Carcere, la battaglia per difendere la dignità dei detenuti e rendere la prigione più umana di Samuele Ciambriello* Il Riformista, 11 luglio 2020 Ancora una volta questi corridoi lunghi e squadrati, lo sferragliare delle chiavi e il rumore delle porte di ferro che si aprono al nostro passaggio e si chiudono alle nostre spalle. Dopo tanti anni mi fa ancora impressione e continua a produrre in me un vago senso di estraneazione. Me lo fa ancora adesso che attraverso questi spazi, questa volta in qualità di garante regionale dei detenuti. Di nuovo qui, mi dico, e la mente va alla prima volta che ho varcato questa soglia, quando circa quarant’anni fa come volontario mi sono inoltrato per gli stessi corridoi, ho sentito gli stessi rumori, avvertendo le stesse sensazioni. Ricordo che la prima volta, l’impatto con il pianeta carcere fu devastante e non vedevo l’ora di uscire di nuovo da lì, da quel luogo rimosso e squadrato dove non c’era alcun segno tangibile di una qualche umanità, eccezion fatta per gli agenti che mi accompagnavano e che, comprendendo il mio stato d’animo, cercavano di rincuorarmi, lanciando al mio indirizzo timidi sorrisi. Allora non sapevo ancora che dietro tutto quel frastuono metallico e quel vociare confuso, in quelle celle, c’erano anche dei volti, delle storie, delle persone. Un portone blindato che divide l’umano dal non umano. E, ancora, dove un uomo tiene chiuso un altro uomo. Oggi, invece, lo so e so pure che rendere più umano questo spazio rimosso che si chiama carcere non è semplicemente un compito da anime belle e gentili ma un impegno necessario che, se assolto, rende anche l’esterno, il cosiddetto “contesto civile”, migliore. Quando parliamo di carcere, è semplice e scontato dire che dietro quelle sbarre ci sono persone che hanno fatto cose sbagliate, a volte terribili, ma anche poveri cristi che hanno commesso piccoli reati, il più delle volte dettati da uno stato di necessità ma anche da una profonda deprivazione culturale che impedisce di vedere un’altra possibile esistenza. E ci sono anche innocenti. Meno carcere significa più relazione tra esseri umani e quasi sempre meno delitti. A volte mi sono sentito come un naufrago che da un’isola deserta assegna al mare il proprio messaggio in una bottiglia; altre volte, invece, sono sorretto in questa semplice invocazione da associazioni, operatori, qualche magistrato! Ma quanta fatica ci vuole per uscire dal coro e lavorare affinché questa semplice verità non venga immediatamente seppellita sull’onda dell’ultimo fatto di cronaca o per la cinica speculazione di qualche politico pronto a strumentalizzare ogni cosa che accade, con allarmismi che rischiano di riportare la cultura giuridica del nostro paese indietro di cinquant’anni. Certo, mi sorregge in questa battaglia, in questa sorte di “fede laica”, l’articolo 27 della Costituzione che ribadisce la funzione educativa della pena e questo fa sì che il mio sforzo quotidiano non venga percepito come qualcosa di utopico e irrealizzabile. Ma poi mi domando: mi sorregge solo il dettato costituzionale? E la risposta arriva naturale, quasi scontata. No, sicuramente no. Mi sorreggono quei visi, quelle storie, anche di tanti innocenti che, nel corso degli anni, tanto mi hanno dato e a cui spero di aver dato qualcosa anch’io. Mi sorregge lo sforzo dei volontari e della stragrande maggioranza degli operatori penitenziari. Perché è proprio questo il punto: mutare atteggiamento verso chi “sbaglia” non è solo giusto o un atto caritatevole, ma è anche utile alla società. Già, utile! Mi vengono alla mente i cardini costituenti sui quali è stata fondata la filosofia giuridica che regola la pena detentiva e cioè: l’utilitarismo e il contrattualismo. Ho scritto questo libro sul carcere, come una scelta vocazionale, un testamento che consente a coloro che non conoscono la realtà del carcere di vivere un racconto tridimensionale. È andare contro corrente, contro un populismo legale e politico, perché lo Stato di diritto vale sia per Caino che per Abele. *Garante regionale dei detenuti della Campania Esecuzione penale esterna: inserimento lavorativo nel Meridione gnewsonline.it, 11 luglio 2020 E’ stato siglato al Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità del ministero della Giustizia il contratto per l’avvio del Pon legalità Fesr/Fse 2014-2020 “Innovazione Sociale dei Servizi per il reinserimento delle persone in uscita dai circuiti penali”. La firma è stata apposta dal Direttore Generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova, Lucia Castellano e dall’Amministratore Unico dell’E.I.T.D. s.c.a.r.l, Paolo Lanzilli. Il progetto intende costituire e rafforzare le reti territoriali dei servizi di inclusione sociale, con riferimento a particolari categorie di soggetti a rischio di devianza ossia persone, in carico agli Uffici di Esecuzione penale esterna, in fase di uscita o usciti dai circuiti penali nelle regioni Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. L’iniziativa progettuale intende favorire la costituzione e il rafforzamento della rete degli enti che a livello locale contribuiscono alla realizzazione dei percorsi di inclusione sociale. Il progetto intende favorire formule di accoglienza, mettere in risalto le competenze per orientare le scelte adottate dai destinatari del progetto. Previsto l’inserimento di duecento persone in tirocini di orientamento e inserimento lavorativo, propedeutici alla stabilizzazione occupazionale. Bambini in carcere: perché? di Marina Lomunno vocetempo.it, 11 luglio 2020 Perché i bambini da 0 a 6 anni, figli di detenute, per non trascorrere gli anni decisivi della loro crescita senza l’insostituibile figura materna, devono scontare la pena della loro mamma dietro le sbarre? Non è possibile “rieducare” in un ambiente idoneo alle esigenze dei bambini che non hanno colpe se la mamma deve fare i conti con la giustizia? Attorno a questa domanda si è sviluppato l’interessante video-seminario “Una casa senza sbarre” promosso dal Garante dei Detenuti del Piemonte Bruno Mellano, tenutosi il 4 giugno scorso, e ora disponibile integralmente sul canale Youtube all’indirizzo: you.tube/dV0OgyErqeQ. In Italia le mamme ristrette con prole da 0 a 6 anni scontano la loro pena, laddove esistono, negli Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri), appositi padiglioni riservati alle donne con figli dove l’arredo e l’ambiente sono più accoglienti di quello delle sezioni carcerarie con camere, spazi comuni, cucina, sale giochi e studio in un’ottica che si avvicina alla comunità proprio per non dare ai bimbi la sensazione di vivere in galera. Ad oggi sul territorio italiano, gli Icam sono solo 5: a Lauro (Avellino); a Milano San Vittore, a Venezia Giudecca; a Torino “Lorusso e Cutugno e Cagliari. A Torino le mamme con bambini sono normalmente tutte ristrette nell’Icam che può ospitare 11 donne con prole. A fine maggio 2020 presso l’Icam del penitenziario torinese si trovano 6 detenute con 7 figli tutte di nazionalità straniera. In Italia le donne ristrette con bambini ospitate negli Icam variano da 50 a 60 unità. “Numeri piccoli che non devono indurre ad abbassare la guardia su questo tema perché è quanto mai necessario contemperare l’esigenza cautelare dell’autorità giudiziaria con il diritto del minore a vivere con la propria madre in un ambiente sano e che ne salvaguardi lo sviluppo psicofisico” ha ricordato al seminario la garante regionale dell’infanzia Ylenia Serra. Al video-seminario coordinato da Bruno Mellano, che ha sottolineato come l’alternativa all’Icam (oltretutto molto meno costosa) sono le Case famiglie protette fuori dalle mura carcerarie, sono intervenuti tra gli altri l’assessore regionale al Welfare Chiara Caucino che ha dichiarato che “La Regione Piemonte intende sensibilizzare la Cassa delle ammende affinché metta in campo misure che consentano di attivare almeno una Casa famiglia protetta “senza sbarre” in ogni regione perché un bambino non deve pagare sulla propria pelle le conseguenze degli errori della propria madre”. Anche il sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Giorgis ha assicurato il proprio appoggio alla proposta dell’assessore Caucino, sottolineando l’impegno del Governo affinché “il carcere possa essere sempre più considerato come extrema ratio e si possa dare una piena ed effettiva attuazione al principio costituzionale che prescrive di fare in modo che la pena abbia funzione rieducativa”. Riforma del processo penale, il no corale dell’avvocatura a Bonafede di Simona Musco Il Dubbio, 11 luglio 2020 Cnf, Ocf e Camere penali: “Giudizio negativo, le nostre osservazioni non sono state accolte”. E l’Anm si schiera contro le sanzioni disciplinari. Un nulla di fatto. Con avvocatura e magistratura contrarie, per ragioni diverse, al disegno di legge sulla riforma del processo penale, la cui realizzazione ora appare in salita. È questo l’esito del tavolo di giovedì a via Arenula sulla riforma, che vede confrontarsi sul testo depositato in Senato il ministro Alfonso Bonafede, Cnf, Ocf, Ucpi e Anm. Con le componenti dell’avvocatura fermamente convinte dell’irricevibilità del testo e la magistratura scontenta dei punti che prevedono sanzioni disciplinari e sorteggio per il Csm. Consiglio nazionale forense, Organismo congressuale forense e Unione delle Camere penali hanno espresso “ferma contrarietà” al disegno di legge di iniziativa governativa. “Il giudizio negativo alla struttura del processo, così come emerge dalla riforma, è stato espresso in maniera compatta dalle componenti istituzionali e associative dell’avvocatura presenti al tavolo ministeriale sulla riforma penale”, si legge in una nota. Un giudizio negativo rafforzato dal mancato inserimento, nel testo della riforma, delle indicazioni condivise dall’avvocatura. Il testo, nelle intenzioni del ministro, dovrebbe portare ad una accelerazione dei processi, che dovrebbero durare massimo quattro o cinque anni. Una delle novità è quella delle sanzioni previste per i giudici che “rallenteranno” gli iter processuali, con la possibilità di subire procedimenti disciplinari. Per presentare appello, gli avvocati dovranno ricevere uno specifico mandato da parte dell’imputato dopo la condanna. La scrematura dei tempi dibattimentali passerà anche dall’abolizione dell’obbligo di riascoltare i testimoni sentiti in primo grado. Inoltre nel caso in cui l’appello non venisse convocato entro due anni, la difesa potrà chiedere la fissazione immediata dell’udienza. La norma prevede scadenze più strette per le indagini preliminari, con la possibilità di chiedere una sola proroga alle indagini, per un termine non superiore ai sei mesi. I tempi saranno di “sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni sola o congiunta alla pena pecuniaria; un anno e sei mesi dalla stessa data quando si procede per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, del codice di procedura penale; un anno dalla stessa data in tutti gli altri casi”. Ma è previsto anche un più ampio ricorso a riti alternativi, con l’aumento del limite di pena per il patteggiamento a otto anni di reclusione e l’esclusione dai riti speciali per reati come strage, omicidio, infanticidio. Per l’accesso all’abbreviato condizionato non si guarderà solo al principio di economia processuale, ma anche ai requisiti di rilevanza e novità dell’integrazione probatoria. La bozza prevede anche una scala di priorità nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, con precedenza assoluta per i processi relativi ai delitti colposi di comune pericolo. Dal canto suo, l’Anm, tramite il presidente Luca Poniz, ha ribadito la propria “disponibilità” al confronto su riforme “non dettate dall’emergenza e dalla contingenza”, ma “ineludibili per superare gli elementi di crisi e per accelerare il funzionamento della giurisdizione”. sottolineando però che “riteniamo sempre assolutamente irricevibili alcune proposte, come quelle sulle sanzioni disciplinari” contenute nel ddl sul processo penale di cui “sarà nostra responsabilità seguire l’iter parlamentare”. L’Anm, che a febbraio aveva deciso di disertare il tavolo ministeriale per protesta, giovedì ha deciso di prendere parte alla riunione in via Arenula per “capire se il disegno riformatore è cambiato” e ha assicurato che “seguirà l’iter parlamentare” dei provvedimenti, ha spiegato Poniz durante la riunione di ieri del parlamentino. “È ferma la nostra contrarietà al sorteggio per il Csm - ha spiegato il segretario generale dell’Anm Giuliano Caputo - oltre che alle sanzioni disciplinari e all’obbligo di discovery degli atti”. “Siamo tornati dal ministro con lealtà e responsabilità, portando la nostra voce ferma e la nostra disponibilità al confronto” sulle riforme, ha quindi aggiunto Poniz. Ma è “irricevibile ogni riforma che muove da una idea di inefficienza della magistratura”. La deriva inquisitoria del processo penale è il tradimento della riforma Vassalli di Vincenzo Musacchio* Il Dubbio, 11 luglio 2020 Dopo tanti interventi a macchia di leopardo, voluti dalla politica del momento, il processo è diventato un ibrido. Giuliano Vassalli fu senza dubbio un grande ministro della Giustizia ed ebbe la capacità e l’acume di preparare uno strumento tecnico giuridico che consentisse di rompere nettamente con il passato e di condurre l’Italia dal processo penale inquisitorio a quello accusatorio, che nelle sue intenzioni doveva offrire maggiori garanzie sostanziali all’imputato ma anche alla vittima. La riforma fu ultramoderna ma non fu mai completata e nei lavori di perfezionamento si determinarono distorsioni tali da annullarne la sua sostanza. Cesare Beccaria diceva: “se c’è una legge particolare così strettamente legata agli ordinamenti politici di un Paese da rendersene necessario il mutamento, non appena mutino le forme del governo, questa è la legge regolatrice del processo penale”. Essa deve sempre assicurare la pronta punizione dei delitti e la persecuzione inesorabile dei delinquenti, ma a questo scopo deve, da una parte, assicurare la maggiore efficienza degli organi giudiziari incaricati della prevenzione e della repressione e deve, d’altra parte, assicurare la protezione dell’innocente e la libertà del cittadino da ogni ingiusto arbitrio. È dunque naturale che il processo penale muti con il mutare dei Governi e dei loro orientamenti politici. Nei periodi di progressivismo sono larghe le garanzie dell’imputato, sicuri i diritti della difesa, pubblica la raccolta delle prove e aperta a tutti, il potere dei giudici indipendente e sovrano nella loro funzione e, al contrario, nei periodi di conservatorismo (o populismo) crescono i poteri della polizia e le prove sono raccolte nell’ombra e i banchi della difesa sono deserti e diventano ampi e arbitrari i poteri dei giudici, purtroppo, in proporzione della loro soggezione del potere politico. La riforma del processo penale voluta da Vassalli e coordinata da Giandomenico Pisapia, perse la sua essenza proprio con il succedersi di vari Governi diversi fra loro e proprio a seguito di modifiche non organiche, introdotte senza mai valutare il sistema penale nel suo complesso. Questi interventi a macchia di leopardo hanno danneggiato il codice di rito, perché, proprio come affermava Beccaria secoli fa, sono stati accompagnati da esigenze politiche e contingenti del momento storico in atto e sono nati con un errore di base: hanno pensato il processo penale in funzione delle esigenze particolari e non generali. Questo modo di procedere, negli anni, ha trasformato il codice di procedura penale in un ibrido che non è più inquisitorio ma neanche accusatorio. Se dovessimo dirla con un proverbio popolare, non è né carne né pesce, cioè non ha un’identità ben definita. Vassalli e il suo codice, invece, avevano chiaro l’obiettivo di superare il sistema inquisitorio, in cui tutto era deciso dal giudice e la difesa rimaneva a guardare, tirando dopo le sue conclusioni contro quanto era già maturato nell’istruttoria del giudice e del pubblico ministero. Nel processo accusatorio agognato da Vassalli e Pisapia, invece, le parti avrebbero dovuto operare e affrontarsi ad armi pari, da posizioni opposte. Ciò non è accaduto poiché è mancato il “giusto processo” che è rimasto solo una nota formale. Il modello accusatorio si sarebbe dovuto perfezionare con la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri e la discrezionalità dell’azione penale, il tutto senza porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo. Vassalli aveva previsto una corposa azione di depenalizzazione e ipotesi d’incentivazione all’uso dei riti alternativi al dibattimento. Non solo ciò non fu realizzato ma nel frattempo l’accusa ha assunto un peso predominante rispetto alla difesa dinanzi al giudice, rendendo quest’ultima la parte più debole del processo. Questa discrasia ha spinto sempre più il nuovo rito penale verso una deriva nuovamente inquisitoria. Con questi ritocchi auspicabili riprenderebbe vigore quel progetto innovativo voluto da Vassalli realizzando così a una nuova rivoluzione copernicana senza correre il rischio di essere accusati di revanscismo politico giudiziario. *Giurista e docente di diritto penale Palamara, a settembre ultimo “appello” davanti a tutti i colleghi iscritti all’Anm di Liana Milella La Repubblica, 11 luglio 2020 Il renziano Ferri si dimette dal sindacato dei giudici per evitare di farsi espellere. Si oppone duramente la corrente di Davigo che invece voleva il voto. Chiede il “tribunale del popolo”. E lo ottiene. Luca Palamara, a settembre, sarà giudicato da tutti i colleghi iscritti all’Anm che, quel giorno, vorranno partecipare all’assemblea generale in piazza Cavour. Lui - l’ex pm di Roma, l’ex presidente dell’Anm degli anni caldi contro Berlusconi, l’ex consigliere del Csm, l’ex leader di Unicost, adesso noto soprattutto per essere sotto inchiesta a Perugia per corruzione e per le telefonate e le chat coi colleghi con i quali trattava gli incarichi più prestigiosi, ma anche quelli di secondo piano - ebbene, lui, Palamara, espulso dall’Anm due settimane fa, ha presentato ricorso. Che è stato accolto. Si lamenta di essere stato condannato alla pena più grave, l’espulsione appunto, senza essere stato ascoltato, come invece aveva chiesto. Un’istanza, la sua, a cui i colleghi non hanno detto di no. Sarà sentito a settembre, in un’assemblea che, formalmente, deve discutere le riforme sulla giustizia, ma che diventerà inevitabilmente il grande sfogatoio di una magistratura che per via del caso Palamara e per il mercato delle nomine, ha perso molti punti nella graduatoria della credibilità. È improbabile che il destino di Palamara cambi, che lui riesca a dimostrare di essere “non colpevole”. Certo i colleghi, anche quelli dell’Anm, non condividono la sua linea d’accusa, tant’è che l’attuale segretario Giuliano Caputo, che è della sua stessa corrente, Unità per la Costituzione, lo ha criticato duramente, non solo per il suo comportamento, ma anche per la reazione alla sua espulsione. “Il polverone sollevato sulla mancata audizione, non prevista dallo statuto e mai consentita ad altri magistrati sottoposti a procedimento disciplinare, è stata una reazione spropositata” ha detto Caputo durante la riunione del “parlamentino” dell’Anm. E ancora: “Palamara non è un capro espiatorio, ma fa un certo effetto che in televisione parli del sistema, criticandolo, proprio lui che se ne è evidentemente avvantaggiato e lo ha alimentato, e che gli unici nomi che abbia deciso di fare, accostandoli genericamente al suo ‘sistema’, siano quelli di coloro che evidentemente ritiene responsabili della sua espulsione. Lui, che dice di essere pentito e chiede scusa, e che lo scorso anno cercava di danneggiare e screditare altri magistrati, evidentemente non è per nulla cambiato”. Insieme all’hotel Champagne, Palamara e Ferri, insieme fuori dall’Anm. Anche se il primo, Palamara, viene espulso. Mentre il secondo, Cosimo Maria Ferri, oggi deputato di Italia viva, quindi renziano, si dimette in corner, ma per evitare di essere espulso (anche se lui la racconta diversamente, “sono parlamentare, non sono più nell’Anm dal 2018”). Quando si candidò per l’Anm - era marzo 2012 - Cosimo Maria Ferri fece l’en plein con le preferenze. Ne ebbe ben 1.196. Bisogna aspettare il 2018, e la candidatura di Piercamillo Davigo, per un risultato che lo raddoppia, visto l’ex pm di Mani pulite pigliò 2.522 voti. Nel 2006, correndo per il Csm, Ferri ne ottenne oltre cinquecento. Ma dalle stelle alle stalle, perché adesso Ferri non fa più parte del sindacato dei giudici. Che per la riunione all’hotel Champagne volevano espellerlo. Lui invece si è dimesso, come hanno fatto tutti gli ormai ex consiglieri del Csm che parteciparono alla riunione clandestina all’hotel Champagne del 9 maggio 2019 per decidere chi dovesse essere il capo della procura di Roma. Dimissioni accolte quelle di Ferri, anche se fino all’ultimo hanno battagliato per evitarlo proprio i quattro colleghi di Autonomia e indipendenza, la corrente di Davigo, che invece volevano andare avanti fino all’espulsione. Ma per Ferri è valsa la stessa regola utilizzata per gli altri ex del Csm che due settimane fa hanno preferito fare il passo indietro. “No, non è mafioso”. Intanto si è suicidato di Giorgio Mannino Il Riformista, 11 luglio 2020 Era il leader degli imprenditori anti-racket. A Gela denunciava mafia e stidda da anni. E così alcuni capomafia accusarono Rocco Greco di essere loro complice. Accuse fasulle, inventate, smentite da tre gradi di giudizio. Assoluzioni che tuttavia non bastarono a impedire l’interdittiva antimafia del prefetto di Caltanissetta contro la sua azienda, la Cosiam srl. Era il 2018, e Greco non resse l’ennesimo colpo. Si sparò una pallottola alla testa, all’età di 57 anni. A un anno e mezzo dalla sua morte, il Tar del Lazio ribalta il giudizio del Viminale. Decisione sbagliata, dicono i giudici amministrativi. Il prefetto doveva rifarsi alle sentenze di assoluzione. Il Tar gli dà ragione, insomma, ora che è morto. E dopo aver subito tre gradi di giudizio, che si sono rivelati inutili agli occhi della prefettura. “Invece di credere alle sentenze, il Viminale ha creduto ai mafiosi”, è l’amaro sfogo dell’avvocato Galasso. Ma il figlio di Rocco, Francesco, non invoca vendetta: “Non denunceremo, le mele marce ci sono anche nello Stato”. Per anni ha denunciato l’attività estorsiva di Cosa Nostra e della Stidda gelese. Insieme a un manipolo di imprenditori coraggiosi è diventato il leader dei commercianti anti-racket. Ma quando nel 2018 la sua azienda - la Cosiam srl, impegnata nell’esecuzione di lavori stradali e di servizi di raccolta rifiuti - ha ricevuto l’interdittiva antimafia, Rocco Greco, 57 anni, ha deciso di farla finita sparandosi un colpo di pistola alla testa. A distanza di un anno e mezzo dal documento firmato dal Viminale, la sentenza del Tar del Lazio - annullando il provvedimento ministeriale - definisce l’istruttoria  carente in ordine al presupposto di attualità del condizionamento mafioso. Una grave superficialità da parte del Viminale e degli organi competenti, che è costata la vita a un uomo e che ha cambiato per sempre quella di un’intera famiglia. La sua. Così mafia e antimafia, ancora una volta, si confondono in una storia angosciosa e tremenda in cui la giustizia arriva con grave ritardo, dice Alfredo Galasso, avvocato di Greco. Una trama inquietante nella quale il dolo è uno spettro, in una vicenda tutta da chiarire, che s’intravede nelle parole del figlio dell’imprenditore, Francesco: Non ho le prove - dice - ma l’interdittiva è arrivata quando gestivamo 20 cantieri e non in anni precedenti quando lavoravamo meno. Il provvedimento sembra essere arrivato quasi ad orologeria. E se da un lato le sentenze della magistratura hanno dimostrato l’estraneità di Greco a Cosa Nostra, dall’altro l’iter prefettizio è andato avanti. Ma riavvolgiamo il nastro. Durante il processo “Munda Mundis” - svoltosi al tribunale di Gela, che ha messo in luce gli affari di Cosa Nostra sui rifiuti - Greco ha ripetuto e arricchito di particolari il suo racconto in merito ai soprusi subiti dalle cosche. Il processo si è concluso con una sentenza di condanna per quasi tutti gli imputati. Durante il dibattimento, però, alcuni capimafia accusano Greco di essere stato un loro complice e di avere ottenuto favori nell’attribuzione di appalti pubblici. Accuse che, però, vengono smontate dai giudici nei tre gradi di giudizio: È stato riconosciuto che queste dichiarazioni da parte dei mafiosi erano espedienti utili a difendere la loro posizione. Eppure nonostante tutto il Viminale non ha creduto alle sentenze ma ai mafiosi, tuona l’avvocato Galasso. Perché nel documento firmato dall’allora prefetto di Caltanissetta, Cosima Di Stani, e dal capo del Sisma (Struttura di Missione e Prevenzione Antimafia), Carmine Valente, si legge che  l’insieme delle vicende giudiziarie evidenziano una figura d’imprenditore che dimostra di conoscere le dinamiche mafiose gelesi adoperandosi nel trovare protezione dalle stesse per sé e le sue aziende. Dunque Greco - continua il documento - pur essendo stato riconosciuto dal giudice vittima delle richieste estorsive da parte delle locali consorterie mafiose, ha manifestato nel corso degli anni, atteggiamenti di supina condiscendenza nei confronti di esponenti di spicco della criminalità organizzata gelese. Comportamenti che assurgono a forma di situazione a rischio di infiltrazione criminale nei confronti della Cosiam. Quattro giorni fa, però, il Tar del Lazio ribalta il verdetto del Viminale: Gli elementi a sostegno della collusione di Greco sono costituiti dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Ad avviso del collegio, l’attendibilità di tali dichiarazioni andava valutata alla luce dell’esito del processo che aveva coinvolto Greco assolvendolo dall’imputazione per associazione di tipo mafioso e dalla posizione di vittima che lo stesso ha sempre rivendicato. A ciò deve aggiungersi la prova delle denunce di danneggiamenti o tentativi estorsivi proposte da Greco dal 2007, che si pongono in logico contrasto con l’assunta infiltrazione mafiosa, configurandosi come illecite pressioni sull’impresa al fine di estorcere un qualche vantaggio. Con la voce increspata dall’emozione, Francesco Greco commenta: Non avevamo bisogno di una sentenza del Tar per sapere chi fosse mio padre. Mi dispiace che per superficialità da parte di chi ricopre cariche importanti si facciano errori così gravi. Il prefetto che ha firmato la prima interdittiva era Carmine Valente. Lo stesso che tre anni prima, quando era prefetto a Caltanissetta, ci aveva iscritti in white list. Bastava fare una verifica. L’azienda torna a lavorare nel solco della memoria di Greco: Da quando ci ha lasciati - dice il figlio - proviamo a onorarlo così, mandando avanti l’azienda e gestendo la quotidianità con serietà e garbo. Greco fa sapere inoltre che non denuncerà il Viminale per danni: Le mele marce stanno dappertutto, anche nello Stato. Così si affondano aziende e uomini di Sergio D’Elia Il Riformista, 11 luglio 2020 Invece di punire lo Stato intende “prevenire” e in questo modo storce il diritto non garantendo le regole del processo. Dal 2014 al 2018, 2044 imprese sono state raggiunte da interdittiva. La riabilitazione postuma di Rocco Greco, vittima a un tempo della mafia che lo ha infamato e dello Stato che lo ha “anti-mafiato”, se restituisce l’onore all’imprenditore siciliano interdetto dal fare impresa, non cancella la vergogna di un sistema in teoria di prevenzione, di fatto di distruzione di alternative di vita economica, civile e sociale al potere mafioso. Secondo un rapporto dell’Anac del luglio 2019, sarebbero 2.044 le aziende destinatarie di misure interdittive prefettizie dal 2014 al 2018. Mediamente, ogni santo giorno, 4 interdittive in più e centinaia di posti di lavoro in meno. La crescita è esponenziale e dilaga dal Sud al Nord. Dalle 122 interdittive del 2014 si passa alle 573 del 2018 (370% in più): nel Nord da 31 a 116; nel Centro da 16 a 34; nel Sud da 75 a 423. Dati sottostimati, perché riferiti solo a quelle imprese che nei 5 anni di riferimento hanno partecipato ad appalti pubblici. Nella lotta alla mafia non vi può essere una terra di mezzo tra il potere criminale e il potere “democratico”, tra la mafia che intimidisce e uccide e il suo eguale e contrario, lo Stato che reprime e, soprattutto, “previene”. Perché, nella logica contorta, autoreferenziale, dell’accanimento anti-mafioso, prevenire è meglio, perché è peggio che reprimere. La repressione presuppone che vi sia un rito processuale, un gioco delle parti e regole da rispettare: accusa, difesa, giudice, prove, controprove, sentenze e appelli fino all’ultimo grado di giudizio. Un lusso, quello del “giusto processo”, che la lotta alla mafia non si può permettere, soprattutto in uno stato di emergenza. Meglio prevenire. Così il sistema di prevenzione nella lotta alla mafia si è progressivamente sostituito al sistema penale. Una operazione colossale di vaccinazione obbligatoria e di massa volta a prevenire il contagio mafioso. Nella logica del sospetto che presiede al sistema delle misure interdittive e di prevenzione antimafia, non importa che vi sia prova di un reato specifico, di una partecipazione diretta o di un qualche concorso esterno riconducibili a una associazione mafiosa, è sufficiente che il prefetto intraveda il rischio eventuale o faccia una sua personalissima prognosi di condizionamento o infiltrazione mafiosa in una azienda per decretarne la morte. Dallo Stato di Diritto allo Stato del Prefetto, questo è avvenuto nel nostro Paese, celebrato come la culla del diritto, divenuto la tomba del diritto. Il potere della prevenzione in capo al prefetto ha effetti salvifici immediati e ultimativi. Luigi Einaudi è stato il primo, dopo di lui anche Marco Pannella, a chiedere l’abolizione dei prefetti, protesi in ogni territorio del potere accentratore e di occupazione manu militari dello Stato, soprattutto nelle regioni del Sud. Un provvedimento indispensabile e sempre più attuale che i democratici fasulli dello Sato di Diritto e i finti federalisti si guardano bene dal proporre. Dominus assoluto e incontrastato, il Prefetto di fatto decide sulla libertà di fare impresa, sul diritto al lavoro, sulla vita degli imprenditori e dei lavoratori, in definitiva sulla vita del Diritto nel nostro Paese. Dell’armamentario speciale monumentale della lotta alla mafia costruito a partire dai primi anni Novanta, il potere dei prefetti è risultato quello più “efficace” se il parametro è quello dello stato di emergenza, ma anche quello più distruttivo per chi ha cuore lo Stato di Diritto. Propone e dispone che un Comune sia sciolto per mafia senza contraddittorio e per via di relazioni di commissioni d’accesso da lui istituite. Decide, a sua discrezione, chi sta dentro e chi sta fuori la black-list degli interdetti dal lavoro con la Pubblica Amministrazione. Si dice: la misura interdittiva è temporanea, puoi ricorrere al Tar e poi al Consiglio di Stato. La realtà è che nella stragrande maggioranza dei casi, se l’azienda lavora solo con la pubblica amministrazione, il provvedimento “provvisorio” è comunque una condanna a morte dell’impresa, un ergastolo bianco che sancisce la sua scomparsa dal mercato e dal consorzio economico, civile, sociale. Con il provvedimento in atto e, in attesa del Tar e del Consiglio di Stato, sei comunque condannato all’estinzione: non puoi portare a compimento i lavori già assegnati, non puoi partecipare a nuove gare d’appalto. Dopo l’eventuale, improbabile revoca della interdittiva prefettizia, la tua impresa sconta un’ipoteca negativa che graverà per sempre sul tuo nome e il nome della tua azienda: una pena d’infamia, il marchio indelebile con la scritta “interdetto” che segnerà per sempre il tuo nome e il nome della tua azienda. Quel marchio che Rocco Greco, suicidandosi, ha voluto cancellare per sempre, non lasciarlo in eredità ai suoi figli, quale condanna pendente sul loro futuro. Piemonte. Superare le “chiusure” dei luoghi di privazione della libertà cr.piemonte.it, 11 luglio 2020 I copresidenti della Conferenza regionale del volontariato della giustizia (Crvg) del Piemonte e della Valle d’Aosta Tiziana Propizio e Lodovico Giarlotto, e i rappresentanti del Coordinamento piemontese dei garanti delle persone private della libertà Bruno Mellano, garante regionale delle persone detenute, e Monica Cristina Gallo, garante della Città di Torino, hanno svolto negli ultimi giorni una serie d’incontri in ambito locale (il 24 giugno e il 4 luglio) e nazionale (il 12 maggio e il 2 luglio), sulla situazione attuale della vita nelle comunità penitenziarie e nei luoghi di limitazione della libertà personale. La fase di ripartenza e di progressiva riapertura, a seguito della chiusura dovuta alle norme generali e alle prescrizioni specifiche dettate dall’emergenza Covid-19, pone una serie di questioni e di problematiche che le organizzazioni del volontariato della giustizia del Piemonte hanno deciso di affrontare in rete, anche rafforzando un’alleanza naturale fra gli assistenti volontari penitenziari (Avp) e le figure di garanzia territoriali. La stagione estiva, che già normalmente esige una maggior attenzione alle dinamiche che vengono a crearsi nei luoghi di privazione della libertà personale, richiede oggi, a causa della peculiare situazione che si è determinata con la chiusura totale delle attività per il rischio di contagio, un’oculata gestione degli interventi della società civile a supporto della vita delle persone ristrette e del lavoro degli operatori. Un documento di sintesi dei punti del confronto generale e dell’impegno puntuale fra volontari e garanti è stato inviato alla attenzione dell’Amministrazione penitenziaria (Prap e Cgm), della Magistratura di sorveglianza, della Prefettura di Torino e dell’Assessorato alla Sanità della Regione Piemonte. I punti segnalati si possono raggruppare per le seguenti aree di intervento: Carcere adulti - Ripresa completa delle attività dei detenuti in art.21 (ammessi al lavoro esterno) e degli studenti dei vari corsi interni agli istituti; ripresa progressiva delle attività formative e didattiche anche con collegamenti in streaming per lezioni, effettivo potenziamento - in base alla circolare del 2015 - dell’utilizzo degli strumenti tecnologici oggi disponibili per la didattica (skype, videochiamate...); mantenimento e ulteriore potenziamento dell’uso delle nuove tecnologie di comunicazione con l’esterno, usati nell’emergenza con i parenti, gli avvocati e i garanti, sostenendo l’utilizzo di questi strumenti anche con gli assistenti volontari penitenziari (Avp); definizione condivisa di linee guida per accesso degli Avp negli istituti, concordando presenze, tempi, modalità e interventi prioritari nel periodo estivo e nella ripresa autunnale. Cpr - Interlocuzione con la Prefettura di Torino perché sia reso pubblico l’elenco delle incombenze a carico dell’Ente gestore, previsto come allegato A al contratto d’appalto per la gestione del centro; apertura al volontariato organizzato per la gestione di attività ludiche, culturali e ricreative; riconoscimento effettivo per i trattenuti del diritto individuale a effettuare colloqui personali con i ministri di culto delle varie religioni, anche cristiane; proposta di ripristino dell’uso del cellulare da parte del trattenuto per la comunicazione con l’esterno, con la consapevolezza delle grandi difficoltà. Uepe - Definizione condivisa di linee guida per accesso degli Avp negli Uffici dell’esecuzione penale e soprattutto nell’interlocuzione in merito alla definizione dei percorsi individuali per il reingresso sociale delle persone prese in carico dai servizi; valorizzazione delle risorse del volontariato nella rete territoriale delle istituzioni che si occupano del carcere. Carcere minori - Definizione condivisa di linee guida per accesso degli Avp negli istituti, concordando presenze, tempi, modalità e interventi prioritari nel periodo estivo e nella ripresa autunnale. Rems - Definizione condivisa di linee guida per accesso degli Avp nelle due Rems piemontesi e nell’interlocuzione in merito ai percorsi individuali per il reingresso sociale dei pazienti autori di reato; valorizzazione delle risorse del volontariato nella rete territoriale delle istituzioni che si occupano dei pazienti internati nella Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Il contributo del volontariato alla vita delle comunità che ospitano persone private o limitate nella libertà è stato riconosciuto, da tempo, nell’ordinamento penitenziario (1975) e in norme specifiche successive, ma si tratta di un ruolo che deve ancora essere pienamente acquisito nell’ambito nuovo delle Rems (a gestione sanitaria) e deve essere finalmente valorizzato nel contesto delle strutture sotto il controllo del Ministero dell’Interno, come il Centro per il rimpatrio (a gestione Prefettura, Questura, Ente gestore). L’impegno condiviso della Crvg Piemonte e Valle d’Aosta e del garante regionale, con il Coordinamento dei garanti comunali piemontesi, è quello di proseguire e rafforzare un’alleanza di attenzione e di iniziativa comune affinché la ripresa delle attività possa fare propri gli elementi innovativi dettati dalla gestione emergenziale Covid-19 e si possano finalmente estendere le positive esperienze maturate nel campo dell’esecuzione penale agli altri contesti delle limitazioni di libertà. Emilia Romagna. Nuova programmazione dei Garanti a tutela dei genitori reclusi con figli di Cristian Casali cronacabianca.eu, 11 luglio 2020 Garavini e Marighelli propongono azioni di monitoraggio per assicurare i contatti, anche telefonici e telematici, tra figli e genitori detenuti. Allo studio anche soluzioni per accogliere in strutture esterne al carcere mamme con bambini piccoli. “Vogliamo dare un contributo reale al benessere delle bambine, dei bambini e degli adulti che vivono le loro relazioni affettive nel corso di una pena o di una misura cautelare: pena che non deve essere scontata dai minori d’età”. Lo hanno dichiarato la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza, Clede Maria Garavini, e il Garante delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, al termine di un incontro dedicato alla genitorialità in carcere, con l’obiettivo di inaugurare un programma sul tema. A seguito di numerose segnalazioni sulle difficoltà relazionali tra genitori detenuti e figli, in particolare in questa fase emergenziale (anche per le criticità collegate al digital divide), i due garanti hanno messo a punto un progetto rivolto a ricercare soluzioni per tutelare questo tipo di rapporto: a partire dall’anno in corso e per tutto il 2021 saranno realizzate azioni di monitoraggio per assicurare la piena attuazione della normativa europea in materia (che garantisce regolarità e stabilità nei contatti anche telefonici e telematici tra figli e genitori detenuti). Altro ambito di studio, rivolto agli interlocutori del territorio regionale, riguarderà l’ipotesi di attivare nuove strutture residenziali per l’accoglienza extracarceraria di mamme con bambini, proprio per evitare che siano anche i minori a scontare la pena con i genitori nelle strutture carcerarie. Obiettivo comune, hanno spiegato Garavini e Marighelli, “è evitare che bambine e bambini ‘crescano’ vivendo periodi più o meno lunghi della loro vita ‘dietro le sbarre’, seppur in spazi a loro dedicati ma che per il luogo stesso in cui sono collocati non possono essere considerati idonei a una buona crescita”. Fra le proposte per il 2021 i garanti risollecitano poi esperienze formative per gli operatori di polizia penitenziaria che si occupano degli incontri in presenza fra genitori e figli. Trieste. Tragedia in carcere, morto nel sonno triestino di 38 anni triesteprima.it, 11 luglio 2020 La vittima è stata stroncata da un arresto cardiaco. Inutili i tentativi di rianimazione del personale sanitario. Tragedia in carcere, morto nel sonno triestino di 38 anni. Un detenuto triestino di 38 anni è morto nel sonno al Coroneo. È successo questo pomeriggio intorno alle 16.30. La vittima, un 38enne triestino, è stata trovata senza vita nel proprio letto dal suo compagno di cella. Scattato l’allarme, a nulla sono valsi i tentativi di rianimazione del personale sanitario della struttura penitenziaria, né quelli del 118 che, intorno alle 17, hanno constatato il decesso per arresto cardiaco”. Gorizia. Il nuovo carcere europeo di Domenico Alessandro dei Rossi* pensalibero.it, 11 luglio 2020 Lustro per l’Italia. Il comune promuovere una nuova concezione della detenzione. Una robusta cerniera sul territorio di altissimo valore simbolico. A tutto merito di una Italia finalmente impegnata: stavolta qualcosa si è mosso non solo a parole, in merito ai diritti umani, alla giustizia e alle sue applicazioni. Gorizia è cittadina di circa 35 mila abitanti, situata alla base delle Alpi Giulie, a diretto confine con la Slovenia, proprio all’estrema periferia orientale della Pianura Padana. Una realtà ricca, basata sul commercio, sull’industria e sul turismo. Un territorio produttivo che impegna circa 75 000 abitanti. Una vasta area molto integrata anche sul piano amministrativo con i vicini comuni di Nova Gorica e di San Pietro-Vertoiba, grazie all’adesione della Slovenia all’Unione europea: un accordo importante che nel 2011 ha permesso la ratifica di un sistema amministrativo congiunto. Nova Gorica, fino al 1947 era parte di una unica connessione urbana, integrata nel comune di Gorizia, ma dopo la seconda guerra mondiale, col trattato di Parigi, l’Istria come gran parte della Venezia Giulia furono cedute alla Iugoslavia. La posizione e la storia della città, che rientra sia nei confini del Friuli storico ed in quelli della Venezia Giulia, ne fanno uno dei punti più interessanti della cultura territoriale grazie alla congiunzione di significative tradizioni romanze, slave ed anche germaniche. Veniamo ai fatti. Il comune di Gorizia, grazie al coraggio di amministratori locali, politici lungimiranti e persone esperte che da anni lavorano con passione in questo settore, si è dotato di una deliberazione a dir poco storica, iniziando finalmente a prendere forma un percorso per il primo Carcere europeo. Un prototipo da realizzare in coerenza con le regole penitenziarie europee, che si propone quale modello di riferimento a cui tutti gli Stati dell’Unione debbano conformarsi, per fini di giustizia, all’interno dei propri ordinamenti dando senso alla carcerazione nel rispetto dei diritti umani. Guidata dal Sindaco avv. Rodolfo Ziberna, tutta la responsabilità è stata affidata dall’Amministrazione comunale alla competenza del dr. Enrico Sbriglia, già Dirigente generale del Dap (il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), per varare un piano strategico innovativo, quanto ambizioso. Superando le diatribe classiche del diritto penitenziario, l’idea di base si confronta con tematiche che, per la loro gravità e complessità, debbono essere affrontate evitando il più possibile approcci esclusivamente nazionali. Sostenuta da una visione destinata al futuro dell’Europa dei valori e dei diritti, la decisione del comune di Gorizia intende promuovere, all’interno del medesimo spazio geografico comunitario, la mobilità e la salute di ogni cittadino europeo, con azioni finalizzate ad arginare e sconfiggere attacchi epidemici e pandemici di natura virale, proprio in relazione alla condizione giuridica “affievolita”, svantaggio tipico della persona in stato di detenzione. Nel programma del titolare del prestigioso incarico, si impone un approccio progettuale nuovo, scientificamente rigoroso, sostenuto da apporti culturali multidisciplinari e metodologie sistemiche, che condividano prospettive aperte alla realtà Ue della carcerazione e delle sue regole. Il prestigioso obiettivo, nel tenere conto che il territorio transfrontaliero rappresenta la perfetta location del primo carcere europeo, proprio perché a cavallo tra Gorizia e Nova Gorica, intende conseguire l’omogeneizzazione del trattamento penitenziario in una visione federalista dell’Europa. Insieme ad altri Paesi partner, l’Italia, interpretando il bisogno giuridico di legalità partecipata, è in grado di proporsi come il primo laboratorio ideale per una grande sfida di civiltà. In tal senso il comune di Gorizia con la realizzazione del primo carcere europeo, avendo già messo a disposizione l’edificio del vecchio Ospedale civile (complesso sanitario per circa 500 posti letto completato alla fine degli anni Cinquanta), si trasformerebbe in una robusta cerniera di altissimo valore scientifico e simbolico per unire e rafforzare ulteriormente l’Europa anche sul piano dei diritti umani e nel rapporto tra popoli che per troppo tempo dopo la Seconda guerra mondiale sono stati lontani. L’ambizione del progetto intende coinvolgere le migliori intelligenze europee, partecipi di un Forum poenae, che si avvalga dei contributi delle neuroscienze, nelle connessioni ambientali ed ingegneristiche con l’architettura ed il design, con la medicina e le discipline sociali e antropologiche, insieme all’istruzione e la formazione professionale. Insomma una rivoluzione vera e propria, anche nello spirito e nel ricordo di quello che fu il coraggioso impegno di Franco Basaglia, che portò alla chiusura dei manicomi e di Enzo Tortora, illustre vittima della peggiore giustizia, poi deputato europeo, verso una nuova prassi giuridica in una Europa, nell’Uguaglianza dei diritti unita, ove sussistano uguali trattamenti per uguali reati, per uguali cittadini. *Vice presidente Cesp - Centro Europeo Studi Penitenziari Napoli. Una sentenza definitiva su 10 svela un errore giudiziario di Viviana Lanza Il Riformista, 11 luglio 2020 Qual è la sorte dei processi? Quanti dei procedimenti con imputati sottoposti a misura cautelare arrivano a sentenza? E quanti a condanna definitiva, senza perdersi in rinvii e lungaggini che rendono i tempi della giustizia biblici invece che ragionevoli come prevede la legge? Quando si parla di giustizia, provando ad andare oltre la cronaca dei singoli episodi e a ragionare sul sistema nel suo complesso per individuare proposte e superare criticità, ostacoli, intoppi, ritardi, disfunzioni - insomma tutto quello che ci fa dire sempre più spesso che la giustizia non funziona come dovrebbe - viene quasi naturale porsi domande sul futuro delle indagini, di quelle “maxi” con decine, se non addirittura centinaia, di indagati, o di quelle che finiscono giocoforza per condizionare l’andamento della vita pubblica, oltre che le vite private. Le risposte non sempre arrivano facilmente, ma alcune sono contenute nel report che l’Ispettorato generale del Ministero della Giustizia ha stilato per una sorta di operazione trasparenza inaugurata appena lo scorso anno. Il documento mette insieme i numeri su errori giudiziari, procedimenti per il riconoscimento dell’ingiusta detenzione e statistiche relative all’applicazione delle misure cautelari nei vari distretti giudiziari italiani, analizzando i dati di 117 uffici gip e 116 settori dibattimentali, pari all’86% del totale. I numeri sono aggiornati al 31 marzo scorso e consentono di avere una fotografia attuale dello stato della giustizia sotto il profilo della quantità di misure cautelari applicate e di errori giudiziari commessi. I dati napoletani descrivono una realtà in cui il ricorso alle manette è diffuso, si fa un uso della carcerazione preventiva molto più ampio rispetto alla media nazionale. Qual è, quindi, la sorte degli imputati detenuti a Napoli? Ebbene, nel 45% dei casi questi imputati sono sottoposti a carcerazione preventiva pur in assenza di una sentenza definitiva. E il garantismo? Sembra esistere di più in altre sedi giudiziarie visto che, come emerge dal report ministeriale, la media nazionale è del 34%. E poi c’è un 10% accertato di errori giudiziari commessi e già risarciti e un fiume di processi ancora in corso, i cui esiti potrebbero portare a nuove domande di risarcimento per ingiusta detenzione. Nella relazione si evidenzia che gli uffici giudicanti penali di Napoli hanno applicato in un anno 4.316 misure cautelari e nel 51% dei casi si è trattato di misure in carcere. Delle 4.316 misure emesse nel 2019, inoltre, 3.356 (il 78%) attengono a procedimenti che sono stati iscritti nello stesso anno, mentre 707 sono le misure emesse in procedimenti iscritti in anni precedenti. Nel 10% dei casi i procedimenti sono sfociati in sentenze di assoluzione. E su un totale di 953 procedimenti conclusi con sentenza di condanna non definitiva, la custodia cautelare in carcere è stata applicata 431 volte, pari cioè al 45% dei casi, un dato che supera quello nazionale di più di dieci punti percentuali. Assai ridotta è l’entità delle definizioni con condanna a pena sospesa: appena 29 casi su 431, nell’ambito di procedimenti in relazione ai quali era stata applicata la misura inframuraria. In 309 procedimenti poi, pari al 32% del totale, è stata applicata la misura degli arresti domiciliari. Non decolla invece il ricorso a misure alternative: l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria è stato applicato in 121 casi, pari a quasi il 13% del totale delle misure disposte in procedimenti definiti con condanna non definitiva. Quanto alle sentenze passate in giudicato, su 1.316 procedimenti “cautelati” sono 161 quelli che hanno avuto come esito una condanna definitiva nell’anno 2019: corrispondono al 12% e anche in questo caso Napoli sembra seguire un binario diverso da quello nazionale, il cui dato raggiunge invece il 26%. E sul piano delle misure che limitano la libertà personale, la custodia in carcere, per le condanne definitive, risulta disposta in 37 casi su 161, pari al 23%, mentre la misura degli arresti domiciliari in 64 procedimenti, cioè nel 40% dei casi, seguita dall’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria in 42 procedimenti, e obbligo di dimora in soli 17 casi. Reggio Calabria. Il padre in carcere, la figlia di 2 anni ha smesso di parlare e di crescere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 luglio 2020 “Mia figlia di 22 mesi ha uno sguardo assente, ha un blocco del linguaggio e psico-motorio. Dopo mesi di visite abbiamo scoperto che il motivo è il distacco del papà dal momento che è stato prelevato alle 3 di notte quando lei era presente”. Così racconta a Il Dubbio Loredana Ursino la sua vicissitudine. Una storia, una delle tante, dove a essere travolti dal carcere non sono solo coloro che hanno commesso un reato, ma anche i familiari, soprattutto i figli piccoli, che pagano per colpe non loro. Grazie al bellissimo docu-film “Caine” della giornalista Amalia De Simone recentemente trasmesso da Rai Tre si è potuto parlare delle donne in carcere. Però poi ci sono anche compagne, mogli, alcune giovanissime, dove tutto ciò che la detenzione comporta non viene vissuto solo dal proprio caro recluso, ma anche da loro. La situazione diventa decisamente più problematica e sofferente se hanno anche dei figli piccoli. E sono quest’ultimi a pagare ancora di più la detenzione dei padri. In alcuni casi possono vivere dei veri e propri traumi che hanno delle conseguenze devastanti sul loro equilibrio psichico. Tutto ciò si è amplificato ancora di più a causa dell’emergenza Covid 19. Il distacco, a causa del divieto di potersi abbracciare durante il colloquio, è totalizzante. “Ho scelto io di stare con il mio compagno, quindi non mi sento vittima. Ma mia figlia no, non l’ha scelto lei, ed è ingiusto che la debba pagare così cara”, spiega Loredana Ursino a Il Dubbio. Lei, 26enne, ha due figli. Uno di pochi mesi, l’altra di quasi due anni, il suo compagno Marco Venuti ne ha 28 anni. “Quando sette mesi fa, alle 3 di notte fecero irruzione 15 agenti della polizia nell’appartamento dei miei genitori dove eravamo quella notte ospiti, io ero incinta e mia figlia di un anno e mezzo improvvisamente ha cominciato a piangere, ma di un pianto che ancora oggi ricordo. Era come se lei si fosse fatta male”. Il giorno prima il compagno aveva tentato di compiere una rapina in un supermercato assieme ad altri quattro complici. Non ci riuscirono, ma in compenso sono stati ripresi dalle telecamere e per questo non è stato difficile identificarli e arrestarli di notte. L’irruzione della polizia nel cuore della notte - Loredana racconta il dramma di quella notte, quando la polizia aveva dimostrato la convinzione - rilevatasi errata - che addirittura i suoi genitori fossero complici. “Una situazione surreale, ebbero un battibecco pure con mio padre che disse semplicemente di lasciarmi sola per potermi cambiare. Rivoltarono di cima a fondo tutto l’appartamento e addirittura ipotizzarono la complicità dei miei”. Resta il fatto che quella notte il suo compagno fu portato prima alla questura di Reggio Calabria, per poi tradurlo direttamente nel carcere reggino di Arghillà. Il mondo, all’improvviso le è crollato addosso. Rimane da sola, incinta, con una figlia piccola. Nonostante la difficoltà, economica, e la solitudine, lei si è rimboccata le maniche per affrontare il disagio. Ma non è facile. “Dirò una cosa che fa male sentirlo, ma mi creda - racconta Loredana - è tremendo dirlo e soprattutto provarlo. Ho partorito da sola in ospedale e la nascita di mio figlio è stata la cosa più brutta della mia vita”. Loredana è entrata in sala parto con la speranza che il dottore chiamasse in tempo il carcere per dire al suo compagno che è diventato papà. “Ho avuto - rivela con dolore - una forte depressione post parto, che poi fortunatamente sono riuscita a superare”. Smette di parlare e lo sguardo assente - Il destino a volte è crudele. Non di rado accade che le sventure capitino tutte insieme. Una scarica di colpi che rialzarsi diventa una impresa epica. Subito dopo, infatti, è arrivato il lockdown. Chi ha un lavoro sicuro, affetti stabili, ha potuto dire con sicurezza e con sorriso “Restiamo a casa”. Ma tante vite, in quel momento difficile, sono state travolte e hanno attraversato il buio più totale. “Come sappiamo - racconta sempre Loredana-, per colpa del Covid hanno bloccato i colloqui in carcere e mia figlia ha cominciato a dare segni di instabilità. Inizialmente ha cominciato a dare problemi di deambulazione, cadeva molto spesso sia da ferma che quando camminava. Poi anche problemi di linguaggio. Prima che venisse arrestato il mio compagno, mia figlia aveva cominciato a parlare, poi ha improvvisamente smesso”. Si è pensato che fossero capricci, ma la situazione ha cominciato a diventare seria. “Alla fine l’ho portata a fare delle visite. Fisicamente, per fortuna, è risultato che non ha nessun problema. Ma la psicoterapeuta ha diagnosticato che il suo disagio è mentale. Ha spiegato che mia figlia ha subito il distacco involontario dal padre e la presenza di un altro bimbo”. In sostanza la bimba di quasi due anni ha subito due shock contemporaneamente. A questo si è aggiunto il blocco dei colloqui. Prima almeno, poteva abbracciare suo padre durante i colloqui. Poi improvvisamente il distacco totale. “Ha cominciato anche ad avere delle assenze, ci sono dei momenti che fissa il vuoto e non risponde alle chiamate”. Il parere negativo del pm - Ora nelle carceri c’è la fase due, ma i bimbi non possono tuttora abbracciare i padri. “Teoricamente posso portarla ai colloqui, ma a due metri di distanza e c’è il divieto di contatto. Non posso portarla - spiega Loredana - perché mia figlia istintivamente correrebbe per abbracciarlo e non posso negarglielo perché diventerebbe un ulteriore trauma”. Ovviamente non può portarla, perché il compagno poi subirebbe una sanzione disciplinare che comporterebbe 15 giorni di isolamento. La psicoterapeuta è stata chiara con Loredana, la figlia ha subito un trauma così enorme che “si rifiuta di crescere senza suo padre”. Ma, come detto, le sventure possono capitare tutte insieme. Accade che suo figlio di pochi mesi si era preso una grave polmonite arrivando quasi in fin di vita all’ospedale. “I medici mi hanno detto che era il caso di far venire il padre per salutare il bambino, perché probabilmente non ce la farà”. A quel punto ha fatto subito istanza. “Il giudice ha concesso la visita, ma la cosa che mi fa più male - dice con incredulità Loredana - è aver letto che il Pm aveva dato parere negativo”. Eppure ha commesso una tentata rapina, non ci si capacita come mai il magistrato lo avesse reputato così pericoloso, tanto da volergli negare un ultimo saluto al figlio piccolo. Fortunatamente il bimbo si è ripreso. Però rimane tutta questa insostenibile situazione. Il compagno è da sette mesi in custodia cautelare, il processo dovrebbe iniziare a settembre. Il Pm ha chiesto 10 anni per una tentata rapina. Una pena, forse, spropositata. Che ne sarà della figlia di due anni? Loredana ha paura nel fare una istanza per i domiciliari mettendo come motivazione la necessità della figlia. “Io non vorrei - spiega Loredana - che il giudice la respingesse dicendo che mia figlia in realtà sta bene e può farcela da sola, non me lo perdonerei mai, sarebbe un colpo atroce difficile da attutire”. Il compagno, Marco Venuti, come detto si trova recluso al carcere di Arghillà. Durante il periodo Covid 19 ha avuto un ruolo fondamentale per la tenuta del carcere. A differenza di tanti altri penitenziari, non c’è stata una rivolta. Lui si era proposto per sensibilizzare tutti i detenuti della sezione sulla necessità della chiusura colloqui onde evitare la diffusione del contagio. Ha funzionato. “In realtà il mio compagno - dice Loredana - è una persona buona, molti che lo conoscono sono rimasti sorpresi. Non voglio giustificarlo, perché ciò che ha fatto non glielo perdonerò mai, ma credo che abbia tentato di fare una rapina perché avevamo difficoltà economiche, con una figlia e un bambino in arrivo”. Nulla si giustifica, ma le autorità possono rimanere indifferenti nei confronti di una bambina di quasi due anni che sta duramente pagando una colpa non sua? Storie come queste sono frequenti. Milano. Carcere e lavoro, progetti per creare una società più umana di Andrea Ugolini urloweb.com, 11 luglio 2020 Un ristorante e un laboratorio di panificazione, sono queste le nuove frontiere del reinserimento. “Il più sicuro ma più difficile mezzo di prevenire i delitti è l’educazione”. Così si esprimeva 250 anni fa l’illuminista milanese Cesare Beccaria nel suo capolavoro “Dei delitti e delle pene”, con parole che, nel pieno dell’odierno populismo antiistituzionale e antiscientifico, possono suonare rivoluzionarie. Un’affermazione per costruire una società più giusta, tanto nitida da essere ripresa dall’articolo 27 della nostra Costituzione per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e che per fortuna ha cominciato ad ispirare buoni esempi di reinserimento sociale dei detenuti. In Galera è uno dei casi virtuosi, si tratta infatti del primo ed unico ristorante in Italia, realizzato in un carcere, aperto al pubblico sia a mezzogiorno che alla sera, in cui lavorano gli ospiti del carcere di Bollate detenuti, seguiti da uno chef e un maître professionisti, dove imparano o hanno già imparato la lavorazione dei cibi e sanno sorprendere i clienti con ricette esclusive e ben fatte. Come si legge nel sito internet www.ingalera.it, il ristorante nasce per offrire ai carcerati, regolarmente assunti, la possibilità di riappropriarsi o apprendere la cultura del lavoro, un percorso di formazione professionale e responsabilizzazione, mettendoli in rapporto con il mercato, il mondo del lavoro e la società civile. Inoltre, grazie alla sezione carceraria dell’Istituto Alberghiero Paolo Frisi di Milano presente nella II Casa di Reclusione Milano Bollate, i detenuti studenti possono svolgere InGalera lo stage obbligatorio per il conseguimento del diploma alberghiero. Responsabile dell’iniziativa è Silvia Polleri della cooperativa Abc, che dal 2004 ha iniziato a coinvolgere i detenuti in servizi di catering e avviandoli ad una formazione specializzata, con la collaborazione dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi, che ha una succursale dentro il carcere. Un progetto formativo di lungo corso, che con In-Galera è giunto a compimento, anche grazie al supporto di PwC (network di servizi di revisione e consulenza legale e fiscale), di Fondazione Cariplo e Fondazione Peppino Vismara. “Di solito il carcere chiede servizi al territorio - ha osservato Polleri - mentre da noi accade il contrario: i detenuti invitano i cittadini ad entrare, e a godere di un servizio altamente qualificato. È un’opportunità per tutti, sia sotto il profilo sociale che economico”. La formula sembra funzionare: in Italia il 68 per cento degli ex detenuti torna a delinquere, mentre a Bollate il tasso di recidiva scende ampiamente sotto il 20 per cento. Una percentuale che allinea la struttura alle carceri più virtuose del nord Europa. Il pane non deve finire mai, né per chi lo mangia, né per chi lo produce. La terza casa circondariale di Roma Rebibbia ha voluto lanciare una provocazione positiva, a partire dal nome, proprio giocando con le parole “fine pena mai”, usate per indicare l’ergastolo. Ad aprile 2017 è stata inaugurata, in via Bartolo Longo 82, tra le mura del carcere, “La Terza bottega: fine pane mai”, in cui lavorano 8 panificatori detenuti con regolare contratto di lavoro, in parte italiani e in parte stranieri, età compresa tra i 20 e i 40 anni, ma la struttura ha la potenzialità per arrivare a 20 unità. L’iniziativa, nata nel 2012 per un costo complessivo di oltre 2 milioni di euro, è stata finanziata con 800mila euro della Cassa delle ammende del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Il resto grazie ad un cofinanziamento con Panifici Lariano e Farchioni Olii, che pagano gli stipendi, le materie prime ed hanno completamente allestito il punto vendita. Un punto vendita al pubblico che serve ad accorciare le distanze tra il quartiere e chi è dentro le mura. Perché anche il carcere diventi un “luogo piacevole” da frequentare per le bontà che produce. Il progetto ha impiegato più di 2 anni e mezzo per realizzarsi, a causa delle difficoltà burocratiche e amministrative, proprio perché si trattava materialmente di aprire un varco sulle mura di Rebibbia e utilizzare la stanza a ridosso per il punto vendita. I detenuti hanno cominciato a lavorare dopo “aver frequentato per sei mesi un corso per panificatori e poi i successivi aggiornamenti”, ha spiegato suor Primetta Antolini, della Congregazione Francescane Alcantarine, nata per istruire le giovani povere ed orfane. Umbra di Castiglion del Lago, suor Primetta ha scoperto negli ultimi vent’anni il mondo del carcere e dal 2014 ha iniziato a fare volontariato alla terza casa circondariale maschile di Rebibbia, con 35 detenuti con pene attenuate o con lunga pena. Con la sua associazione “Mandorlo in fiore” ha fortemente creduto in questo progetto. “Gli ostacoli sono stati tanti, in certi momenti i ragazzi avevano perso le speranze - ha spiegato - invece, grazie ai dirigenti del carcere e a un imprenditore illuminato ce l’abbiamo fatta”. Tutti hanno diritto ad un percorso di rinascita per riprendersi la vita e “noi vogliamo farci cercare per le cose buone e avvicinare la gente del quartiere a queste mura di cinta, per annullare le distanze tra buoni e cattivi”, ha spiegato il coordinatore del progetto Claudio Piunti, che il carcere lo conosce bene. Ex appartenente alle Brigate Rosse, condannato a 32 anni, è stato rilasciato per buona condotta e dal 2005 opera come cuoco, puntando sulla qualità dei prodotti come punto di forza della panetteria e gastronomia, che utilizza, tra l’altro, materie prime biologiche e grani antichi siciliani: “Perché il futuro sta nel passato - ha sostenuto Piunti - e il lavoro è l’unica strada che può funzionare in carcere”. Lecce. Una forma di riscatto sociale: fra i neolaureati due detenuti Gazzetta del Mezzogiorno, 11 luglio 2020 “Sono orgoglioso di quanto sta facendo l’Ateneo per sostenere la formazione universitaria degli ospiti della Casa circondariale di Borgo San Nicola”, sottolinea il rettore Fabio Pollice. Tra i neolaureati che, in questi giorni, hanno positivamente concluso il proprio percorso di studio all’Università del Salento, ci sono anche due detenuti del carcere di Lecce, uno in Beni Culturali (indirizzo archeologico) e l’altro in Comunicazione pubblica economica e istituzionale. Altre lauree sono in cantiere per nove detenuti, annuncia l’Ateneo. “Sono orgoglioso di quanto sta facendo l’Ateneo per sostenere la formazione universitaria degli ospiti della Casa circondariale di Borgo San Nicola”, sottolinea il rettore Fabio Pollice: “La cultura è l’arma più efficace per sostenere ogni reintegro possibile nel tessuto sociale. Compito di un Ateneo è valorizzare la persona, mettendone in risalto le qualità distintive e rendendola capace di contribuire allo sviluppo della collettività”. “Risultati di questo tipo non sono scontati”, aggiunge la professoressa Maria Mancarella, già docente di Sociologia a UniSalento e oggi Garante dei detenuti di Lecce: “dipende dal carcere e dalle Università - spiega - dalle risorse umane interne e dalla capacità attivare risorse esterne, dalla presenza di una rete di volontari”. Tra l’Università del Salento e il Carcere di Lecce c’è “un rapporto di lunga data” che è “un momento fondamentale per la vita delle due istituzioni”. Arienzo (Ce). Sei detenuti diventano operai edili dopo corso di formazione edizionecaserta.net, 11 luglio 2020 Concluso il corso di operai edili per sei detenuti del carcere di Arienzo ai quali la direttrice Anna Laura De Fusco ha consegnato gli attestati. Una formazione di 120 ore con l’obiettivo di formare un lavoratore in grado di eseguire la preparazione di malte, collanti e calcestruzzo, l’intonacatura e altre operazioni. Si è trattato di un corso accreditato anche dalla regione. Grande emozione per tutti, in particolare un detenuto si è messa a piangere e ha detto che mai aveva avuto una cosa del genere. Al termine di questo corso gli stessi quindi sono operai e possono potranno tranquillamente procedere alla riqualificazione delle sezioni. Un progetto di recupero molto significativo per il carcere arienzano. Treviso. Vera scuola in carcere di Lucia Gottardello lavitadelpopolo.it, 11 luglio 2020 Ebbene sì. C’è anche chi tra le possibili destinazioni mette una crocetta per andare a insegnare in carcere. Tra di loro Roberta Dudan, trevigiana, per un periodo collega alla Vita del popolo e poi giornalista nell’Ufficio stampa di Koinè Comunicazione prima di dedicarsi, davvero anima e cuore, all’insegnamento. “Con la fine di questo strano anno scolastico ha termine anche la mia esperienza come insegnante in carcere”, afferma raccontando questi 12 anni. Ebbene sì. C’è anche chi tra le possibili destinazioni mette una crocetta per andare a insegnare in carcere. Tra di loro Roberta Dudan, trevigiana, per un periodo collega alla Vita del popolo e poi giornalista nell’Ufficio stampa di Koinè Comunicazione prima di dedicarsi, davvero anima e cuore, all’insegnamento. “Con la fine di questo strano anno scolastico ha termine anche la mia esperienza come insegnante in carcere, iniziata nel 2007. Dodici, anzi quasi 13 anni in un ambiente molto particolare, anni intensi e difficili, che ho vissuto con entusiasmo, anni ricchi di incontri: dal personale ai detenuti, tutti mi hanno lasciato un segno. In questi anni credo di aver dato qualcosa, ma più di tutto ho ricevuto” ha scritto in un post sul suo profilo Facebook. L’abbiamo contattata mentre si sta godendo le meritate ferie con la sua famiglia, dopo la soddisfazione di vedere arrivare al diploma di terza media sette corsisti del Cpia Alberto Manzi, guidato dall’attenta dirigente Michela Busatto. È tanto diverso insegnare in carcere? Come ci si avvicina a questo luogo? Ho varcato i cancelli della Casa circondariale di Santa Bona come insegnante il 1° settembre del 2007. Era però un luogo che conoscevo per averlo frequentato come giornalista. Non ti abitui mai, comunque, alle porte che si chiudono dietro di te e alla visione di detenuti in manette. Ci sono regole da seguire e abitudini che devi imparare a conoscere. Negli ultimi due anni ho svolto il ruolo di coordinatrice e ai nuovi colleghi consigliavo sempre di prendersi tempo per osservare e ascoltare. Quali corsi vengono offerti alla popolazione detenuta? I Cpia (Centri provinciali per l’Istruzione degli adulti) che hanno preso il posto nell’anno 2014/2015 dei vecchi centri territoriali permanenti (Ctp) offrono corsi di alfabetizzazione, corsi di primo livello primo periodo per acquisire il diploma di scuola media e relativi corsi preparatori. E poi corsi primo livello, secondo periodo, che sarebbero 800 ore equivalenti al biennio superiore con materie generaliste, come italiano, storia, scienza, matematica, lingua inglese, per potersi iscrivere a un tecnico professionale. E poi ci sono corsi di lingua e informatica come ampliamento dell’offerta formativa. Quest’anno eravamo otto insegnanti. Com’è la frequenza, sono i detenuti che chiedono di partecipare ai corsi? Sì, è un diritto di cui possono usufruire. Rientra nel percorso di riabilitazione del detenuto. Nella scuola media erano 13 e 7 hanno, con tutte le difficoltà di quest’anno scolastico, conseguito il diploma. Nel primo livello, secondo periodo erano di più, una quarantina divisi tra le due sezioni, quella del penale, dove c’è un vero polo scolastico con 4 aule e 2 lavagne lim e quella del giudiziario, dove facciamo lezioni in celle adibite ad aule o a biblioteca. E poi 4 corsi di lingua A1 con 20 persone circa e 2 corsi di lingua A2 per circa 10 persone. A cui si aggiungono svariati corsi di inglese e informatica, corsi brevi di 30 ore. In questo periodo in cui non si è potuto entrare in carcere per il problema del virus abbiamo fornito fotocopie e fatto delle videochiamate con Skype per rimanere vicini ai nostri studenti e prepararli all’esame di terza media. Un po’ come hanno fatto tutti gli insegnanti. Che tipo di relazione si instaura tra voi e questi alunni particolari? È proprio la relazione il centro del nostro lavoro che fa in modo che una persona detenuta decida di venire a scuola. Con tutte le difficoltà e gli alti e bassi. Persone che sospendono per un periodo la frequenza, c’è chi apprende una brutta notizia e va in crisi, chi viene inserito nel lavoro e quindi la scuola passa in secondo piano, deve essere fatta in un orario extra, dalle 17,30 alle 18,30. E’ un gruppo agguerrito, questo, perché non è semplice stare sui libri dopo una giornata di lavoro. Certo, ti mettono alla prova come insegnanti, l’importante per noi è essere autentici. Posso sicuramene dire che la scuola in carcere è stata per me un arricchimento non solo professionale, ma anche e soprattutto umano. Conoscete le storie personali di chi avete di fronte, il motivo per cui sono detenuti? Non siamo tenuti a saperle. A volte lo sappiamo perché sono loro a raccontarcelo o perché lo abbiamo letto nei giornali. Noi ascoltiamo, accogliamo senza giudicare, siamo pronti a cambiare piano di studi se quello previsto non funziona, stimolando la loro curiosità e partendo dalla loro storia anche personale. In carcere si impara che si può cambiare, che ci sono possibilità di recupero, e a volte il recupero avviene, ed è veramente motivo di gioia. Ho sperimentato come la scuola offra occasione per riconquistare la propria dignità, per superare i fallimenti passati, per tirare fuori lati di sé accantonati. Personalmente se c’è da riprenderli, li riprendo, se c’è da incoraggiarli, li incoraggio. Come si fa con tutti gli studenti. Ci sono corsisti che ti hanno sorpreso o che ti sono rimasti nel cuore? Ho conosciuto corsisti che hanno letto e scritto molto, con competenze. Vorrei ricordare in particolare una persona che porto sempre come esempio, cambiato tantissimo anche grazie alla scuola, partendo da una situazione di alfabetizzazione bassissima. Aveva dei figli e voleva dar loro il buon esempio. È riuscito a completare con tanta volontà anche il percorso dei due anni delle superiori. Oggi non c’è più, aveva problemi di salute che non ha superato. Ma il suo esempio è uno stimolo per tutti i corsisti e anche per i miei colleghi insegnanti. Il gruppo degli insegnanti deve essere necessariamente unito, immagino… Certo, la realtà che affrontiamo è particolare e l’armonia tra noi è il nostro punto di forza. Ho avuto colleghi e colleghe magnifici, docenti che credono in ciò che fanno e lo fanno con passione. Come vorrei ricordare gli educatori e gli agenti che in carcere ci aiutano con la scuola. E i promotori di progetti particolari come, dal 2016/2017, il teatro fatto con Mirko Artuso e Bruno Lovadina, insieme alla Fondazione Benetton, che ha permesso ad alcuni detenuti di portare il loro testo teatrale fuori dalle mura carcerarie. Ora per me è tempo di dedicarmi ad altre avventure professionali, insegnerò al Besta. Ma questa esperienza è nel mio cuore. Treviso. La scrittura come terapia per i ragazzi del carcere minorile di Elisa Giraud Il Gazzettino, 11 luglio 2020 Rabbia, sofferenza, disincanto. Ma anche speranza e sogni. Quelli dei ragazzi aPIEDElibro, il progetto condotto dalla Cooperativa sociale Itaca, che a Treviso ha coinvolto diciotto giovani tra i 14 e i 25 anni detenuti nell’Istituto Penale per i Minorenni trevigiano. L’iniziativa rientra nell’ambito di Ti Leggo - Le frontiere della lettura negli istituti penitenziari minorili, un progetto di Fondazione Treccani Cultura con il contributo di Siae, che in Italia ha visto la partecipazione di cinque carceri per minori, tra i quali appunto quello trevigiano. aPIEDElibro strategie creative di sopravvivenza alla lettura è un laboratorio che si è svolto nell’istituto trevigiano tra dicembre 2019 e febbraio 2020, e ha consentito, attraverso le operatrici di Itaca, di offrire un’opportunità di lettura ai giovani che andasse oltre, nella direzione di sperimentare emozioni e sentimenti attraverso i libri, la lettura e la scrittura. “Gli amici sono come cani che ti seguono quando sentono odore di crocchette ha scritto uno dei ragazzi -. Te ne accorgi dei veri amici quando sei in ospedale o in carcere. Come me ne sono accorto io. Tranne uno che all’inizio lo calcolavo come uno degli altri cani. Ma mi sono sbagliato perché mi sta accanto anche se sono tra le sbarre e non vede l’ora di abbracciarmi forte”. “Se hai capito, bene, se no, fallo da solo. E poi io...ero considerato un perdente per loro, uno stupido, quindi ero come insistente. Che noia che mi dava! E quanto odio provo, se non mi avessero trattato così forse non sarei quello che sono ora”. Durante gli incontri con i giovani detenuti sono stati affrontati temi come l’amore, l’amicizia, la scuola utilizzando i libri, le immagini, la lettura ad alta voce e la scrittura autobiografica. L’équipe di Itaca ha utilizzato approcci diversi da quelli scolastici e tradizionali. “Pensiamo che l’amore per la letteratura e la lettura passi attraverso l’esperienza dell’ascolto delle storie - affermano Mariagrazia Antoniazzi e Cecilia Zuppini, educatrici della Cooperativa Itaca -. Passaggi nei quali potersi riconoscere, parole che aiutano ad esprimere qualcosa che non si riesce a dire, racconti di vite che risuonano come sguardi ulteriori e occasioni per immaginarsi anche esperienze di vita diverse dalla propria”. Il materiale prodotto nel corso del laboratorio sarà raccolto in una pubblicazione, inoltre l’artista Mattia Campo Dall’Orto ne farà un libro d’artista e tre murales. Un libro sul carcere: il nuovo lavoro di Ciambriello napoliclick.it, 11 luglio 2020 È appena arrivato in libreria il lavoro di Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Regione Campania, “Carcere. Idee, proposte e riflessioni” (Rogiosi Editore). Il libro sarà presentato lunedì 13 luglio, alle 17, al Complesso Monumentale Donnaregina - Museo Diocesano Napoli. Insieme all’autore, interverranno il magistrato Nicola Graziano; Adriana Pangia, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli; Annamaria Ziccardi, Presidente Associazione “Carcere Possibile”; Don Franco Esposito, Cappellano Carcere di Poggioreale. Le conclusioni sono affidate a Sua Eminenza il Cardinale di Napoli Crescenzio Sepe. All’incontro, moderato dal giornalista RAI Guido Pocobelli Ragosta, prenderanno parte anche l’editore Rosario Bianco e le coautrici del libro Anna Buonaiuto, Celestina Frosolone, Anna Malinconico, Dea Demian Pisano. Il libro - “Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire, per ritrovarsi, per seguire una strada che è tracciata anche dalla Costituzione: assumersi le responsabilità, per trovare se stessi, rispettando i diritti delle persone”. È questo lo slogan di Samuele Ciambriello, giornalista, scrittore, professore, attivamente impegnato da 40 anni nella lotta per i diritti delle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale e Garante dei Detenuti della Regione Campania da ottobre 2017. Presidente dell’Associazione La Mansarda, il Professor Ciambriello, dopo diversi anni, ha sentito l’esigenza di ‘scrivere di carcere’, di trattare del complesso sistema penitenziario, ma soprattutto delle esperienze di vita vissuta in esso annidate, di diritti negati, di affettività, partendo da un’attenta analisi, attraverso attività di monitoraggio, osservazioni, colloqui, sopralluoghi, progetti, il tutto rifacendosi all’art. 27 della Costituzione, che recita “Le pene [17 ss. c.p.] non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un testo alla portata di tutti, professionisti del settore e non, che cerca con un linguaggio semplice di fornire dei riferimenti teorici, empirici e scientifici, con l’intento di abbattere i muri e di instaurare ponti tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, mettendo in risalto l’importanza di costruire e di ‘cercare’ insieme, popolazione detenuta e non, una ‘zattera’ che possa remare controcorrente nel mare dell’indifferenza e della repressione, sull’onda della consapevolezza e del rinvenimento. L’autore - Samuele Ciambriello, giornalista e docente universitario, è stato Presidente del Corecom e componente del Comitato nazionale TV e minori. Per quattro anni è stato docente di religione. Attualmente è Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania. È autore del saggio “Dentro la comunicazione - Concetti, modelli, persone” (2012 - Ed. Guida), della novella “Dalla Valle Caudina al Vaticano” per il volume Dal Co’ del ponte presso Benevento (2014 - Ed. Edimedia) e del libro denuncia “Caste e castighi. Il dito nell’occhio” (2015 - Ed. Guida). L’ultimo lavoro è “Caro Prof ti scrivo… gli adolescenti scrivono al docente di religione” (2018 - Ed. Rogiosi). L’attualità del “Manualetto del detenuto dilettante” di Giancristiano Desiderio Corriere del Mezzogiorno, 11 luglio 2020 Come puoi dirti innocente se nemmeno conosci la norma che hai violato? Questo è il terribile interrogativo kafkiano che riassume l’angoscia di chi, pur consapevole della correttezza e dell’onestà con cui ha agito, si ritrova improvvisamente nelle condizioni di indagato, di incarcerato, di imputato. Un mondo capovolto, diabolico e assurdo, in cui la pena precede la colpa. Era il 1996 quando Roberto Racinaro pubblicava con la Liberilibri di Aldo Canovari “La giustizia virtuosa. Manualetto del detenuto dilettante”: un testo “esemplare” per capire alla maniera di Hegel, il filosofo prediletto di Racinaro, il nostro tempo in cui gli errori degli “giustizia virtuosa” sono davvero impressionanti: dal 1992 al 2018 ci sono stati 27.200 casi di ingiusta detenzione, 1007 ogni anno. In Italia ogni giorno tre persone finiscono in galera senza aver commesso alcun reato. Roberto Racinaro, che fu arrestato la mattina del 2 giugno 1995 quando ricopriva la carica di rettore dell’università di Salerno, è davvero un “testimone e interprete del tempo”, come recita il sottotitolo del volume pubblicato da Editoriale scientifica che, curato da Domenico Taranto, gli è stato dedicato, Tra logos e pathos, con i contributi di amici ed allievi come Biagio De Giovanni, Gian Paolo Cammarota, Vittorio Dini, Melissa Giannetta, Giovanni Verde, Ciriaco De Mita, Generoso Picone, Vincenzo Siniscalchi, Mariano Ragusa, Giovanni D’Avenia. Al lettore, però, consiglierei di iniziare la lettura del libro dalla fine con la testimonianza di Annamaria Magini, la moglie di Racinaro, che racconta La mia vita con Roberto in modo, insieme, sentito e rigoroso. È l’alba quando suonano a casa dei Racinaro. Risponde Annamaria: “È il maresciallo”. E il marito: “Sono venuti ad arrestarmi”. Capisce subito ma, soprattutto, capisce che di vero non c’è realmente nulla da capire. È bene ricordare, infatti, che Racinaro venne accusato dei reati di abuso d’ufficio, falso ideologico, concorso in associazione a delinquere: 27 capi d’imputazione, 21 giorni di reclusione, 16 anni di processi e nel 2011, finalmente, l’assoluzione completa. Ma allora perché fu addirittura arrestato? Eccola qui la classicità di quel “manualetto”: al di là del caso personale, Racinaro analizzava in modo esemplare quella autentica vergogna nazionale che è l’abuso della custodia cautelare in un Paese in cui la “giustizia virtuosa” opera in un regime di ne habeas corpus. Racinaro era uno studioso di Hegel: laureato a Messina con Raffaello Franchini, aveva fatto carriera a Salerno fino a diventare rettore. La storia della filosofia italiana, però, non è stata fatta nelle accademie. È stata fatta nelle carceri, nei tribunali, nelle persecuzioni. Lo stesso destino di Racinaro che lui, certo, si sarebbe risparmiato ma che pur, nel momento della prova, ha saputo affrontare con una grande forza d’animo e con quel “coraggio della verità” del suo Hegel. Il ragionamento del filosofo tedesco, scrive Racinaro da detenuto dilettante, era questo: “Se c’è il delitto non può non esserci la legge e la punizione; quello che può accadere oggi è esattamente il contrario: c’è la legge, ci sono i pubblici ministeri, quindi… non può non esserci il reato”. Così sragionando la virtù giudiziaria diventa inarrestabile e tutto e tutti arresta perché gli innocenti, per quello che è oggi il diritto penale totale, sono soltanto coloro che ancora non sono colpevoli. Come se ne esce? Malissimo. “La gente si renderà conto di quello che sta capitando nel nostro Paese - scriveva Racinaro - solo quando vedrà andare in carcere non più il “protagonista”, ma anche le persone comuni”. La tesi di Racinaro si è avverata solo in parte perché lo studioso di Hegel non considerò che gli stessi abusi giudiziari si sarebbero rivolti contro la magistratura, come ci raccontano le cronache. La “cronaca di un mese di carcere scritta da un filosofo” - così Biagio De Giovanni iniziava la sua Prefazione del “manualetto” - fu inviata a Norberto Bobbio. Il filosofo torinese gli scrisse una lettera alla quale Racinaro rispose. La loro corrispondenza è pubblicata nel volume. Il 22 marzo 1996 così esordiva Bobbio: “Caro Racinaro, grazie del libro. Tra gli “abusi” di cui soffre la nostra società, uno dei più gravi è certamente quello della custodia cautelare, un abuso che viene commesso frequentemente dai nostri giudici (proprio in questi giorni è scoppiato il caso Squillante), e, mi dispiace dirlo, anche da quelli di ‘mani pulite’, che dovrebbero astenersene più di ogni altro”. Bobbio, poi, citava il caso di Piero Martinetti che “fu arrestato durante il fascismo per una lettera che gli era stata sequestrata e rimase in carcere una settimana, scrisse un breve memoriale con alcune osservazioni di buon senso, tra le quali quella che nel tirocinio di un giudice ci fosse anche un periodo da passare in prigione allo scopo di usarne con la massima discrezione”. Racinaro lesse la lettera di Bobbio con “gioia” e con “gusto” ma sull’aneddoto del filosofo Martinetti disse: “Le confesserò, non sono riuscito a sottrarmi alla domanda sconsolante: almeno Martinetti è stato messo in carcere dai fascisti, ma io?”. Dalla giustizia virtuosa! Decreti sicurezza, i grillini prendono tempo di Elena G. Polidori Il Giorno, 11 luglio 2020 Il Pd spinge per cambiarli, ma i Cinquestelle non sono d’accordo: “Lavorare per una riforma più organica del sistema di accoglienza”. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha giudicato illegittima una parte del cosiddetto “decreto sicurezza 1”, la prima delle due leggi sull’immigrazione promosse da Matteo Salvini, si torna a parlare di un cambio dei decreti da parte del governo, come del resto il Pd ha promesso ai suoi elettori fin dall’inizio del secondo governo Conte, ma come - invece - non è mai stato promesso dai 5 Stelle. La cui linea, al massimo, è stata di sostenere che i decreti andassero modificati solo per accogliere i rilievi sollevati dal Capo dello Stato, ma nulla di più. Ora, però, è arrivata la spallata della Consulta e la situazione, almeno per il Pd, appare “non più rinviabile”, mentre il Movimento continua a rimandare sulla possibilità di trovare un accordo di modifica, casomai avendo come base di partenza il testo elaborato dalla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Ieri Giuseppe Brescia - presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, da dove inizierà l’iter legislativo del nuovo decreto - ha spiegato che il M5s ha convinto il Pd a rinviare ancora la sua approvazione, stavolta a settembre, perché “ci sono già troppi provvedimenti prima dell’estate”. E sempre Brescia ha svelato che i grillini non sarebbero mai stati davvero d’accordo con le norme del decreto, salvo dimostrare il contrario restando in silenzio e appiattendosi sulle posizioni leghiste nel primo governo Conte. Val la pena ricordare che durante tutto il procedimento di conversione dei decreti sicurezza, nessuno dei parlamentari grillini sollevò alcuna obiezione sulla legittimità costituzionale o sull’efficacia e la coerenza di quel provvedimento rispetto agli obiettivi dichiarati. E quelli che lo fecero furono espulsi. Per questo, ancora oggi e nonostante la Consulta, il Movimento non vuole cambiare i decreti, sia perché sono stati approvati e difesi più volte durante il primo governo Conte, con il premier stesso che all’epoca non mosse un muscolo per opporsi a Salvini, sia perché sull’immigrazione hanno posizioni più a destra del Pd: Luigi Di Maio, non a caso, è considerato l’inventore della definizione di “taxi del mare” per descrivere il lavoro delle ong. Adesso, dunque, che accadrà? Il testo Lamorgese non piace ai vertici stellati; ci sono interi ‘blocchi’ dell’articolato formulato dalla ministra dell’Interno che il M5s respinge, trincerandosi dietro un parere contrario “perché bisogna lavorare - questa la linea interna al Movimento - per una riforma più organica del sistema di accoglienza”. Insomma, un no. Motivato soprattutto dalla necessità di non mettere in scena l’ennesimo voltafaccia su un fronte su cui anche Conte, all’epoca, si espose facendo mettere la fiducia in Parlamento su entrambi i testi firmati da Salvini. L’articolato su cui il Pd vorrebbe raggiungere un accordo parla esplicitamente di una sostanziale riduzione delle multe per le ong - da un milione di euro a 10mila - il ritorno degli Sprar, l’ampliamento delle forme di protezione per bilanciare l’assenza del permesso di soggiorno per motivi umanitari, e il dimezzamento dei tempi massimi di detenzione nei Centri per il rimpatrio, che i “decreti sicurezza” avevano fissato in 180 giorni. E nulla di tutto questo piace ai grillini. La supplenza della corte di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 11 luglio 2020 Tra i partiti della maggioranza si trascina la discussione sul destino dei decreti che ancora ci si ostina a chiamare “sicurezza”. Una delle norme in essi contenute viene riconosciuta contraria alla Costituzione da una sentenza della Corte costituzionale. Si tratta della norma secondo la quale il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica e quindi impedisce allo straniero richiedente asilo di iscriversi alla anagrafe dei residenti in un Comune. Il motivo della incostituzionalità è dalla Corte identificato nella irragionevolezza e nella conseguente violazione del diritto alla eguaglianza, che può essere derogato solo quando sia funzionale a uno scopo legittimo. Irragionevole è la norma rispetto al dichiarato scopo di controllo del territorio e discriminatorio rispetto a tutto ciò che è reso possibile dalla iscrizione alla anagrafe nella vita pratica delle persone. Non quindi un vizio di dettaglio tecnico-giuridico, ma violazione della norma che è nel cuore della Costituzione: eguaglianza tra le persone e obbligo di ragionevolezza per ogni differenziazione. Se si tiene conto del significato civile della iscrizione alla anagrafe del Comune, prima ancora delle sue conseguenze concrete, si trattava di una inutile cattiveria, voluta dal governo precedente a questo e che la nuova maggioranza che sostiene il nuovo non è riuscita a eliminare. Con il riconoscimento della irragionevolezza del divieto introdotto dai decreti “sicurezza” risulta chiaro che non si trattava della intenzione di aumentare la sicurezza sul territorio, ma proprio di una discriminazione su cui si fondava il messaggio politico che si voleva lanciare. La logica del “noi”, che contiamo tra i residenti nel nostro Comune, e “loro”, che non vogliamo. Chi non è iscritto alla anagrafe non può ottenere la carta di identità, non ha accesso alle prestazioni sociali offerte dai Comuni ai bisognosi, non può aprire una partita Iva, né ottenere la dichiarazione Isee con la conseguente esclusione dalle prestazioni sociali agevolate che ne possono derivare, non può ottenere la patente di guida che spesso è indispensabile per lavorare, non può far decorrere da una data certa i termini per accedere alla edilizia popolare o per ottenere la cittadinanza. E tutto ciò nonostante abbia regolare permesso di soggiorno in quanto richiedente asilo. Si tratta quindi di soggiornanti regolari sul territorio, che la legge, invece di registrarli riconoscendone l’esistenza nei luoghi in cui vivono e così farli emergere, respingeva in una semi-clandestinità. La paralisi, che da mesi impedisce ai partiti della maggioranza di governo di riformare le norme introdotte dai decreti “sicurezza”, contraddice le dichiarazioni fatte al momento della formazione di questo governo. Sembrava che la nuova maggioranza con il Pd volesse segnare una seria discontinuità. Ma i 5 Stelle avevano approvato quei decreti quando erano al governo con la Lega, sempre con Conte presidente del Consiglio. E il timore di accrescere lo slittamento di loro parlamentari ed elettori verso i confinanti partiti della destra ha fino a ora impedito ogni riforma. In ogni caso si parla ora di modifiche minimali. Ci si accontenterebbe di seguire le indicazioni date dal Presidente della Repubblica al momento della emanazione dei decreti: minime e insignificanti rispetto al tema della condizione degli stranieri. Si vorrebbe così far credere che si sono fatte modifiche, lasciando però intatta la sostanza. Sarebbe una finzione utile solo alla propaganda. Intanto tocca ai giudici fare valere la Costituzione e con essa la ragionevolezza. Questa volta la decisione viene dalla Corte costituzionale. Ma, per la procedura che nel sistema italiano introduce le cause davanti alla Corte, prima di essa sono intervenuti i giudici ordinari dei Tribunali di Milano, Ancona e Salerno. I Tribunali hanno ritenuto che quella norma potesse confliggere con la Costituzione e hanno sollevato le eccezioni di costituzionalità che ora la Corte costituzionale ha accolto. E prima delle ordinanze dei Tribunali vi è stata l’opera degli avvocati delle persone che ricorrevano ai giudici contro il rifiuto dei Comuni di registrarli alla anagrafe. Si tratta di avvocati specializzati, questa volta nella materia dell’asilo e della protezione umanitaria, esponenti della Associazione di studi giuridici sulla immigrazione, che fa parte di una pluralità di associazioni analoghe. La decisione della Corte costituzionale è importante e decisiva naturalmente, ma essa non sarebbe stata possibile se la società civile non fosse reattiva e non si organizzasse per ottenere legalità dai Tribunali e dalla Corte costituzionale: istituzioni di garanzia che la nostra Costituzione assicura, anche contro gli abusi dei governi e delle maggioranze parlamentari. Armamenti nucleari, un balletto sull’orlo del precipizio di Franco Venturini Corriere della Sera, 11 luglio 2020 Fare orecchie da mercante è un esercizio antico e ben noto alla diplomazia internazionale, ma il livello raggiunto in queste ore dal Dipartimento di Stato Usa stabilisce parametri tanto avanzati che gli altri concorrenti avranno difficoltà a raggiungerli. Fare orecchie da mercante è un esercizio antico e ben noto alla diplomazia internazionale, ma il livello raggiunto in queste ore dal Dipartimento di Stato Usa stabilisce parametri tanto avanzati che gli altri concorrenti avranno difficoltà a raggiungerli. Parliamo di armamenti nucleari intercontinentali, e converrà seguire uno schematico riassunto dei fatti. Primo, Stati Uniti e Russia devono decidere se vogliono prolungare di cinque anni il loro trattato bilaterale New Start, l’ultimo esistente, che in caso contrario scadrà in febbraio. Secondo, le due parti si incontrano a Vienna il mese scorso e fanno pochi progressi, anche perché gli Usa ribadiscono di voler coinvolgere la Cina in questa come in altre future trattative sulla limitazione degli arsenali atomici. Terzo, Pechino prende atto del ripetuto auspicio Usa e risponde, ieri l’altro, che la Cina parteciperebbe volentieri se prima l’America accettasse di far scendere i suoi arsenali al livello attuale di quelli cinesi, vale a dire di circa venti volte. Un no cortese ma inequivocabile. Quarto, gli Usa fanno finta che Pechino abbia detto sì, e si compiacciono dell’”impegno” cinese a partecipare suggerendo un primo abboccamento tra le due parti. Quinto, il cinese Fu Cong resta a bocca aperta, l’americano Marshall Billingslea lo invita comunque a Vienna, e il russo Lavrov torna ieri al sodo, dicendosi pessimista sul salvataggio del New Start e denunciando l’aumento dei pericoli di scontri nucleari. Siamo al solito balletto pre-elettorale di Donald Trump, oppure esiste davvero la possibilità che la Cina stringa almeno formalmente una mano tesa degli Usa rarissima di questi tempi? Non lo sappiamo ancora, ma sappiamo che in questo gioco sull’orlo del precipizio atomico le parole che dovremmo tenere a mente sono soltanto quelle di Lavrov. I 25 anni dal genocidio di Srebrenica e le cancel war di Adriano Sofri Il Foglio, 11 luglio 2020 La mania dell’azzeramento, che in realtà sono almeno due manie. Giovedì, in forte ritardo sulla media, ho fatto la mia prima sortita oltre i confini regionali, e ho preso un treno: vuoto, arrivato in anticipo, regalavano confezioni di spuntini. Avevo da fare, ho appena scorso gli interventi sulla “cancel culture”, la mania dell’azzeramento, che in realtà sono almeno due manie, del politicamente corretto e del politicamente scorretto, il secondo è al potere in America (negli Usa), e chiede tutti i giorni le elezioni per arrivarci in Italia. Un dualismo di poteri dal quale l’appello di scrittori artisti e intellettuali pubblicato su Harper’s cerca di divincolarsi. Pochi giorni fa il rettore dell’università di Padova, a proposito di uno scienziato coinvolto in un’accusa di comportamento inappropriato nei confronti di una ricercatrice, aveva detto che “Quello che vale per Harvard vale altrettanto in un’università italiana”. Frase ragionevolissima, non si usino due metri e due misure quanto a deontologia e moralità. Ma non è vero. In America (negli Usa) il metro e le misure conseguenti sono molto diverse da quelle vigenti in Italia: differenza della quale ci si può di volta in volta rallegrare o dolere. Può darsi che si tratti del solito ritardo europeo e in particolare italiano, che in passato si è tradotto in una rincorsa affannosa e nel superamento del modello americano. Insomma, sono tornato a casa in serata, ero stanco e ho rinviato ancora la lettura metodica dei commenti sul tema. Soprattutto, poiché intanto si faceva il 10 luglio, e domani - oggi, quando esce questa piccola posta - sarebbe stato l’anniversario, il venticinquesimo, di Srebrenica, dove in questa occasione più solenne non avrei potuto andare, ho pensato a come allora, appena l’altro ieri, si era riofferta al nostro mondo, a mezz’ora di volo dalle spiagge adriatiche, la scena reale di un genocidio, quello del “Mai più”. Con qualche innovazione, anche, per esempio la categoria di “stupro etnico”. Con la pluriennale complicità attiva o l’omissione di soccorso di Onu, Ue, noi, caschi blu olandesi e pacifisti malintesi. Non era la Cambogia, era l’Europa. Ed era un compendio di tutte le discriminazioni evocate a incitare al massacro: razziste, sessiste, nazionaliste, religiose… Ero stanco, ho guardato un film su Sky. “Accadde in aprile”, una produzione franco-americana, girata nel 2004, sul Ruanda. In Ruanda, in cento giorni del 1994, un anno prima di Srebrenica, e mentre nella ex Jugoslavia infuriava da tempo la strage civile, si compì attraverso fucili, machete e mazze uno sterminio, forse un milione di tutsi (e di hutu “rinnegati”), che si meritò anche lui la definizione giuridica di genocidio. Il governo francese fu complice, tutti noi inerti, le Nazioni Unite irrise, la presidenza degli Stati Uniti, Clinton, lucidamente ispirata: mentre avveniva, interrogarsi problematicamente se la categoria di genocidio fosse abbastanza appropriata (avrebbe imposto di intervenire), l’anno dopo recarsi sul posto e chiedere scusa per non aver riconosciuto il genocidio. Licenzio questa rubrica senza venire a capo del legame fra le opposte culture della cancellazione e questi precedenti, o altre vicende che sono in corso. Però mi pare che un legame ci sia. Stati Uniti. Tornano le esecuzioni federali. La Ue: “Fermatevi, no alla pena di morte” today.it, 11 luglio 2020 Dopo uno stop di 17 anni, il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha deciso di dare seguito alle circa 60 pene capitali pendenti a livello federale. Il via libera della Corte suprema che ha bocciato il ricorso di 4 detenuti, tra cui un suprematista bianco. L’Unione europea si schiera ufficialmente contro la decisione del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di ripristinare la pena di morte federale dopo una pausa di 17 anni. La portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, ossia il ministero degli Esteri dell’Ue, ha detto in una nota che “questa decisione è contraria alla tendenza generale negli Stati Uniti e nel mondo di abolire la pena di morte, sia per legge che nella pratica”. L’Ue, ha proseguito la portavoce, “si oppone fermamente alla pena di morte in ogni momento e in ogni circostanza”. La pena capitale è una “punizione crudele, disumana e degradante, incompatibile con l’inalienabile diritto alla vita, non fornisce un’efficace deterrenza al comportamento criminale ed è irreversibile. L’Unione europea sostiene fermamente e inequivocabilmente le vittime di crimini e le loro famiglie e sostiene l’applicazione di sanzioni efficaci e non letali. L’Unione europea continuerà a lavorare per l’abolizione universale della pena di morte”, conclude la nota. L’ultima esecuzione federale negli Usa risale al 2003. Ma va chiarito che iniezioni letali e sedia elettrica nel Paese non si sono mai fermate: i 29 Stati degli Usa dove la pena di morte è legale hanno proseguito in questi anni a uccidere i detenuti condannati alla pena capitale. Solo il Covid-19 ha rallentato il ritmo delle esecuzioni, ma solo perché l’emergenza ha reso indisponibili i farmaci per le iniezioni letali. Stati Uniti. Condannato a morte salvato dal Covid: esecuzione sospesa grazie alla pandemia di Davide Giancristofaro Alberti ilsussidiario.net, 11 luglio 2020 Un detenuto condannato a morte nello stato dell’Indiana si è salvato grazie al coronavirus e al fatto che i suoi parenti non avrebbero potuto stargli vicino. E’ stata sospesa un’esecuzione in Indiana. Un uomo doveva essere condannato a morte federale nella giornata di lunedì prossimo, la prima dal 2003 nello stato di cui sopra, ma i giudici hanno deciso di bloccare la stessa su richiesta dei famigliari delle vittime. A causa dell’epidemia di coronavirus, infatti, i parenti non avrebbero potuto assistere agli ultimi momenti di vita del condannato per il rischio di contagi, e di conseguenza, hanno invocato il giudice federale affinchè potesse sospenderla. Il detenuto “graziato” si chiama Daniel Lee, un suprematista bianco che era stato condannato per aver ucciso una coppia e una bimba di soli 8 anni. Sono diversi i casi di pene capitali sospese oltre oceano in periodo di Covid, l’ultimo precedente risale a meno di un mese fa, lo scorso 17 giugno. In quell’occasione ad essere “salvato” fu Ruben Gutierrez, un uomo rinchiuso in un carcere di massima sicurezza in Texas, colpevole di aver ucciso 20 anni fa una donna di 85 anni. L’uomo avrebbe voluto incontrare il cappellano prima di morire, ma l’epidemia di covid-19 ha reso impossibile questa richiesta, e un’ora prima dell’esecuzione la sua condanna a morte è stata sospesa in attesa che la situazione possa migliorare. Lo stato del Texas è quello dove ogni anno avvengono più condanne a morte, ma la pandemia ha permesso a numerosi “Dead man walking”, di salvarsi, almeno per il momento. Lo scorso 18 marzo, ad esempio, John Hummel avrebbe dovuto sottoporsi ad una iniezione letale nella camera della morte di Huntsville alle 18:00 di sera, pena poi sospesa per 60 giorni “alla luce dell’attuale crisi sanitaria e delle enormi risorse necessarie per far fronte all’emergenza”. Pochi giorni dopo stessa fortuna era toccata a Tracy Beatty e con grande probabilità tutti gli altri condannati a morte per il 2020 potranno rimanere in vita ancora per alcuni mesi. Stati Uniti. Chi è il giudice della Corte Suprema che fa arrabbiare Trump di Alberto Flores D’Arcais La Repubblica, 11 luglio 2020 Dopo aver votato a fianco dei liberal sull’aborto, essersi espresso a favore dei “Dreamers” e con i democratici per i diritti di transgender e gay, il repubblicano John Roberts è finito nel mirino dei super-conservatori. Prima ha votato insieme ai ‘liberal’ per bloccare una legge sull’aborto in Louisiana, poi per proteggere i giovani immigrati che vivono ai margini della legalità negli Stati Uniti (i cosiddetti ‘Dreamers’), infine si è unito ai giudici democratici per allargare i diritti di gay e transgender. Tre sentenze in tre settimane e anche John Roberts, il presidente (repubblicano e conservatore) della Corte Suprema Usa, è finito nella lista dei ‘nemici’ della Casa Bianca, diventando - per il popolo dei ‘social network’ che adora The Donald - oggetto di insulti e sarcasmi. Lui non se ne cura, come non se ne è mai curato quando gli attacchi arrivavano dalla sinistra o perfino dalla Casa Bianca. “Non ci sono giudici di Obama, giudici di Trump, di Bush o di Clinton”, disse pubblicamente due anni fa, rimproverando l’attuale presidente Usa che si era lasciato andare (via Twitter) ad attacchi personali contro giudici che lo avevano criticato. Perché da quando il 29 settembre 2005 è diventato (dopo soli due anni che sedeva nella Corte) il più giovane ‘Chief Justice’ degli ultimi due secoli, ha cercato di tenere fuori dalle sentenze influenze politiche ed ideologiche di qualsiasi segno. In quella che è una sua personale battaglia per combattere la diffusa (anche a ragione) percezione che la Corte Suprema sia solo un altro corpo politico, lacerato da divisioni ‘partisan’ come il resto di Washington e del paese. Secondo il Rasmussen Report, pubblicato martedì 7 luglio, sono adesso i democratici ad apprezzare di più il lavoro (e le sentenze) di Roberts. Che è visto con favore dal 56 per cento degli elettori ‘dem’, mentre tra quelli repubblicani la sua popolarità è scesa al 47 per cento. Numeri che hanno prodotto sul Washington Examiner (il giornale conservatore della capitale) il titolo “democratici innamorati, abbracci e baci per il giudice Roberts”. Giudice ‘minimalista’, che ha sempre cercato di limitare cambiamenti radicali nella Giustizia Usa - “ha le qualità che gli americani si aspettano da un giudice, esperienza, saggezza, senso di giustizia e civiltà”, lo presentò Bush diciassette anni fa - Roberts è finito da tempo nel mirino degli oltranzisti conservatori e di chi vorrebbe trasformare i giudici supremi in semplici esecutori del potere politico. A Washington è considerato un ‘insider’, un uomo che conosce profondamente i delicati meccanismi della capitale e che sa muoversi a proprio agio nel crinale che separa, sempre più sottilmente, la politica dalla giustizia. Le ultime sentenze hanno irritato profondamente la Casa Bianca, che vuole fare della Corte Suprema uno dei cavalli di battaglia delle prossime elezioni presidenziali (3 novembre 2020), con il vicepresidente Mike Pence che si è già sbilanciato: “Sono per noi una sconfitta, dobbiamo rimettere in gioco la Corte Suprema, abbiamo bisogno di più giudici conservatori”. Il voto di Roberts a fianco dei quattro giudici ‘liberal’, con cui ha voluto sancire la sua indipendenza su tre temi fondamentali (aborto, immigrazione, diritti gay), può servire agli stessi conservatori per fermare le richieste sempre più pressanti che arrivano dal campo democratico per riformare la Corte Suprema e aggiungere nuovi giudici. Al Congresso (dove a novembre i democratici potrebbero riconquistare la maggioranza anche al Senato) è pronto il progetto di ‘grande riforma’ che Elizabeth Warren, Pete Buttigieg, Cory Booker e Kamala Harris (quattro ex candidati alla presidenza) hanno preparato per vendicare il cosiddetto “seggio rubato”, quando nel 2016 i repubblicani bloccarono per mesi la nomina di Merrick Garland (scelto da Obama al posto di Antonin Scalia), facendo così scegliere due nuovi giudici (nel frattempo si era dimesso anche il repubblicano moderato Anthony Kennedy) a Donald Trump. Senza una riforma la Corte Suprema è destinata ad avere una maggioranza di repubblicani e conservatori per diversi anni o decenni. Anche se Joe Biden dovesse vincere la corsa per la Casa Bianca, probabilmente potrà sostituire solo i due giudici più anziani, Stephen Breyer e Ruth Bader Ginsburg, ambedue democratici. I cinque conservatori - dato che è un incarico a vita - possono restare ancora a lungo. Roberts ha solo 65 anni. Il repubblicano più anziano, Clarence Thomas, ha dieci anni meno di Breyer, i due ultimi nominati da Trump sono i più giovani. Con le sue sentenze, con il diventare ago della bilancia tra giudici di destra e di sinistra (come lo furono nei decenni passati due altri giudici repubblicani Sandra Day O’Connor ed Anthony Kennedy), con i richiami all’indipendenza dal potere politico, ora potrebbe evitare che quella ‘grande riforma’ veda mai la luce. Egitto. In cella chi parla del contagio, Al Sisi fa scattare la censura Corriere della Sera, 11 luglio 2020 Almeno dieci medici e sei giornalisti sono stati arrestati in Egitto dall’inizio della pandemia, per aver messo in dubbio i dati ufficiali o la capacità del governo di Abdel Fattah Al Sisi di gestire la crisi. Lo scrive l’Associated Press, citando, tra gli arrestati, un medico che ha scritto un articolo sulle difficoltà del sistema sanitario, un farmacista che lamentava sui social la scarsità di mascherine, una dottoressa incinta che aveva prestato il cellulare a chi voleva denunciare un contagio. A molti altri è stato intimato di tacere. Un corrispondente del Guardian ha lasciato l’Egitto temendo l’arresto, i colleghi del New York Times e del Washington Post sono stati redarguiti. I casi registrati sono oltre 76 mila; i morti 3.300 (il numero più alto nel mondo arabo). Le cifre testimoniano anche il sacrificio del personale sanitario: 117 dottori, 39 infermiere, 32 farmacisti sono morti. Ma chi vive stia zitto, altrimenti è un “nemico dello Stato” che rischia 5 anni di carcere.