Ma davvero siamo così brutti noi qui fuori? di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2020 Rientro in carcere a Parma con autocertificazione, mascherina, disinfettante. Oltre al documento e qualche foglio per scrivere. Il gruppo redazione di Alta Sicurezza 1 si incontra nella solita stanza con le finestre spalancate e in due turni per garantire il distanziamento. La mascherina rende più complessa la comunicazione, la parlata siciliana di Aurelio, senza il labiale è molto criptica. Ma è bello tornare a lavorare insieme. Il lockdown è stato molto pesante anche qui dentro; qualcuno ha accettato di condividere la propria cella già minima con un compagno di sezione per permettere di creare dei posti per eventuali positivi. Non è ancora tornata la normalità e nelle “camere di pernotto”, per usare il termine ufficiale e decisamente eufemistico, di giorno il caldo tocca i 40 gradi. Il primo incontro è per raccontarci il Covid dentro e fuori le mura, le fatiche e le paure dentro e fuori le mura. Unica boccata d’ossigeno le videochiamate che hanno permesso a tanti di rivedere i genitori anziani e fragili, che da tempo non possono più sostenere viaggi estenuanti da sud a nord per poche ore di colloquio. E i piccoli di casa, i nipotini e i luoghi della vita precedente. Scrive Ciro: “Mi chiamo Ciro Bruno e sono un ergastolano ostativo. Potrebbe sembrare strano ma per quello che ho potuto constatare la pandemia ha fatto venire il buon senso e il senso di umanità anche a chi di solito non ne ha o non ne mostra. Mi riferisco al carcere, dove con molte difficoltà ma in poco tempo ci hanno messo in condizioni di mantenere i contatti con i nostri familiari che per l’emergenza Covid non potevamo più incontrare in quei momenti critici che abbiamo vissuto tutti ma che per noi sono stati ancora più difficili. Con grande senso di umanità ci sono state concesse dai direttori più telefonate e finanche la possibilità di fare video colloqui con skype. Questo è stato davvero un atto di grande umanità. Grazie alla tecnologia ho avuto la possibilità di rivedere dopo 30 anni di carcere la mia camera da letto. Ciò ha significato per me riassaporare il profumo della libertà. Ma c’è poi un altro aspetto ancora più importante: come recita il nostro Ordinamento Penitenziario l’amministrazione ha l’impegno di agevolare i rapporti familiari (artt. 25 e 28) perché da lì inizia il recupero del condannato. Quindi sarebbe una grandissima perdita se dal carcere si facesse uscire questa tecnologia che ci ha permesso di tenere stretti i legami coi nostri familiari…”. Ciro mi consegna questo scritto mentre Carmelo racconta che ha finalmente conosciuto la nipotina, un altro parla della moglie che ha un principio di Alzheimer e che, incontrandolo con la video chiamata, riesce a tranquillizzarsi, Nino può vedere i nipotini lontani, Giovanni la mamma anziana in Calabria e così tutti gli altri. Finalmente possono risparmiare alle famiglie le fatiche e i costi per coprire le migliaia di chilometri che li separano dalle loro case, finalmente possono vedersi con una certa frequenza anziché una - due volte l’anno. Ma nel secondo turno si alza la voce di Gianfranco: - No, no, per carità non scriviamo queste cose perché se fuori sanno che abbiamo un po’ di sollievo ci fanno togliere tutto! Avete visto quelle trasmissioni in tv? Per loro non soffriremo mai abbastanza, hanno bisogno di sapere che stiamo male. Molto male e sempre peggio. Io so che morirò qui dentro ma se ci tolgono anche questo… All’inizio penso che stia scherzando, seppur con l’amarezza con cui si scherza qui dentro ma no, mi sbaglio, è serissimo, ha paura di noi che stiamo fuori della società. Sì, ha davvero paura di noi. Ma davvero siamo diventati così brutti qui fuori? Sento vergogna e impotenza. E penso che forse no, non siamo così impresentabili, forse pochi urlano in un silenzio altrettanto assordante. *Giornalista, redazione Ristretti - Parma Quattro mesi fa la morte di 13 detenuti durante le rivolte. Tanti gli interrogativi di Dario Paladini Redattore Sociale, 10 luglio 2020 Non era mai accaduto dal secondo dopoguerra ad oggi che morissero così tanti reclusi. Parenti e associazioni di volontariato chiedono verità e giustizia. Perché sono morti? Perché non sono stati resi pubblici i loro nomi? Perché quattro sono morti durante il trasferimento in altre carceri? Il Garante nazionale ha chiesto la consulenza dell’antropologa forense Cristina Cattaneo. Domenica scorsa in un cimitero in provincia di Varese è stato dato l’ultimo saluto a uno dei 13 detenuti morti durante le rivolte scoppiate nei giorni dal 7 al 10 marzo in 49 carceri. Sono passati quattro mesi e parenti e volontari delle associazioni impegnate nei penitenziari chiedono che sia fatta chiarezza. Cinque detenuti sono morti nel carcere di Modena e altri quattro mentre venivano trasferiti, una volta finita la rivolta, in altre carceri. Tre sono morti invece nel carcere di Terni e uno in quello di Bologna. Quei morti sembrano dimenticati. Eppure non era mai accaduto, nella storia d’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi, che si consumasse nelle carceri una simile tragedia. Su dirittiglobali.it è possibile firmare una petizione-appello, in cui viene proposto alle associazioni, agli avvocati, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà e alla rete dei media sociali di “costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di quei giorni e che si proponga - nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali - di fare piena chiarezza sull’accaduto”. Le rivolte sono scoppiate nel pieno della pandemia da Covid-19 e sono da collegare a due fattori: il sovraffollamento e la tensione crescente in quei giorni per il rischio di contagio e per la sospensione dei colloqui con i parenti e di ogni attività trattamentale. Un mix esplosivo, che in molte carceri ha trovato sfogo in proteste pacifiche, mentre in altre in barricate, incendi, devastazioni e saccheggi. A Foggia sono anche evasi 72 detenuti (poi tutti rientrati, alcuni spontaneamente). Il carcere di Modena è stato chiuso perché inagibile e i detenuti trasferiti in altre città. Sono 40 gli agenti della polizia penitenziaria feriti. Il Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà, Mauro Palma, nella relazione al Parlamento ha annunciato, il 26 giugno scorso, che per i 13 deceduti seguirà le indagini in corso attraverso la nomina di un proprio difensore e di “un consulente medico legale per le analisi degli esiti autoptici”. Per i nove morti detenuti a Modena, il consulente legale del Garante nazionale è Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina Legale all’Università degli Studi di Milano e direttore del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense della stessa Università. Una scienziata già molto nota per i tanti casi sui quali è stata chiamata a fare luce e per il progetto, portato avanti da anni, di restituire un nome ai migranti morti in mare. Anche in questa vicenda i nomi hanno un significato importante. Dopo le rivolte, per molti giorni non si è saputo i nomi di chi era morto. Sono poi emersi solo grazie all’impegno di due giornalisti, Luigi Ferrarella, del Corriere della Sera, e di Lorenza Pleuteri (giustiziami.it), che con l’aiuto delle associazioni sono riusciti a rendere pubblico nomi, cognomi, età e qualche aspetto della loro vita. La domanda principale ora è: perché sono morti? Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, intervenendo l’11 marzo al Senato con un’“informativa sull’attuale situazione delle carceri”, ha affermato che “dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”. Sarebbero morti per overdose di metadone. Parenti, associazioni, ma in realtà lo Stato e ogni cittadino, hanno bisogno di sapere, non basta quel “per lo più”. Una tragedia di queste dimensioni avrebbe bisogno di un dibattito parlamentare, di una commissione d’inchiesta. Per rispondere anche a questa domanda: come è potuto accadere? Ci sono altri interrogativi a cui bisognerà dare una risposta. Come è possibile che ben quattro detenuti del carcere di Modena siano deceduti durante il trasporto in altri istituti penitenziari? Chi ha stabilito che potessero affrontare il viaggio invece di essere ricoverati in ospedale? C’è infine il capitolo delle presunte violenze sui detenuti da parte degli agenti della Polizia penitenziaria dopo che le rivolte erano cessate. Quindi violenze non per sedare la ribellione, ma per punire. L’associazione Antigone ha presentato quattro esposti ad altrettante Procure. E anche il Garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto, ha inviato un’informativa alla Procura della Repubblica dopo aver ricevuto diverse segnalazioni da parte di parenti dei reclusi del carcere di Opera. I nomi dei detenuti morti sono: Salvatore Piscitelli Cuono (40 anni), Hafedh Chouchane (36 anni), Slim Agrebi (41 anni), Alis Bakili (53 anni), Ben Masmia Lofti (40 anni), Erial Ahmadi (36 anni), Arthur Isuzu (30 anni), Abdellah Rouan (34 anni), Hadidi Ghazi (36 anni), Marco Boattini (35 anni), Ante Culic (41 anni), Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), Haitem Kedri (29 anni). Da detenuti a ostaggi di Carmine Gazzanni Left, 10 luglio 2020 Abusi, rappresaglie, pestaggi sarebbero stati compiuti da agenti penitenziari nei confronti di chi chiedeva tutele per la propria salute durante l’emergenza Covid-19. È quanto emerge dalle inchieste partite da esposti dell’associazione Antigone e dai familiari delle vittime. “Aiuto, mio padre è stato massacrato di botte”, denuncia una ragazza con lacrime di rabbia per il papà detenuto a Santa Maria Capua Vetere. “Mio marito è stato picchiato, messo dentro un blindo in mutande, senza vestiti e senza niente”, le fa eco una donna il cui compagno è nel carcere di Pavia. “Sono entrati gli antisommossa a massacrare di botte tutti i detenuti. Molte persone sono state accompagnate in cella perché non riuscivano a camminare”, racconta la sorella di un altro ragazzo recluso a Opera, il carcere di Milano. Sono solo una parte, queste, delle testimonianze a seguito dei giorni caldi dell’emergenza coronavirus: i detenuti temevano che il contagio da Covid-19 potesse arrivare anche nei penitenziari e se questo fosse accaduto, sarebbe stata un’ecatombe. Da qui la richiesta di maggiori garanzie, spesso sfociate in rappresaglie che, tuttavia, sono state spesso sedate con pestaggi e violenze. Quanto accaduto a marzo - spiega non a caso Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone - costituisce un unicum tragico della storia repubblicana, con le proteste, i morti, le rappresaglie. C’è stata una sottovalutazione dell’ansia e della disperazione che covava nelle carceri”. Secondo quanto risulta a Left, inchieste sono in corso in tutt’Italia, dopo i tanti esposti presentati ora dai familiari delle vittime ora da Antigone. Proprio dopo una dettagliata denuncia dell’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti, a Santa Maria Capua Vetere sono finiti nel registro degli indagati 44 agenti penitenziari. È il 5 aprile quando si diffonde tra i detenuti la voce secondo cui lo spesino di reparto (l’addetto alla spesa) avrebbe contratto il Covid-19 (saranno alla fine accertati tre casi in carcere). Inevitabilmente scoppia la protesta: il sovraffollamento, d’altronde, non garantisce la benché minima sicurezza. Non a caso nel primo pomeriggio del 6 aprile il magistrato di sorveglianza va in carcere per capire le ragioni di quella protesta. E qui succede qualcosa di incredibile: secondo quanto emerge dagli esposti in mano alla Procura, appena il giudice va via, tra le 15 e le 16, circa 400 agenti fanno ingresso nelle sezioni del reparto “Nilo” (dove il giorno prima era scoppiata la rivolta), suddivisi in gruppi di sette agenti, in tenuta antisommossa e con il volto coperto da caschi. Alcuni poliziotti sarebbero entrati nelle celle e, cogliendo i detenuti di sorpresa, li avrebbero violentemente insultati e picchiati con schiaffi, pugni, calci e manganellate. Altri detenuti sono invece stati trascinati fuori dalle celle e qui, ancora, picchiati e costretti a radersi barba e capelli. Le testimonianze finite nell’inchiesta raccontano un quadro devastante: un detenuto, a causa delle violenze subite, avrebbe avuto per giorni un occhio livido e gonfio tanto da non riuscire ad aprirlo; un altro ha raccontato alla moglie che non riusciva ad alzarsi dal letto; secondo altre segnalazioni, un uomo sarebbe rimasto sdraiato per terra in mezzo al sangue e privo di sensi, un altro avrebbe urinato per giorni sangue, e un altro ancora sarebbe stato messo in isolamento nonostante due costole rotte e un grave trauma cranico. Non sarebbero stati risparmiati neanche detenuti anziani o con problemi psichici: uno di loro sarebbe stato prima denudato, poi picchiato con calci e manganellate sulla testa, tanto da riportare gravi lesioni alle costole e forti dolori alla testa. Il caso campano, però, non è isolato. Tre giorni dopo quelle violenze, stesso copione anche a Pavia. Dopo le proteste causa Covid, le denunce narrano di agenti che avrebbero fatto spogliare i detenuti, li avrebbero messi con la faccia al muro e lì barbaramente sputati e picchiati. Ciò che emerge è anche la sensazione che si sia voluto fare in modo che tutto avvenisse nel silenzio. Non solo tramite minacce, ma anche trasferendo immediatamente i detenuti. Così è accaduto a Pavia, così nella Casa circondariale di Melfi, in provincia di Potenza. Qui nella notte tra il 16 e il 17 marzo alcuni detenuti della sezione di Alta sicurezza sarebbero stati addirittura legati con le manette, picchiati e, successivamente, si dice in una denuncia, “almeno settanta di loro” sono stati trasferiti in altro istituto, senza la possibilità di prendere gli effetti personali o di vestirsi: molti sono stati portati via in pigiama, ciabatte e privi di occhiali da vista. E anche durante i tragitti in pullman sono state raccontate altre violenze. A regnare, anche in questo caso, è il silenzio totale con i parenti delle vittime. Una mamma ha addirittura denunciato che solo “mediante Facebook su un profilo creato dai parenti dei detenuti presso il carcere di Melfi, ho appurato che mio figlio, prima del trasferimento a Secondigliano, come gli altri detenuti, è stato picchiato nella cella e poi trasferito”. Altre inchieste, ancora, sono in corso a Milano e a Modena. D’altronde è proprio qui, nella città emiliana, che nei giorni delle rivolte nove detenuti sono morti per ragioni ancora da chiarire. Una traccia di quanto accaduto arriva proprio da alcune denunce consegnate in Procura. Durante le sommosse e le proteste, infatti, i nove reclusi avrebbero assunto autonomamente metadone e altri farmaci utilizzati per la cura della tossicodipendenza: cinque sono morti nel penitenziario di Modena, gli altri quattro dopo essere stati trasferiti. Dalle carte emergerebbe come i trasferimenti sarebbero avvenuti con l’assenso dei medici che, prima del trasferimento, hanno sottoposto i detenuti a visita. “Qualora, a seguito dell’autopsia, venisse accertato il decesso dei detenuti per una overdose di metadone, è necessario capire come è stato possibile che i detenuti abbiano avuto accesso al metadone e perché non sono stati immediatamente ricoverati quando si sono sentiti male”, spiega l’avvocato di Antigone, Simona Filippi. All’attenzione degli inquirenti potrebbe finire anche il consenso sanitario al trasferimento dei detenuti in quelle condizioni, in carceri anche molto distanti da Modena (uno su tutti quello di Ascoli Piceno, per cui occorrono ben 5 ore di viaggio). “È altamente probabile che l’immediato trasferimento in un pronto soccorso avrebbe potuto evitare il decesso di queste persone”, nota ancora la Filippi. Sarà ovviamente la magistratura ad appurare cosa sia accaduto e le eventuali responsabilità. “Fortunatamente - continua ancora Gonnella - oggi esiste il reato di tortura nel codice penale e viene imputato. La violenza è dentro la società, e il carcere non ne è ovviamente esente”. Resta, tuttavia, un problema di “sistema” che trascende le inquietanti violenze delle settimane scorse: “Oggi siamo in una fase di nuova lenta crescita della popolazione detenuta. Ciò anche a causa della campagna mediatica-giudiziaria contro le scarcerazioni di alcuni esponenti della criminalità organizzata. Bisogna evitare di farci trovare strapieni di detenuti all’eventuale ripresa dell’epidemia in ottobre. Sarebbe un disastro colpevole, al pari di quello vissuto nelle Rsa”. Va recuperata una visione costituzionale della pena, “oggi - conclude Gonnella - non proprio nel cuore dei decisori politici”. Consiglio d’Europa: “Eliminare il sovraffollamento delle carceri” coe.int, 10 luglio 2020 Il Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa (Cpt) ha chiesto ai 47 Stati membri del Consiglio d’Europa di cogliere l’opportunità della lotta contro la pandemia da Covid-19 nelle carceri per porre fine al sovraffollamento grazie a misure d’urgenza istituite temporaneamente, compreso il ricorso ad alternative alla detenzione. In una dichiarazione pubblicata a seguito della sua Dichiarazione di principi, rilasciata a marzo nel contesto della pandemia da Covid-19, il Cpt afferma che occorre prendere ulteriori disposizioni per ridurre la detenzione provvisoria, astenersi quanto più possibile dal ricorso alla detenzione dei migranti e compiere ulteriori progressi nella deistituzionalizzazione delle cure psichiatriche. Il Cpt accoglie con favore il fatto che, secondo le informazioni fornite dagli Stati, molte amministrazioni penitenziarie hanno intrapreso prontamente delle azioni per proteggere le persone private della loro libertà da un possibile contagio e introdurre delle misure per compensare le restrizioni imposte per motivi di salute pubblica. In particolare, la maggior parte degli Stati membri ha riportato un crescente ricorso a misure non privative della libertà come alternative alla detenzione, ad esempio la sospensione o il rinvio dell’esecuzione delle sentenze, l’avanzamento della liberazione condizionale, il rilascio temporaneo, la commutazione della pena di detenzione in arresti domiciliari o l’utilizzo esteso della sorveglianza elettronica, che hanno avuto tutte un impatto positivo sul diffuso fenomeno del sovraffollamento delle carceri. Inoltre, molti Stati hanno preso delle misure per facilitare il contatto dei detenuti con il mondo esterno, ad esempio organizzando l’accesso a videochiamate tramite Internet o permettendo un accesso al telefono più frequente e di maggiore durata per il periodo di divieto delle visite. Quanto alla detenzione dei migranti, alcuni Stati membri hanno indicato che gli ordini di detenzione sono stati sospesi e/o che i centri di detenzione per i migranti sono stati temporaneamente messi fuori servizio. Il Cpt sottolinea che le restrizioni temporanee imposte per contenere la diffusione del virus nei luoghi di detenzione devono essere eliminate non appena smettono di essere necessarie, in particolare la restrizione del contatto dei detenuti con il mondo esterno e la riduzione del numero di attività che vengono loro proposte. “Funzione rieducativa della pena”, Mattarella celebra la Polizia penitenziaria di Milena Castigli interris.it, 10 luglio 2020 Il messaggio di Sergio Mattarella al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, per il 203° anniversario del Corpo. Oggi si celebra il 203° anniversario della costituzione del Corpo di Polizia Penitenziaria. La Polizia Penitenziaria svolge compiti specialistici, all’interno degli istituti penitenziari e nei servizi esterni, che ne definiscono l’identità, la missione e l’unicità fra le Istituzioni della Repubblica. Per l’occasione, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, un messaggio di saluto. Il messaggio del Presidente al corpo di polizia penitenziaria - “In occasione del 203° anniversario della costituzione del Corpo - esordisce Mattarella nel suo messaggio - sono lieto di esprimere viva gratitudine e apprezzamento alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria per l’attività costantemente svolta al servizio dello Stato. La Polizia Penitenziaria si adopera con impegno e grande senso delle Istituzioni, insieme agli altri operatori del settore, per l’attuazione del principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, contribuendo con encomiabile abnegazione a garantire il mantenimento dell’ordine e della sicurezza dei detenuti”. “La complessa realtà carceraria ha posto in evidenza la capacità di intervento e l’elevata professionalità degli appartenenti al Corpo, chiamati a fornire con tempestività risposte differenziate in tutte le situazioni di disagio e di tensione emerse negli istituti. In questo giorno di solenne celebrazione, nel rendere omaggio ai caduti del Corpo nell’assolvimento dei loro compiti, esprimo ai loro familiari la vicinanza del Paese e formulo a tutto il personale in servizio, in congedo e alle rispettive famiglie - conclude Mattarella - sentite espressioni di ringraziamento ed incoraggiamento”. La testimonianza - Gli agenti della polizia penitenziaria operano a mani nude e sono frequentemente aggrediti dai detenuti. Il carcere non solo non recupera, ma è una polveriera che rischia di esplodere”. È la forte testimonianza rilasciata a In Terris dal dott. Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp). “Nelle carceri tutti i detenuti vanno recuperati. Ma ci sono detenuti recuperabili più di altri alla società”, aveva dichiarato il dott. Beneduci in una intervista dello scorso 29 giugno. “Per esempio i 12mila detenuti attualmente in carcere legati alla criminalità organizzata sono meno facilmente recuperabili. Questo perché la criminalità organizzata dà da vivere a loro e ai loro familiari anche mentre sono reclusi”. “Al momento, le carceri italiane non riescono a svolgere la funzione rieducativa, eccetto in rare eccezioni. Questo perché i detenuti non lavorano: non c’è rapporto tra il mondo carcerario e la società fuori dalle sbarre”. “Contesti il carcere? Allora sei un terrorista” di Frank Cimini Il Riformista, 10 luglio 2020 Il carcere come questione maledetta. Delle ragioni per cui nella prima decade di marzo durante le rivolte morirono 15 detenuti si continua a non sapere nulla e gli inquirenti sul punto tacciono. La magistratura invece si fa viva sul versante opposto. La procura di Milano sulla rivolta che portò i reclusi a protestare sui tetti come non accadeva da anni ha chiuso le indagini e accusa 34 persone di devastazione, che inevitabilmente saranno processate. Ma come se ciò non bastasse la solidarietà ai detenuti e le lotte per mettere in discussione il carcere costano incriminazioni per associazione sovversiva finalizzata al terrorismo. È accaduto a Bologna dove 7 anarchici erano stati arrestati e poi scarcerati dal Riesame a distanza comunque di tre settimane. Nei prossimi giorni saranno depositate le motivazioni del provvedimento. A Roma invece è andata diversamente. Su cinque militanti finiti in prigione uno solo è stato liberato. “Per fatti bagattellari come scritte sui muri volantini e persino presunti furti di cemento si contesta l’accusa di terrorismo - dice l’avvocato Eugenio Losco legale di Pierloreto Fallanca, l’unico liberato per insussistenza delle esigenze cautelari - accade che se contesti l’istituzione carceraria dall’interno come detenuto metti a rischio l’incolumità e anche la vita, come stiamo tragicamente verificando di questi tempi. Se fai la stessa cosa dall’esterno ti affibbiano l’etichetta di terrorista e ti mettono in galera”. Secondo un altro legale, Ettore Grenci, “il Riesame di Roma per confermare le misure cautelari si è discostato dalla giurisprudenza della Cassazione che in materia di associazione sovversiva aveva fissato dei paletti ben precisi”. Il Riesame di Roma inoltre si è preso ben 45 giorni di tempo per depositare le motivazioni. “Un termine lunghissimo tenendo presente che parliamo di persone in carcere e che per avere la decisione della Cassazione sulla nostra impugnazione bisognerà aspettare l’autunno”, aggiunge Grenci che si rivolgerà alla Suprema Corte contro la decisione del gip che aveva negato il permesso di colloquio con i genitori e la sorella a Nico Aurigemma perché si era avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia. Aveva esercitato un suo diritto di indagato e si vede violati per questo i diritti di detenuto. Appello per il mantenimento dei colloqui audiovisivi telematici camerepenali.it, 10 luglio 2020 Il documento dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane relativo all’uso di applicativi in video-conferenza per i colloqui audiovisivi. Fra le tante criticità, una delle poche novità positive registratesi durante la recente emergenza pandemica nel mondo del carcere è rappresentata dall’improvvisa accelerazione nell’uso di applicativi di videoconferenza per l’effettuazione di colloqui audiovisivi fra detenuti / internati e loro familiari, nonché fra i primi ed i rispettivi difensori. L’uso di applicativi a ciò finalizzati era in sperimentazione da tempo, con alterne fortune. Improvvisamente, grazie ai vantaggi sanitari che potevano immediatamente ricavarsene, ci si è resi conto che era possibile allestire postazioni in tutti (o quasi tutti) gli Istituti di detenzione e perfino sostituire integralmente i colloqui visivi, che il rischio di contagio suggeriva di sospendere. É doveroso sottolineare che l’incontro diretto è altra cosa e che la sostituzione integrale rispondeva ad esigenze di emergenza, ma l’occasione ha consentito di sperimentare finalmente anche ulteriori vantaggi, oltre a quelli legati alla specifica congiuntura, che connotano questa modalità di interazione e suggeriscono di mantenerla a regime. Essa, infatti, in particolare, consente di coltivare rapporti ben più gratificanti di quelli consentiti da una mera telefonata anche per chi, per ragioni di lontananza, economiche o di salute, non ha la possibilità di accedere ai colloqui visivi di persona, che richiedono spesso impegnative e costose trasferte. Ecco dunque che, finita l’emergenza, alcuni detenuti hanno deciso di manifestare l’aspirazione che i colloqui in videoconferenza vengano mantenuti a regime, scrivendo al Presidente della Repubblica. A ciò hanno fatto eco varie iniziative del mondo della cultura e del volontariato carcerario, atte a rivolgere la medesima sollecitazione alle Istituzioni preposte. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, ritiene di doversi esprimere a favore di queste iniziative e rivolge accorato richiamo in tal senso al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, al Ministero della Giustizia ed al Governo tutto, affinché lo sforzo organizzativo compiuto durante l’emergenza pandemica non sia dilapidato e i colloqui audiovisivi vengano mantenuti, quale alternativa ai colloqui dal vivo, ove questi risultino non praticabili. Fase 3. Bonafede: “Nuovi spazi per le udienze? Non c’è tempo” di Simona Musco Il Dubbio, 10 luglio 2020 Il no del Ministro all’utilizzo dei tribunali soppressi. La Fase 3 della Giustizia non potrà usufruire delle decine di tribunali soppressi in giro per lo Stivale. Nonostante l’esigenza di distanziamento sociale e le condizioni, in molti casi critiche, dei Palazzi di Giustizia. A dirlo, nel corso del Question time di ieri al Senato, è stato il Guardasigilli Alfonso Bonafede, che ha assicurato di aver fatto “il possibile” per garantire che la Giustizia uscisse dalla paralisi imposta dal Covid. Una risposta insoddisfacente per il senatore Marco Perosino, di Forza Italia, che ieri ha chiesto di rispolverare i tribunali dismessi per ovviare all’esigenza di distanziamento sociale imposta dall’emergenza, considerato che, in molte sedi attualmente attive, non ci sono locali sufficientemente ampi per garantire la sicurezza dei dipendenti e degli utenti. Tribunali che, in alcuni casi, “sono stati oggetto di richiamo da parte dell’Ispettorato per la funzione pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri sull’applicazione e sull’osservanza delle norme anti Covid”, ha sottolineato Perosino, che ha suggerito un’alternativa per evitare ulteriori problemi in caso di recrudescenza dell’emergenza. L’idea sarebbe quella di utilizzare la norma che attribuisce al ministero della Giustizia la facoltà di accordarsi con Regioni e Province autonome, per disporre, temporaneamente, l’utilizzo degli immobili delle cosiddette sedi giudiziarie soppresse. Una via che, per Bonafede, non appare, però, di immediata praticabilità, “avendo tempi tecnici che non appaiono compatibili con le esigenze di carattere emergenziale”. Insomma, non ci sarebbe il tempo per farlo. Il tutto nonostante in molti tribunali la situazione sia ancora critica, con il personale di cancelleria ancora parzialmente fuori sede e l’avvocatura sul piede di guerra per i rinvii e per l’impossibilità di svolgere le udienze in maniera regolare. Bonafede ha però approfittato dello spazio del Question time per rivendicare l’azione del proprio dicastero a tutela dei cittadini e degli addetti ai lavori. “Fin dalla prima fase dell’emergenza è stata evidenziata la necessità di adottare misure organizzative e logistiche volte alla tutela della salute, dell’igiene degli ambienti e della sicurezza dei locali: gli uffici giudiziari sono stati immediatamente autorizzati ad effettuare acquisti diretti di materiale igienico sanitario, nonché un adeguato numero di dispositivi di protezione delle vie respiratorie - ha dichiarato. È stata inoltre prevista una procedura semplificata per la gestione delle richieste provenienti dagli uffici giudiziari e relative a pareti in plexiglas e paratie para-fiato, è stata elaborata una serie di strumenti di controllo della temperatura, si stanno inoltre offrendo supporto e indicazioni agli uffici in merito alla pulizia e igienizzazione degli impianti di aerazione nel periodo estivo”. Assieme alle misure igienico- sanitarie, il ministro ha ricordato anche quelle logistico- organizzative, tra le quali la regolamentazione dell’accesso ai servizi, la istituzione di percorsi dedicati all’utenza, la gestione di una banca dati delle aule migliori al fine di assicurare al meglio distanziamento sociale e le altre prescrizioni sanitarie. Misure aspramente criticate dall’avvocatura, soprattutto per l’eccesso di protocolli prodotti per la gestione dell’emergenza, a causa della delega del ministro ai singoli capi degli uffici. “Certamente l’esigenza di mantenimento del distanziamento sociale si interseca con il problema degli spazi - ha aggiunto Bonafede - soprattutto in ragione della necessità della ripresa delle attività giudiziarie “in presenza”, con aumento dell’afflusso dell’utenza, dei dipendenti, dei magistrati e degli avvocati, esigenza segnalata altresì dall’Ispettorato per la funzione pubblica con note rivolte a vari Uffici giudiziari”. Ma niente da fare: la Giustizia, almeno per il momento, dovrà accontentarsi degli spazi che ha a disposizione e dei protocolli dei singoli capi uffici, delegati dal ministero a gestire l’afflusso ai tribunali. Non negare le vittime di errori giudiziari di Claudio Cerasa Il Foglio, 10 luglio 2020 Le vittime della mafia, le vittime delle foibe, le vittime del terrorismo e va da sé del nazifascismo, giù giù fino alle vittime da incidente stradale, da disastro ambientale e ora, ahinoi, del Covid. Ogni giorno ha la sua pena e quasi ogni giorno, in Italia, ha ormai una “giornata” per ricordare le vittime di qualche evento scellerato. Nessuno tocchi le vittime, ovviamente, ma in qualche caso si ha come l’impressione di un’enfasi retorica, che trabocca e si fa un po’ pleonastica. Eppure ci sarebbe una giornata delle vittime - forse alla fine arriverà, la parola passa al Senato - che in un paese come l’Italia sarebbe sacrosanta, se non la più sacrosanta di tutte: la Giornata per le vittime di errori giudiziari, che Italia viva voleva dedicare a Enzo Tortora, il 17 giugno. Basterebbero i numeri a dimostrare la necessità di un ricordo così: ogni anno nel nostro paese ci sono in media mille cittadini innocenti che diventano vittime di errori giudiziari, i casi negli ultimi 25 anni sono oltre 26 mila. L’associazione Errori giudiziari ne ha pubblicati online oltre ottocento, limitandosi alle vicende processuali definitivamente chiuse. I Radicali Maurizio Turco e Irene Testa hanno ricordato che l’istituzione sarebbe “un atto con il quale ricordare l’alto numero di coloro che hanno subito la gogna mediatica alla quale è seguita l’ingiusta detenzione o la estraneità ai fatti per i quali sono stati indicati al pubblico ludibrio”. Una strage morale indegna di uno stato di diritto. Ora, di fronte a tutto questo, l’altro ieri in commissione Giustizia la mozione proponente è passata per un pelo, con i voti dell’opposizione e di Italia viva. Mentre il Movimento cinque stelle e il Partito democratico hanno votato contro. E se per i forcaioli grillini, che esprimono l’attuale ministro della Giustizia, l’impossibilità di ammettere i danni della mala giustizia e della gogna mediatica è strutturale, peggio di riconoscere la concessione delle autostrade al gruppo Benetton, per il Pd l’errore è più doloroso e rivelatore: finirà mai, il partito erede del partito del moralismo giudiziario e dei processi come arma politica, di flirtare con il giustizialismo? Abuso d’ufficio, la riforma che non può aspettare di Antonio Palma* Il Riformista, 10 luglio 2020 Ben venga la modifica della responsabilità amministrativa limitata ai soli comportamenti dolosi: dovrebbe essere accompagnata da quella della prescrizione. Molte e prevedibili sono le difficoltà del Governo nel varare il decreto legge dedicato alla semplificazione amministrativa, in particolare nell’approntare le norme di revisione del reato di abuso di ufficio e quelle destinate a incidere sui presupposti della responsabilità amministrativa dei funzionari pubblici, per la quale è competente la Corte dei conti, un autentico spauracchio per coloro che hanno responsabilità di firma perché incide sul loro patrimonio personale. É noto che l’abuso d’ufficio per la indeterminatezza della fattispecie incriminatrice e la responsabilità per comportamenti dolosi e gravemente colposi che abbiano arrecato danno al pubblico erario siano da tempo tra le cause di quella fuga dalla responsabilità che rende difficile concludere nei tempi previsti i procedimenti amministrativi, generando lentezze ed inefficienze gravi e, soprattutto, rendendo vani i tentativi di riforma voluti dal legislatore e poi finiti impantanati nella palude delle inerzie. Dunque, si tenta di riscrivere il reato cli abuso di ufficio rendendo meno generico il profilo incriminar te e di limitare la responsabilità ai soli casi di dolo del funzionario pubblico, con esclusione della colpa grave, che in fondo si risolve nei fatti in un riesame ed in un apprezzamento esterno a volte anche di merito dei comportamenti amministrativi da parte del Giudice contabile, che si sovrappone a quello dei competenti organi amministrativi. Immediate le reazioni di chi teme che cm allentamento dei controlli possa aggravare quei fenomeni corruttivi che di certo costituiscono un fattore di inquinamento della vita amministrativa Ma sul punto è necessario fare chiarezza con determinazione la politica richiede visioni, passioni ed emozioni. L’amministrazione invece impone ragione tecnica e discernimento. Il riformismo che di quella ragione è realizzazione se riesce ad innescare processi continui di rinnovamento dell’esistente incide sulla realtà più di una rivoluzione, che si consuma nell’istante storico in cui si realizza. Il riformismo come rivoluzione forte e dolce deve affrontare resistenze, interessi consolidati e contrastanti e lo può fare solo avendo chiari gli obiettivi da perseguire e le conseguenze del raggiungimento di tali obiettivi. Or dunque, sono dati di comune esperienza le lentezze, i tempi biblici dei procedimenti amministrativi, l’elusione dei termini previsti dalla legge per la conclusone dei procedimenti, la farragine del concerto tra le diverse pubbliche amministrazioni, la complessità della tutela dinanzi al giudice amministrativo oltretutto a volte non realmente satisfattiva della domanda di giustizia del privato leso dall’inerzia dell’amministrazione. Tutto questo notoriamente scoraggia chiunque voglia affrontare il rischio di doversi confrontare con il complesso normativo e amministrativo del nostro paese. Molte le cause certo, ma una determinante è la moltiplicazione dei controlli che soffocano il potere di amministrazione attiva, senza proporzione tra l’esigenza del fare e il dovere di controllare. Un’eresia per i teorici di quella paranoia permanente che si fonda su una fondamentale sfiducia nei cittadini, invece una realtà che obbliga un legislatore che voglia seriamente riformare, sulla base del principio del corretto bilanciamento tra efficienza dell’agire e correttezza delle azioni. Le nonne penali attualmente vigenti in tenia di rea ti della pubblica amministrazione sono più che sufficienti ad assicurare una adeguata repressione dei comportamenti devianti e si pensi che un fatto corruttivo può essere punito più di un omicidio preterintenzionale - ad esse appare sufficiente aggiungere una corretta quota di controlli concentrala in fase successiva all’adozione degli atti amministrativi in un unico livello di esercizio. Quindi, ben venga la riforma della responsabilità amministrativa limitata ai soli comportamenti dolosi, riforma che dovrebbe essere accompagnata, rispolverandola da un passato recente, quella della prescrizione, che come in tutti i casi di illecito dovrebbe decorrere dal fatto generativo di danno erariale e non dal suo accertamento, poiché siamo completamente al di fuori da moduli privatistici che possano giustificare la diversa previsione. Si eviterebbe cosi ai pubblici funzionari di essere chiamati a rispondere dinanzi alla Corte dei Conti anche decenni dopo la cessazione della carica, anni dopo il collocamento in pensione, una specie di incubo permanente che può connotare l’intera esistenza. Perché allora fingersi anime belle che si stracciano le vesti perché nessun pubblico funzionario ama assumersi la responsabilità della firma di un provvedimento, per la quale può essere simultaneamente chiamato a rispondere dalla Procura della repubblica, dalla Procura della Corte dei Conti, dalle Autorità di controllo e via procedendo? Forse un sano approccio laico alla questione porterebbe a maggiori utilità per il paese nel suo complesso. *Docente all’Università “Federico II” di Napoli Csm, Curzio proposto primo presidente della Corte di cassazione di Giacomo Puletti Il Dubbio, 10 luglio 2020 La proposta sarà all’ordine del giorno mercoledì 15 luglio, quando il plenum si riunirà al Quirinale alla presenza del presidente della Repubblica. La Commissione incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura ha proposto all’unanimità la nomina di Pietro Curzio, attuale presidente di sezione della Corte di cassazione, per il ruolo di primo presidente. La quinta commissione ha inoltre proposto la nomina di Margherita Cassano, ad oggi presidente della Corte d’Appello di Firenze, come presidente aggiunto. Le proposte saranno all’ordine del giorno mercoledì 15 luglio alle 10 dal plenum del Csm, presieduto dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel salone delle Feste del Quirinale. Le nomine sono arrivate in vista dell’addio, per sopraggiunti limiti d’età, dell’attuale presidente Pietro Mammone, che lascerà il 17 luglio. Il ruolo di presidente aggiunto era invece già vacante da qualche settimana. Curzio è in Cassazione dall’ottobre 2007, appartiene alla corrente di Magistratura Democratica ed è presidente della sesta sezione civile della Corte. Cassano invece è stata consigliere di Cassazione per tredici anni, membro delle Sezioni unite ed è approdata alla Corte d’Appello di Firenze dopo quattro anni al Csm per Magistratura indipendente. È la prima donna a ricoprire l’incarico di presidente aggiunto di Cassazione. Il plenum di Palazzo dei Marescialli ha intanto eletto i quattro componenti supplenti della sezione disciplinare, il cui implemento era stato deliberato due giorni fa dallo stesso Csm. “L’incremento del numero di procedimenti pendenti davanti alla sezione disciplinare determina un aumento dei casi di possibile incompatibilità - aveva scritto il plenum - il che rende opportuno, al fine di assicurare l’indefettibilità e la continuità della funzione disciplinare, prevedere un incremento del numero dei componenti supplenti”. Da qui la delibera, approvata a larga maggioranza. Gli eletti sono il laico Emanuele Basile (24 voti), e i tre togati Elisabetta Chinaglia (esponente di Area, 21 voti) Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, entrambi di Autonomia & Indipendenza, con 24 voti. Tra i processi che tratteranno anche quello a carico del pm (ora sospeso) Luca Palamara e altri sei magistrati, cioè il deputato di Italia Viva Cosimo Ferri e cinque ex togati del Csm, per il “caso Procure”, il cui inizio è fissato per il 21 luglio. “Anche Renato Vallanzasca ha diritto a non marcire in galera” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 10 luglio 2020 L’avvocato di Renato Vallanzasca chiede la libertà dopo 50 anni passati in galera: “Lo Stato non può torturalo”. “Per la prima volta dopo oltre trent’anni di attività forense sono costretto a rinunciare alla difesa di un cliente”, afferma l’avvocato milanese Davide Steccanella, difensore di Renato Vallanzasca, appresa la notizia che il Tribunale di sorveglianza del capoluogo lombardo ha nuovamente rigettato qualche giorno fa sia la domanda di liberazione condizionale che quella per il ripristino del regime della semilibertà per l’ex bandito della Comasina. “Rinunciare alla difesa di un cliente è un gesto doloroso che metto tra le esperienze più avvilenti e frustranti”, prosegue Steccanella che fra i suoi assistiti annovera anche il terrorista Cesare Battisti. Nell’ultimo provvedimento di rigetto, il Tribunale di sorveglianza scrive che ogni richiesta è prematura in quanto è necessario “un percorso graduale” e manca “la prova del ravvedimento”. La storia di Renato Vallanzasca - Vallanzasca, classe 1950, dopo una iniziale detenzione al Beccaria e in altri istituti di reclusione minorile, venne arrestato la prima volta a 19 anni nel 1969 e una seconda volta agli inizi del 1972, rimanendo in stato di detenzione fino alla prima evasione del luglio del 1976. Riarrestato a febbraio del 1977, è poi rimasto ininterrottamente, tranne per i 20 giorni all’ulteriore evasione del luglio del 1987, in situazione di carcerazione totale, fino alla concessione della semilibertà ad ottobre 2013. Quindi per 36 anni. La semilibertà si interruppe a giugno del 2014 quando Vallanzasca venne arrestato in flagranza a seguito di un taccheggio in un supermercato a Milano. “È un arco temporale detentivo di 47 anni che va dal 1972 al 2019, con un intervallo complessivo di meno di un anno per le due evasioni degli anni Settanta e di otto mesi di semi-libertà: un record italiano”, aggiunge Steccanella, ricordando che quando Vallanzasca iniziò la detenzione “presidente Usa era Nixon e dell’URSS Breznev, era in pieno corso la guerra del Vietnam e due Paesi confinanti col nostro (Grecia e Spagna) vivevano ancora sotto il giogo di dittature militari di stampo fascista”. Vallanzasca è stato condannato a quattro ergastoli e 295 anni di reclusione. Fra i reati, concorso in omicidio, evasione, sequestro di persona, furto, detenzione e uso di armi, tentato omicidio, lesioni, rapina, associazione per delinquere. L’odissea giudiziaria di Renato Vallanzasca - “Il presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano (Giovanna Di Rosa, già componente del Csm, ndr) gode della mia massima stima, ma quanto accaduto nel caso in oggetto dimostra l’assurdo di un sistema organizzativo”, puntualizza Steccanella, sottolineando in particolare come il continuo turn over fa sì che “ogni singolo magistrato che si trova quel giorno in udienza adotti decisioni che quello successivo disattende, risultando quindi incomprensibili”. “Il primo volle il rapporto carcerario, il secondo manco lo citò, il terzo rinviò per l’alloggio, il quarto volle una sentenza vecchia di 45 anni e il quinto ne suggerisce la rinuncia e io mi arrendo”, il laconico commento del penalista milanese. “Ho assolto per oltre quattro anni con il massimo impegno e senza alcun compenso al solo fine di consentire per una persona che aveva trascorso 50 anni in carcere il rispetto della nostra Costituzione che, contrariamente alla vulgata, non prevede che si debba “marcire in galera” per un tentato furto di biancheria intima di sei anni fa”, aggiunge l’avvocato di Vallanzasca. “Vallanzasca è sopravvissuto alla propria leggenda malvagia, non ridiamogli lustro creando un simbolo della detenzione, tornare alla normalità è la sua richiesta e concedergliela è la vera vittoria di uno Stato democratico, che non può e non deve aggrapparsi alle leggende: un Paese civile premia il sopravvissuto a 50 anni di galera”, conclude quindi Steccanella. E il diretto interessato? “Voglio essere utile ai giovani, mandatemi in una comunità”: così pochi giorni prima del rigetto delle istanze Vallanzasca aveva scritto ai giudici milanesi. E a chi gli contestava di non aver mai chiesto perdono alle vittime o ai parenti di queste, “io dico per l’ennesima volta, la mia è una decisione mirata proprio perché trattasi del Silenzio Che Si Deve Come Il Massimo Rispetto Per le Vittime”. Scritto proprio così, con le maiuscole. “Non c’entra con la mafia”: il Tar riabilita l’impresa. Ma il titolare si è suicidato Corriere della Sera, 10 luglio 2020 La Cosiam avrebbe voluto partecipare ai lavori per la ricostruzione in Abruzzo ma era stata estromessa. Il proprietario non solo non era malavitoso ma aveva anche denunciato una banda di estorsori. A distanza di un anno e mezzo da una interdittiva antimafia e dopo il suicidio dell’imprenditore che ne era oggetto, il Tar del Lazio annulla tutti i provvedimenti adottati dal ministero dell’Interno e riabilita la Cosiam, di Riccardo Greco, imprenditore che si era ribellato ai suoi estortori, denunciandoli e facendoli arrestare. Al centro della vicenda c’è una delle società edili più grandi di Gela, entrata nella spirale del sistema delle certificazioni antimafia perché avrebbe voluto partecipare alle gare d’appalto per la ricostruzione dell’Abruzzo. Nel dicembre del 2018 il Ministero dell’Interno - struttura di missione prevenzione e contrasto antimafia Sisma - adottò con un decreto l’informativa antimafia interdittiva nei confronti della società gelese. Con lo stesso decreto venne rigettata l’iscrizione della società nell’anagrafe antimafia degli esecutori dei lavori di riqualificazione dell’Abruzzo dopo il terremoto avvenuto nel 2016. Ad un anno e mezzo da quel decreto, oggi il Tar del Lazio (presidente Francesco Arzillo, consigliere Vincenzo Blanda e Anna Maria Verlengia consigliere estensore) annulla il decreto e riabilita la società. L’interdittiva antimafia per la Cosiam srl era stata emessa sul “presupposto della sussistenza...del pericolo del tentativo di infiltrazione mafiosa”. I legali della società, avv. Giuseppe Aliquo’ e Franco Coccoli, chiesero l’annullamento del decreto del Ministero dell’Interno per violazione e falsa applicazione dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, dell’applicazione del principio di libertà di iniziativa economica, del principio di certezza del diritto; eccesso di potere: sviamento della causa tipica, travisamento ed erronea valutazione dei fatti, difetto di istruttoria, illogicità’ ed ingiustizia manifesta. L’interdittiva era stata emessa perché il titolare, Rocco Greco, conosciuto nella città siciliana come “Riccardo”, in passato era stato vittima di richieste illecite da parte di sodalizi di stampo mafioso: da qui l’assunto secondo cui il suo comportamento avrebbe integrato “forma prototipica di situazione a rischio di infiltrazione criminale in quanto anche soggetti semplicemente conniventi con la mafia per quanto non concorrenti, nemmeno esterni, con siffatta forma di criminalità, e persino imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni, sono passibili di informativa antimafia”. Un “peso” insostenibile per l’imprenditore, che i propri aguzzini aveva denunciato, dando modo ad altri titolari di aziende di seguire il suo esempio: decise di farla finita con la propria vita a fine gennaio dello scorso anno, qualche giorno dopo la pubblicazione dell’ordinanza del Tar con la quale veniva rigettata la sua richiesta di annullamento degli atti ministeriali. La Corte Costituzionale boccia il decreto sicurezza: “Sì a iscrizione all’anagrafe dei migranti” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 luglio 2020 La norma definita “irragionevole”. Le eccezioni sollevate dai tribunali di Milano, Salerno e Ancona. È una bocciatura totale, quella sancita dalla Corte costituzionale sulla preclusione del diritto di iscrizione all’anagrafe dei Comuni per gli stranieri che chiedono asilo in Italia. La norma è contenuta nel primo Decreto sicurezza targato Matteo Salvini, varato dal governo a maggioranza lega-Cinque stelle nell’ottobre 2018, ed è stata dichiarata dai giudici della Consulta irragionevole in violazione dell’articolo 3 della Costituzione: quello che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione” o di altro genere, e impegna lo Stato a “rimuovere gli ostacoli” che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Per la Corte la mancata iscrizione all’anagrafe, da cui derivano una serie di altri diritti, sancisce una “disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti. Ma a parte questa violazione sul piano dei diritti riconosciuti dalla legge fondamentale della Repubblica, c’è anche un’altra ragione per cui quella preclusione è stata dichiarata “irragionevole”; stavolta sul versante degli obiettivi che lo Stato avrebbe dovuto raggiungere con il decreto fortemente voluto dall’ex ministro dell’Interno. La mancata registrazione all’anagrafe, secondo i giudici costituzionali è viziata da una “irrazionalità intrinseca, poiché la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza”. Dunque è contraddittoria rispetto anche allo scopo perseguito da chi l’ha introdotta. Secondo l’Asgi (associazione studi giuridici sull’immigrazione), al febbraio scorso già 19 sentenze di tribunali ordinari avevano dato ragione a chi chiedeva di “by-passare” la norma contestata. Altri quattro (per l’appunto Milano, Salerno, Ancona e Ferrara) avevano chiamato in causa la Consulta per verificare la concordanza degli articoli del decreto sicurezza con la Costituzione. Semilibertà revocabile solo con pieno giudizio di merito sull’idoneità del regime di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2020 Corte di cassazione -Sezione I - Sentenza 9 luglio 2020 n. 20512. La semilibertà dal regime carcerario accordata al condannato o all’internato non può essere revocata solo sulla presa d’atto di avvenute violazioni del regime. Non basta, ad esempio, la denuncia dei carabinieri che rilevano la mancata presenza del semilibero a casa, in occasione di un controllo, e che segnalano l’assenza di due/tre giorni dal lavoro apparentemente ingiustificata. Tali presupposti di fatto non possono far scattare da parte del giudice la decisione assunta de plano della cancellazione del beneficio. La revoca, infatti, si giustifica con un giudizio ad hoc e completo di inidoneità del condannato a godere del trattamento di favore. La Corte di cassazione con la sentenza depositata il 9 luglio (n. 20512) ha così confermato la centralità del risultato rieducativo e di reinserimento della persona nella valutazione sull’idoneità o meno della condizione. Per tali motivi la Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza del tribunale di sorveglianza che aveva, appunto, revocato il beneficio fondandosi apoditticamente sulle avvenute violazioni, certificate dalle denunce dei carabinieri. I rilievi erano consistiti nel non aver trovato in occasione di un controllo la persona presso la propria abitazione e di aver rilevato almeno due assenze ingiustificate dal lavoro. Ma le giustificazioni addotte dal ricorrente - di non essere stato in casa, per essersi recato a festeggiare il capodanno in altro luogo coi propri familiari e di aver fornito la causa di un malessere transitorio, tanto al datore di lavoro quanto agli stessi Carabinieri - non erano state considerate nell’ambito di un complessivo giudizio di valutazione sulla validità o meno di un percorso positivo del semilibero, al di là delle violazioni accertate. Conclude la Corte affermando che il dato qualitativo della riabilitazione del semilibero è preponderante rispetto al dato quantitativo delle condotte poste in essere e contrarie al regime, a meno che il numero considerevole di esse costituisca in sé quella gravità del comportamento tale da giustificare la revoca, che va sempre valutata nel merito. Campania. L’allarme del Sappe: “Servono più mezzi per il trasferimento dei detenuti” di Viviana Lanza Il Riformista, 10 luglio 2020 “Gli agenti sono in sotto organico, non retribuiti degnamente, con poca formazione e aggiornamento professionale, impiegati in servizi quotidiani ben oltre le nove ore di servizio, con mezzi di trasporto dei detenuti spesso inidonei a circolare per le strade, fermi nelle officine perché non ci sono soldi per ripararli o con centinaia di migliaia di chilometri già percorsi. Questo fa capire ancora di più come e quanto è particolarmente stressante il lavoro in carcere per le donne e gli uomini della polizia penitenziaria e dei nuclei traduzioni e piantonamenti”. È l’allarme lanciato dal segretario generale del Sappe, Donato Capece. È un nuovo grido di dolore che arriva dal mondo del carcere. Nei penitenziari la vita è difficile non solo per i detenuti. I sindacati della polizia penitenziaria denunciano condizioni di lavoro ai limiti, scarsi investimenti in risorse e in formazione e un allarme per il crescente numero di episodi critici all’interno degli istituti di pena. Nei quindici penitenziari della Campania lavorano in totale 3.902 agenti su una pianta organica di 4.108, e sebbene la loro presenza copra l’89% del personale presente nelle varie strutture penitenziarie (a fronte di un misero 2,17% di educatori) riscontrano problemi nella gestione quotidiana del loro lavoro. Una delle maggiori criticità riguarda la gestione degli spostamenti dei detenuti, un aspetto che si collega alla tutela dei diritti degli stessi reclusi, in primis quello alla salute. I trasferimenti sono resi difficili dalla carenza di risorse e mezzi. Le auto con cui gli agenti dovrebbero trasferire i detenuti dal carcere al Tribunale, in occasione delle udienze dei processi, oppure dal carcere a strutture ospedaliere, nel caso di detenuti che hanno bisogno di particolari cure o visite specialistiche, non bastano per effettuare tutti gli spostamenti che si rendono necessari, e quelle che sono a disposizione sono in buona parte auto vecchie o senza adeguata manutenzione. Alcuni giorni fa il Sappe ha organizzato una manifestazione a Roma per accendere i riflettori sui problemi che la categoria denuncia da tempo. “Bonafede sveglia!”, è stato lo slogan con cui si è sollecitato un intervento del Ministro. “Siamo passati dalle 378 aggressioni agli agenti del primo semestre 2019 ai 502 del successivo semestre, dai 737 ai 1.119 telefonini rinvenuti e sequestrati ai detenuti, dalle 477 minacce-violenze-ingiurie alle 546, dalle 3.819 alle 4.179 manifestazioni di protesta. Senza dimenticare - aveva dichiarato Capace - le recenti rivolte in oltre trenta strutture detentive sull’intero territorio nazionale. E tutto questo in assenza di provvedimenti utili a garantire la sicurezza e l’incolumità del personale di polizia penitenziaria”. Proposte ci sono ma sono ferme su un tavolo. “Sembra che le proposte per rivedere i circuiti e le norme dell’ordinamento penitenziario siano state abbandonate in qualche cassetto polveroso del Ministero”, aveva sottolineato il segretario generale del Sappe durante la manifestazione del primo luglio scorso, respingendo anche generalizzazioni sulla categoria a seguito dell’iscrizione di alcuni agenti della penitenziaria nel registro degli indagati per i pestaggi denunciati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Milano. Carcere di Opera, “al 41bis non si applicano le pronunce della Consulta” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2020 La denuncia dell’avvocato Eugenio Rogliano, che assiste un recluso nell’istituto milanese. Nonostante la Consulta abbia dichiarato incostituzionale il divieto dello scambio di oggetti di modico valore tra detenuti al 41bis, alcune carceri lo vietano tuttora. A denunciarlo è l’avvocato Eugenio Rogliano che assiste un recluso nel carcere milanese di Opera. Nel corso dello svolgimento di recenti colloqui visivi, il suo assistito gli ha riferito che il Personale di Polizia Penitenziaria in servizio presso la sezione 41bis della Casa di Reclusione persisterebbe nel non dare esecuzione al disposto della recente pronuncia della Corte costituzionale (97/ 2020) con la quale è stata dichiarata la parziale illegittimità dell’art. 41bis, comma 2- quater, lett. f), della Legge sull’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata “la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti” anziché “la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità”. Però, secondo quanto riferisce il detenuto all’avvocato Rogliano, gli agenti della polizia penitenziaria “perdurerebbero nell’inibire ai detenuti l’esercizio del diritto ad essi riconosciuto in seguito alla sentenza della Corte costituzionale, ciò anche attraverso la redazione di rapporti disciplinari che ad oggi assumono più la valenza di atti dimostrativi che non di adempimento delle prescrizioni normative vigenti”. Se ciò fosse vero, vuol dire che si compirebbero delle violazioni. Eppure, come detto, la Corte costituzionale ha sentenziato chiaro e tondo che cade il divieto assoluto di scambio di oggetti di modico valore, come generi alimentari o per l’igiene personale e della cella, per i detenuti sottoposti al regime del 41bis appartenenti allo stesso “gruppo di socialità”. Il divieto legislativo, comprensibile tra detenuti assegnati a gruppi di socialità diversi, risulta invece irragionevole se esteso in modo indiscriminato anche ai componenti del medesimo gruppo. La Consulta ha rilevato che, se è ben comprensibile prevedere il divieto di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti assegnati a gruppi di socialità diversi, risulta invece irragionevole l’estensione indiscriminata del divieto anche ai componenti del medesimo gruppo. I quali, potendo già agevolmente comunicare in varie occasioni, non hanno di regola la necessità di ricorrere a forme nascoste o criptiche di comunicazione, come lo scambio di oggetti cui sia assegnato convenzionalmente un certo significato, da trasmettere successivamente all’esterno attraverso i colloqui con i familiari. Ma a quanto pare ancora non tutti i penitenziari che ospitano il 41bis si stiano adeguando. Non è la prima volta che alcuni istituti non si adeguano subito alle sentenze. C’è il caso della Cassazione, quando ha riconosciuto ai carcerati sottoposti al 41bis il diritto a due ore d’aria, ma è accaduto che al carcere di Spoleto non avrebbero - al tempo rispettato questo diritto e il detenuto Alessio Attanasio ha protestato. Poi ci sono altri casi simili, ma che riguardano le ordinanze dei magistrati di sorveglianza. Non di rado accade, in generale nelle carceri, che se c’è una decisione di segno negativo, quella viene eseguita immediatamente, al contrario, quando raramente i reclami vengono accolti, arrivano delle resistenze e i reclusi sono costretti a fare richiesta di ottemperanza. Un problema, quest’ultimo, rilevato anche dal garante nazionale delle persone private della libertà alla relazione dell’anno scorso. Bergamo. In tutto tre detenuti contagiati, così il carcere è rimasto immune al Covid di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 10 luglio 2020 La Casa circondariale scelta per celebrare la Polizia penitenziaria, a 203 anni dalla Fondazione. I colloqui via Internet. La direttrice Mazzotta: “Fondamentale intervenire subito, già nei primi giorni eravamo a colloquio con il Papa Giovanni”. Il numero dei detenuti oscilla tra il prima e il dopo, perché la pandemia ha fermato i reati più comuni. Spaccio, furti. Un anno fa superava i 500. A maggio è sceso a 400, ora è risalito a 430. È facile, invece, fare calcoli sul contagio: solo 3 ospiti della casa circondariale di via Gleno hanno contratto il Covid. Sono tutti guariti. Proprio il carcere di Bergamo è stato scelto dal Provveditorato della Lombardia per celebrare i 203 anni dalla fondazione della polizia penitenziaria (in ogni regione è stato selezionato un solo carcere per limitare i contatti). Vuole dire molto dopo il burrascoso periodo delle inchieste e, ora, il difficile lockdown, segnato anche dalla perdita di don Fausto Resmini. “È stata una scelta per testimoniare la vicinanza dell’amministrazione penitenziaria al territorio - spiega la direttrice Teresa Mazzotta - e l’apprezzamento verso il corpo di polizia penitenziaria. C’è chi tra gli agenti ha vissuto in prima persona l’esperienza del virus e nonostante questo siamo riusciti a lavorare bene, tutti hanno capito che era importante la loro presenza”. Per la sicurezza, certo, specie nei giorni più tesi delle rivolte in altre carceri. Ma anche “per il sostegno e il conforto - prosegue Mazzotta. Sono stati veri punti di riferimento”. Per esempio, nello svolgimento dei colloqui con le famiglie o delle udienze di convalida, tutto a distanza, spesso con connessioni internet da inventarsi al momento. Dal punto di vista sanitario “è stato fondamentale intervenire subito - dice la direttrice - già il lunedì dei primi casi eravamo a colloquio con il Papa Giovanni e abbiamo provveduto a dotarci dei dispositivi di protezione individuale”. In quella fase, i colloqui erano ancora consentiti, ma si usava già la mascherina. Ha giocato a favore avere all’interno un dirigente sanitario che è virologo. Per il resto, “molto ha fatto il territorio: il Comune, con il sindaco Gori, ci ha donato pc che con i telefonini ci hanno permesso di organizzare i colloqui, ma anche di completare le lezioni scolastiche”. Roma. Progetti che valgono la pena di Simone Schiavetti Left, 10 luglio 2020 Dal birrificio artigianale alla produzione di mascherine. La Onlus “Semi di libertà” organizza progetti che puntano alla formazione, emancipazione ed autonomia economica dei detenuti. Tra successi contro la recidiva, pregiudizi e l’eterno problema del sovraffollamento. Nel film “Le ali della libertà”, pellicola tratta da un racconto di Stephen King, un detenuto di nome Brooks torna libero dopo una vita intera passata in galera senza alcun tipo di programma di recupero. Ormai anziano, persi tutti i rapporti umani fuori dalle sbarre, catapultato in un mondo reale che non gli appartiene, uno dei pochi pensieri che riesce a fare è “magari dovrei comprare una pistola e rapinare il supermercato”. Tornare a delinquere, ripetere il reato. “Perché è proprio questo il problema più grande. Quando esci dal carcere, se non hai formazione, relazioni nuove rispetto a quelle che avevi prima, non hai scelta se non la recidiva del reato”. A parlare è Paolo Strano, che dal 2013 presiede Semi di libertà, Onlus romana che si occupa di contrastare la recidiva tra i detenuti attraverso progetti che puntano alla formazione, all’emancipazione e all’autonomia economica. Perché “in carcere - racconta Paolo - ci sono tante potenzialità inespresse, persone con idee che non riescono a valorizzare se manca un percorso di reinserimento. Cosa che, ricordo, è un dettato costituzionale. La pena deve tendere alla rieducazione del condannato”. In questo senso sono tanti i progetti messi in campo dalla Onlus nel corso degli anni, due dei quali, Vale la pena ed Economia carceraria, cresciuti a tal punto da diventare spin off autonomi. Il primo riguarda la creazione di birra artigianale fatta insieme ai detenuti del carcere di Rebibbia, progetto realizzato con il supporto di mastri birrai italiani nonché, nella fase iniziale, del Miur e del ministero di Giustizia. Economia carceraria riguarda invece produzione e vendita di prodotti fatti da detenuti, acquistabili sia in uno shop romano che online, tramite la piattaforma rete nazionale di Economia carceraria, adatta a promuovere i prodotti e supportare le varie economie carcerarie sparse sul territorio. Attività che ha alla base “il rifiuto di qualsiasi forma di assistenzialismo - prosegue Paolo - e che punta a dare strumenti di sostenibilità economica alle persone”. Ovvero strade da poter percorrere una volta fuori dalla galera. Nuovi progetti stanno per partire, come Social hub, che ha l’intento di creare start up e fare formazione di micro imprenditorialità ai detenuti, o A piede libero, che punta alla realizzazione di sandali di alta qualità. Il più attuale però è quello che vede Semi di libertà collaborare con l’associazione Fevoss di Verona per la realizzazione e la distribuzione di mascherine consegnate in varie carceri italiane. Perché i penitenziari, ai tempi del Covid-19, hanno rischiato e “rischiano tuttora di diventare bombe epidemiologiche - sottolinea Paolo. Il virus non resta certo circoscritto dalle mura. Il personale amministrativo infatti entra ed esce, rischiando di portarlo con sé”. Il problema più grande, come testimoniato dalle rivolte di pochi mesi fa in alcuni penitenziari, resta però quello del sovraffollamento. Strutturale per le carceri italiane, che in periodi di pandemia da coronavirus si aggrava assumendo i contorni di rischio per la salute causato dall’impossibilità di mantenere il distanziamento. I numeri parlano chiaro. Nel rapporto di Antigone, Il carcere al tempo del coronavirus, si legge che al 15 maggio i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 52.679 a fronte di 50.438 posti ufficialmente disponibili. A fine febbraio le presenze erano 8.551 in più, si è quindi fatto un passo avanti, ma ancora il traguardo non è stato raggiunto. In questo senso, la battaglia contro la recidiva di Semi di libertà si lega a possibili soluzioni al sovraffollamento, “per risolvere il quale - afferma Paolo - si potrebbe partire dal mettere in pratica regole già esistenti riguardo a misure alternative al carcere, come l’esecuzione penale esterna, che permette a tutte le persone alle quali è riconosciuta la non pericolosità sociale di scontare la pena o presso il domicilio o in altre strutture. Oppure l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, che autorizza la persona ad uscire dal carcere per lavorare. Così facendo, almeno un terzo dei detenuti potrebbero stare fuori, rendendo tollerabile e gestibile il numero di chi resta dentro e facilitando momenti per formarsi e lavorare a chi è fuori”. Abbassando sempre di più sia il numero dei detenuti che i casi di recidiva. Cosa che, oltretutto, avrebbe risvolti positivi sia per i conti dello Stato che per il personale carcerario. Perché se la piaga dei suicidi tra i detenuti in carcere è ben nota “la percentuale è alta anche riguardo al personale della polizia penitenziaria” precisa Paolo. Un lavoro, quello contro la recidiva e a favore dei detenuti, non facile visti i preconcetti verso la categoria. “C’è una percezione errata della realtà del carcere - afferma Paolo - e una visione radicale della questione secondo la quale il detenuto è il cattivo e deve stare dietro un muro e noi siamo i buoni”. Tutto troppo semplicistico. “Per cominciare, nella quasi totalità dei casi prima o poi quella persona uscirà dal carcere. A quel punto cosa farà? Oltretutto, siamo certi della colpevolezza di chi è in carcere? C’è un portale (errorigiudiziari.com) che raccoglie i tantissimi casi di persone che per infiniti motivi hanno fatto anni di galera senza alcuna ragione. Il 36% delle persone presenti oggi in carcere poi è in attesa di giudizio. Non sono colpevoli ma in custodia cautelare. E, statisticamente, la metà di loro alla fine risultano innocenti”. Un impegno, quello verso i detenuti, dove scarseggiano gli alleati “perché la nostra è un’attività impopolare - conferma Paolo - dal punto di vista politico pochissimi si interessano al tema. Che non è ben visto e toglie consensi”. Impegno che continua ad essere assolutamente necessario e quanto mai d’attualità. Con Paolo e la sua Onlus che proseguono a “piantare figurativamente semi per la libertà di queste persone. Semi fatti di formazione ed emancipazione”. Venezia. Carcere: i volontari sono tornati in servizio di Francesca Catalano genteveneta.it, 10 luglio 2020 Finalmente da martedì 6 i volontari sono potuti tornare a prestare servizio in carcere, seppur in modo ridotto. La conferma arriva da don Antonio Biancotto, cappellano dell’Istituto penitenziario. “Per quanto riguarda i volontari della diocesi, che seguono insieme a me l’aspetto religioso, possono entrare in carcere in due, rispetto agli otto di una volta. Loro seguono i due gruppi di ascolto della Parola di Dio, del lunedì e giovedì pomeriggio, e possono avere un massimo di 12 partecipanti” spiega il sacerdote. Nell’Istituto penitenziario, oltre a celebrare la Messa don Antonio svolge la catechesi pomeridiana ai reclusi ogni martedì e si occupa della distribuzione del vestiario. Il lungo e duro periodo di stop forzato. Ma ora che la ripartenza giunge anche in carcere, ancora forte è il ricordo dei duri mesi di lockdown. “Avevamo dovuto interrompere l’eucarestia domenicale - racconta - a cui partecipavano circa una sessantina di persone, anche di altre confessioni. Da fine febbraio fino ad inizio maggio mi è stato però permesso di svolgere ogni sabato 15 minuti di preghiera per piano”. Solo in un secondo momento, visto che il rischio per loro era più contenuto non avendo contatti con l’esterno, è stato concesso a don Antonio di svolgere la Messa in due turni: il sabato pomeriggio per un reparto e la domenica mattina per un altro. “Non possono partecipare più di 25 persone alla volta. Devono prenotarsi per tempo e la precedenza viene data a cristiani e ortodossi, inoltre devono entrare in cappella con mascherina e gel disinfettante, rispettando le regole sanitarie pur essendo tutti all’interno della stessa struttura carceraria”. Le regole infatti sono molto stringenti, tanto che detenuti, personale e don Antonio stesso sono stati più volte sottoposti al tampone, risultando tutti negativi. Durante il periodo di Coronavirus, il cappellano era l’unico che poteva entrare in carcere ad eccezione del personale di polizia penitenziaria e di due educatori. Ai volontari di tutte le associazioni era infatti negato l’accesso: “Ad un certo punto però sono riuscito ad ottenere il permesso per un volontario che mi ha aiutato nel servizio di guardaroba, altrimenti per me sarebbe stato complicato da gestire senza la collaborazione delle suore” dice. Un ascolto prezioso. “Andavo in carcere tutti i giorni per due o tre ore. Parlavo con i reclusi, - commenta - li ascoltavo e li confessavo. Un servizio che ho fatto volentieri. Venezia in quel periodo era spettrale: durante il percorso da casa al carcere non trovavo anima viva”. Durante i mesi in cui la pandemia sembrava inarrestabile, don Antonio ascoltava le preoccupazioni dei carcerati: “Erano allarmati per le loro famiglie e i loro cari. Da marzo infatti - spiega il cappellano - il Ministero di Grazia e Giustizia ha concesso che potessero svolgere gratuitamente chiamate e videochiamate anche all’estero, molte in Marocco, Nigeria, Tunisia e Colombia. Questo servizio è ancora in atto e spero rimanga perché aiuta molto ad allentare la tensione dei detenuti”. “La sommossa di marzo? Hanno capito di aver sbagliato”. Poi parla del passo indietro di coloro che hanno preso parte alla sommossa del 10 marzo, quando hanno bloccato le visite in carcere di parenti e legali: “Hanno capito di aver sbagliato. La direzione si stava muovendo nei loro confronti, precedendo l’emergenza che si stava delineando all’orizzonte con concessioni, come le videochiamate. Loro hanno protestato non per una vera necessità ma per emulare quello che stava avvenendo nelle altre prigioni”. Nel corso del lockdown i reclusi tutto sommato sono tuttavia stati tranquilli: “Vedevano che la società italiana era sotto pressione per i tanti divieti e si rendevano conto della situazione, le loro richieste infatti erano contenute”. Un periodo difficile in cui la diocesi ha donato 10 mila euro, in parte destinati ai detenuti che non possedevano nulla e in parte per l’acquisto di elettrodomestici. “Ora che i carcerati capiscono che l’emergenza in Italia è rientrata, sono tornati a chiedere soldi e sigarette” commenta don Antonio. Lungo le strade della jihad, viaggio al centro dell’orrore di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 10 luglio 2020 In “L’ombra del nemico” (Solferino) Marta Serafini, giornalista del “Corriere”, esplora le diramazioni dell’Isis. I reportage sul campo, le testimonianze, l’analisi delle strategie. Ci vogliono cautela, perspicacia, lucidità, passione, pazienza, tenacia e tanto studio per non cadere negli stereotipi di cui è disseminata la lunga storia recente del terrorismo islamico. L’ombra del nemico di Marta Serafini (Solferino editore) parte proprio da qui. Dalle trappole della semplificazione. Dagli angoli bui di un labirinto, o piuttosto di un tunnel dell’orrore, dove si mescolano voci, proclami, esplosioni, urla strazianti, immagini feroci, vittime, carnefici, burattinai e realtà talvolta così banali da diventare trasparenti. Anzi, invisibili. Così, una giornalista del “Corriere della Sera” che da bambina sognava di fare la cacciatrice di serpenti si è spinta per quattro anni negli anfratti del movimento jihadista, per esplorare i lati nascosti dei suoi tentacoli. Per trovare risposte. Sul campo, quando ha potuto, o nei meandri di internet, attraverso ricerche meticolose e interviste quasi impossibili come quella via Skype a Maria Giulia Sergio, la prima foreign fighter italiana, convertita all’Islam con il nome di Fatima e partita ventottenne da Inzago, a nord est di Milano, per unirsi al Califfato, in Siria, nel 2014. Seguiva il marito, il miliziano albanese Aldo Kobuzi, certo, ma anche i capisaldi di un indottrinamento che Marta Serafini ha tentato di sviscerare, prima che “Fatima” sparisse di nuovo, forse per sempre, inseguita da una condanna definitiva in contumacia a 9 anni, per terrorismo internazionale. Quegli unici venti minuti di conversazione, nell’estate del 2015, hanno richiesto mesi di lavoro, di indagini, di richieste respinte dalla famiglia, di inseguimenti virtuali per riuscire a intravedere soltanto qualche certezza nella confusione mentale della jihadista italiana, che cercava di reclutare perfino i suoi genitori e la stessa giornalista: “Lo Stato islamico, sappi Marta, è uno Stato perfetto”. Come ci è cascata e perché tanti ci sono cascati come lei e magari ci cascheranno ancora? Perché? È soltanto una delle domande, e forse una delle più urgenti, che hanno accompagnato l’autrice nei suoi viaggi in Medio Oriente, mentre il cuore d’Europa era sotto attacco a Parigi, dalla strage di “Charlie Hebdo” a quella del Bataclan, dagli attentati all’aeroporto di Bruxelles e all’Arena di Manchester dopo un concerto di Ariana Grande, a quelli contro il mercatino di Natale a Berlino, di nuovo in Francia, sul lungomare di Nizza, l’anno dopo sulla Rambla di Barcellona e, nel dicembre 2018, tra le bancarelle natalizie di Strasburgo. L’Isis si è attribuita bulimicamente tutto, anche le maldestre azioni di sconosciuti lupi solitari armati di un comune coltello. Ma era soprattutto nel suo allora vasto territorio che il califfo Abu Bakr Al Baghdadi controllava i rubinetti del sangue. E, per infrangere i suoi giochi di specchi, per smontare la sua sofisticata propaganda, per fermare la guerra e arginare la fuga disperata di sudditi e schiavi sopravvissuti, non bastano gli eserciti. Occorre trovare e ascoltare i testimoni. Occorre capire. Ci sono gli studiosi, gli storici, i ricercatori, l’intelligence. Spiegano le strategie del potere, le alleanze, i teatri dei conflitti, gli interessi economici in palio. E il libro di Marta Serafini dà conto di analisi e opinioni, ma è dai centri di detenzione per minori di Erbil, nel Kurdistan iracheno, che scaturiscono le pagine più illuminanti: “Non sono cattivo. Ma mi hanno addestrato per otto mesi, mi hanno insegnato a sparare e a fare la lotta” racconta Youssef, ex bambino soldato di Al Baghdadi. Gli hanno certamente fatto di peggio, gli hanno inculcato l’odio dal quale un imam ogni venerdì prova ora a disintossicarlo: “Estirpare certe idee non è possibile, si tratta piuttosto di modificarle” spiega il capo delle guardie alla giornalista. Senza attraversare le stanze devastate del Nineveh hotel di Mosul, l’albergo di lusso occupato dall’Isis dopo la conquista della città, e calpestare tappeti di bossoli o sfiorare pareti trasudanti sporcizia è più difficile percepire interamente la tragedia delle “spose di guerra” che i miliziani hanno seviziato in quei locali dopo averle costrette a indossare pacchiani abiti da sera e lingerie di seta made in China. È parlando con un medico siriano sfollato nel campo di Arbat nel Kurdistan iracheno, che l’autrice scorge i lineamenti del nemico celato nell’ombra, ma ben vivido nella memoria delle sue vittime. È accompagnando gli operatori delle organizzazioni non governative italiane e straniere che entra dietro le quinte. A bordo dell’Aquarius la cronista si trasforma in volontaria per ritrovare tra le naufraghe la mamma di Mohamed, un bimbo smarrito di sei anni. Assiste al recupero di una partoriente, con il neonato ancora attaccato alla madre dal cordone ombelicale. Riprende il taccuino degli appunti. I capitoli rimbalzano dalle emergenze umanitarie alle rotte della droga, con ramificazioni in Afghanistan e l’ombra lunga dell’Isis per puro amore del dio quattrino. Ed è entrando a Pol-i-Charkhi, il carcere di Kabul, che Marta Serafini si conquista sul campo l’opportunità di ascoltare come funziona quel commercio dalla voce di uno dei protagonisti. Non tutti gli enigmi troveranno risposta. Conserva zone d’ombra il destino dei famigliari di prigionieri dell’Isis, donne e bimbi in molti casi apolidi rinchiusi nel campo di Al Hol: “Voglio sentire cos’hanno da dire - s’intestardisce lei. Voglio sapere come vengono trattati”. Senza giudicarli, senza condannarli. Cercando solo il bandolo della matassa. “C’è il rischio di tensioni sociali”. Allarme di Lamorgese per settembre di Andrea Arzilli Corriere della Sera, 10 luglio 2020 La ministra degli Interni: “Vedremo gli esiti di questo periodo di grave crisi. Ci sono cittadini che non possono provvedere ai propri bisogni”. C’è un “rischio concreto” che la crisi economica legata al Covid produca tensioni sociali in autunno”. La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, lancia l’allarme ad Agorà Estate, su Rai 3, segnalando il timore che la recessione possa sfociare in episodi di rabbia sociale. Il quadro racconta di serrande abbassate, di aziende che chiudono, di interi settori in ginocchio, come commercio e turismo, e di un tasso di disoccupazione che cresce: insieme a qualche ritardo nell’erogazione degli ammortizzatori sociali, ma soprattutto allo sciacallaggio delle mafie che si insinuano tra le difficoltà economiche di negozianti e imprenditori prestando soldi a usura. Gli effetti della crisi sull’economia del Paese possono diventare l’innesco di un autunno particolarmente caldo. E quindi anche terreno fertile, è quanto si teme al Viminale, per chi avesse intenzione di cavalcare sotto il profilo politico le possibili proteste di piazza. “Il rischio è concreto perché a settembre-ottobre vedremo gli esiti di questo periodo di grave crisi economica”, dice Lamorgese prima di spiegare da dove nasce la sua preoccupazione. “Vedo negozi chiusi, cittadini che non hanno nemmeno la possibilità di provvedere ai propri bisogni quotidiani - riflette la titolare del Viminale -. Il governo ha posto in essere tutte le iniziative necessarie per andare incontro a queste esigenze, ma il rischio è concreto”. Il precedente di CasaPound - Già qualche settimana fa la ministra aveva segnalato il pericolo che la crisi fosse l’habitat perfetto per la criminalità organizzata. E aveva rivolto un appello agli imprenditori affinché si rivolgessero alle istituzioni, e non agli usurai, “perché in gioco non c’è solo la sopravvivenza delle vostre attività ma anche la salvaguardia dell’economia legale”. Adesso a quell’allarme se ne aggiunge un altro, ovvero che gli estremismi di destra e di sinistra, sfruttino il malcontento generale facendo scoccare qualche scintilla nel corso nelle prevedibili proteste di autunno. In più, c’è il timore che le forze dell’ordine diventino il bersaglio degli esagitati. Qualche segnale di tensione si è registrato già durante i mesi in cui le misure anti contagio erano particolarmente restrittive, quando le forze di polizia hanno dovuto far rispettare il distanziamento sociale e il divieto di assembramento. In alcuni casi si è quasi arrivati allo scontro, talvolta perché c’era qualcuno come CasaPound a fomentarlo. “Vedo un atteggiamento di violenza contro le forze di polizia assolutamente da condannare: a loro deve andare il ringraziamento mio e quello di tutti gli italiani perché garantiscono l’ordine democratico e la sicurezza dei cittadini”, dice Lamorgese secondo cui, anche se i numeri del contagio sembrano sotto controllo, la priorità del governo continua ad essere quella di evitare nuovi focolai di infezione, con riferimento specifico all’attualità dei casi di Covid che arrivano dall’estero. Nuovi focolai - “L’obiettivo è evitare il crearsi di nuovi focolai, quindi stiamo ponendo in essere tutte le attività necessarie per monitorare, controllare e evitare eventuali arrivi che potrebbero creare un nuovo focolaio”. Tutto per scongiurare un nuovo lockdown che, oltre a sancire il ritorno dell’emergenza sanitaria, potrebbe complicare la situazione economica. “Non possiamo ignorare la possibilità di un ritorno del virus - dice ancora la ministra. Ma proprio per questo i nostri atteggiamenti devono essere ancora più responsabili, perché dobbiamo evitare un nuovo lockdown”. Parole che però vengono criticate dall’opposizione. “L’allarme di Lamorgese era facilmente preventivabile - dice Mariastella Gelmini (FI) -: non è il Covid di per sé ad amplificare il malcontento popolare, ma la lentezza e l’inadeguatezza delle soluzioni messe in campo dal governo per superare la crisi economica”. Migranti. Dalla Consulta un altro colpo ai decreti sicurezza di Salvini di Leo Lancari Il Manifesto, 10 luglio 2020 Per i giudici è incostituzionale il divieto di iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo. Non solo non assicura un maggior controllo del territorio, ma crea una “irragionevole” disparità di trattamento verso i rifugiati, per i quali diventa più difficile avere accesso ad alcuni servizi. La Corte costituzionale interviene ancora una volta sui decreti sicurezza e ancora una volta lo fa per bocciare parti dei provvedimenti fiore all’occhiello di Matteo Salvini (nel 2019 aveva bocciato i super poteri ai prefetti). Oggetto della sentenza di ieri è il divieto per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe comunale previsto dal primo decreto sicurezza del 2018. Contro la misura avevano fatto ricorso i Tribunali di Milano, Ancona e Salerno ritenendo che non ci fossero i requisiti di necessità e urgenza tali da giustificare il suo inserimento in un decreto, come previsto dall’articolo 77 della Costituzione. Ma anche perché vedevano nella norma introdotta da Salvini un contrasto con altri due articoli della Carta, il 2 e il 3, che garantiscono rispettivamente i diritti inviolabili dell’uomo e la pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge dei cittadini. Pur respingendo la prima parte del ricorso, relativa all’articolo 77 della Costituzione, i giudici hanno ritenuto il divieto incostituzionale perché in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, che prevede l’uguaglianza tra tutti i cittadini davanti alla legge “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Una norma che crea una “irragionevole disparità di trattamento” visto che rende più difficile per i rifugiati accedere a servizi come, ad esempio, la patente, la dichiarazione di inizio attività o l’Isee. La decisione della Consulta arriva nel giorno in cui al Viminale si sarebbe dovuta tenere la terza riunione della maggioranza per modificare i decreti sicurezza, slittata al 14 luglio per impegni alla Camera di alcuni dei partecipanti. Nonostante il rinvio inevitabilmente la sentenza finirà col pesare nella riscrittura, ormai prossima, dei provvedimenti. Non a caso dalla Lega sono subito arrivate critiche alla sentenza: “Anche sui decreti sicurezza qualche giudice, come accade troppo spesso, decide di fare politica sostituendosi al parlamento”, accusa Matteo Salvini. Unanime, invece, la soddisfazione espressa dalla maggioranza. A partire dal M5S, che pure governava con la Lega quando i decreti sono stati approvati dal parlamento: “Il tempo è galantuomo”, commenta il presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia: “Nelle riunioni dell’allora maggioranza avevamo detto più volte alla Lega che l’abolizione della norma sull’iscrizione anagrafica sarebbe stata incostituzionale. Sordi e ottusi, sono andati avanti con minacce e ricatti, scambiando le leggi per spot”. Di “scelte propagandistiche volute da Salvini” parla anche il viceministro dell’Interno Matteo Mauri (Pd): “Se l’idea sbandierata era quella di ottenere più sicurezza - dice - in realtà si è ottenuto il contrario”. Per Erasmo Palazzotto di LeU, invece, “non possiamo aspettare che la Corte costituzionale si sostituisca alla politica: occorre riscrivere le leggi sull’immigrazione al fine di costruire una sicurezza reale”. Emma Bonino e Riccardo Magi di +Europa, infine, polemizzano con i 5 Stelle dicendosi “sorpresi” che tra coloro che oggi esprimono soddisfazione per la decisione della Consulta ci siano anche “coloro che votarono la conversione di quel decreto e che non lo hanno ancora modificato neppure dopo il cambio di esecutivo”. La palla adesso è di nuovo al Viminale, dove la maggioranza tornerà a riunirsi martedì prossimo. Dopo le osservazioni fatte a suo tempo dal presidente Mattarella, la sentenza della Consulta potrebbe adesso accelerare ulteriormente un processo di revisione che ha già percorso un buon tratto di strada, come ricordava ieri mattina la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: “Arriveranno in tempi brevi modifiche che potrebbero andare oltre i rilievi del presidente Mattarella e riguardare il sistema di accoglienza e la protezione umanitari”, ha spiegato la titolare del Viminale. Unhcr: in Libia 11 “Centri di detenzione” ufficiali con oltre 2.360 migranti ansamed.info, 10 luglio 2020 Ma c’é il cono d’ombra di quelli clandestini. L’Unhcr torna a chiedere la fine delle detenzioni dei migranti in Libia, riferendo che nel Paese ci sono 11 centri ufficiali dove all’inizio di luglio erano rinchiuse 2.362 persone, insieme a tante altre strutture irregolari delle quali non si hanno informazioni precise. Sono 11 i “centri di detenzione” per migranti gestiti dal governo di Tripoli in Libia attraverso il “Direttorato per la lotta alla migrazione illegale” (Dcim) e al 3 luglio vi erano rinchiuse 2.362 persone. Vi sono però anche strutture “non ufficiali”, “non autorizzate”, su cui l’Onu e altre organizzazioni “non hanno informazioni precise”. Lo ha ricordato all’Ansa un portavoce dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. “Nelle ultime settimane” vi è stato un “aumento” dei migranti detenuti nei centri detenzione dell’ovest e del centro della Libia, ha riferito il portavoce, “in gran parte quale conseguenza delle numerose operazioni” di blocco e salvataggio di barconi davanti alle coste di quelle due parti del Paese. Appello per la fine della detenzione arbitraria La situazione “nei centri ufficiali rimane motivo di preoccupazione specialmente per le misere condizioni di vita, sovraffollamento e igiene. La distribuzione di cibo è spesso incostante”, ha affermato il portavoce dell’agenzia Onu la quale “ha perorato a lungo una fine della detenzione arbitraria di rifugiati e migranti in Libia” chiedendo un “ordinato rilascio” dei detenuti e “alternative alla detenzione” che per chi è intercettato o salvato in mare. I centri ufficiali nell’area di Tripoli sono quelli di Triq al Sikka, Abu Salim e Janzour, mentre nel nord-ovest le strutture sono a Zwara, Sabratha, Azzawaya Abu Issa, Azzawaya Al Nasr, Giryan al Hamra e Zintan (Thaher al Jabal), ha ricordato il portavoce Unhcr. All’ “ovest” vi sono i centri di Zliten e Suq al Khames (Khums). Unhcr, centri da chiudere anche causa Covid La chiusura dei centri di detenzione per migranti nel Paese nordafricano “è urgente specialmente ora che la Libia continua ad essere alle prese con l’epidemia da coronavirus”. Lo ha sottolineato un portavoce Unhcr ricordando che “i richiedenti asilo detenuti sono particolarmente vulnerabili ed esposti, viste le precarie condizioni di salute e quelle di sovraffollamento esistenti nei centri di detenzione”. Il portavoce, in dichiarazioni all’Ansa, ha ricordato che dall’inizio della pandemia l’Alto commissariato Onu “è stato in grado di assicurare il rilascio di alcuni richiedenti asilo particolarmente vulnerabili”. L’Unhcr inoltre “si è unito ad altri partner umanitari per distribuire kit igienici in tutti i centri ufficiali di detenzione governativi a maggio-giugno nella parte ovest ed est della Libia” quale misura preventiva della diffusione del virus, ha segnalato ancora il portavoce. Germania, aumentano i reati razzisti dell’estrema destra di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 10 luglio 2020 Oltre 22.300 reati con movente di estrema destra: il 10% in più del 2018. È l’inquietante cifra dell’ondata di razzismo fotografata nel rapporto annuale sui delitti politici pubblicato ieri dall’Ufficio per la protezione della Costituzione (BfV), il controspionaggio federale. In Germania nel 2019 sono calati del 15% gli atti di violenza fra le fila dell’ultradestra, ma allo stesso tempo sono aumentate di ben il 17% le aggressioni contro la comunità ebraica. “Antisemitismo e islamofobia continuano a rimanere al centro dell’azione degli estremisti di destra” conferma il ministro dell’Interno, Horst Seehofer, preoccupato perché secondo l’intelligence “l’estrema destra attualmente rappresenta la più grande minaccia alla sicurezza nella Bundesrepublik”. Più dell’estrema sinistra che l’anno scorso ha fatto registrare 6.400 reati (+40%, ma con il 10% in meno di casi violenti), e perfino peggio degli islamisti connessi alla galassia di Daesh “anche se la minaccia resta ancora elevata, con i salafisti che continuano ad aumentare in tutta la Germania”. Un nemico pericoloso almeno quanto “gli attacchi informatici e l’attività di disinformazione di potenze straniere per destabilizzare il paese”, che il ministro della Csu ricorda pubblicamente e il BfV identifica come opera dei servizi di Mosca e Pechino. Eppure, come annota la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, la presentazione del rapporto serve soprattutto al leader del partito bavarese come “autocelebrazione”, al punto che Seehofer ricorda come “nessuno ha fatto più di me nel contrasto al razzismo dell’ultradestra”. Lo scandisce con tono quasi convincente, dopo che i relatori del BfV hanno citato gli ultimi tre morti “eccellenti” della violenza neonazista, tra cui spicca il borgomastro Cdu, Walter Lübcke, assassinato nel terrazzo di casa in Assia il 2 giugno 2019. Di fatto, il terrorismo nero non si può più nascondere né sminuire, fuori e dentro le istituzioni, dopo che l’anno scorso è stata avviata la sorveglianza del BfV sulle attività di “Der Flügel”: l’”Ala” filo-nazista di Alternative für Deutschland guidata dal deputato turingiano Bjorn Höcke, di cui farebbe parte almeno un iscritto su cinque. Più o meno 7.000 militanti uniti dal comune obiettivo di “escludere, diminuire, e in ultima analisi privare dei diritti migranti, musulmani e dissidenti politici” come si legge nel rapporto del BfV. L’ennesimo segnale di come “l’estremismo in questo momento proviene da destra. E bisogna davvero tornare alla storia della Germania-Ovest per misurare una fase terroristica di uguale portata” puntualizza Georg Maier, ministro degli Interni della Turingia (Spd), in prima fila tra chi pretende dal governo Merkel “una decisa azione contro l’ultradestra che sta mettendo sotto pressione la democrazia”. A cominciare dall’anonimato su internet: nonostante la nuova legge anti-odio obblighi i gestori a segnalare alla polizia parole, immagini e video razzisti, risulta ancora quasi impossibile risalire all’identità degli autori. Stati Uniti. In California i condannati alla pena capitale muoiono di coronavirus di Riccardo Noury Coriere della Sera, 10 luglio 2020 In California è in vigore dallo scorso anno una moratoria sulla pena di morte. Ma i condannati alla pena capitale muoiono ugualmente: di Covid-19. Nella nota prigione di San Quintino la pandemia è entrata con una velocità autostradale. I contagi a inizio luglio erano 1.436: di questi, 1.369 risultavano ancora “attivi”, 48 erano stati “risolti” (gli aggettivi sono quelli dei comunicati ufficiali) e di 13 prigionieri non si sa come stiano e se siano ancora vivi, dopo che sono stati rilasciati. I morti, finora, sono stati sei. Di questi, cinque erano in attesa di un’esecuzione, da decenni, che con ogni probabilità non avrebbe mai avuto luogo. I loro nomi: Joseph Cordova (75 anni) Richard Stitely (71), Scott Erskine (57), Dewayne Michael Carey (59) e Manuel Machado Alvarez (59). La prigione di San Quintino è stata costruita nel 1852 e non ha subito particolari ammodernamenti. Le celle hanno sbarre al posto delle porte e questo è il secondo motivo per cui il Covid-19 è entrato facilmente. Ma il primo, incomprensibile motivo per cui la prigione che al 31 maggio aveva registrato zero positivi ora è la prima negli Usa per numero di contagi, è il trasferimento di oltre 121 detenuti dal carcere di Chino, dove era stato registrato un focolaio. Bolivia. Bomba a orologeria nelle carceri: “91 i positivi al Covid, 99 sospetti” Il Riformista, 10 luglio 2020 Situazione emergenziale nelle carceri della Bolivia. Il direttore nazionale del sistema penitenziario Clemente Silva ha riferito che 91 detenuti sono risultati positivi. Molti sono guariti dalla malattia. Il covid-19 è entrato nelle carceri di sei dipartimenti del Paese Sudamericano. Il caso desta una certa preoccupazione visto i ritmi del contagio che non accennano a rallentare in America latina e contando la difficoltà nel contenere la diffusione del virus negli istituti penitenziari. “Abbiamo 91 persone private di libertà che sono positive, 99 sospetti e 59 che sono guariti. Covid-19 è entrata nelle strutture carcerarie di sei dipartimenti, i dipartimenti nei quali non è ancora entrata sono Pando, Potosì e Tarija”, ha detto Silva parlando al canale Cadena A. Il viceministro dell’Interno, Javier Issa, ha aggiunto che l’arrivo del coronavirus nelle carceri “è abbastanza preoccupante” ed è avvenuto nonostante il fatto che, proprio a causa della pandemia, le visite alle carceri siano state sospese. La prigione di San Pedro della capitale La Paz sta indagando su come è entrato il virus, dopo che negli ultimi giorni nella struttura sono morte sette persone, sei delle quali sospettate di avere il coronavirus. Il ministero dell’interno ha fatto sapere di aver rafforzato le misure di sicurezza per proteggere i 18mila detenuti nelle carceri del Paese. “Vengono rafforzati i protocolli di bio-sicurezza, con la consegna di forniture di protezione e strumenti per la pulizia e la disinfezione dei padiglioni e di tutti gli ambienti delle strutture carcerarie”, ha riferito il viceministro della Sicurezza cittadina, Wilson Santamaria, sottolineando che sarà garantita la fornitura di tute, guanti in lattice, mascherine, gel alcolici e detergenti. Secondo la Johns Hopkins University sono 42.984 i contagiati in Bolivia, 1.577 i morti a causa del covid-19. Siria-Iran, un patto di difesa che guarda all’interno di Guido Olimpio Corriere della Sera, 10 luglio 2020 Teheran ha svolto un ruolo cruciale nel ribaltare le sorti del conflitto civile, considera il territorio siriano un avamposto nel confronto con Israele e nella proiezione verso il Mediterraneo. Presenza contestata da Israele (insieme agli Usa) responsabile di centinaia di raid contro target iraniani proprio in Siria. Un patto per parare le minacce esterne, ma dalle implicazioni interne. È questo il senso dell’accordo, firmato ieri, che accresce la cooperazione Siria-Iran nella difesa aerea. I due paesi sono alleati, Teheran ha svolto un ruolo cruciale nel ribaltare le sorti del conflitto civile, considera il territorio siriano un avamposto nel confronto con Israele e nella proiezione verso il Mediterraneo. Presenza contestata da Israele (insieme agli Usa) responsabile di centinaia di raid contro target iraniani proprio in Siria. L’intesa potrebbe portare nuovi sistemi per cercare di contrastare le incursioni nemiche avvenute senza che le batterie gestite dai russi le abbiano fermate in modo efficace. Certamente l’aviazione israeliana ha grandi capacità, ma probabilmente Mosca non si è impegnata troppo quando i bersagli erano collegati alle forze di Teheran. Inoltre tra Netanyahu e Putin esiste un rapporto pragmatico. Arriviamo così alla lotta di influenza. Il Cremlino, l’altro grande protagonista del conflitto grazie alla decisiva azione del suo contingente, vuole mantenere un ruolo preminente a Damasco. Dispone di basi e porti, ha ruolo, gestisce le carte e pone le sue condizioni. In parallelo ci sono gli ayatollah e i pasdaran, anche loro decisi a capitalizzare un intervento comunque sanguinoso. E questo mentre a Damasco è aspro il contrasto all’interno della nomenklatura, con possibili fratture tra l’ala filo-russa e quella filo-iraniana, la sfida di potere tra il presidente Assad e il cugino Rami Makhlouf, divenuto troppo potente e ingombrante. Media arabi riferiscono di una serie di uccisioni di alti ufficiali vicini a Maher Assad, il fratello del leader e comandante della IV Divisione, vicino - per ragioni di convenienza tattica - all’Iran. Sono informazioni non sempre sicure, ma sono un ulteriore indizio dell’instabilità nel paese devastato da anni di guerra.