendo, noi dobbiamo veramente cercare di riflettere a come possiamo cambiare le cose”. O come Papa Francesco, che il 6 maggio si è detto particolarmente colpito dalle richieste dei braccianti, e in particolare, dei migranti, e ha invitato “a fare della crisi l’occasione per rimettere al centro la dignità della persona e la dignità del lavoro”. Ma anche come i tanti giovani, millennials e non, pronti ad andare in piazza sfidando il virus, ispirati anche dalle proteste Black Lives Matter contro le ingiustizie razziali che stanno dividendo l’America, una tra tutte l’arresto e omicidio di George Floyd. Tutto questo mentre - “grazie” al Covid che sta costringendo tutti a rivalutare priorità, disuguaglianze e privilegi, incluse le politiche migratorie - per la prima volta dal 1965 i sondaggi dicono che la maggioranza degli americani, il 34 per cento contro il 28 per cento, vogliono più migranti, non meno. La “regolarizzazione” del 13 maggio inclusa nel Decreto Rilancio non ha cambiato le cose rispetto alla situazione critica che abbiamo catturato al momento delle nostre riprese. Se andremo a filmare nei campi, ora che il lockdown è superato, sappiamo che vedremo ancora la stessa storia. “I nostri sportelli dicono che il 90 per cento dei braccianti saranno esclusi dalla regolarizzazione” ha predetto Aboubakar. Anche se i numeri non sono chiari, e se questo è comunque un primo passo verso una possibile, graduale, regolarizzazione, è evidente che ci vorrà tempo per scardinare tutto un sistema di sfruttamento, assenza di controlli, e mancanza di trasparenza che la fa da padrone da anni, nei campi e lungo tutta la catena alimentare. Ora tra Italia e Stati Uniti la situazione si è rovesciata. L’Italia ha appiattito la curva del Covid e riaprirà le scuole, mentre l’America sta collassando sotto le sue ineguaglianze, con quasi 130.000 morti ad oggi, 2,7 milioni di contagi, e picchi di oltre 50.000 nuovi casi al giorno. Ma la nostra preoccupazione per questa storia - per la condizione dei migranti senza nome e senza tetto che da anni circolano come fantasmi nel nostro Paese tanto accogliente quanto non preparato a una vera integrazione, e per la necessità di restituire trasparenza nella filiera agricola - rimane. È la preoccupazione per una storia italiana, ma anche globale, che ha paralleli e risonanze con l’America, dove 2,5 milioni di lavoratori agricoli - tra cui molti immigrati “undocumented” o irregolari dell’America Latina - sono sfruttati nel lavoro stagionale dei campi, in California o in altri stati rurali, e sono tra i gruppi più a rischio di coronavirus. E dove la rivolta black ha raggiunto un punto di non ritorno, l’energia e la massa di un nuovo Civil Rights Movement dove, per la prima volta, a differenza del ‘68, neri e bianchi marciano fianco a fianco, nonostante il virus, o forse proprio per quello. Ce la faranno i braccianti del mondo - tutti i migranti, anche quelli che non possono essere etichettati come “lavoratori essenziali” - a tirarsi fuori dall’oscurità? Gli italiani, politici e non, giovani e non, creeranno le condizioni, le leggi, le strutture, la mentalità per una politica di immigrazione più lungimirante, che garantisca il rispetto dei diritti dei lavoratori e non? Che permetta ai migranti di affittare una casa, di iscriversi all’anagrafe, di avere assistenza sanitaria, e ai loro figli di ottenere la cittadinanza? Gli italiani che consumano frutta, verdure e prodotti ambiti in tutto il mondo sono pronti a chiedere una patente del cibo, e pagare il giusto prezzo per quello che portano a tavola, senza schiacciare contadini e braccianti? Le nostre domande, e il nostro documentario, restano aperti. *Diana Ferrero e Carola Mamberto sono le autrici del documentario “The Invisibles” prodotto e distribuito dalla piattaforma globale Doha Debates. L’eccezione non è la regola di Sabino Cassese Corriere della Sera, 12 luglio 2020 Sono molte le ragioni per non prorogare al 31 dicembre lo stato di emergenza, dichiarato il 31 gennaio e in vigore fino al termine di luglio. In primo luogo, manca il presupposto della proroga. Perché venga dichiarato o prorogato uno stato di emergenza, non basta che vi sia il timore o la previsione di un evento calamitoso. Occorre che vi sia una condizione attuale di emergenza. Proprio per questo la norma del 2018, che regola la protezione civile, ha previsto un sistema molto semplice e rapido di dichiarazione dello stato di emergenza: basta una delibera del Consiglio dei ministri. Perché prorogare lo stato di eccezione, se è possibile domani, qualora se ne verificasse la necessità, riunire il Consiglio dei ministri e provvedere? Allora, non bisogna ricorrere a un provvedimento eccezionale, che istituisce un ordine fuori dall’ordinario, se non ve ne sono le premesse. La proposta di proroga è stata affacciata con la motivazione dell’urgenza di provvedere, se la pandemia riprende forza. Ma l’urgenza non vuol dire emergenza. Il ministro della salute può, in base alla legge del 1978 sul Servizio sanitario nazionale, emettere ordinanze contingibili (cioè per casi non prevedibili) e urgenti in materia di igiene e di sanità. Il codice dei contratti contiene norme che consentono procedure negoziate senza previa pubblicazione di bandi di gara. Insomma, nell’ordinamento vi sono strumenti che consentono di provvedere celermente, senza creare di nuovo uno stato di eccezione che giustifica tutto (la legge sulla protezione civile prevede che durante lo stato di emergenza si può provvedere “in deroga a ogni disposizione vigente”). È buona norma che, se vi sono strumenti meno invasivi, si ricorra ad essi, prima di utilizzare quelli più drastici. Un terzo buon motivo per non abusare dell’emergenza è quello di evitare l’accentramento di tutte le decisioni a Palazzo Chigi. E questo non solo perché finora si sono già concentrati troppi poteri nella Presidenza del consiglio dei ministri, o perché in ogni sistema politico una confluenza eccessiva di funzioni in un organo è pericolosa, ma anche e principalmente perché l’accentramento crea colli di bottiglia e rallenta i processi di decisione. Da ultimo, la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza è inopportuna perché il diritto eccezionale non può diventare la regola. Proprio per questo sia la legge che lo prevede, sia la costante giurisprudenza della Corte costituzionale hanno insistito sulla necessaria brevità degli strumenti derogatori, perché non è fisiologico governare con mezzi eccezionali. Questi possono produrre conseguenze negative non solo per la società e per l’economia, creando tensioni nella prima e bloccando la seconda, ma anche per l’equilibrio dei poteri, mettendo tra le quinte (ancor più di quanto non accada già oggi) il Parlamento e oscurando il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, al cui controllo sono sottratti gli atti dettati dall’emergenza. Non dimentichiamo che Viktor Orbàn cominciò la sua carriera politica su posizioni liberali. La dittatura del presente di Antonio Scurati Corriere della Sera, 12 luglio 2020 Le ragioni del manifesto di intellettuali rivolto contro chi condanna il passato senza conoscerlo. Il futuro ci giudicherà e certo senza alcuna competenza. Lo scrisse Milan Kundera, uno che di ideologie oppressive se ne intende. Quel futuro spietato e cieco sembra essere tornato: le democrazie liberali d’Occidente sono scosse da movimenti radicali che non soltanto pretendono di giudicare il passato senza alcuna competenza ma addirittura pretendono di condannarlo rifiutando sfacciatamente ogni approfondita conoscenza di esso. Il manifesto firmato da 150 scrittori, intellettuali e artisti illustri lancia l’allarme contro quella che definisce una “atmosfera soffocante”, un nuovo “conformismo ideologico”, una nuova forma di censura e di intolleranza praticate oggi proprio in nome di una società più giusta e inclusiva. I perseguitati che diventano persecutori, i giusti che si trasformano in giustizieri, gli oppressi in oppressori. Una tragica storia già vissuta e che ora sembra ripetersi con tratti farseschi, ma non per questo meno inquietanti. La crociata contro il passato è parte essenziale di questa nuova ideologia tendenzialmente totalitaria che, muovendo da sacrosante rivendicazioni, finisce per “restringere costantemente i confini di ciò che si può dire senza minaccia di rappresaglia”. L’assunto di base è che la storia sia stata scritta dai vincitori, identificati con gli oppressori e che, dunque, oggi vada riscritta ribaltando le parti. I programmi di studio accademici sono così epurati da opere di Shakespeare, Hemingway e Fitzgerald, la furia iconoclasta si scaglia contro le statue di Cristoforo Colombo, Thomas Jefferson e Winston Churchill. Il futuro, tante volte invocato come riparatore di torti dagli umiliati e offesi del passato, giunge non nella forma della giustizia ma in quella della vendetta. Tutto ciò resuscita, paradossalmente, l’idea di posterità, idea che pareva morta al mondo. Per circa due secoli, a partire dalla Rivoluzione Francese, lavoratori sfruttati, patrioti oppressi, artisti misconosciuti si sono appellati ai posteri invocando giustizia. Poi, alla fine del secolo scorso, la stella della redenzione della Storia è parsa spegnersi definitivamente. Ora sembra, invece, riaccendersi e ardere di una fiamma fanatica. “I posteri siamo noi”, urlano i nuovi censori. In verità, a ben guardare, la recente metamorfosi del tribunale della storia in tribunale dell’inquisizione non è affatto una riattivazione, se pur partigiana e militante, della coscienza e della memoria storica ma il suo esatto opposto: è la loro palese, radicale, forse definitiva obliterazione. Siamo di fronte all’ennesima manifestazione di ciò che alcuni definiscono “presentismo”, cioè quella dittatura del presente che cancella dall’esperienza sociale del tempo le dimensioni di passato e futuro, condannandoci a vivere sotto dettatura della cronaca, in una temporalità atrofizzata, una sorta di “permafrost astorico e gaudente”, o astorico e rabbioso. Il nuovo tribunale della storia sopprime, infatti, innanzitutto ogni capacità (e volontà) di storicizzare, vale a dire di comprendere la vita degli uomini nel tempo, la patetica, grandiosa, sempre sbilanciata, drammatica, inquieta condizione umana come condizione di chi esiste soltanto nel corso del tempo. E quando scrivo “storicizzare” non penso alla capacità professionale degli storici di collocare un personaggio o accadimento in una vasta conoscenza del contesto in cui si produsse (capacità comunque indispensabile). La storia cui si appellarono i derelitti del passato era la storia dei popoli non quella degli storici. Penso a quella sublime forma di pietà che ci guida a comprendere l’altro da noi quando riusciamo a giudicare l’umanità nel tempo e ogni uomo nel suo tempo. È difficile, è come riuscire a scattare una foto del volo rapido di un uccello da un mezzo in rapido movimento. Noi nel gorgo del nostro tempo, lui nel gorgo del suo. È difficile ma necessario. Uso il verbo “giudicare” perché non credo affatto che storicizzare un personaggio del passato - sia esso Cristoforo Colombo o nostra nonna - debba significare relativizzare, stabilire una sorta di equipollenza narrativa tra la vittima e il carnefice. Tutt’altro. Storicizzare deve sempre significare chiedersi cosa avrei fatto io davvero al suo posto e, simultaneamente, cosa era giusto fare nella sua epoca? Domande abissali, che richiedono studio, riflessione, onestà e, soprattutto, pietas. Pietà per loro e per noi. Per i morti, per i viventi e per i non ancora nati, anch’essi destinati a esistere solo nel tempo. Un unico esempio: Winston Churchill. Il grande Primo ministro del Regno Unito fu un privilegiato votato a conservare i privilegi della sua casta, un militarista, un nazionalista, ovviamente maschilista, mediamente razzista e sovranamente alcolista? Certo che lo fu. Winston Churchill era un aristocratico inglese di antico lignaggio, un uomo dell’Impero che in gioventù aveva coraggiosamente e orgogliosamente combattuto in India, nella seconda guerra boera e a Omdurman, nella guerra mahdista. Dobbiamo assolverlo perché, a dispetto di tutto ciò, seppe ergersi, con la sua squisita eloquenza, la sua intelligenza del disastro, la sua ferrea volontà politica, a ultimo baluardo europeo contro il Nazismo? No. Dobbiamo comprenderlo - e ammirarlo - perché proprio in virtù di tutto ciò poté salvare la Gran Bretagna e l’Europa da Adolf Hitler. Raccontare. Senza sconti, senza filtri, a fondo. Questo continua a sembrarmi il miglior antidoto a ogni furibondo accecamento ideologico, ad ogni censura moralistica ammantata da superiorità morale. Perché, come ci insegnò un grande filosofo, è solo entrando in un racconto che il tempo - spietato, indifferente, sterminatore - si umanizza, diventa tempo umano. 12mila morti al giorno per fame, ma i paesi ricchi non piangono di Gioacchino Criaco Il Riformista, 12 luglio 2020 Dodicimila per 10, per 100. È un’operazione facile. Di un orrore indicibile se quei numeri indicassero persone e trasformassero gli uomini in cadaveri. Eppure operazioni del genere se ne fanno ogni giorno nel mondo, nella parte nata male del pianeta. L’Oxfam, l’organizzazione mondiale che si occupa di povertà, lancia l’ennesimo allarme, scrive parole che sono pallottole ma nemmeno lo sfiorano il cuore della parte nata bene del mondo. A fine 2020 potrebbero morire 12.000 persone al giorno, farlo lentamente per mesi, anni, fino a consumare un esercito di centinaia di milioni di affamati. Fame. Morire per fame, una carenza cronica di alimenti che scava fianchi, infossa guance e divora ogni fremito di vita. 150.000.000 di esseri che non hanno cibo quasi raddoppieranno, con l’82% in più andranno a 270.000.000 di affamati. Che solo a sentirle le cifre della Oxford Committee for Famine Relief, la depressione diventa scoramento, incredulità. È così, è così. Il covid19, il morbo che in Italia ha sterminato più di 40.000 vite, cagionerà fra i poveri un massacro epocale, toglierà loro la vita senza neppure incontrarli, non gli affloscerà i polmoni, svuoterà gli stomaci. Moriranno in milioni senza infettarsi, perché, come era facile prevedere, gli effetti peggiori della pandemia saranno quelli economici, con un impoverimento generale che devasterà i Paesi meno ricchi. Questo sta succedendo: in Siria, Brasile, Sud Sudan, India, Afghanistan, la ricchezza declina, l’Occidente, i paesi industrializzati, riducono il proprio Pil e questo si riverbera sulle economie, già asfittiche, che dipendono da esso. Diminuiscono gli aiuti, le rimesse degli emigrati e il rivolo di soldi che passavano da un mondo a un altro si chiude. Questa sarà la strage vera della pandemia, di fronte a cui i numeri tragici dei morti nei paesi ricchi saranno nulla in confronto alle agonie che già hanno incominciato a progredire nei paesi poveri. L’infezione si è già mangiata 305.000.000 di posti di lavoro e, imperterrite, le 8 maggiori holding mondiali dell’alimentare hanno distribuito ai loro azionisti 18 miliardi di dollari di dividendi, per la Oxford Committee for Famine Relief basterebbero 1,8 miliardi per rimediare alle carenze alimentari di milioni di persone. Per evitare una strage che sarà addossata alla responsabilità del Covid-19. Ma il morbo è solo un colpevole presunto, un sicario prezzolato che si accolla responsabilità altrui. Un peccato che è di chi ha potere, ma anche nostro, diviso, diluito, è un torto che la civiltà del consumo fa a quella del bisogno. L’Oxfam spara cifre che sono pallottole, si scontrano contro i petti corazzati di chi mangia, non ce la fanno a raggiungere il cuore. Potrebbero morire 12.000 persone al giorno, entro il 2020, per la fame che sarà moltiplicata dalla crisi economica causata dal covid19, ma non sarà solo il virus ad ammazzarli. Un apologo sul razzismo (e sulla mitezza) di Adriano Sofri Il Foglio, 12 luglio 2020 Un episodio di calunnia si muta in un caso di giustizia e di perdono. A volte la vergogna è la sola vera pena. Aspettando di informarmi meglio sull’appello contro l’intolleranza, riprendo (dal New York Times, nel resoconto che ne fa il Post) una notizia istruttiva. Vi ricorderete della donna, Amy Cooper, 40 anni, che il 25 maggio scorso lasciava correre il suo cocker spaniel in una zona di Central Park in cui i cani vanno tenuti al guinzaglio. Un uomo, Christian Cooper, 57 anni, le chiede di richiamare il cane e tenerlo legato. Fin qui si può simpatizzare con lei, per amore dei cani e antipatia per i regolamenti, ma l’uomo ha, oltre al rispetto per la regola, una sua ragione egregia: è un avid birder, come ha spiegato sua sorella, è lì per osservare gli uccelli - usignoli, cardinali, fringuelli - e i cani sciolti sono degli avid birder, ma a modo loro. Il problema è che, benché abbiano lo stesso cognome - che scherzi - Amy è bianca, Christian nero. Così Amy pensa di castigarlo chiamando la polizia: un afroamericano sta minacciandomi a morte, grida. Conta con naturalezza sul razzismo ordinario, la polizia sarà dalla sua e lui se ne spaventerà. Solo che lui sta filmando la cosa, che poi va su Twitter e viene vista da decine di milioni di persone. La giovane è coperta di insulti e deplorazioni, e perde lavoro e casa. Si scusa, sostiene di non essere razzista. Lui crede alla sincerità delle scuse: lei non si crede razzista, dice, ma il suo comportamento lo è stato. Lunedì scorso il procuratore di Manhattan incrimina la donna per la falsa denuncia, simulazione di reato, e la convoca per il 14 ottobre. Non è un’accusa grave per le conseguenze: un anno con la condizionale, una contravvenzione. L’avvocato di lei attacca la “cancel culture”. Lui, Christian Cooper, comunica di non aver intenzione di sporgere denuncia: “Ha già pagato un prezzo alto: non è abbastanza come deterrente per gli altri? Renderla più infelice mi sembra solo infierire”. Aggiunge che “se il procuratore ritiene necessario perseguirla deve farlo, ma può farlo anche senza di me”. La sua scelta solleva opinioni accese e opposte. A me tutta la storia sembra esemplarmente istruttiva. Il razzismo banale della donna, parente insieme lontanissimo e vicino della naturalezza con cui un energumeno in divisa intima al suo catturato che per la ventesima volta ha detto “Non posso respirare”, “Allora stai zitto”. (George Floyd è assassinato a Minneapolis poche ore dopo l’incidente di Central Park). La considerazione del calunniato che smascheramento e vergogna della calunniatrice siano abbastanza, e non abbiano bisogno di passare per tribunali e carceri, sia pure condizionali. Chi dissente sostiene la necessità esemplare della sanzione giudiziaria. A me esemplare sembra la scelta di Christian Cooper, laureato di Harvard, autore di storie disegnate e collaboratore biomedico. Soprattutto avid birder. Decreti sicurezza, tutto è nelle mani di Lamorgese di Leo Lancari Il Manifesto, 12 luglio 2020 La ministra sta lavorando al testo con le modifiche definitive ai provvedimenti di Salvini. Adesso tutto è nelle mani di Luciana Lamorgese. Martedì prossimo, quando i rappresentanti della maggioranza torneranno a riunirsi al Viminale, la ministra dell’Interno presenterà loro il testo di quella che potrebbe essere la versione definitiva dei nuovi decreti sicurezza, anzi “sicurezza e immigrazione” come è stato ribattezzato il provvedimento destinato a mandare in soffitta i decreti salviniani. Non che tutti i nodi siano stati sciolti. Anzi. Sul tavolo sono rimaste ancora da risolvere due questioni non proprio secondarie come le multe alle ong e i tempi per la presentazione del testo in consiglio dei ministri. Sul primo punto resta da vedere se le resistenze mostrate finora dai 5 Stelle, favorevoli ad abolire le maxi multe ma decisi a mantenerle nella versione originaria del decreto (sanzioni comprese tra i 10 mila e i 50 mila euro) saranno state superate oppure no. Cosa non del tutto improbabile visto che dall’ultima volta in cui Pd, LeU, Italia Viva e 5 Stelle si sono visti al Viminale la Corte costituzionale è intervenuta pesantemente sul primo dei due decreti dichiarando incostituzionale il divieto di iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo. Il punto fa parte di quelli a cui era già stata messa mano nel corso delle riunioni al Viminale, ma la decisione della Consulta potrebbe aver convinto i pentastellati a una rottamazione definitiva dei provvedimenti. Sull’argomento ieri è intervenuto anche il presidente della Camera Roberto Fico con parole che lasciano poco spazio a interpretazioni: “I decreti sicurezza sono una risposta sbagliata a un problema reale - ha detto. Ed è stato sbagliato il metodo, un decreto legge fatto senza un adeguato dibattito parlamentare che uscisse dalla contrapposizione manichea, bianco o nero”. Le modifiche sulle quali finora Pd, LeU, Iv e M5S sono d’accordo prevedono la riduzione dei tempi di detenzione nei Centri per il rimpatrio a 90 giorni (contro i 180 attuali), la possibilità di poter accedere alla protezione umanitaria anche per le famiglie con figli minori, persone gravemente malate, quelle con disturbi psichici, disabili, donne incinta e infine, alle persone che hanno subito un trattamento degradante, comprendendo in questa categoria anche chi, malato, nel Paese di origine non potrebbe ricevere cure adeguate. Infine la ricostruzione del sistema Sprar, il Sistema di protezione richiedenti a silo e rifugiati fortemente ridotto con il secondo decreto sicurezza. “Stiamo lavorando e io sono ottimista che arriveremo a una soluzione condivisa. C’è il desiderio di arrivare a segnali di cambiamento rispetto al passato”, ha spiegato nei giorni scorsi Lamorgese. Proseguono intanto a Lampedusa gli sbarchi di quanti riescono ad arrivare in Italia in maniera autonoma, con 791 profughi sbarcati nelle ultime 48 ore, 143 dei quali ieri. Una sequenza di arrivi che ha avuto come conseguenza quella di mandare in tilt l’hotspot dell’isola, una struttura in grado di ospitare ameno di cento persone e nella quale invece trovano posto in 700. Il presidente della Regione Nello Musumeci ha chiesto al governo di dichiarare lo stato di emergenza per l’isola. L’assassinio di Giulio Regeni chiama in causa tutti noi di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 12 luglio 2020 La partita con l’Egitto sul caso del ricercatore ucciso è stata resa disperata dalla scarsità e debolezza dei mezzi di pressione di cui l’Italia può disporre. Un Paese serio sa dire la verità: principalmente su sé stesso. Non s’illude con infondate speranze, non millanta capacità che non ha e che sa di non avere. Un Paese serio non tratta una vicenda come quella di Giulio Regeni nel modo come l’ha trattata l’Italia, a cominciare dal suo governo per finire con la sua opinione pubblica (stampa compresa, se posso aggiungere). Che Giulio Regeni - incautamente mandato a svolgere un’inchiesta sul sindacalismo in uno Stato ferocemente dittatoriale come l’Egitto da una sciocca (e vogliamo credere che si sia trattato solo di un caso di superficialità accademica) insegnante di Cambridge - che Giulio Regeni, dicevo, fosse stato trucidato dagli sgherri dei servizi segreti del governo egiziano è stato chiarissimo fin dall’inizio. La ridicola messinscena organizzata dai suddetti servizi di attribuire il suo assassinio a una banda di malfattori puntualmente fatti fuori dagli stessi servizi non ha ingannato nessuno. Anzi: è’ stato una sorta di indiretta ma clamorosa ammissione di colpa. A quel punto però - dopo il primo doveroso richiamo del nostro ambasciatore, destinato naturalmente a non avere alcun esito apprezzabile - a qualunque persona con una minima conoscenza delle cose è apparso chiaro che la partita con il Cairo era una partita disperata. Per due ragioni evidenti. Innanzi tutto perché il potere di Al Sisi, il dittatore egiziano, ha nei servizi segreti un suo piedistallo essenziale. È solo grazie al loro implacabile e feroce lavoro, infatti, che egli riesce a tenere a bada la vasta opposizione che agita il Paese e in specie quelle dei Fratelli musulmani, la quale altrimenti lo travolgerebbe in un attimo. È dunque impensabile, letteralmente impensabile, che egli possa mai consegnare alla giustizia italiana (e quindi presumibilmente ad anni ed anni di galera) qualcuno dei caspi di quei servizi che lo tengono in piedi. È impensabile che in nome del diritto Al Sisi possa fare questo affronto ai suoi più importanti alleati. La seconda ragione che fin dal primo momento ha reso disperata la partita dell’Italia con il Cairo è consistita nella scarsità e debolezza dei mezzi di pressione di cui l’Italia stessa può disporre. Detto in altre e più crude parole, è il fatto che noi contiamo troppo poco perché il governo egiziano si senta spinto ad acconsentire alle nostre richieste di giustizia; è il fatto che serve molto di più l’Egitto all’Italia che non l’Italia all’Egitto. Noi, ad esempio, abbiamo bisogno del ben volere di Al Sisi perché l’Eni possa continuare non solo ad estrarre dal suo Paese l’ingentissima quantità d’ idrocarburi e di gas che estrae ogni anno (rispettivamente 129 milioni di barili e 15 miliardi e mezzo di metri cubi), ma anche continuare a svolgere ricerche ancora più promettenti nel Delta del Nilo e altrove. Davvero possiamo/vogliamo rischiare l’eventuale ritiro delle concessioni? Non mi pare che nessuno lo abbia proposto. È vero che da noi l’Egitto acquista cose importanti come le due fregate di cui si parla in questi giorni. Ma se non gli vendiamo noi le fregate in questione ci sono almeno altri due o tre Paesi, c’è da giurarci, che sono sicuramente pronti a prender il nostro posto. La verità è che l’Italia ha ben poche vere armi di pressione nei confronti del governo egiziano, e che anzi esiste un’importante ragion di Stato (l’Eni di cui sopra) che invita ad evitare una rottura con l’Egitto. Né in questo momento l’Italia dispone sulla scena internazionale di alleati potenti e volenterosi che possano darle una mano decisiva con il Cairo. È assai doloroso dirlo, ma che valgono dunque, se le cose stanno così, le invocazioni “Giustizia per Giulio Regeni” e altre analoghe che meritoriamente tante persone per bene non si stancano da anni di elevare verso il governo italiano? Valgono molto poco, ahimè, dal momento che esse non sono mai state accompagnate dall’indicazione di alcun mezzo concreto capace di mutare la situazione. In tutto questo tempo, insomma, nessuno è stato in grado di indicare che cosa si possa fare realmente per costringere il governo egiziano a rendere giustizia a Giulio Regeni. Anche la rinnovata richiesta di ritirare il nostro ambasciatore dopo l’ennesimo rifiuta da parte della magistratura egiziana di accogliere le domande italiane, a quale risultato si pensa che possa mai condurre? Nei rapporti tra gli Stati quello che in ultimo conta sono i rapporti di forza: dirlo può essere sgradevole e impopolare, ma è così. Proprio per quanto ho detto finora, tuttavia, l’Italia ha contratto un enorme debito verso i genitori di Giulio. Come suo cittadino la vita di Giulio Regeni era sotto la protezione della Repubblica, ma questa protezione si è dimostrata impossibile. Proprio perché come Paese non siamo stati e non siamo in grado di ottenere giustizia per la sua morte atroce, e perché siamo anzi costretti a far prevalere la ragion di Stato (una ragion di Stato che torna a vantaggio di noi tutti, non dimentichiamolo) sulle ragioni della giustizia, questa morte chiama in causa direttamente la responsabilità di noi tutti in quanto collettività nazionale. Alla memoria di Giulio e al dolore della sua famiglia l’Italia deve dunque un risarcimento simbolicamente significativo. È da questa necessità che è nata la mia proposta di intitolare al suo nome una via o una piazza in tutti i comuni della Penisola, a cominciare da quelle dove hanno sede le rappresentanze diplomatiche del governo egiziano. Assai significativo mi sembrerebbe intitolare sempre al nome di Giulio Regeni un certo numero di borse di studio (magari chiamando l’Eni a contribuire al loro finanziamento) da riservare a giovani ricercatori egiziani desiderosi di venire a specializzarsi in Italia in materie affini a quelle di cui si occupava Giulio. Sarebbe un modo evidente, tra l’altro, per dimostrare che l’Italia sa distinguere bene tra il governo dell’Egitto e il suo popolo. Si tratta, come si vede, di proposte i banalissimi ma che almeno vogliono dire qualcosa, significano se non altro un impegno collettivo, la volontà da parte del Paese di farsi carico della memoria di un’ingiustizia. Meglio, forse, di proteste inevitabilmente destinate a farsi sempre più rituali, sempre più tenui e a finire in un nulla. Serbia. A Belgrado guerriglia e assalto al Parlamento. Feriti giornalisti, 71 arresti di Alessandra Briganti Il Manifesto, 12 luglio 2020 La situazione sanitaria continua a essere allarmante: ieri 345 nuovi casi e 12 decessi. Dopo la tregua è di nuovo guerriglia tra le strade di Belgrado. Se nella notte di giovedì i manifestanti sono riusciti a isolare le frange violente con un appello sui social a protestare restando seduti per strada, in quella successiva si è assistito a una nuova escalation di violenza. Malgrado il divieto di assembramento, in migliaia si sono nuovamente radunati nella Piazza del Parlamento per protestare contro la cattiva gestione dell’emergenza sanitaria da parte del governo, accusato di aver mentito sui dati reali del contagio per andare al voto. Un centinaio di manifestanti ha sfondato le transenne che circondano l’Assemblea, arrivando a spaccare la porta d’ingresso e una telecamera di sorveglianza. Respinti dalla polizia, hanno poi continuato a scagliare pietre e fumogeni contro il Parlamento. Ci sono state poi tensioni anche tra gruppi di manifestanti: un ragazzo è stato accoltellato a una gamba da un altro manifestante, subito arrestato. In piazza sono scesi anche diversi leader dell’opposizione, da Zoran Lutovac, leader del Partito democratico, Zoran Lutovac, a Vuk Jeremic, presidente del Partito popolare. Tra questi anche Sedjan Noga, ex esponente del partito di estrema destra Dveri, ora a capo della formazione fascista Svetlost. Tra i manifestanti anche alcuni membri di Obraz, un’organizzazione clerico-fascista molto popolare nei primi anni duemila in Serbia, poi messa al bando nel 2012, che per tutta la notte ha intonato canzoni nazionaliste sul Kosovo. Il resto della piazza si è spaccato, tra manifestanti che hanno deciso di abbandonare la protesta, e altri che hanno continuato a prendervi parte, pur a distanza. Negli scontri sono rimasti feriti alcuni giornalisti compresa la troupe di Aljazeera, alla quale è stato intimato di non filmare gli scontri, e quella di N1 al cui giornalista Petar Gajic è stato strappato il microfono durante la diretta. Secondo il presidente dell’Associazione dei giornalisti indipendenti in Serbia (Nuns) Zeljko Bodrozic in 4 giorni ci sarebbero stati 21 attacchi ai danni di giornalisti e operatori televisivi. Gli scontri sono andati avanti fino a mezzanotte passata, quando la polizia in tenuta antisommossa e la gendarmeria sono intervenute per disperdere la folla. Un intervento che ha portato all’arresto di 71 manifestanti. Tra questi anche persone provenienti da Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Tunisia e Gran Bretagna. Intanto la situazione sanitaria continua ad essere allarmante. Malgrado il lento miglioramento registrato a Novi Pazar, una delle città più colpite dal covid, nella sola giornata di ieri si sono registrati 345 nuovi casi e 12 decessi. La premier serba Ana Brnabic è tornata quindi a minacciare la reintroduzione del coprifuoco a Belgrado, mentre il presidente serbo Aleksandar Vucic ha chiesto ai manifestanti di proseguire le proteste dopo che la curva del contagio sarà calata. Un invito destinato a cadere nel vuoto. Libia, l’escalation militare e l’Italia di Alessandro Orsini Il Messaggero, 12 luglio 2020 L’interesse nazionale dell’Italia nel Mediterraneo è in pericolo. La guerra tra Turchia ed Egitto in Libia, che si profila all’orizzonte, avrebbe un impatto negativo per tutti gli italiani. Ci auguriamo che una simile guerra non scoppi, ma i fatti inducono al pessimismo. Prima di ragionare sul governo Conte, è necessario fornire un resoconto degli eventi importantissimi avvenuti in questi giorni, ponendoli in ordine di successione, per mostrare che sono concatenati nel rapporto di causa-effetto tipico dell’escalation militare. In primo luogo, il presidente dell’Egitto, al-Sisi, ha invitato l’esercito a prepararsi per una guerra fuori dai confini nazionali. Due giorni dopo, il governo di Tobruk ha richiesto l’intervento dell’Egitto per essere difeso dall’attacco che il governo di Tripoli, sorretto dalla Turchia, sta per sferrare contro Sirte. Erdogan ha risposto inviando a Tripoli il ministro della Difesa, Hulusi Akar, che ha arringato i soldati turchi affinché siano pronti alla guerra con l’Egitto. Due giorni dopo la visita di Hulusi Akar, alcuni caccia Rafale hanno condotto un bombardamento contro la base aerea di al-Watiya, dove la Turchia ha concentrato i propri armamenti. Nessun governo ha rivendicato il raid aereo. Tuttavia, in Libia, i caccia Rafale sono in dotazione soltanto alla Francia e all’Egitto. Questa rubrica non ha dubbi sul fatto che il bombardamento contro i turchi ad al-Watiya sia stato condotto dai piloti di Macron, da quelli di al-Sisi o da entrambi. Macron è infatti furiosamente schierato contro la penetrazione della Turchia in Libia ed è un alleato di ferro dell’Egitto. Dopo avere subito l’attacco ad al-Watiya, Erdogan ha inviato a Tripoli l’ammiraglio Adnan Ozbal, comandante della Marina turca, e ha annunciato un’esercitazione militare al largo delle coste libiche per le prove generali della guerra con l’Egitto. L’esercitazione si chiamerà “Naftex” e coinvolgerà 17 aerei e 8 navi da guerra. La ragione è semplice: Sirte si trova sulla costa e, per strapparla al trio Haftar-Macron-al Sisi, Erdogan dovrà combattere in mare. Proviamo adesso a calcolare una piccola parte dei danni che l’Italia subirebbe a causa di una guerra tra Turchia ed Egitto. Innanzitutto, l’Italia e la Turchia sono alleate. Entrambe difendono il governo di Tripoli. Questa alleanza è stata ribadita tre giorni fa, durante la visita del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ad Ankara. Che il ministro della Difesa italiano si rechi dal ministro della Difesa turco, in un contesto di guerra tra Turchia ed Egitto, dice molto sui rapporti tra Erdogan e Conte. Il problema è che anche i rapporti dell’Italia con l’Egitto sono ottimi, al punto che l’Italia, pochi giorni fa, ha addirittura venduto alcune eccellenti navi da guerra all’Egitto prodotte da Fincantieri. A meno che non si tratti di una scaramuccia di un giorno, cosa che tendiamo a escludere, una guerra tra Turchia ed Egitto costringerebbe l’Italia a prendere una posizione: o il governo Conte rinuncia alla Turchia o all’Egitto, ma questo è contrario alla logica strategica dell’Italia e, quindi, non va bene. Maggiore è la durata di una guerra, maggiore è il numero di Stati che finisce per essere coinvolto. È facile per l’Italia rimanere neutrale in una guerra di ventiquattro ore tra Egitto e Turchia; molto più difficile in una guerra di un anno. Arriviamo al punto: la guerra tra l’Egitto e la Turchia non dev’essere combattuta perché è contraria all’interesse dell’Italia. Inoltre, se una guerra turco-egiziana si concludesse con un vincitore netto, anche questo non sarebbe vantaggioso per l’Italia. Una Libia sotto il controllo completo della Turchia, o del blocco Egitto-Francia, costringerebbe l’Italia a un ruolo troppo subalterno rispetto ai vincitori, mentre una Libia divisa in aree di influenza, Tripolitania e Cirenaica, accrescerebbe gli spazi di manovra per l’Italia. Un equilibrio di questo tipo andrebbe bene nel medio periodo perché lascerebbe all’Italia il tempo di lavorare per recuperare le posizioni perdute in questi anni. L’Italia è un Paese forte quando regna la pace, I suoi commerci e la sua diplomazia scorrono nel sottosuolo come un fiume carsico. La guerra, invece, esclude il governo Conte dalle dinamiche che contano. Siccome l’Italia non può fare niente per la guerra, la guerra non può fare niente per l’Italia. Quando lavora per la pace, l’Italia lavora per sé stessa. Burkina Faso. Almeno 180 corpi trovati in fosse comuni, sotto accusa le forze di sicurezza di Stefano Mauro Il Manifesto, 12 luglio 2020 Guerra al jihadismo nel Sahel. 180 corpi rinvenuti a Djibo, Human Rights Watch punta il dito contro l’esercito. “I morti erano tutti delle etnie Fulani e Peul, spesso associate ai miliziani jihadisti”. Sono almeno 180 i corpi ritrovati in fosse comuni nel nord del Burkina Faso, nella città di Djibo, e le prove “evidenziano un coinvolgimento diretto delle forze governative di sicurezza”, denuncia la direttrice dell’Ong Human Rights Watch (Hrw) dell’Africa occidentale, Corinne Dufka all’agenzia Afp. “Abbiamo scoperto numerose fosse comuni e secondo le testimonianze raccolte, le prove disponibili suggeriscono omicidi extragiudiziali di massa nel periodo tra marzo e aprile - ha affermato Dufka -, i morti erano tutti uomini appartenenti alle etnie Fulani e Peul, gruppi etnici del nord che spesso vengono associati automaticamente ai miliziani jihadisti”. L’organizzazione non governativa in un suo rapporto, pubblicato mercoledì 8 luglio, ha richiesto l’apertura di un’inchiesta internazionale e ha sollecitato il governo burkinabé di portare “davanti alla giustizia i responsabili di tali crimini”. Se da una parte il presidente Kaboré ha detto di aver avviato due indagini, giudiziarie e amministrative, “per verificare i fatti e giudicare i responsabili”, dall’altra il ministro della difesa burkinabé, Moumina Cherif Sy, ha detto che gli omicidi potrebbero essere stati commessi “da gruppi armati con addosso uniformi militari e attrezzature logistiche rubate”. Hrw ritiene che, nonostante le dichiarazioni ufficiali, il governo non abbia mai fatto abbastanza per indagare sulle violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza e delle milizie civili. Già a inizio giugno aveva richiesto, senza nessun risultato, alle autorità centrali di condurre “un’indagine credibile e indipendente” sulla morte di 12 persone sospettate di appartenere a gruppi jihadisti e uccise, con un proiettile alla testa, all’interno delle loro celle nella gendarmeria di Tanwalbougou. “Le autorità governative dovrebbero inviare un messaggio di tolleranza zero per gravi violazioni dei diritti umani verso le popolazioni civili, perché i gruppi jihadisti puntano a disgregare il paese su base etnica, a ottenere sostegno da parte della popolazione e a sostituirsi allo stato centrale, anche a causa di queste violenze indiscriminate” ha concluso Dufka. Il Burkina Faso rimane, tra i paesi del Sahel, quello maggiormente colpito dall’ascesa dei movimenti jihadisti nella regione, in particolare la zona orientale e quella settentrionale sono le aree più colpite dagli attacchi jihadisti che hanno causato almeno 400 morti e più di 800mila sfollati in 5 anni.