Già 22 detenuti suicidi nel 2020, l’ultimo a Rebibbia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 giugno 2020 Nello stesso periodo erano stati 18 due anni fa e 16 l’anno scorso. Secondo l’ultimo bollettino del Garante nazionale delle persone private della libertà, sono 52.622 le persone recluse. Le detenzioni domiciliari concesse dal 18 marzo sono 3.555, di cui 1.005 con braccialetto elettronico. Ma a questi numeri il Garante purtroppo ha dovuto affiancare quello dei 21 suicidi registrati dall’inizio dell’anno fino a oggi. In realtà, purtroppo, nel frattempo se n’è aggiunto un altro ed è relativo al suicidio avvenuto al carcere di Rebibbia sabato scorso. Sempre secondo il Garante, il numero dei suicidi, per quanto può contare una valutazione parziale, è superiore a quello degli ultimi due anni (alla stessa data erano 16 nel 2019 e 18 nel 2018). Quello che colpisce dal bollettino è che in ben tre casi di suicidio si è trattato di persone che avevano appena fatto ingresso in Istituto e, conseguentemente, erano state collocate in isolamento sanitario precauzionale. Proprio l’ultimo suicidio a Rebibbia riguarda un detenuto di 42 anni, le sue iniziali sono P.B. ed è stato ritrovato impiccato. Anche lui era in isolamento precauzionale. Non a caso il Garante nazionale, nei precedenti bollettini, considerando la situazione di particolare vulnerabilità delle persone che, facendo ingresso in carcere, vengono collocate in isolamento sanitario precauzionale, ha proposto l’ipotesi di dotare, almeno temporaneamente, gli Istituti di un’équipe di supporto psicologico, in maniera analoga a quanto si è già realizzato con l’inserimento di 1000 operatori socio-sanitari, reclutati con apposito urgente bando. La problematica dei suicidi in carcere è stata ben evidenziata anche dall’ultimo rapporto di Antigone prendendo in esame l’anno 2019. Dei 53 suicidi, poco più di un terzo si è concentrato in otto istituti, 4 al nord (3 nella Casa Circondariale di Genova Marassi, 2 nella Casa di Reclusione di Vigevano, 2 nella Casa Circondariale di Torino e 2 nella Casa Circondariale di Milano San Vittore); un istituto al centro ovvero la Casa Circondariale di Perugia dove i suicidi sono stati 2; l’istituto di Cagliari in Sardegna con 2 suicidi e al due istituti al sud, la Casa Circondariale di Napoli Poggioreale dove i suicidi sono stati 3 e la pugliese Casa circondariale di Taranto. Di questi otto istituti bene tre comparivano tra i primi dieci per suicidi anche nell’anno precedente: Napoli Poggioreale al primo posto con 4 suicidi, Cagliari e Taranto con 2. L’istituto campano è senza dubbio tra i più problematici d’Italia sotto numerosi aspetti, primo fra tutti la sua dimensione. Con una capienza regolamentare di 1635 detenuti, in realtà ne ha ospitati nel 2019 ben 2.267 di cui il 32% con condanna definitiva. Interessante vedere in quali istituti c’è stata più incidenza di suicidi negli ultimi 10 anni. Ancora mantiene il numero assoluto più elevato l’istituto napoletano di Poggioreale con 22 suicidi; ma problematici appaiono i dati dei più piccoli istituti soprattutto di Cagliari con 16 suicidi con una media di presenti di più di 4 volte inferiore a quella di Poggioreale e Como, un istituto molto più piccolo con una capienza regolamentare media di circa 250 detenuti e un tasso di sovraffollamento medio del 184%. L’affollamento non solo riduce lo spazio fisico a disposizione di ciascun ristretto, ma riduce anche tante altre possibilità all’interno di un carcere. Riduce l’accesso al lavoro, la possibilità di essere seguiti dagli educatori nel percorso di trattamento e, quello che senza dubbio qui più rileva, riduce anche l’accesso ai servizi per la salute mentale come le ore di servizio di psicologi e psichiatri ogni 100 detenuti. La media nei 98 istituti visitati da Antigone nel 2019 è di 7,4 ore a settimana ogni 100 detenuti per gli psichiatri e 11,8 ore a settimana per gli psicologi. Don Grimaldi: “No a generalizzazioni, noi cappellani abbiamo fiducia in verità e giustizia” gnewsonline.it, 9 giugno 2020 “La triste e spiacevole notizia di un sacerdote volontario, in servizio di supporto al Cappellano titolare del Penitenziario di Carinola (Caserta), trovato in possesso di diversi cellulari poco prima di accedere all’Istituto, porta tanta amarezza nel cuore di tutti i Cappellani delle carceri d’Italia. Questo spiacevole e grave episodio rischia di sminuire il prezioso servizio pastorale dei 250 Cappellani che svolgono quotidianamente con dedizione e impegno il loro ministero, offrendo il proprio tempo a supporto di chi vive il dramma della detenzione”. Così, in una nota, il capo dei cappellani delle carceri d’Italia, don Raffaele Grimaldi, interviene su quanto accaduto ieri nel carcere di Carinola (Caserta), dove un religioso è stato fermato all’ingresso dalla Polizia Penitenziaria in quanto aveva con sé numerosi cellulari. “L’Autorità Giudiziaria - prosegue la nota - certamente farà luce su questo increscioso episodio di imprudenza e di debolezza umana da parte di un sacerdote, testimone del Vangelo, che è venuto meno anche ai principi della legalità e della trasparenza. Perciò, sorretti dai principi cristiani, resta la speranza da parte dell’Ispettorato che siano chiarite le motivazioni che hanno condotto ad una tale ingenuità. Il mio giudizio - afferma l’Ispettore Generale dei Cappellani - non vuole essere di condanna, ma di monito per questo evento che ha sicuramente toccato la sensibilità dei tanti Cappellani che con spirito di abnegazione e senso del dovere, svolgono il loro prezioso servizio di promozione umana e spirituale. Questo caso isolato, non deve suscitare dubbi né minare la credibilità dei Cappellani incaricati, uomini di grande fiducia, persone di riferimento per le Direzioni e la Polizia Penitenziaria le quali riconoscono apprezzamento e stima per l’opera quotidiana di portare il Vangelo della speranza a tutti coloro che si sono smarriti, ad essi affidata”. “I Cappellani delle carceri, ministri del culto cattolico, - spiega ancora don Grimaldi - sono figure ecclesiali di grande sensibilità e solidarietà verso tutti, confermata dalla missione evangelica del trattamento penitenziario. La loro indiscussa presenza nelle carceri è radicata nel tempo, attraverso l’operato e la testimonianza che vanno dall’assistenza spirituale a quella materiale a quella giuridico-amministrativa del condannato, quale ministero affidatogli per esercitare con impegno e professionalità tale mandato. Le ragioni ben consolidate per questo loro ministero, confermano che la presenza del sacerdote, al di là di qualche isolato e sgradevole episodio, è necessaria come impegno per riscattare, accogliere e includere coloro che la società emargina, rifiuta e scarta”. Dap e scarcerazioni, Ardita: “La Circolare del 21 marzo? Non l’avrei mai firmata” di Karim El Sadi stampalibera.it, 9 giugno 2020 Per il consigliere togato del Csm: “c’è un disegno per smantellare il 41bis”. E sulla mancata nomina di Di Matteo al Dap: “Sarebbe stato un ottimo direttore”. “Io non avrei mai firmato una circolare come quella e penso che nessuno dei direttori dell’ufficio detenuti lo avrebbe fatto”. Basterebbero queste semplici parole, pronunciate da Sebastiano Ardita, per nove anni direttore dell’ufficio detenuti del Dap e oggi componente del Csm, per comprendere la sconsideratezza che ha accompagnato la redazione e la delibera della famosa circolare del 21 marzo del Dap. La circolare che di fatto ha consentito a quasi 400 detenuti, tra cui boss mafiosi al 41bis e narcos, di “forzare” le serrature delle carceri, metaforicamente parlando, ottenendo un differimento della pena con detenzione domiciliare per scongiurare il rischio di contagio da Coronavirus in cella. Ardita, intervistato da Massimo Giletti per la trasmissione “Non è l’arena”, andato in onda ieri sera su La7, ha spiegato quali sono le ragioni che lo portano a considerare quel provvedimento del Dap come “inopinato”. La circolare, infatti, è arrivata a seguito del “fatto più grave della storia penitenziaria”, ovvero le rivolte carcerarie dei primi giorni di marzo. Quell’atto “contraddice la sostanza dell’attività dell’amministrazione penitenziaria che consiste nel garantire che in condizioni di sicurezza e di erogazione dei servizi sanitari ai detenuti questi rimangano in carcere”, ha spiegato Ardita per poi aggiungere che “certamente non è una circolare che è nella filosofia della storia dell’ufficio detenuti del ministero della Giustizia”. Il consigliere togato del Csm si è poi soffermato sulle dinamiche che hanno portato alla delibera della circolare firmata il 21 marzo scorso, su mandato di Giulio Romano che quella mattina era assente per ragioni di salute e la garanzia dell’assenso di Francesco Basentini, dalla funzionaria di turno, Assunta “Susy” Borzacchiello, la direttrice del Cerimoniale e relazioni esterne dell’Ufficio del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. “Quella circolare - ha spiegato Ardita - non poteva essere firmata dalla funzionaria di turno perché la funzionaria di turno del Dap, lo ricordo bene in quanto sono stato io ad aver istituito il turno dei funzionari, doveva firmare solo i trasferimenti urgenti per motivi di salute. I turni andavano fatti il sabato e la domenica. Il compito era solo questo quindi - ha sottolineato - durante il turno non si può firmare altro. È una regola insuperabile. Pertanto quella circolare, avendo un contenuto enormemente rilevante sotto il profilo politico e dell’ordine pubblico, non solo doveva essere firmata, o dal capo dipartimento o dal direttore generale dell’ufficio detenuti, ma andava accompagnata prima della sua emissione, da un appunto al capo di Gabinetto del ministero della Giustizia o addirittura al ministro della Giustizia stesso”. E di questi fatti, come in seguito ha detto in studio il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, già pm a Catanzaro “non abbiamo ancora ricevuto spiegazioni dagli stessi interessati. Lo stesso Giulio Romano mi pare non abbia detto nulla a riguardo”. Il ruolo del Dap - Nel corso dell’intervista di Massimo Giletti a Sebastiano Ardita si è parlato in maniera approfondita dell’importanza nevralgica del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dove Ardita ha lavorato intensamente e professionalmente per lunghi anni. “Il Dap è un posto di grandissima responsabilità nel quale il ministro, assumendosi questa responsabilità, nomina chi vuole. - ha premesso il magistrato catanese - Il problema principale però è che questo è un posto che ha una storia, ed oggi è affidato a una dirigenza di complemento che finisce per non conoscere la realtà. Se tutto va bene per anni e non succede nulla è un conto, ma poi se ci si trova dall’oggi al domani in guerra, come avvenuto nel caso delle rivolte carcerarie, accade che anziché esserci a capo dell’armata il generale che conosce il territorio, la storia e le problematiche, c’è un ufficiale di complemento appena arrivato che normalmente sarebbe stato un addetto al rifornimento delle acque minerali”, ha detto metaforicamente il componente del Csm. “Questo, purtroppo, è ciò che è accaduto nel nostro Paese”. “Di Matteo sarebbe stato un ottimo direttore del Dap” - E di questo problema, ha aggiunto Ardita, “occorre farsene carico perché il Dap non è una realtà che si può affidare al primo che passa”. “Nel Dap - ha affermato - sono morte persone che per anni hanno svolto quel ruolo tenendo la schiena e sono morte perché non hanno avuto paura di fronte alle rivolte, ai problemi dei carcerati, né alle questioni che riguardavano la mafia e i ricatti allo Stato che sono sempre passati dalle carceri”. In questo senso, ha detto Ardita, “sicuramente Nino Di Matteo è una persona che avrebbe fatto benissimo il capo del Dap perché anzitutto ha una conoscenza qualificata dei problemi, poi perché ha una grandissima umanità, la capacità di credere con passione nel riscatto degli ultimi. Questa - ha spiegato il magistrato - è una delle qualità principali che deve avere il direttore del Dap. Questo perché l’antimafia nel Dap non c’entra. Io vengo da quella cultura e per nove anni ho fatto rispettare le regole che è l’unica legge che paga nel mondo carcerario”. Parlando della mancata nomina di Nino Di Matteo, anche lui consigliere togato del Csm, a direttore del Dap sono intervenuti anche Luigi De Magistris e la giornalista Sandra Amurri. “Bonafede non sceglie un uomo che avrebbe dato garanzie certe come Di Matteo e preferisce uno come Basentini”, ha esordito il sindaco di Napoli. “Basentini non era l’uomo più adeguato per fare il capo del Dap. Inoltre la lettura della valutazione di professionalità da parte del ministro riguardo Basentini la trovo sminuente”. Luigi De Magistris ha poi fatto un’altra considerazione politica sulla scorta dell’intervento a inizio puntata del segretario del Pd Matteo Renzi. “Se Matteo Renzi dice che il tema è come mai si è scelto Basentini? Dato che fanno parte della stessa compagine di governo e della maggioranza a questo punto io credo che all’interno della maggioranza vada posto il tema se il contrasto alle mafie, il mantenimento del 41bis e la chiarezza di fronte al Paese sono temi principali o sono chiacchiere da bar”. In merito alla poca chiarezza e alla nebulosità del governo, anche la giornalista Sandra Amurri, riprendendo la delicata questione della mancata nomina di Nino Di Matteo al Dap da parte del ministro della Giustizia ha affermato che “il Paese deve sapere la verità e Bonafede deve dare spiegazioni”. La Amurri, inoltre, ha voluto rivolgere tre domande importanti durante il suo intervento dirette proprio al Guardasigilli. “Da cronista vorrei porre due domande al ministro Alfonso Bonafede. Se la circolare non è stata la causa delle scarcerazioni per quale ragione si è dimesso chi quella circolare l’ha scritta e chi l’ha approvata? Oppure sono state dimissioni spintonate? E perché queste persone si sono sacrificate? Per coprire chi?”. “Queste - ha detto la giornalista - sono le domande da cui si può ricostruire tutto”. Tentativi di smembramento del 41bis - In ultima analisi durante l’intervista Sebastiano Ardita, rispondendo alle domande di Giletti, ha infine dichiarato che c’è “certamente un disegno di smembramento del 41bis”. “È la storia ad insegnarcelo”, ha continuato. “La storia del contrasto a Cosa nostra è fatta di questo: del tentativo di lavorare con ogni mezzo possibile per smantellare il 41bis, per far cadere le carcerazioni a vita. È l’obiettivo primario di un’organizzazione che sta agendo non solo sotto il punto di vista militare ma anche sotto quello dei rapporti economici, politici, istituzionali, che cercherà di sfruttare per abbattere il 41bis. Noi come Stato - ha spiegato il magistrato catanese - dobbiamo difenderci con un carcere civile che rispetti i diritti ma mantenga la detenzione. Il carcere è un baluardo, un luogo nel quale le persone pericolose sono tenute distanti dalla società e sono libere di essere rieducate per poi rientrare in società in condizioni diverse. Questo è il carcere per l’opinione pubblica. Se viene meno questo baluardo e vengono date a fuoco le carceri e i detenuti escono la gente cosa penserà? Sono i fondamenti dello stato di diritto”, ha concluso. Il puzzo di ‘ndrangheta - Nella vicenda delle scarcerazioni dei boss, di cui si discute da settimane, il sindaco di Napoli, ex magistrato in prima linea nel contrasto alla criminalità organizzata calabrese e i suoi radicati rapporti con le istituzioni, ha detto chiaramente di “sentire la puzza di ‘ndrangheta”. Di fatti furono proprio quegli ambienti grigi in cui mafia e politica convivono, a premere per l’allontanamento di De Magistris dalle sue inchieste a Catanzaro, dopo che lo stesso ex pm venne addirittura indagato e poi archiviato da alcuni magistrati di Salerno, tra i quali, Gabriella Nuzzi, anche lei intervistata ieri da Giletti, che ha raccontato di essere stata a sua volta trasferita e aver subito “una sorta di stalking giudiziario”. Un caso, il suo, poi archiviato. “Questa è la vera mafia”, ha spiegato De Magistris. E la ‘ndrangheta, ha aggiunto, è “l’organizzazione mafiosa avente la maggior capacità di arrivare là dove nessuno può immaginare”. Quindi, tornando alla questione dei moti carcerari, “non mi sembra normale che non si sappia nulla degli 80 evasi e dei morti seguiti alle proteste e sulle circa 500 persone scarcerate. E che tutto ciò sia stato liquidato con un semplice dibattito in Parlamento durante la mozione di sfiducia. Il Paese merita rispetto così come chi ha combattuto la mafia come Piera Aiello (anche lei intervistata in studio, ndr). A me sembra che le responsabilità politiche ogni giorno che passa sono sempre più clamorose. A mio avviso ci sono altre responsabilità”, ha affermato. “Più c’è un clima di nebulosità più penso che si sta andando nella direzione giusta. - ha detto con tono ironico - Bisogna comprendere se non ci sia stata anche una forma di trattativa, anche se non voglio usare questo termine. Il fatto che le cose svaniscono come la nebbia con un po’ di vento… non vorrei che ci fosse qualcuno che si è mosso. E se qualcuno si muove - ha concluso - di sicuro non è il funzionario”. La Cedu all’Italia: il virus non può giustificare la paralisi della Giustizia di Simona Musco Il Dubbio, 9 giugno 2020 Lo dice anche la Cedu: non basta l’emergenza Coronavirus per ritardare i tempi di un processo. Il caso in questione riguarda il tentativo di separazione di due coniugi, dal quale dipende anche il futuro di un bambino minorenne. Ed è per questo motivo che Strasburgo ha intimato allo Stato italiano di discutere al più presto una causa che era stata invece rinviata di sette mesi. Una decisione che potrebbe portare, in futuro, anche ad una condanna dell’Italia per i ritardi ma che, soprattutto, evidenzia lo stato di sofferenza in cui si trova la Giustizia italiana. In attesa che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede corregga - come promesso a Cnf, Ocf, Aiga e Camere penali e civili venerdì scorso - l’articolo 83 del dl Cura Italia, riducendo così la libera scelta di singoli presidenti di Tribunale e procuratori capo su come gestire udienze e indagini in tempo di pandemia, l’avvocatura documenta, passo passo, le storture della Giustizia. Ataviche, per certi versi - basti pensare alle carenze strutturali - ma acuite o rese abnormi dall’emergenza. Tanto che per l’Ocf si tratta di “uno dei livelli più critici della storia repubblicana”. La considerazione è contenuta in un documento sulla ripresa del sistema giudiziario, con la richiesta, avanzata dall’Organismo guidato da Giovanni Malinconico, di un “Piano straordinario per la Giustizia Italiana”, in grado di interrompere la paralisi, rendendo la Giustizia accessibile e libera dalle distorsioni del sistema. Le misure di distanziamento sociale hanno imposto uno stop di oltre due mesi, che ha risparmiato solo pochissimi affari cautelari e questioni in materia di famiglia e minori per oltre due mesi. Una sospensione che nemmeno la “Fase 2” ha risolto, se è vero com’è vero che nella maggior parte dei tribunali i processi continuano ad essere ridotti all’osso e i rinvii all’ordine del giorno. Si tratta circa un decimo delle cause, il tutto senza alcuna misura di messa in sicurezza degli ambienti giudiziari né risorse a sostegno della funzione giurisdizionale. In questo quadro, la gestione della “Fase 2” è rimasta in mano ai capi degli uffici giudiziari, che hanno prodotto oltre 300 linee guida e protocolli che hanno intasato la Giustizia, più che semplificarla, interferendo, a volte, anche “con le garanzie assicurate alle parti e alla loro difesa dalla disciplina processuale derivante dalla legge primaria”. Le tecnologie non sono state d’aiuto: in primis perché comunque i cancellieri non hanno facoltà di accedere ai fascicoli da remoto, in secondo luogo per la mancanza di risorse materiali “che non consente né collegamenti di linea stabili né la presenza di personale tecnico qualificato”. Il contesto è quello della crisi che, notoriamente, fa lievitare la domanda di Giustizia e tutele. Da qui la richiesta di un intervento normativo per far ripartire la macchina giudiziaria, rispettando le indicazioni dell’autorità sanitaria, ma anche “le garanzie di tutela delle parti e delle regole del “giusto processo”. L’Ocf chiede dunque un piano e risorse per far ripartire i processi in tribunale, linee guida unitarie sul territorio nazionale, la costituzione di un tavolo unitario per la giurisdizione che garantisca l’efficacia della tutela delle parti e l’effettiva terzietà del giudice, nonché un immediato potenziamento delle strutture giudiziarie di prossimità. Ma l’intervento, per l’Ocf, dovrà avere un raggio più ampio. Con una tutela dell’avvocatura, rimasta quasi a secco di fronte alle iniziative del Governo per tamponare la crisi, e penalizzata dal blocco delle attività giudiziarie. Partendo “dall’indiscusso rilievo costituzionale della funzione dell’avvocatura”, scrive l’Ocf, la professione forense va tutelata nella sua dignità, con la garanzia del “diritto all’equo compenso e di forme che rendano effettivo il diritto al pagamento degli onorari per chi è ammesso al patrocinio a spese dello Stato”, misure necessarie “per la tenuta della funzione sociale del difensore e del suo ruolo”. Ma servono anche interventi di detassazione e di contribuzione agevolata. L’altro capitolo è quello relativo alla crisi della Giustizia, legata allo scandalo toghe, che ha messo in “serio pericolo la credibilità dell’intero apparato giudiziario”. Serve, dunque, una riforma globale dell’ordinamento giudiziario, ma con il concorso dell’avvocatura - pur nel rispetto dell’autonomia della magistratura -, con la separazione delle carriere dei magistrati, “necessaria per ristabilire i principi di parità delle parti e di terzietà del giudice nel settore penale”. Ma vanno anche riviste le norme sulla prescrizione e realizzate “tutte quelle misure proposte dall’avvocatura per la ragionevole durata del processo penale e per la razionalizzazione dei tempi del processo civile”, con un rafforzamento della presenza della componente forense nei ruoli dirigenziali e consultivi degli apparati di governo della giurisdizione centrali e territoriali, il rafforzamento del ruolo costituzionale dell’avvocatura e l’inserimento della componente forense nei ruoli direttivi ministeriali. Ainis: “Col caso Palamara a picco la fiducia nella giustizia. Al Csm meglio il sorteggio” di Errico Novi Il Dubbio, 9 giugno 2020 “Non ci voleva. Il caso Palamara è uno di quei colpi che inducono rassegnazione. Se c’è poco allarme per la paralisi dei Tribunali, un po’, anzi non poco, dipende anche dalla nuova valanga di intercettazioni sul Csm”. Michele Ainis è un costituzionalista e ha una sensibilità quasi pannelliana. Ha un’idea sacra delle istituzioni e nello stesso tempo spirito sufficientemente laico per additarne il declino senza perifrasi. Così, di fronte al silenzio del Paese sui tribunali ancora mezzi chiusi - silenzio rotto solo dagli appelli dell’avvocatura - il professore dell’università Roma 3 ed editorialista di Repubblica intravede il senso diffuso della liberazione da una malattia incurabile. Cioè, professor Ainis, per gli italiani la giustizia non è curabile? Esiste una disillusione forte, molto forte. Lei si immagini l’effetto delle intercettazioni su Palamara, la seconda ondata come sappiamo. Arrivano in un momento in cui l’attenzione, l’attesa dei cittadini è rivolta ad altro, all’epidemia, e anche ai limiti che il sistema sanitario ha scontato per i tanti, troppi tagli, i 37 miliardi di tagli degli ultimi anni, senza i quali forse nelle fasi più acute ce la saremmo cavata meglio. Ora questa è la priorità assoluta, giusto? Questo è fuori discussione... Ebbene, sa cosa succede nella testa di una persona, di fronte alle udienze quasi del tutto abolite? Scatta la reazione rassegnata di chi sa di un parente malato da tempo che non ce l’ha fatta. Si ha quasi un senso di liberazione, dovuto alla pietà. Ebbene, anche di fronte alla giustizia paralizzata dal Covid è come se l’italiano medio avesse pensato “era già ridotta male, ha avuto il colpo di grazia, forse è meglio così”. Agghiacciante... Io ho l’impressione che nelle scelte del governo ci sia stato un riflesso di una simile idea. L’indignazione per l’inadeguatezza delle strutture sanitarie ha indotto la politica a cambiare strada. Di fronte al minore allarme suscitato nel Paese dai tribunali chiusi, si è pensato di poter mettere la questione da parte. Però mancata tutela dei diritti vuol dire impossibilità di recuperare un credito per chi ne aveva urgente bisogno, o veder compromessa la condizione delle persone più vulnerabili, i minori innanzitutto... Certo, è evidente. Ma vede, noi siamo un popolo irriducibilmente litigioso. E la tendenza sembra essersi imposta nel pieno della fase 1 così come ancora si impone adesso. Intanto, abbiamo sopportato forti limitazioni della libertà, inevitabili, ma sarebbe stato legittimo attendersi una altrettanto forte riscoperta del valore della libertà. Piero Calamandrei diceva che la libertà è come l’aria, ti accorgi quanto è importante solo se ti manca. Nel caso dell’Italia invece sembra che i contrasti, per esempio, fra Stato centrale e Regioni siano diventati più importanti di tutto il resto. I protagonisti della scena pubblica sono rimasti assai più impigliati nelle liti che animati dall’ansia di apprezzare la ritrovata libertà. A questo aggiungerei il contributo non proprio positivo, rispetto al valore del diritto, offerto dalla legislazione complicatissima delle ultime settimane, avvitata attorno ai dpcm. Centinaia di pagine, spesso contraddittorie, e spesso contraddette dalle ordinanze regionali. Ecco, dinanzi a tutto questo, a molti italiani il diritto è apparso come uno strumento inutile se non dannoso. La sfiducia nella giustizia dipende anche dal fatto che i magistrati piacciono solo se emettono sentenze dure? Qualche decisione “garantista”, come la sentenza sulla strage del bus precipitato dalla A16, ha reso i magistrati impopolari? Un’altra caratteristica italica è l’umore ondivago. Riguarda molti campi. A proposito delle regioni: si passa dal centralismo al federalismo in un niente. Durante Mani pulite eravamo giustizialisti. Ci si è spostati un po’ verso il garantismo nel ventennio berlusconiano, o almeno lo ha fatto la parte del Paese che tifava per Berlusconi. Adesso mi pare prevalga di nuovo un sentimento manettaro, e una delle cartine di tornasole più recenti è nella vicenda carceri. Ha trovato insopportabile la rivolta contro i giudici di sorveglianza? Mi è sembrato non si sia vista alcuna sensibilità per la questione del sovraffollamento, che certo non è recente ma che di fronte ai rischi legati al Covid avrebbe dovuto suscitare qualche preoccupazione in più. E invece ci si è indignati davanti ai 400 detenuti per reati di mafia andati ai domiciliari, senza dare alcun peso a quel dato piccolo piccolo, e cioè che su quei circa 400, i detenuti usciti dal 41bis erano 3 in tutto. Più che fiducia nella giustizia, c’è aspettativa per una giustizia solo punitiva. Il caso Palamara è un colpo mortale alla credibilità delle toghe? Sarebbe così se avessimo memoria... Non ne abbiamo molta, dimentichiamo tutto e subito, ammesso che anche solo nell’immediato qualcosa si innesti davvero nella percezione. Però, certo, la disillusione di cui ho detto all’inizio è stata aggravata dalle nuove intercettazioni. E come si può rimettere in piedi un sistema così indebolito? Con una riforma radicale del Csm. Che prenda le mosse da una constatazione: di micro interventi ce ne sono stati decine, in materia, ma non è cambiato mai un tubo. Che intende per riforma radicale? Anche il ricorso al sorteggio. Credo che la chiave sia la composizione del Consiglio, eevitare che sia monopolizzata dalle correnti. E sorteggio non significa portare a Palazzo dei Marescialli chiunque. Limiterebbe il novero dei giudici e pm sorteggiabili? Sì, probabilmente andrebbero considerati gli standard di laboriosità, la quantità delle sentenze non tanto in termini assoluti quanto nella percentuale di decisioni ribaltate in appello. Lo so, si tratta di una strada impegnativa, ma cito innanzitutto Voltaire, secondo il quale prima di fare nuove leggi bisogna bruciare quelle che già ci sono. D’altra parte, i francesi sono il popolo delle rivoluzioni. Proprio le correnti chiedono di riabilitare il criterio dell’anzianità nelle nomine, il meno arbitrario di tutti... Pensare di sbarazzarsi delle valutazioni è una pia illusione, sia quando si tratta di studenti sia se dobbiamo scegliere chi nominare presidente di un Tribunale o capo di una Procura. Non è che possiamo affidarci a un criterio fisso, se no tanto vale dire che gli incarichi vanno solo ai pm biondi e alle magistrate con una determinata acconciatura... Deve continuare a esserci una discrezionalità nelle scelte del Consiglio superiore. Discrezionalità, non arbitrio del sovrano, ovvio. Ma stavolta ci soccorre Montesquieu: con il sorteggio, diceva, tutti acquisiscono il diritto di servire la patria. Credo sia giusto dare a tutti il diritto potenziale di diventare componenti del Csm. Il sorteggio è la garanzia della massima eguaglianza. Non esiste rilancio economico senza cambiare la giustizia. Parla Cottarelli di Annalisa Chirico Il Foglio, 9 giugno 2020 Non credo che servano un commissario al Recovery Fund né l’ennesima task force di esperti convocati soltanto per un’operazione di immagine. Di questo passo non andremo da nessuna parte: l’Italia ha già perso gli ultimi vent’anni e un ulteriore ritardo, in piena emergenza economica, sarebbe letale”. Carlo Cottarelli è il tecnico dal volto umano, quello che, quando il Quirinale lo contattò per affidargli la guida di un possibile governo, raccontò di aver ricevuto la telefonata mentre se ne stava sdraiato sul divano a guardare una puntata di Breaking bad su Netflix. L’economista, che, dopo una carriera trentennale al Fmi, oggi dirige l’Osservatorio sui conti pubblici italiani, si è tenuto in forma, durante il lockdown, percorrendo su e giù, per quattrodici volte al giorno, i sette piani del palazzo condominiale a Cremona. A lui chiediamo quali siano le sempre annunciate “riforme a costo zero”. “Riduzione dei tempi della giustizia e semplificazione burocratica: sono le riforme più importanti per rilanciare l’economia italiana. Ci sono troppi moduli da compilare, troppi adempimenti da espletare. Pensi alla mole di documenti che le aziende devono presentare per ottenere i prestiti garantiti dallo stato: è un’impresa che abbrutisce. Dobbiamo procedere più svelti, con procedure semplificate e controlli successivi rigidissimi; solo così possiamo creare un ambiente favorevole agli investimenti privati. E poi, come terzo elemento, serve un piano di investimenti per l’istruzione pubblica e la formazione del capitale umano”. Il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese ha criticato i decreti governativi: troppe norme, scritte male e spesso contraddittorie. “La risposta italiana alla crisi pandemica è stata lenta e accidentata. I provvedimenti del governo sono farraginosi e poco efficaci. Il decreto Rilancio, che doveva essere emanato ad aprile, richiede almeno una ottantina di ulteriori decreti per la sua implementazione. Il Cares act, approvato dal governo Usa a fine marzo, include un pacchetto di 2,3 trilioni di dollari, pari all’11 per cento del Pil, il più ampio della storia americana, ed è lungo un terzo del corrispettivo italiano. Il problema è che negli uffici ministeriali i provvedimenti vengono formulati sempre dalla stessa cerchia ristretta di funzionari, capigabinetto, giuristi. Per superare gli ostacoli posti dai burocrati, serve una volontà politica forte, devi essere disposto a rischiare capitale politico. Se invece ogni provvedimento è subordinato alla logica del consenso e a mere esigenze comunicative, diventa impossibile intervenire con efficacia”. Con Next Generation EU, il piano di rilancio proposto dalla Commissione europea, l’Italia potrebbe aggiudicarsi risorse enormi, a patto di saperle impiegare. “È la prima volta che l’Europa mette a disposizione importi tanto elevati, e lo fa chiedendo, in cambio, non austerità ma capacità di spesa, investimenti pubblici per infrastrutture, digitalizzazione, capitale umano, riforma dei pubblici uffici e della giustizia”. La nostra performance nell’impiego dei fondi strutturali europei non fa ben sperare. “Dobbiamo presentare il prima possibile progetti dettagliati e credibili. Se i ministeri sono sprovvisti delle competenze necessarie, le cerchino altrove. O rimpiazzino i ministri. Non possiamo perdere tempo”. Stando alla proposta di regolamento della “Recovery and resilience facility”, il grosso delle risorse europee affluirebbe nel 2023-2024 mentre l’anno prossimo gli esborsi previsti varrebbero il 5,9 percento del pacchetto da seicento miliardi. “La differenza la farà la rapidità d’azione del governo. Dobbiamo agire entro settembre al massimo”. Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi propone il rafforzamento della contrattazione aziendale. “È una riforma di buon senso, mi auguro che i sindacati la accolgano. Oggigiorno ci sono posti di lavoro che non vengono creati perché non si concede uno spazio adeguato alla contrattazione aziendale. L’apertura di Bonomi segna una svolta anche per Confindustria che in passato ha preferito preservare un modello di negoziazione centralizzata”. Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco prevede un calo del Pil, per quest’anno, fino a tredici punti percentuali: l’abbassamento delle tasse aiuterebbe la ripresa nazionale? “Sono convinto che la pressione fiscale in Italia sia troppo elevata: le aliquote vanno tagliate recuperando l’evasione. Ma in questo momento di crisi, con la gente maggiormente propensa a risparmiare, occorre aumentare la spesa per dare impulso alla crescita. Approfittiamo del momento per ridurre il gap infrastrutturale tra nord e sud Italia a due condizioni: procedure snelle e progetti intelligenti”. Si evoca il modello del ponte Morandi: un anno per la realizzazione, il Codice degli appalti sospeso. “La sospensione pura e semplice comporta la rinuncia alle regole della concorrenza, una scelta che, alla lunga, rischia di rivelarsi dannosa. Ciò non toglie che una riforma del Codice sia necessaria e urgente”. In Italia appalti e cantieri evocano sempre lo spettro della corruzione. “È un problema reale ma il mero inasprimento delle pene serve a poco se poi i processi non vengono celebrati. Un sistema in cui le condanne non arrivano mai o cadono in prescrizione fa il gioco di chi infrange la legge. Noi dobbiamo abbinare procedure semplificate e controlli effettivi ex post. Chi sbaglia va sanzionato”. La società post Covid sarà più digitale? “Indubbiamente sì, io stesso ho imparato a gestire molte attività da remoto: risparmio tempo ed energia. Tuttavia, il contatto umano è importante, guardarsi negli occhi è un tratto fondamentale del nostro stare insieme. Nel campo della burocrazia digitalizzare non basta: un processo autorizzativo può risultare complicatissimo anche se interamente digitalizzato. È necessario decentrare il processo decisionale in modo da responsabilizzare i singoli dirigenti pubblici con una scrupolosa valutazione dei risultati effettivamente conseguiti”. Il reato d’abuso d’ufficio genera spesso la cosiddetta “paura della firma” che rallenta lo smaltimento delle pratiche. “C’è ampio consenso sulla necessaria riforma di questa fattispecie penale, dobbiamo però anche introdurre incentivi per chi si comporta correttamente. Un dirigente che agisce con lentezza va penalizzato: nei miei anni al Fmi, gli aumenti di stipendio dipendevano dalla valutazione annuale della performance di ogni dipendente. Questo discorso non riguarda solo i pubblici uffici ma anche la scuola: gli insegnanti più produttivi e disponibili ricevono un trattamento economico identico a quello di chi spesso si assenta. I sindacati dovrebbero sostenere una riforma che premi davvero il merito”. Ma oggi, dopo anni di retorica sulla meritocrazia, ha vinto l’uno vale uno, la livella verso il basso. “La colpa non è solo della classe dirigente o dei politici: siamo noi cittadini ad eleggere persone poco preparate. Prendiamocela con noi stessi. Del resto, come diceva Winston Churchill, la democrazia è la peggiore forma di governo, escluse tutte le altre”. Lei è stato accostato al consigliere del Csm Piercamillo Davigo: Cottarelli è giustizialista? “Figuriamoci, io sono per una giustizia rapida ed efficiente. Certe frasi di Davigo sono volutamente provocatorie, io uso un linguaggio prudente. Il tema però è il funzionamento della giustizia: nessuno è disposto a investire in un paese che non è in grado di garantire la certezza della legge”. Come va riformata la giustizia? “Molti giudici non accettano l’idea che un tribunale sia un’organizzazione complessa che produce un servizio, e che tale servizio vada fornito in modo tempestivo. Occorre sviluppare migliori capacità di gestione e organizzazione all’interno degli uffici giudiziari, il che richiede non solo addestramento adeguato ma anche il riconoscimento di una larga autonomia al dirigente. Si potrebbero introdurre corsi obbligatori di management per chi aspira a incarichi direttivi. Sarebbe opportuno, inoltre, ridurre drasticamente il numero di magistrati fuori ruolo per incarichi amministrativi e limitare la possibilità di attività extragiudiziarie. I togati lavorino nei palazzi di giustizia, non nei ministeri”. Un altro problema è l’eccessiva domanda di giustizia. “Negli Usa una quota considerevole delle controversie civili non viene risolta in tribunale ma attraverso processi extragiudiziali. I metodi alternativi esistono anche in Italia ma vanno potenziati affidando, per esempio, a notai e avvocati molte procedure di volontaria giurisdizione o estendendo la mediazione civile ad altri settori del contenzioso”. Le gare per gli appalti sono prigioniere della cosiddetta “ricorsite”. “È un grosso problema. Alcuni fruitori della giustizia amministrativa e civile hanno interesse a tirarla per le lunghe. Chi sa di essere in torto, per esempio, cerca di ritardare la sentenza finale, qualcuno può avere un incentivo a far partire la macchina con il solo scopo di dar fastidio a qualcun altro. Occorre agire accrescendo i costi per chi si comporta in modo inappropriato: aumentando, per esempio, il contributo unificato per gli attori in appello o in Cassazione che vedono respinto il loro ricorso, e per chi ha avuto torto due volte e insiste presso il giudice di legittimità, anche aumentando considerevolmente il risarcimento delle spese processuali a favore della controparte”. Il tribunale delle imprese, voluto dall’allora ministro della Giustizia Paola Severino, ha dato una buona prova. “A mio giudizio, quel modello va replicato, e le competenze, assegnate alle sezioni specializzate per le imprese, andrebbero estese. La specializzazione porta con sé maggiore celerità e qualità decisionale”. Oggi alla Consulta il carcere ai giornalisti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2020 Approda oggi alla Corte costituzionale la previsione del carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione. A sollevare questioni di legittimità analoghe, i tribunali di Salerno e di Bari. Questa mattina l’udienza pubblica, domani la camera di consiglio. Al centro della discussione l’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) e l’articolo 595, terzo comma, del Codice penale. La prima norma oggetto di censura punisce la diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato con la reclusione da 1 a 6 anni e la multa non inferiore a 256 euro. Il Codice penale sanziona la diffamazione aggravata dall’uso della stampa, di qualsiasi altro mezzo di pubblicità o dell’atto pubblico con la reclusione da 6 mesi a 3 anni o la multa non inferiore a 516 euro. Centrale è il contrasto dell’ammissione di una pena detentiva, sia pure sospesa, per i giornalisti, tra l’altro, con la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo a presidio del principio della libertà di espressione, tutelato anche dall’articolo 21 della Costituzione. In particolare, recentissimi interventi della Corte di Strasburgo proprio in un caso italiano (caso Sallusti contro Italia) si collocano nell’ambito di una costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di diffamazione a mezzo stampa, secondo la quale l’ingerenza nella libertà di espressione dei giornalisti è in evidente violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo quando prevede l’applicazione di una pena detentiva al di fuori delle “ipotesi eccezionali”, quando tale sanzione non è necessaria né proporzionata rispetto al diritto tutelato. Nel caso Sallusti, il giornalista venne condannato per omesso controllo su 2 articoli pubblicati nel 2007 su Libero relativi al presunto aborto forzato di una minorenne; scontò 40 giorni agli arresti domiciliari prima che il presidente della Repubblica commutasse la sanzione detentiva in “semplice” multa. La Corte dei diritti dell’uomo, il 7 marzo del 2019, nel riconoscere 12.000 euro di risarcimento a Sallusti (ne aveva chiesti 100.000), escluse la esistenza di un’ipotesi eccezionale, anche davanti alla tutela dell’altrui reputazione, e ritenne che “il fatto che la pena detentiva del ricorrente sia stata sospesa non modifica tale conclusione, in quanto la singola commutazione di una pena detentiva in una sanzione pecuniaria è una misura soggetta al potere discrezionale del Presidente della Repubblica italiana”. In secondo luogo, poi, sottolinea l’ordinanza del giudice unico di Salerno, non si individuano nel nostro ordinamento interno principi, valori e diritti costituzionali che, come risultato di un giudizio di bilanciamento di interessi in conflitto, possono ritenersi concretamente prevalenti rispetto al fondamentale diritto di manifestazione del pensiero di cui all’articolo 21 della Costituzione, analogo alla generale libertà di espressione di cui all’articolo 10 della Convenzione, il quale, di conseguenza, non può e non deve essere minimamente compresso con la minaccia, anche solo astratta, di una pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa, fatti salvi ovviamente “i casi eccezionali” ritenuti tali dal legislatore. Roma. Suicida in cella al secondo tentativo: aperta un’inchiesta di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 9 giugno 2020 Era stato assegnato in una cella in isolamento sanitario nonostante un mese e mezzo prima avesse già provato a suicidarsi. La procura ha aperto un’inchiesta sul caso di un detenuto romano di 42 anni trovato impiccato l’altra notte nella sua cella, al XII braccio di Rebibbia. Paolo B., padre di due bambine, avrebbe finito di scontare la pena nel 2023 e gli era stata imposta una quarantena in isolamento dopo che il 25 maggio era stato in contatto con un nuovo detenuto che poi era risultato asintomatico. Secondo i familiari, che hanno nominato un legale - l’avvocato Giacomo Marini - era la seconda quarantena imposta per motivi sanitari nonostante la fragilità mostrata. “L’altro tentativo di suicidio - ha spiegato Claudio Cipollini Macrì, presidente della Legal Consulting - si era registrato proprio dopo il primo periodo di isolamento”. Milano. Gli interventi di Medici Senza Frontiere per proteggere detenuti, agenti e sanitari di Marta Rizzo La Repubblica, 9 giugno 2020 Il ruolo di MSF nel progetto partito a fine marzo in collaborazione con la Direzione del carcere di San Vittore. Interventi anche in altri istituti in Lombardia, Marche, Piemonte e Liguria. La direzione del carcere di San Vittore e Medici Senza Frontiere, dal marzo scorso, hanno fatto partire un attento programma igienico-sanitario per la prevenzione, la cura e la formazione alla sicurezza e alla salute di chi, tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria, vive in carcere. Il buon esito dell’operazione nell’Istituto di pena di Milano, si è poi allargata in altre regioni, dalla Lombardia alle Marche. I dati sulla detenzione, oggi. Secondo l’ultimo bollettino del Garante nazionale dei detenuti (Mauro Palma) oggi in Italia “Si conferma la tendenza, seppure molto rallentata, alla diminuzione dell’affollamento negli Istituti penitenziari. Le persone detenute presenti nelle stanze, al 5 giugno scorso - scrive Palma - sono 52.520; le detenzioni domiciliari in corso, concesse dal 18 marzo, sono 3.489; le persone in semilibertà con licenze prolungate sono 642. In diminuzione anche la diffusione del contagio in carcere, che registra oggi 74 casi di positività nella popolazione detenuta e 62 tra il personale penitenziario”. Gli interventi di MSF. Il supporto di MSF, svolto da medici, infermieri, esperti di igiene con esperienza nella gestione di epidemie, riguarda tutte le misure per contenere la diffusione del virus e proteggere detenuti, agenti, operatori e volontari impegnati a San Vittore e in altri istituti. Sono state definite le procedure per l’ingresso dei nuovi detenuti; per determinare casi sospetti, verificarne la diagnosi e identificare i contatti dei casi confermati; individuati circuiti interni per passare in sicurezza dalle zone “pulite” a quelle “sporche” e viceversa; sono state ottimizzate le attività di sanificazione di tutti gli ambienti. La formazione per i detenuti e per chi in carcere lavora. Una parte dell’impegno di MSF sono le sessioni di formazione e promozione alla salute di operatori umanitari e volontari dell’organizzazione per tutte le persone nel carcere, sulle misure di prevenzione e l’utilizzo dei dispositivi di protezione: come indossare guanti, mascherine, camici monouso o che tipo di detergenti utilizzare per igienizzare i diversi ambienti. “In un carcere, mantenere il distanziamento sociale è una sfida complessa. “Il nostro obiettivo - dice Sara Sartini, capo progetto MSF a San Vittore - è aiutare a sviluppare delle procedure, per avere lo stesso livello di sicurezza in tutti gli spazi e per tutte le persone all’interno della struttura. In un’epidemia non esistono zone a rischio zero, è proprio quando abbassiamo la guardia che facciamo aumentare il pericolo”. “Sovraffollamento e tutela della salute”. Per ridurre i rischi di contagio nelle carceri e garantire protezione a detenuti e operatori interni, gli esperti hanno elaborato e diffuso protocolli alle autorità carcerarie e di sanità pubblica dei governi, a partire dal documento dell’ufficio dell’OMS per l’Europa il 15 marzo scorso. In verità, molte di queste misure si rivelano di difficile applicazione o scarsa efficacia, se non accompagnate da iniziative di decongestionamento degli istituti di pena. “Mettere in atto procedure di prevenzione e controllo del contagio è indispensabile per contenere la diffusione del virus nelle carceri - dice Marco Bertotto, responsabile per gli affari umanitari di MSF - Ma per proteggere davvero detenuti e agenti, e coordinare efficaci azioni di salute pubblica negli istituti detentivi, ferme restando le esigenze di giustizia e pubblica sicurezza, resta importante affrontare in modo incisivo il problema del sovraffollamento di queste strutture in tutta Italia”. Milano. La pandemia vissuta in carcere a Bollate. Parla la direttrice, Cosima Buccoliero di Rossella Grasso e Amedeo Junod Il Riformista, 9 giugno 2020 “Misure alternative, tecnologie e laboratori, così abbiamo combattuto il Covid”. L’emergenza coronavirus ha spinto tutte le carceri d’Italia a dover rivedere con estrema rapidità tanto l’organizzazione interna degli spazi quanto le misure di tutela dei diritti dei detenuti, specialmente in merito ai colloqui con i parenti. La Direttrice del carcere di Milano Bollate, Cosima Buccoliero, ci ha raccontato tutte le difficoltà riscontrate e le misure d’emergenza adottate per arginare i rischi relativi alla salute fisica e psicologica dei detenuti e degli operatori del penitenziario. In una prima fase è stato necessario sospendere tutte le attività che comportassero un grande movimento di persone, mantenendo quelle essenziali. “Abbiamo attivato delle iniziative per cercare di fronteggiare questa situazione di emergenza - racconta la direttrice. Abbiamo cercato di sfruttare a pieno la strumentazione tecnologica, potenziando il numero delle postazioni, così da consentire a tutti di riuscire a contattare le proprie famiglie, avvalendosi di piattaforme quali Skype e poi Webex di Cisco, nella prospettiva di implementare anche la formazione a distanza”. L’attenzione di tutto il personale verso ogni esigenza dei detenuti, nel cercare di rispettare in ogni modo i loro diritti nonostante il lockdown che ha reso difficile la quotidianità anche di chi vive recluso, ha fatto sì che a Bollate regnasse la calma e si ricreasse una nuova normalità. Bollate ha registrato vari casi di positività al virus, tra i detenuti e anche tra il personale, ma si è riusciti ad evitare una diffusione esponenziale del contagio. Una delle più grandi criticità riscontrate a Bollate ha riguardato lo stop all’alto numero di detenuti soliti uscire per attività lavorative o di chi avrebbe potuto usufruire di permessi premio. A fronte della sospensione delle uscite e di molti servizi, come gli ingressi degli operatori esterni o delle associazioni di volontariato, sono nate iniziative dei singoli detenuti, tra cui la creazione di laboratori di sartoria per la realizzazione delle mascherine in tessuto, distribuite anche a detenuti di altri istituti. Molte attività sono state possibili grazie alla collaborazione dei detenuti e del personale penitenziario che si è reso disponibile a dare una mano il più possibile per fronteggiare la pandemia usando i mezzi a disposizione. Ammontano a circa 300 i detenuti che sono usciti in questo periodo grazie alle misure alternative della pena, per motivi di salute o perché c’era la possibilità di uno spostamento della pena ai domiciliari. Diminuire la presenza di detenuti all’interno dell’Istituto è stato l’unico modo rapido ed efficace per garantire il distanziamento sociale e reperire spazi necessari ad isolare contagiati, detenuti, operatori o anche coloro che presentassero sintomi sospetti simil-influenzali. Il carcere di Bollate si è preparato alla riapertura con i colloqui con i familiari di persona, e la riapertura delle porte agli operatori del terzo settore. Torino. Mille processi rinviati e l’incubo prescrizione, ecco il post Covid di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 9 giugno 2020 È come tornare indietro nel tempo, questo post Covid, dice il presidente della Sesta sezione penale, Modestino Villani. Uno che, l’arretrato di questa (un tempo) ingolfata sezione, aveva in gran parte smaltito. Processi a citazione diretta per piccolo spaccio, furti, truffe, tutti quei reati che segnano la vita di tanti cittadini. E ora, tra centinaia di mail allo sportello virtuale, il rischio prescrizione e quello di fare mille processi in meno del solito, tutto rischia di complicarsi. Nonostante che, da qui a dicembre 2020, Villani abbia già calendarizzati 2.070 procedimenti. Qualche giorno fa, nelle infinite tabelle di excel che riprogrammano le date delle udienze alla Sesta sezione penale, ci si è accorti - in tempo, per attenzione e fortuna - che annotando cinque processi si era erroneamente mischiato il numero del registro generale delle notizie di reato con quello del dibattimento, rischiando così di creare un fascicolo introvabile. Per non parlare delle centinaia di mail che, quasi ogni giorno, sono arrivate allo sportello virtuale: per saperne il contenuto, bisogna leggerle, una per una. C’è insomma il rischio che arrivino un sacco di scartoffie, ammette il presidente della Sesta sezione, Modestino Villani, che pure è già riuscito a calendarizzate 2.070 processi, dal 12 maggio al 23 dicembre. Un lavoraccio, dopo che il lockdown ha bloccato praticamente tutto, tra il 9 marzo e l’11 maggio, costringendo i giudici a riprendere in mano centinaia di fascicoli, per fissarne nuovamente le udienze. Non è una sezione a caso, la Sesta, creata il primo giugno 2016 su iniziativa del presidente del Tribunale, Massimo Terzi, perché si occupasse di tutti i procedimenti con “citazione diretta a giudizio”. Delitti e contravvenzioni magari piccoli per il legislatore, o meno gravi, ma grandi per chi li subisce o se li ritrova sotto casa, come il piccolo spaccio: dal furto alle lesioni, dai reati ambientali alla violazione degli obblighi di assistenza famigliare. Niente udienza preliminare, il pubblico ministero manda l’indagato a processo, chiedendo al tribunale - cioè alla Sesta sezione - di fissare una data di udienza. E poiché le Procure fabbricano più procedimenti di quanti se ne possano fare, con gli anni si era formato un monumentale arretrato. Che Villani era riuscito di molto a smaltire, fino alla pandemia. Detto che dai 2.070 sono esclusi i fascicoli già indicati nelle linee guida del presidente Terzi (con date fino al 19 novembre) e aspettando quelli con definizione “virtuale” (patteggiamenti e messe alla prova), l’anno potrebbe chiudersi con un migliaio di processi in meno celebrati. Almeno rispetto alla produttività media della Sesta. Senza dimenticare il problema della prescrizione, perché ci saranno processi che finiranno al 2021, mentre altri erano già fuori tempo massimo, o quasi. Tutti fascicoli per i quali, prima o poi, verrà appunto dichiarata la prescrizione. Questa è l’eredità del Covid19 - e delle decisioni che ne sono derivate - oltre alla difficoltà di dover far ripartire tutta la macchina della giustizia. “È un po’ come ritornare indietro nel tempo”, se non al 2016 quasi, sospira Villani. Ma almeno il lavoro di catalogazione dei fascicoli è già stato fatto. Dopodiché, l’emergenza ha lasciato pure altri problemi. A partire dall’analisi delle mail che arrivano allo sportello virtuale - “e nelle quali si fanno le richieste più diverse” - che devono essere aperte e lette: tant’è che ora cancellieri e assistenti giudiziari sono tornati a quattro giorni di presenza fisica a settimana. Del resto, pur nel rispetto degli standard di sicurezza, ovunque si è ripreso il lavoro. Resta anche il tema delle udienze filtro, per le quali si devono individuare le modalità più appropriate. Di certo non sono semplici da gestire, viste le poche aule a disposizione, quelle ritenute idonee: con l’ipotesi di poter esaminare un fascicolo ogni 15 minuti, ovvero quattro ogni ora. Impensabile, allora, farne una sessantina alla volta. Senza contare che i fascicoli andranno rivalutati, tra quelli in cui era già stata indicata una data, con decreto, e altri in cui la stessa non era ancora stata notificata. Al momento, senza considerare le filtro, tutti i giudici togati della sezione hanno due udienze a settimana, quelli onorari una (che diventano due a settimane alterne) Morale: si faranno comunque meno processi. Roma. M.A.MA, così gli affetti trovano accoglienza di Pisana Posocco ilgiornaledellarchitettura.com, 9 giugno 2020 È il Modulo per l’Affettività e la MAternità, prototipo realizzato dai detenuti su progetto del team G124 di Renzo Piano nel carcere femminile di Rebibbia. Se dare forma ai luoghi può essere una maniera per costruire modi di vivere, allora vuol dire che crediamo che lo spazio possa essere motore di comportamenti. L’architettura ha delle responsabilità nei confronti degli utenti. Un edificio deve rispondere ad aspetti funzionali - dare un ricovero, assolvere alle necessità d’uso, etc. - e deve anche accogliere e dare risposta alle esigenze umane di chi utilizzerà quello spazio. In carcere, con maggiore evidenza che altrove, può leggersi il ruolo che l’architettura ha nella vita di chi lo occupa. Attualmente è in corso di costruzione, presso la Casa circondariale femminile di Rebibbia (Roma), un piccolo fabbricato inserito in un’area verde, pensato come luogo d’incontro tra madri detenute e famiglie: il Modulo per l’Affettività e la MAternità (M.A.MA). Si tratta di una piccolissima architettura, uno spazio che si attiene alle dimensioni minime abitabili, con riferimento alla normativa sulla residenza. La sua forma iconica rimanda all’idea tradizionale di casa. È dotato degli strumenti essenziali allo svolgimento delle attività proprie della vita domestica quotidiana: una stanza, con un angolo cottura e servizio igienico; l’accesso avviene attraverso una loggia. Lo spazio verde esterno è organizzato come una radura all’interno di un’area sistemata ad hoc. Nella stanza interna le detenute potranno trascorrere del tempo con i propri familiari, condividendo un pasto e momenti di tranquillità. La casetta, lo spazio che vi è stato allestito, sono il luogo in cui preservare i rapporti tra madri, figli e famiglia, in cui far crescere il desiderio di ritorno a una vita nomale. L’occasione che ha portato al progetto e alla realizzazione del modulo M.A.MA. è la somma di più condizioni. Nel corso degli anni passati si sono sviluppate ricerche sull’architettura carceraria presso la Facoltà di Architettura dell’Università Sapienza di Roma. Tali indagini teoriche hanno incontrato una fortunata possibilità di sviluppo all’interno del progetto G124 che Renzo Piano promuove e finanzia da quando è diventato senatore a vita, richiamando l’attenzione sulle periferie. Il carcere è un luogo periferico e periferici sono gli utenti. Piano ha accolto con entusiasmo questo tema e lo ha seguito con interesse supervisionando il progetto, nel suo svolgersi e nella realizzazione. Il gruppo che vi ha lavorato, all’interno del Dipartimento DiAP della Sapienza, è composto da chi scrive e da tre giovani architetti: Tommaso Marenaci, Attilio Mazzetto e Martina Passeri, vincitori di borse di studio messe a disposizione da Piano*. Fondamentale è stato il rapporto istituito con il Ministero della Giustizia: il progetto è stato elaborato grazie ad una fruttuosa relazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il quale ha materialmente sostenuto la realizzazione del prototipo. In particolare, il confronto è avvenuto con l’Ufficio Tecnico, diretto da Ettore Barletta, e con il Provveditorato Regionale del Lazio, guidato da Carmelo Cantone. Il prototipo è stato progettato non solo in funzione di chi lo vivrà ma, anche, di chi lo costruirà. Il modulo M.A.MA è stato, quasi completamente, realizzato dai detenuti che lavorano nella falegnameria della Casa circondariale di Viterbo. Alcune lavorazioni di supporto sono state eseguite dalle detenute di Rebibbia. Si voleva che questo spazio fosse il più possibile utile alle detenute e ai detenuti, sia collaborando a tessere e conservare le relazioni attraverso incontri, sia offrendo loro un’opportunità di lavoro. Per questa ragione si è immaginato un criterio costruttivo che non avesse necessità di lavorazioni specialistiche, né che richiedesse movimentazione di carichi particolarmente pesanti. Si tratta di una forma di prefabbricazione leggera. La struttura portante è in telai di legno lamellare, tamponati e irrigiditi da pannelli collaboranti in OSB, tagliati, assemblati e lavorati in falegnameria presso la Casa circondariale di Viterbo. In opera sono due le lavorazioni fondamentali: verso l’interno, l’inserimento dell’isolante e il placcaggio di finitura in compensato marino a vista; verso l’esterno, il trattamento con un materiale che garantisce l’impermeabilizzazione e la definizione del volume. La finitura esterna è stata studiata in collaborazione con l’azienda Mapei, che ha donato i materiali. I pannelli hanno tutti un peso contenuto entro i 50 kg, in modo da poter essere agevolmente movimentati da due persone. Il modulo M.A.MA di Rebibbia è un prototipo: potrebbe, nel tempo, essere realizzato anche in altri penitenziari, così da provvedere un luogo d’incontro tra detenuti e famiglie. Milano. “Uno schermo e tanta buona volontà”: la didattica a distanza vista da San Vittore di Giada Ferraglioni open.online, 9 giugno 2020 L’emergenza Coronavirus ha travolto le carceri da innumerevoli punti di vista. Tra questi c’è l’istruzione, che è andata avanti a fatica grazie all’impegno degli insegnanti e la voglia degli studenti. Il 24 febbraio, nei giorni del carnevale, Luca Leccese, giovane professore di italiano che lavora a Milano, è sceso per le feste dalla sua famiglia in Puglia. Mentre cercava di godersi i primi giorni di sole, le serrande sulle regioni si sono abbassate a causa del Coronavirus e lui si è ritrovato quarantenato fuori dalla Lombardia. Come tutti gli altri colleghi, nelle settimane di pandemia si è dovuto ingegnare per portare avanti il suo programma didattico nonostante l’emergenza sanitaria. Ma la difficoltà, per lui, è stata doppia: i suoi studenti sono detenuti del carcere di San Vittore e l’interruzione della frequenza ha creato non pochi ostacoli al proseguo delle attività. Il diritto allo studio, però, è una cosa seria - anche e soprattutto nei centri di detenzione. E una strada per continuare l’ha trovata. L’8 giugno è stato l’ultimo giorno di lezione anche per loro, ma la situazione è rimasta bloccata da inizio marzo fino a metà aprile. Con lo scoppio dell’epidemia prima, e le proteste dei detenuti poi, le attività di educazione all’interno della casa circondariale di Milano hanno subito una brusca - e imprevista - interruzione. “Quando ci sono state le rivolte scatenate dallo stop alle visite dei familiari noi siamo stati allontanati”, spiega Leccese. “Non siamo stati riammessi fino a che non si è capito come riorganizzare il tutto. Poi, a metà aprile, il momento è arrivato: il Ministero della Giustizia ha iniziato a chiedere al carcere in che modo avesse intenzione di garantire il diritto allo studio dei detenuti”. L’organizzazione con cui lavora il docente è pubblica: si tratta di un Cpia, cioè uno dei Centri provinciali (statali) per l’Istruzione degli adulti che si occupa anche di fare lezioni all’interno delle carceri. Dall’alfabetizzazione fino al perfezionamento della capacità, gli insegnanti e gli educatori hanno coinvolto solo quest’anno - e solo a San Vittore - circa 850 studenti nei programmi scolastici. Di questi, Leccese e i colleghi sono riusciti a portarne all’esame per la vecchia licenza media (ora si chiama primo livello - primo periodo) solo 4. Nel corso dei mesi alcuni detenuti sono stati trasferiti (tutto il reparto femminile, ad esempio, si è svuotato) e non hanno potuto completare i moduli. Chi era in alfabetizzazione - soprattutto stranieri che stavano imparando l’italiano - sono rimasti indietro con i programmi, e gli unici che hanno potuto arrivare in fondo sono stati gli studenti di un altro blocco - quello del primo livello - che da più tempo stavano seguendo i corsi con loro. “A metà aprile dal ministero iniziavano a chiederci come avremmo svolto gli esami per la licenza media”, racconta il professore. “Abbiamo dovuto fare una scelta: visto che mancava un mese all’esame per quel livello e visto che ci era stata data una stanza piccola, abbiamo deciso di cercare le persone che erano state con noi fin sa ottobre e che avevano già le competenze per poterlo passare”. E così via di inventiva: gli insegnanti di italiano, di arte, di matematica e di tutte le altre materie hanno creato di loro pugno un manuale da consegnare ai 4 studenti (tutti di età compresa tra i 25 ai 50 anni, sia italiani che stranieri) e dal lunedì al venerdì sono riusciti a garantirgli due ore di lezione giornaliere per circa 4 settimane. Come? Con un computer piazzato al centro dell’unica aula nella quale arrivava la connessione internet. A regime le aule disponibili sono circa una trentina, e ospitano attività dei generi più disparati (dalle lezioni di italiano fino ai laboratori artistici). “In questa situazione le difficoltà erano evidenti”, racconta Leccese. “Ci siamo detti: ma come facciamo a fare la Dad come la fanno fuori? Qui abbiamo solo un pc a disposizione, loro non possono usarlo né - spesso - saprebbero come fare”. L’unico modo era quello di usare uno schermo per fare una classica lezione frontale e preparare gli studenti a un esame che riguardasse una tesina compilativa. “Mercoledì ci consegneranno tutto e noi li valuteremo senza il colloquio”, ha detto. Presenteranno anche un libretto con sopra stampati i loro lavori di disegno svolti durante le ore di educazione artistica con il professor Vincenzo Samà. Certo, la questione è tutt’altro che risolta. Eppure, sia gli studenti sia i professori si sentono fiduciosi. “Poter continuare a studiare è stato fondamentale per loro - soprattutto in un momento difficile come questo”, racconta. “Non è certo una situazione definitiva, ma una base importante per poter pensare di non lasciare al caso il prossimo anno scolastico”. Secondo Leccese, infatti, sarà difficile che a settembre si potrà tornare a fare lezione come nel pre-Covid. L’emergenza sarà ancora invalidante e “il fatto che si sia attivato un contatto online è già una piccola rivoluzione”. A rimanere scoperti saranno i percorsi di accoglienza e iscrizione, fondamentali per capire l’accessibilità dei singoli ai vari indirizzi. Ma per quanto ci sia la voglia e l’impegno da parte di allievi e professori, il vero ostacolo è la struttura. “San Vittore è un carcere grande, dispersivo e vecchio”, dice Luca. “Bisognerà trovare una soluzione per poter usare tutte le aule, altrimenti non avremo modo di seguire tutte le centinaia di persone che hanno diritto a un’istruzione. Anche questo è un problema pubblico di cui si dovrebbe discutere molto di più”. Livorno. A Gorgona e Pianosa i detenuti diventano braccianti redattoresociale.it, 9 giugno 2020 Nelle due isole dell’arcipelago toscano, grazie a un accordo tra Regione e Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, alcuni reclusi potranno avviare progetti lavorativi. I detenuti diventano braccianti. Via Libera all’accordo di collaborazione tra la Regione Toscana e il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) per la realizzazione di attività finalizzate all’inclusione lavorativa e sociale dei detenuti, ospiti dei penitenziari di Gorgona e Pianosa. Lo schema della convenzione è stato deliberato nel corso dell’ultima seduta di Giunta su proposta dell’assessora alla formazione, istruzione e lavoro, Cristina Grieco. La delibera definisce anche l’entità delle risorse assegnate, pari a 60 mila e 65 euro, nell’ambito del progetto “Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale”, finanziato dal Pon (Piano operativo nazionale) Inclusione 2014-2020 del Miur, e di cui la Regione è beneficiaria. Il finanziamento assegnato per la realizzazione delle attività del progetto sarà così suddiviso: 48 mila e 800 euro a carico della Regione e i rimanenti 16 mila e 265 euro a carico di Crea. “È un progetto sperimentale decisamente innovativo, cui teniamo molto - spiega Grieco - perché consente, attraverso lo strumento della formazione, l’inserimento lavorativo e sociale dei detenuti e, nello stesso tempo, la promozione dello sviluppo delle attività economiche dei territori direttamente interessati, grazie a una rete di attori, pubblici e privati, costruita in modo strutturato e integrato. Da anni la nostra Regione è fortemente impegnata in progetti che favoriscano l’inclusione attiva, la promozione delle pari opportunità, lo sviluppo dell’occupazione e la fattiva partecipazione delle realtà istituzionali e imprenditoriali locali, dando il proprio contributo nel definire un modello organizzativo, che potrebbe poi essere replicato a livello nazionale”. Le attività previste dall’accordo sono molteplici: analisi dei contesti dove saranno avviate le sperimentazioni, definizione dei fabbisogni territoriali, benchmarking (analisi comparativa), raccolta di informazioni strutturate, finalizzate alla conoscenza approfondita dell’organizzazione interna delle colonie agricole, dei processi produttivi, della potenziale domanda e possibili modelli di business, che potranno fare da volano successive fasi progettuali. “Il progetto è complesso e coinvolge non solo la Toscana, ma anche altre Regioni come la Puglia, che è capofila, l’Abruzzo e la Sardegna - aggiunge l’assessora al diritto alla salute, al welfare e all’integrazione socio-sanitaria, Stefania Saccardi. L’inclusione sociale e lavorativa di persone svantaggiate, in ambito agricolo e rurale, è una delle azioni su cui intendiamo investire. Il nostro intento è quello di rafforzare il rapporto tra i servizi sociali e quelli di politica attiva del lavoro tramite la sperimentazione di percorsi di inserimento lavorativo intramurario dei detenuti, a partire dai settori delle produzioni agricole e della falegnameria, aiutando queste persone ad acquisire le competenze necessarie. Peraltro, nei territori di Gorgona e Pianosa abbiamo già in essere alcuni progetti sociali e quest’ultima iniziativa non fa che rafforzare il nostro impegno per la valorizzazione di queste due isole straordinarie”. Airola (Bn). Tablet utilizzati da minori per chat porno? Era una fake news di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 giugno 2020 Il Garante campano Samuele Ciambriello: “ci vogliono azioni disciplinari sia su chi dal carcere manda notizie false, sia verso giornalisti che non verificano fonti e notizie”. Un detenuto minorenne del carcere campano minorile di Airola avrebbe inviato foto, dall’interno della cella, a emittenti locali e, addirittura, avuto accesso a chat porno con i dispositivi telematici messi a disposizione per i colloqui? Tutto falso. Qualche settimana fa i mezzi di informazioni, compresi quelli tv, hanno sbattuto in prima pagina il recluso minorenne prendendo per buona una nota del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Il Garante regionale Samuele Ciambriello ha smentito tutto, ricostruendo la verità fatti. Durante la famosa videochiamata la madre di un detenuto al temine del colloquio ha scattato la foto del figlio, in compagnia di un altro giovane che doveva effettuare la successiva telefonata. Questa immagine è diventata uno “screenshot”, realizzato dalla mamma del giovane e imprudentemente inviata all’emittente locale “Campania 1”. Dopo la telefonata l’agente di Polizia penitenziaria, controllando il tablet, ha scoperto il tentativo, da sottolineare il tentativo, di connessione con un sito porno apparso per pochi istanti sullo schermo, forzando il sistema di protezione del dispositivo. Quindi non c’è stato alcun collegamento con siti porno, alcun invio di foto o altro direttamente a tv e radio locali. “Chi riparerà al danno arrecato? È l’autogol dei sindacalisti sarà sanzionato?”, si chiede Ciambriello. “Il problema non era e non è se informare o non informare - osserva il garante regionale - il problema esiste su come informare, specie quando si tratta di minori. Ci vogliono, da tutte le parti in causa, segnali più concreti dell’esigenza di proteggere i minori, i soggetti più deboli, dalle conseguenze possibili di una non corretta informazione anche con i nuovi mezzi di informazione”. Il Garante campano Ciambriello poi ci va giù duro: “Ci vogliono azioni disciplinari sia su chi dal carcere manda notizie false e strumentalizza i ragazzi e le criticità interne per far emergere eventuali problemi organizzativi dell’Istituto, sia verso giornalisti che non verificano fonti e notizie”. Di certo è un periodo dove si fa a gara a dare notizie scandalistiche sul carcere. Dal tema “scarcerazioni” (termine sbagliato) al presunto utilizzo impertinente dei mezzi telematici per effettuare i colloqui. Sindacati a parte, ancora una volta nasce il problema deontologico del giornalismo. Allora vale la pena ricordare che nel testo unico del giornalista viene contemplata anche la “Carta del carcere e della pena” o più semplicemente la “Carta di Milano’’, un protocollo deontologico obbligatorio per tutti i giornalisti italiani. La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta e la sua dignità, contro ogni forma di discriminazione, tenendo ben presente i principi fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalla normativa europea. Negli otto articoli della Carta si ribadisce il valore di ogni azione che tenda al reinserimento sociale del detenuto, un passaggio complesso che può avvenire a fine pena oppure gradualmente, come prevedono le leggi che consentono l’accesso al lavoro esterno, i permessi ordinari, i permessi premio, la semilibertà, la liberazione anticipata e l’affidamento in prova al servizio sociale. Raccomanda l’uso di termini appropriati in tutti i casi in cui il detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari, un corretto riferimento alle leggi che disciplinano il procedimento penale, una aggiornata e precisa documentazione del contesto carcerario, un responsabile rapporto con il cittadino condannato non sempre consapevole delle dinamiche mediatiche, una completa informazione circa eventuali sentenze di proscioglimento e tenere conto dell’interesse collettivo ricordando, quando è possibile, i dati statistici che confermano la validità delle misure alternative e il loro basso margine di rischio. Viene rispettato tutto ciò, come la deontologia impone? Palermo. Antimafia e antiviolenza: progetto educativo nel nome di Pio La Torre di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 9 giugno 2020 Riprendono con l’inizio del nuovo anno scolastico anche le lezioni del Centro Studi Pio La Torre: la 14esima edizione del Progetto educativo antimafia e antiviolenza ha come oggetto il “Terrorismo mafioso, le infiltrazioni negli uffici pubblici, il welfare della mafia e i rapporti tra boss e chiesa”. Il ciclo di videoconferenze promosso dal Centro fra gli studenti degli istituti scolastici secondari italiani e all’estero e gli allievi delle case circondariali, è patrocinato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) che gestisce la partecipazione dei detenuti interessati, la Direzione Investigativa Antimafia, le associazioni degli studenti universitari, la Regione Sicilia, la presidenza dell’Assemblea Regionale Sicilia e l’Anci. Il sistema di videoconferenza, da sempre usato dal Centro per il collegamento con scuole e case circondariali, è stato potenziato ancor di più nel periodo di lockdown a causa della epidemia da Covid-19. “Il progetto educativo mira a contribuire - è scritto nel sito del Centro studi - a un generale processo di educazione civica degli studenti delle scuole secondarie di 2° grado pubbliche, paritarie e delle case circondariali, ispirato ai principi della nostra Costituzione, della Carta Europea dei diritti umani, della Dichiarazione Universale dei diritti umani. L’obiettivo di fornire agli studenti criteri, stimoli e strumenti di valutazione libera e critica”. Ogni lezione sarà tenuta da una sala della città di Palermo e all’inizio del ciclo gli studenti risponderanno a un questionario circa la loro percezione del fenomeno mafioso di cui si tratterà durante le lezioni. “In questo momento di grave crisi economica - ha spiegato Vito Lo Monaco, presidente del Centro - pesano gli allarmi, lanciati da varie parti politiche e istituzionali sui tentativi concreti di infiltrazioni mafiose nei territori, nel tessuto sociale ed economico del paese sofferente e a disagio per gli effetti negativi sulle famiglie, sulle imprese, sui lavoratori e sui soggetti sociali più deboli e poveri”. Sulmona (Aq). Detenuti alla scoperta dello zafferano ilcapoluogo.it, 9 giugno 2020 Lezioni online per i detenuti-studenti del supercarcere di Sulmona. Due appuntamenti alla scoperta della zafferano. Zafferano protagonista di ben due video-lezioni online che hanno coinvolto i detenuti-studenti del supercarcere di Sulmona, da un lato, e il presidente del Consorzio di Tutela dello Zafferano, Massimiliano Di Crescenzo, dall’altro. L’iniziativa si inserisce nell’appassionante percorso “Impresa Cooperativa Simulata”, che vede protagonisti l’Istituto tecnico e professionale agrario “Arrigo Serpieri” di Avezzano, Pratola Peligna e Castel di Sangro e Fedagripesca di Confcooperative Abruzzo. Le due lezioni sono state coordinate da Angela Colangelo di Confcooperative, che racconta: “Una quindicina di detenuti-studenti hanno accolto il nostro invito a conoscere un’eccellenza territoriale come lo zafferano, magistralmente spiegato da D’Innocenzo che, nel presentare la storia e le attività della sua cooperativa, ha condotto i partecipanti alla scoperta di un prodotto importante e di una realtà dinamica del territorio. L’interesse suscitato è stato grande, non solo per quanto riguarda il prodotto ma anche per la modalità cooperativa, sconosciuta ai più. Alla luce di questa esperienza, con la scuola e la casa circondariale non escludiamo di realizzare in futuro un progetto che possa portare tra i detenuti una possibile produzione di zafferano. Sin da ora, il nostro grazie va alla dirigente scolastica del “Serpieri” Cristina Di Sabatino e al direttore del carcere, Sergio Romice”. Aggiunge la dirigente scolastica Di Sabatino: “Organizzare la didattica a distanza presso la casa di reclusione di Sulmona ha richiesto indubbiamente un impegno particolare da parte della scuola. Ma il desiderio di tornare ad incontrare, seppur virtualmente, gli studenti detenuti, e garantire loro il contatto con i docenti, ha condotto la comunità educante del Serpieri a raggiungere l’obiettivo. Con la collaborazione sinergica tra scuola, direzione carceraria e corpo delle guardie carcerarie siamo riusciti ad attivare le attività in sincrono tramite la piattaforma Meet G Suite strutturando un vero e proprio orario delle lezioni. Si è trattato di garantire agli studenti ristretti il diritto allo studio e, per estensione, confermare il valore rieducativo della pena. Il progetto di Impresa Cooperativa Simulata ci ha consentito, inoltre, di ampliare l’offerta formativa per gli studenti delle classi quinte, che stanno per affrontare l’esame di Stato e che potranno parlare di questa preziosa esperienza durante il colloquio. Ringrazio Angela Colangelo di Confcooperative e Massimiliano D’Innocenzo, presidente del Consorzio per la tutela dello zafferano, che hanno saputo coinvolgere gli studenti in un percorso interessante e innovativo fornendo loro competenze pienamente coerenti con gli studi di agraria e trasmettendo il valore di cittadinanza insito nel lavoro cooperativo. Chissà che in futuro non si possa realizzare una piccola coltivazione di zafferano all’interno della casa di reclusione”. Tempio Pausania. Detenuto si laurea dal carcere: all’università di Sassari è il primo caso sardiniapost.it, 9 giugno 2020 È un detenuto del carcere di Nuchis, a Tempio, il primo laureato a distanza del Polo universitario penitenziario dell’Università di Sassari. Il titolo accademico è stato conseguito nei giorni scorsi con una sessione di laurea in Scienze della politica tenuta in collegamento telematico tra la commissione a Sassari e il candidato nel carcere di Tempio. Da qui il detenuto ha discusso la sua tesi sulla nascita ed evoluzione del movimento femminista. “Questa laurea è un traguardo non solo per lo studente ma per tutte le persone dell’Università di Sassari e dell’amministrazione penitenziaria che hanno reso possibile tutto ciò”, commenta Emmanuele Farris, delegato rettorale per il Pup-Polo universitario penitenziario. Al Pup aderiscono quattro istituti penitenziari, Alghero, Nuoro, Sassari e Tempio: da maggio le quattro strutture garantiscono collegamenti a distanza, esami sia scritti sia orali, fornitura regolare dei materiali di studio e comunicazioni costanti tra docenti e studenti. In questo panorama si è distinto il carcere di Tempio, riservato esclusivamente all’alta sicurezza: rispetto a una media nazionale dell’1,5%, a Tempio studia all’università il 17,3% dei detenuti. La media complessiva del Pup dell’Università di Sassari, nei quattro istituti in cui opera, è del 5%. Uno staff di 15 docenti referenti, 15 amministrativi, un delegato, una segreteria, 20 tutor segue costantemente oltre 60 studenti detenuti in stretta collaborazione con le direzioni e i funzionari giuridico-pedagogici dei quattro istituti. Benevento. Un viaggio nella danza per le detenute, grazie alla coreografa Carmen Castiello di Massimiliano Craus iodanzo.com, 9 giugno 2020 Raccontiamo un’esperienza inedita nel mondo della danza, soprattutto in questi tempi di pandemia e solitudini a tutte le latitudini. Riportiamo la storia di una coreografa, Carmen Castiello, che per tre mesi ha seguito sei detenute nel carcere di Benevento, con un percorso concepito per risollevarle e ridarle dignità. Un viaggio nei meandri della casa circondariale sannita e nel cuore di ciascuna di loro, compresa la direttrice del Balletto di Benevento e ben quattro interpreti dell’ensemble impegnate in prima persona nello spettacolo “Oblivion” tenuto nell’auditorium di Sant’Agostino sotto l’egida della Questura. Un percorso che sembrerebbe ad ostacoli e che, invece, ha sortito effetti largamente insperati con la soddisfazione per tutte le protagoniste. Come traspare evidentemente dalle parole della coreografa Carmen Castiello “L’attività corporea nella detenzione può essere un canale di comunicazione e può diventare sostegno dello stato fisico, mezzo di lavoro introspettivo: il corpo diventa una mediazione tra il sé e prendere coscienza di esistere attraverso la comunicazione silenziosa che permette un sano recupero del rapporto con il proprio corpo. Lo spazio dove si svolgevano le attività era piccolo ma con grandi finestre dove la luce e la visione del cielo rendevano il lavoro più leggero e piacevole. Nei nostri incontri nel loro raccontarsi, affiorava continuamente la paura di dimenticare il volto dei propri cari, il mare, il vento e gli odori della vita. Così attraverso i suoni cercavamo suggestioni ed alla sofferenza seguivano abbracci e condivisioni, momenti di dolore e felicità.” Ma qual è stato l’approccio emotivo e corporeo della nostra interlocutrice? “Attraversavo ogni volta molte porte prima di arrivare, accompagnata dai suoni freddi e metallici di grandi chiavi. L’ingresso che mi accoglieva era quello di una comunità con una parvenza di realtà domestica e continuando a percorrere il lungo corridoio, intriso di profumo di cibo e di caldo che veniva dalla cucina, si arrivava in una sala che somigliava ad un laboratorio. È lì che si poteva comunicare, apprendere e relazionarsi durante le attività: lavori esposti in un piccolo sistema sartoriale con manichini, pezzi di stoffa, penne, matite, pennelli e persino un metronomo… e poi l’incontro con Antonella, Patrizia, Ines, Marianna, Marinella e Lina con una profonda commozione dopo l’ansia dell’attesa. L’incontro è stato con i loro occhi, occhi profondi e sguardi segnati dal dolore. Il volto scavato dal tempo, un tempo dilatato senza limiti! Iniziavamo a lavorare solo sull’ascolto della musica, poi dei rumori e suoni “dimenticati” come il mare ed il vento, i ricordi e la malinconia, un percorso attraverso il quale svanivano i nostri confini per dare spazio ad un viaggio in cui affiorava la paura di dimenticare la vita ed essere dimenticate. La paura di dimenticare ed essere dimenticate mi lasciava una profonda angoscia. Lo spazio della reclusione, del castigo e della riflessione, uno spazio ristretto nella possibilità di svolgere esperienze, dove la percezione del tempo si estende a tal punto da non coincidere più con il tempo reale. L’esperienza della danza attraverso il laboratorio del movimento e della musica dava loro immediatamente la possibilità di appropriarsi di uno spazio interiore e di liberarsi, approdando ad una sensazione di libertà”. Oltre alle considerazioni della coreografa ci piace sottolineare anche quelle dell’interprete/detenuta Ines, una tunisina trentaquattrenne che si è messa in gioco insieme alle sue cinque compagne di sventura “Le sensazioni che provo quando danzo ed ascolto sono: chiudo gli occhi e sento il mio corpo ondeggiare e ricordo quando io e mia sorella da piccole ballavamo… le nostre risate! Per pochi minuti mi sento nel mio paese e sento il mare e con la mente sono lì”. Esperienza trimestrale che ha condotto tutte le protagoniste alla scena, proprio come ci spiega Carmen Castiello: “Dopo un mese circa di laboratorio interpretavano i loro gesti con molta consapevolezza e cominciammo a raccogliere idee, impressioni e sensazioni per un racconto coreografico che partiva dalle loro scritture di fine laboratorio. Racconti che parlavano di separazioni da figli, amori e famiglie in un passato che si fondeva al presente. E la paura del futuro che era, in realtà, la paura di non avere un futuro! Lavorammo intensamente ed ininterrottamente, sostenute dalla presenza delle quattro danzatrici volontarie della Compagnia Balletto di Benevento Odette e Giselle Marucci, Ilaria Mandato e Lucrezia Delli Veneri. I loro movimenti si amalgamavano e diventavano un corpo solo per la loro capacità di mettersi in gioco, di comprendersi grazie alla musica dell’Orchestra cosicché i loro volti diventavano più distesi, sembravano riappropriarsi della propria femminilità. “Oblivion” era il titolo della performance, titolo introspettivo e struggente che si riallacciava al concetto della paura di dimenticare ed essere dimenticati da chi e da dove eravamo partite. Un pensiero triste che si trasforma in danza: riuscire a fondere un sentimento profondo, dolce e triste con l’istintualità della danza per potersi ritrovare. Dopo circa tre mesi dall’inizio del nostro lavoro, abbiamo portato in scena la nostra esperienza in occasione di una grande manifestazione organizzata dalla Questura di Benevento, nell’Auditorium Sant’Agostino con la presenza dell’Orchestra e dei nostri indelebili ricordi di un’esperienza indimenticabile. Gherardo Colombo: “Non esiste vera libertà senza solidarietà” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 giugno 2020 L’ex magistrato impegnato da anni come volontario per educare alla legalità giovani e detenuti. “Rispettare la legge è una cosa, ma per agire con giustizia bisogna capire se quella legge sia giusta. Seguire una norma per il solo timore della sanzione produce un popolo di sudditi, non di cittadini”. “Esiste una convinzione diffusa che il modo di stare insieme sia di mettersi reciprocamente i piedi sulla testa l’uno degli altri”. È dal 2007, cioè da quando (in largo anticipo sul pensionamento) lasciò la magistratura, che l’ex pm di Mani pulite Gherardo Colombo, 73 anni, si impegna ogni giorno nelle scuole all’educazione alla legalità. Si fa presto dire cittadini, oggi si rischia di essere lo stesso sudditi… “Cittadino è chi è titolare di diritti che non possono essere violati, ma per essere suddito non è necessaria una legislazione che privi dei diritti fondamentali: c’è chi si rende suddito privandosi dell’essenza della propria funzione di partecipe dell’esercizio dell’amministrazione della collettività tramite gli strumenti messi a disposizione dalla democrazia”. Tentazione che seduce molti… “Perché la partecipazione è qualcosa che comporta oneri di un certo rilievo a carico di ogni persona. E qui c’è, in molti, una grande tendenza a scaricare su altri la responsabilità dell’esercizio della sovranità, tanto che generalmente hanno successo in politica quelle persone che si presentano ai cittadini promettendo di sollevarli dalla fatica della scelta”. Pure la legalità pare soffrire… “Il rapporto con le regole può essere qualificato dalle conseguenze della loro violazione. Se la conseguenza è la punizione, la minaccia di punizione educa non a comprendere il contenuto della regola, ma educa appena a obbedirle: solo che in questo modo si può forse avere un popolo obbediente, ma difficilmente si può avere un popolo consapevole. Il perché osservare la legge non glielo devi imporre, ma spiegare. A partire dall’idea che la legge vada vista come uno strumento per arrivare a un fine. Piace pagare le tasse? A quasi tutti no. Ma le risorse che si raccolgono con la fiscalità sono proprio quelle che rendono effettivi quei diritti affermati sulla carta: in concreto non c’è diritto alla sicurezza senza polizia, all’istruzione senza scuole, alla salute senza ospedali”. E il rapporto tra legge e giustizia? “Legalità attiene al rispetto della legge punto e basta, invece giustizia riguarda il contenuto della legge. E questa tal legge è giusta? Ecco il problema più grosso che esista. Perché le leggi le facciamo noi. E possono essere orientate a costruire una società verticale, attraverso la distribuzione discriminante di diritti e doveri; o essere orientate a costruire una società orizzontale, in cui a ciascuno, nel limite del possibile, siano date opportunità analoghe agli altri”. Eppure alla società verticale si conformano anche molti di coloro che ne patiscono le conseguenze… “Esiste una convinzione molto diffusa che il modo di stare insieme sia mettersi reciprocamente i piedi sulla testa l’uno degli altri. È l’effetto del “si è sempre fatto così”. Pensi che in Italia il diritto di famiglia, che metteva il marito a capo della famiglia e costringeva la moglie a obbedirgli, è stato modificato solo ne11975: 27 anni dopo la Costituzione, un’intera generazione”. Come si fa a riparlare di solidarietà, centrale nella Costituzione, sottraendola nel contempo all’inflazione del buonismo d’accatto? “Bisogna entrarci, nella Costituzione. Quali sono le relazioni di causa-effetto nella Costituzione? L’articolo 3 dice che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale” e sono eguali davanti alla legge senza distinzione delle condizioni personali e sociali che li caratterizzano (genere, etnia, religione...), ma generalmente si tende a dimenticare la prima parte, che invece è proprio quella che tiene in piedi tutto il resto: siccome tutti hanno pari dignità, allora le loro caratteristiche individuali non possono essere causa di discriminazione. Lo stesso all’articolo 2, “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”: ecco, quel “e richiede” ci dice che, siccome ciascuno (non solo qualcuno, ma proprio chiunque) è titolare di diritti che non possono essere toccati, allora perché questi siano realizzati in capo a ciascuno è necessaria la solidarietà. Che viene da “solidus”, richiama la solidità della relazione della comunità della che esprime il diritto. E bisognerebbe riflettere sulla comune radice indoeuropea delle parole “libertà” e “appartenenza”: è l’appartenenza alla comunità che, contemporaneamente, richiede e offre solidarietà, cioè solidità della relazione nella comunità, e origina la libertà”. Non siamo pecoroni, abbiamo rinunciato per un po’ ai diritti per un bene superiore di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 9 giugno 2020 Le preoccupazioni reali sono di ben altra natura, legate al disastro economico e al profondo disagio sociale che colpirà gli strati più deboli della società. Il lungo periodo di lockdown cui siamo stati costretti per contrastare il contagio da Coronavirus si è accompagnato alla privazione di alcuni fondamentali diritti di libertà solennemente enunciati nella prima parte della Costituzione, quella che parla dei diritti e dei doveri dei cittadini. Converrà qui sommariamente enunciare le principali libertà di cui i cittadini sono rimasti privati nei mesi dell’isolamento sociale, tenendo presente che la stessa Costituzione prevede che la legge possa stabilire in via generale dei limiti ai diritti di libertà. Al primo posto collocherei il diritto di soggiornare e circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, diritto che la legge può limitare solo per motivi di sicurezza o di sanità. Al fine di contrastare la diffusione del contagio, tale diritto è stato pressoché completamente eliminato per oltre quattro mesi e il rimedio si è dimostrato quanto mai efficace. Analogamente sono temporaneamente scomparsi dalla vita sociale il diritto di riunione, che ordinariamente può essere limitato solo in caso di riunioni in luogo pubblico per motivi di sicurezza o di incolumità; il diritto di associarsi liberamente per fini non vietati ai singoli dalla legge penale; il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in forma associata, di farne propaganda e di esercitarne in pubblico il culto; l’accesso all’istruzione, obbligatoria e gratuita per almeno otto anni. In questo lungo elenco un’attenzione particolare va riservata al diritto al lavoro, collocato tra i principi fondamentali della Costituzione, perché gravissime saranno le conseguenze socio-economiche della prolungata privazione del suo esercizio. Ebbene, nei mesi più cruciali della pandemia tutti questi diritti hanno dovuto cedere il passo al superiore principio della tutela della salute, definito nell’art. 32 della Costituzione come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Nel bilanciamento tra i vari diritti e interessi tutelati dalla Costituzione nessuno ha dubitato che il diritto alla vita dovesse prevalere sulle fondamentali libertà e opportunità (penso per queste ultime al lavoro e all’istruzione) che un ordinamento democratico assicura potenzialmente ai suoi cittadini o comunque ai soggetti che risiedono sul territorio dello Stato. La rinuncia ai diritti e alle libertà è stata pacificamente e ordinatamente accettata dalla stragrande maggioranza del popolo italiano, che ha così dato una grande prova di consapevolezza del pericolo rappresentato dalla pandemia, di maturità e di senso di responsabilità nell’adeguarsi, anche in nome dell’interesse della collettività, alla limitazione se non alla totale scomparsa degli spazi e dei diritti di libertà che sino ad allora avevano contrassegnato la vita individuale e sociale. Questa opinione non è però condivisa da tutti. In particolare, alcuni giuristi hanno manifestato la preoccupazione che la rinuncia ai diritti individuali sia stata troppo docilmente accettata, senza che i destinatari si rendessero conto dei rischi che la sia pure temporanea privazione dei diritti di libertà avrebbe comportato per il futuro. Si è persino arrivati a prefigurare il lockdown e le conseguenti privazioni delle libertà individuali come una sorta di prova generale di un sinistro futuro in cui, a prescindere dalle situazioni di emergenza e di necessità connesse alla pandemia da coronavirus, il potere avrebbe cercato di diminuire o eliminare gli spazi di libertà dei cittadini. Al di là di queste fosche prospettive, le preoccupazioni reali sono di ben altra natura, legate al disastro economico e al profondo disagio sociale che colpirà gli strati più deboli e emarginati della società italiana nelle fasi 2, 3 e via dicendo del dopo pandemia. Almeno per ora difendiamo e apprezziamo il grande senso di responsabilità dimostrato dalla stragrande maggioranza della popolazione nei mesi del forzato isolamento sociale e della privazione dei diritti, evitando di interpretare questa pagina positiva della vita sociale del nostro Paese come se fosse espressione di un popolo di pecoroni docili e sottomessi. Siamo stati bravi e possiamo dirlo con forza, consapevoli che ci attendono prove ancora più dure per fronteggiare il disastro economico da Coronavirus. Don Vinicio Albanesi: “Ora serve un’epidemia di senso civico” di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 9 giugno 2020 Il presidente della Comunità di Capodarco riflette sul fatto che l’emergenza non ci ha cambiati, anzi ha reso più evidenti le ambiguità: “Manca una prospettiva: stiamo ripiegati nelle nostre sicurezze e ai giovani non offriamo nulla” Come stiamo a senso civico? “Bene, tutto sommato”. Sicuro? “Ma certo. Non è il senso civico a mancare, in Italia. È il sogno. E la pandemia non ci ha cambiati, in questo senso, anzi ha reso più evidente questa ambiguità”. Don Vinicio Albanesi, 76 anni, dal 1994 ha raccolto il testimone del fondatore don Franco Monterubbianesi ed è presidente della Comunità di Capodarco. Disabili, tossicodipendenti, migranti, anziani, una vita dedicata al prossimo... “Vede, il cristianesimo non tramonterà, anche se in Occidente sembra stia scomparendo. E sa perché? Perché offre il rispetto della persona, qualunque persona, ed è sostenuto da una prospettiva trascendente”. E questo che cosa c’entra con il senso civico, scusi? “C’entra, perché il comandamento di Gesù di amarsi come fratelli dà la cifra dello stare insieme, della comunità. Il senso civico si fonda su questo. La rivoluzione francese non si è inventata niente, anche Nietzsche lo riconosce. Al di là del credere o non credere, Gesù ha lasciato una traccia dalla quale non si può prescindere. “Ma io vi dico: amate i vostri nemici, pregate per i vostri persecutori”. Si rende conto? Il perdono, anche a un nemico, è possibile solo perché gli vuoi bene. Come qualsiasi genitore, o fratello, o amico”. E questa traccia, le radici cristiane, c’è ancora? “In Italia c’è ed è molto forte, anche. Pensi a chi lavora negli ospedali o nelle scuole, ai genitori che fanno sacrifici straordinari per i figli neonati, allo scienziato immerso giorno e notte in una ricerca, agli imprenditori che tanti disprezzano e invece dedicano la loro vita all’azienda, a dare lavoro, agli artisti, a tutti coloro che mettono cura e dedizione nel proprio mestiere… È impegnarsi per ciò che si ama a reggere la dimensione della convivenza civile. E questo è molto diffuso. Io non ho una visione negativa della società”. La comunità di Capodarco è nata proprio con questo spirito: l’idea che tutti potessero fare la propria parte nella società. “Certo. Non lasciare i disabili chiusi negli istituti, ridare loro dignità, la possibilità di avere una famiglia, dei figli, di lavorare e vivere una vita propria”. Però, se non il senso civico, qualcosa manca, no? “Agli italiani manca una prospettiva. Negli ultimi anni nessuno ha suggerito loro un futuro, indicato una strada, lanciato uno sguardo al di là del presente. Chi è che ci ha fatto sognare? Nessuno. Non c’è il sogno. Siamo sopravvissuti, giorno dopo giorno. Così è inevitabile che ognuno tenda a ritirarsi in se stesso e badare alle cose sue. Che cresca la preoccupazione, e quindi la paura. Che rinascano istinti primordiali come la diffidenza o l’astio nei confronti dello straniero. Come è possibile, se poi abbiamo un milione di badanti che hanno cura dei nostri anziani? Eppure accade, anche perché si affianca alla mancanza di occupazione per i nostri figli”. Perché diceva che la pandemia non ci ha cambiati? “Perché questa tensione è rimasta, come tra anima e corpo. Da una parte la partecipazione emotiva, la solidarietà, il dolore per i morti e i camion militari che trasportavano le salme. Dall’altra, nel momento della ripartenza, il risorgere di una sorta di lotta per la sopravvivenza. Tanto più dura perché si vorrebbe ritrovare l’abbondanza di prima. Il corpo che vuole vivere, mangiare, e l’anima che dice: sii generoso, abbi fiducia. Ma l’anima ha bisogno del sogno, della prospettiva, oggi più che mai”. È un problema della politica? “È un problema di tutti quanti hanno responsabilità. Quando si sogna, tutti hanno una prospettiva che guarda al futuro. Pensi al Sud, è una tragedia. Molti giovani tirano avanti grazie alle pensioni dei nonni. Se questi ragazzi non hanno un futuro, non crederanno mai ad una società solidale ma cercheranno da sé la propria strada, ciascuno per conto suo. Solo che andando da soli non riusciranno a realizzare un sogno comune”. Sta dicendo che siamo egoisti con i giovani? “No, non siamo egoisti: siamo incapaci, che è peggio. Ai giovani non stiamo offrendo niente, né realtà né risorse né sogni. Niente di niente. I ragazzi sono generosi, coraggiosi, vogliono affrontare la vita. E noi li teniamo in stand-by. Restiamo ripiegati nelle nostre piccole sicurezze, senza sapere né interessarci a cosa faranno i nostri figli e nipoti”. Salute Mentale, evitiamo che non cambi niente di Vito D’Anza* Il Manifesto, 9 giugno 2020 Un motivo ricorrente in questo periodo di pandemia è stato: niente sarà più come prima. Si aspettano cambiamenti soprattutto nel nostro modo di pensare lo Stato e la politica. Dovrà essere ridisegnata soprattutto il modello di salute pubblica. Insieme al modello dell’istruzione, con la drastica riduzione della burocrazia nella funzione pubblica. E poi, ma prima di tutto, si dovrà mettere mano alla questione delle disuguaglianze sociale che ormai, anche sulla spinta della pandemia, sono arrivate a livelli di allarme rosso. Ma sarà vero? Succederà tutto questo? Il sistema politico sarà in grado di cogliere questa grande opportunità, più unica che rara, di modificare il modo stesso d’intendere la politica, di mettere al centro della propria azione esclusivamente il bene comune? Sono uno psichiatra, un operatore della salute mentale e da qui vorrei partire. Il 30 maggio si è svolta in webinar la Conferenza Nazionale Salute Mentale. È stata partecipata da oltre 500 persone, comprese la diretta su fb e sul canale youtube. Molti soggetti collettivi che ruotano intorno al mondo della salute mentale: operatori, associazioni di familiari, sindacalisti e quant’altro. Le tante criticità che attraversano il mondo dei servizi di salute mentale in Italia sono da tempo sottolineate dalla Conferenza a partire da tanti Centri di Salute Mentale che sono ridotti al rango di ambulatori eroganti farmaci e senza programmi, di cura e di ripresa, individuali, a partire dai servizi ospedalieri di diagnosi e cura (Spdc) che troppo spesso agiscono con pratiche che ricordano i vecchi manicomi, pratiche inumane e degradanti come le porte chiuse e contenzioni meccaniche che spesso durano molti giorni. Per non parlare poi dell’uso, troppo spesso abusato e immotivato, del Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) come l’ultima vicenda di questi giorni di Dario Musso a Ravanusa ha drammaticamente rivelato semmai ce ne fosse stato ancora bisogno. Che cosa è necessario fare perché il cambiamento auspicato a parole si trasformi in reale superamento della cronica arretratezza che attanaglia gran parte del servizio sanitario nazionale? Visto che l’opportunità è determinata in larga parte anche dalla ingente quantità di risorse che arriveranno dall’Europa bisogna evitare, partendo dal modello della L. 833/78, distribuzione a pioggia di risorse finanziarie sollecitate da interessi particolari e, soprattutto, vincolare le risorse a degli obiettivi che dovranno essere puntualmente monitorati e verificati. E stiamo parlando di cifre fino a oggi inimmaginabili: oltre 20 miliardi di euro per la sanità quando nella scorsa finanziaria la sollecitazione del ministro Speranza di un solo miliardo fu salutata, giustamente come un grande sforzo. Questi dovrebbero essere ripartiti tra ospedali e territorio. Cosa fare sugli ospedali è relativamente più semplice, ma cosa si farà sul territorio? Si tratta di costruire e rilanciare il Servizio Sanitario Pubblico (Ssn) che nel corso degli ultimi dieci anni è stato progressivamente messo in ginocchio. Ma per limitarci alla salute mentale, elemento centrale del territorio anche secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), è necessario, nell’ordine: - la questione del lavoro come opportunità di cambiamento nella vita delle persone con problemi di sofferenza mentale, lo sviluppo di cooperative di tipo B, vere, nate sui territori, venga incentivato; - lo strumento budget di salute, nelle sue varie declinazioni, legato a progetti individuali per le persone devastate dall’esperienza di sofferenza mentale divenga il centro delle politiche dei servizi; - si riconvertano le strutture residenziali h 24 destinate alle persone più gravi poiché si sono rivelate “un modello fallimentare e pericoloso”. Urgenti risorse per la salute mentale devono essere destinate a rafforzare i servizi territoriali di comunità, a superare tutte le forme di contenzione, segregazione e interdizione. Bisogna sostituire gli spazi dell’esclusione con i luoghi della vita e quindi puntare decisamente verso forme di abitare supportato dentro la propria comunità; si riporti l’uso del Tso nella sua giusta dimensione e motivazione originaria e si metta fine alle pratiche manicomiali nei servizi ospedalieri psichiatrici (Spdc) come la detenzione dietro porte chiuse e l’umiliazione, per persone che la subiscono e operatori che la praticano, della contenzione meccanica. Se le risorse in arrivo serviranno per tali questioni poste con chiarezza dall’Oms, il governo e la politica avranno fatto bene il proprio lavoro altrimenti si sarà sprecata la più grande opportunità dal dopoguerra in poi per rilanciare il Ssn e con esso la salute mentale. *Psichiatra, coordinatore del Forum salute Mentale e co-promotore della Conferenza nazionale sulla Salute mentale Migranti. Pressing italiano: “Tunisi fermi le partenze”. Si riapre la rotta balcanica di Cristiana Mangani Il Messaggero, 9 giugno 2020 Non solo il fronte Mediterraneo: la fine del lockdown e la crisi economica causata dal virus, hanno riaperto la rotta balcanica. Da una ventina di giorni, al confine di Trieste e Gorizia sono aumentati di parecchio i passaggi. E i militari di “strade sicure” inviati a presidiare quelle frontiere, respingono in Slovenia chi non ha titolo per entrare. L’Italia spinge sull’Europa proprio in vista del periodo estivo, quando il rischio di “una invasione” diventa più concreto. Sui migranti “c’è una trattativa positiva in corso con la nuova commissione - spiega il ministro per gli Affari europei Enzo Amendola. La trattativa è di arrivare finalmente a un sistema europeo che sia sicuro nel controllo dei confini e anche responsabile nel cambiare i regolamenti che ormai sono superati. È una trattativa molto importante che stiamo facendo come governo con la ministra Lamorgese, l’idea è di siglare un nuovo patto europeo. Stiamo spingendo molto - chiarisce ancora Amendola - perché è tempo non più di ragionare su base volontaristica sulla gestione dei flussi soprattutto per paesi di prima entrata, ma avere un sistema che sia coordinato, sicuro e responsabile”. Si spinge sull’Europa sapendo, però, che un grosso fronte come quello di Visegrad continua a opporsi alla ridistribuzione equa dei migranti. E il rischio, in questa fase post Covid con l’Italia che bussa alla Ue per ottenere importanti aiuti economici, è che il prezzo da pagare sia una maggiore disponibilità nell’accoglienza. Un sistema che Bruxelles proverà a imporci, così come è già avvenuto più volte in passato. Ed è per questo che la ministra Lamorgese vuole spingere sui paesi con i quali abbiamo accordi per i rimpatri, primo fra tutti la Tunisia, da dove è aumentato sensibilmente il numero delle partenze. In tantissimi stanno lasciando le coste spinti da una situazione economica che ha provocato il collasso del turismo. Puntano all’Europa, dopo aver perso il posto di lavoro. Ieri, la titolare del Viminale ha avuto un incontro proprio per preparare la visita che effettuerà a Tunisi intorno alla fine del mese di giugno. L’obiettivo è sensibilizzare il governo del paese, e invitarlo al rispetto degli accordi stilati da tempo con l’Italia. Accordi che passano anche per scambi economici, legati all’import dell’olio tunisino nel nostro paese. In questo scenario si inserisce la Libia, e il rischio di “un esodo” più volte annunciato durante il conflitto tra l’esercito di Fayez al Serraj e del generale Khalifa Haftar. Anche da quella parte del Mediterraneo è facile che vengano esercitate pressioni sulla Ue per limitare le partenze, in cambio di aiuti. “La soluzione ragionevole - dichiara Alessandra Sciurba, portavoce di Mediterranea Saving humans - sarebbe di proporre corridoi umanitari sicuri, che tra l’altro sono molto più economici che pagare i criminali libici, militarizzare le frontiere. Soldi nostri, che vanno a finire nelle tasche dei torturatori”. Migranti. Riace, un modello “encomiabile”. Il Consiglio di Stato dà ragione a Lucano di Silvio Messinetti Il Manifesto, 9 giugno 2020 Il Sindaco: “L’odio razziale di Salvini è lo stesso dei suprematisti americani. Ora chi ci ripagherà?”. “Volevano distruggere Riace e il messaggio politico-evangelico della nostra esperienza amministrativa e ci sono riusciti. Queste pronunce non fanno altro che aumentare la mia amarezza”. A casa di Mimmo Lucano non si stappano bottiglie per le notizie giudiziarie provenienti da Roma. E dire che motivi ce ne sarebbero per brindare. Ma è la rabbia a prevalere nell’animo dell’ex sindaco di Riace. Il ministero dell’Interno non avrebbe potuto chiudere i progetti d’accoglienza Sprar nel borgo jonico. I giudici del Consiglio di Stato lo hanno ribadito solennemente respingendo il ricorso presentato dal Viminale dopo che, lo scorso anno, il Tar di Reggio Calabria aveva messo nero su bianco l’illegittimità di quella decisione. In via preliminare manca l’invio al comune di una diffida vera e propria, tant’è vero che le criticità evidenziate dal ministero non avevano impedito la proroga del progetto. Il Viminale non avrebbe contestato puntualmente le irregolarità rilevate, né avrebbe assegnato un termine entro cui risolverle. E nonostante questo, ad ottobre 2018, pochi giorni dopo l’arresto dell’allora sindaco, il ministero dell’Interno, diretto da Salvini, aveva disposto la deportazione dei migranti. E riportando il paese di nuovo allo spopolamento. A fatica ora Lucano e i suoi fedelissimi stanno provando a far rinascere il borgo nonostante l’ostracismo del nuovo sindaco, decaduto in quanto ineleggibile, ma ancora al suo posto, in attesa dell’appello. “Era tutto già scritto - racconta a il manifesto - una precisa strategia volta a distruggere la mia persona, quella utopica idea di Riace che diventava realtà. Partire, agire, essere concreti, erano state le nostre linee guida. Volevamo che i sogni si realizzassero e ci siamo riusciti. Ma questo dava fastidio perché ribaltava la loro narrazione tossica sulle migrazioni. Hanno demonizzato il progetto Sprar con delle assurde penalità e poi, non paghi, si sono accaniti contro la mia persona. Quello di oggi è solo un piccolo successo burocratico che non mi ripaga delle umiliazioni subite. Per usare le parole di un grande prete operaio, come monsignor Bregantini (l’attuale vescovo di Campobasso, ndr), a Riace c’è stato un tentativo di un processo di evangelizzazione della società”. Lucano stempera a fatica la tensione. Tra qualche settimana si deciderà la sua personale sorte giudiziaria. “Il 3 luglio i giudici di Locri decideranno se condannarmi o assolvermi per quella incredibile vicenda delle carte d’identità”. È stato citato in giudizio (dallo stesso pm della prima inchiesta che gli costò l’arresto) e dovrà difendersi dal reato di falso davanti al giudice monocratico. La vicenda trae origine dall’inchiesta sulla presunta falsificazione dei documenti d’identità per due immigrati eritrei, una madre e il suo bimbo, ospiti del programma di accoglienza ma senza permesso di soggiorno. “La carta d’identità era legata ad esigenze sanitarie - si accalora - e per me è prioritario rispettare la dignità umana di un bambino di pochi mesi. È una contestazione molto debole sul piano giuridico”. Tornando al pronunciamento dei magistrati di Palazzo Spada. La critica dei giudici è forte: il Viminale si sarebbe limitato a vuoti formalismi procedimentali, senza rispettare “le forme che esso stesso, peraltro, si era dato”, prorogando in un primo momento il progetto e poi decidendo, per le stesse ragioni, di cassarlo. “L’autorizzazione alla prosecuzione del progetto poteva, dunque, trovare spiegazione solo con la massima benevolenza dell’amministrazione che ha anche messo a disposizione risorse umane e finanziarie”. Insomma, “i riconosciuti ed innegabili meriti del “sistema Riace”, secondo i giudici, avrebbero “giocato un ruolo decisivo nel ritenere superate (e non penalizzanti) le criticità”, che non potevano essere recuperate a posteriori, “per motivare la revoca, se non rinnovando per intero il procedimento”. Alla luce della documentazione, insomma, “il progetto avrebbe dovuto essere eventualmente chiuso alla scadenza naturale”. E “che il modello Riace fosse assolutamente encomiabile negli intenti ed anche negli esiti del processo di integrazione - si legge - è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti”. Insomma, quell’atto non aveva ragion d’essere. Lucano comunque non demorde. “L’odio razziale di Salvini è lo stesso dei suprematisti americani - conclude - dobbiamo tutti trarre una lezione dai Black lives matter. E reagire anche qui in Italia”. Pena di morte, appello a una moratoria mondiale durante la pandemia di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 9 giugno 2020 La Federazione italiana diritti umani (Fidu) e la Coalizione mondiale contro la pena di morte fanno appello a tutti i Paesi che ancora applicano la pena di morte affinché venga imposta una moratoria sulle condanne a morte e sulle esecuzioni, data l’impossibilità di assicurare un processo equo così come una rappresentanza legale equa durante la pandemia da Covid-19. Secondo Rivera Medina, “mentre alcuni Paesi pronunciano condanne a morte in videoconferenza, come accaduto in Nigeria o a Singapore, in altri le restrizioni carcerarie violano gravemente i diritti di coloro che attendono l’esecuzione, perché i tribunali sono in stallo e gli studi legali sono chiusi. È quindi a rischio la possibilità per le persone la cui vita è in pericolo di fare ricorso”. L’attuale crisi sanitaria globale, ha continuato il presidente, “ha mostrato quanto sia stato profondamente ingiusto il sistema nei confronti di quelle persone già indebolite da una pesante condanna. La mancanza di visite alle persone nel braccio della morte e l’incapacità per gli avvocati e per i giudici di lavorare normalmente sono tutte conseguenze ingiuste di un sistema mal organizzato”. D’altro canto, quei Paesi che hanno avuto il coraggio in questo periodo di fare un passo, grande o piccolo, verso l’abolizione, sono la dimostrazione che il nostro mondo è reso migliore dal superamento della pena di morte, pratica arcaica, crudele e degradante. Ad esempio, il Camerun, il Kenya, il Marocco e lo Zimbabwe hanno concesso commutazioni di pene, estendibili anche ai condannati a morte. Il 10 ottobre, la società civile si mobiliterà per celebrare la diciottesima Giornata mondiale contro la pena di morte, che si concentrerà sul diritto alla rappresentanza legale, evidenziando il ruolo degli avvocati nella protezione di coloro che rischiano la pena di morte. Un diritto che oggi è leso dalla crisi sanitaria poiché gli avvocati, già colpiti sul piano economico, non sono messi nelle condizioni di assistere i loro clienti. Egitto. La delusione della famiglia Regeni: “Questo governo ci ha tradito” di Giuliano Foschini La Repubblica, 9 giugno 2020 Il via libera di Conte alla vendita di due fregate all’Egitto scatena la reazione dei genitori del ricercatore ucciso al Cairo. “Navi e armi che venderemo ad Al Sisi serviranno a perpetuare le violazioni dei diritti umani contro le quali abbiamo sempre combattuto”. Era l’otto ottobre del 2019. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, incontrò alla Farnesina i genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio. “Per l’Italia - disse - è arrivato il momento di cambiare passo e atteggiamento nei rapporti con l’Egitto. Lo stallo con l’Egitto non è più tollerabile. Per noi la verità sull’omicidio di Giulio è una priorità che non può subire alcuna deroga”. Otto mesi dopo il cambio di passo è arrivato. Ma in direzione opposta rispetto a quanto era lecito immaginarsi. Il governo ha dato il via libera alla vendita all’Egitto di due fregate Fremm, importati navi militari costruite in Italia da Fincantieri. A sbloccare l’affare una telefonata, avvenuta domenica, tra il premier Giuseppe Conte e il presidente egiziano Al Sisi. Una vendita delicatissima perché quelle navi erano destinate alla Marina militare italiana che, già nei mesi scorsi, aveva fatto trapelare tutto il suo disappunto per l’operazione. Delicatissima perché certifica un nuovo strettissimo legame politico e commerciale tra l’Italia il governo del Cairo, che mai in questi quattro anni ha collaborato per trovare i nomi dei sequestratori, torturatori e assassini di Giulio Regeni. E che il 7 febbraio ha arrestato lo studente egiziano dell’università di Bologna, Patrick Zaki. Che, ancora oggi, tiene in carcere. La notizia della vendita delle fregate ha, inevitabilmente, sconvolto i genitori di Giulio che fino a questo momento non si erano mai sottratti agli incontri con il presidente Conte, il ministro Di Maio e gli esponenti dell’esecutivo, certi di trovare una sponda reale per arrivare alla verità sulla morte di loro figlio. “E invece ora questo governo - dicono a Repubblica Paola e Claudio, insieme con il loro legale Alessandra Ballerini - ci ha traditi”. Si sentono presi in giro, anche perché ancora domenica, nel comunicare la telefonata con Sisi, Conte ha detto (è la dodicesima volta da quando è premier) di aver “ribadito la collaborazione giudiziaria nel caso Giulio Regeni” (lo stesso non ha fatto Sisi: nei dispacci egiziani il nome di Giulio non c’era). “Ci sentiamo traditi. Ma anche offesi e indignati dall’uso che si fa di Giulio” dice ancora la famiglia Regeni. “Perché ogni volta che si chiude un accordo commerciale con l’Egitto, ogni volta che si certifica che quello di Al Sisi è un governo amico, tirano in ballo il nome di Giulio come a volersi lavare la coscienza. No, così non ci stiamo più”. Parole durissime che, inevitabilmente, scateneranno polemiche all’interno di una maggioranza già fortemente divisa sulla questione. La possibilità della vendita delle due fregate era stata già avanzata a gennaio, ma poi fatta rientrare proprio per i dissapori con Leu (che anche ieri si è detta in disaccordo rispetto all’operazione) e pezzi di Partito democratico e Movimento 5 Stelle. Come aveva raccontato Repubblica nei giorni scorsi, l’affare rientrerebbe oggi in un pacchetto ancora più ampio che prevede oltre alla vendita delle due fregate (una, la Emilio Bianchi, è stata varata il 25 gennaio, nell’anniversario del sequestro Regeni) anche la vendita di pattugliatori navali, cacciabombardieri e aerei addestratori M346. Nell’ambito di un legame, sulla vendita di armi, solidissimo con l’Egitto: da mesi il governo di Al Sisi è il miglior cliente dell’industria bellica italiana. “Le navi e le armi che venderemo all’Egitto serviranno per perpetrare quelle violazioni dei diritti umani contro le quali abbiamo sempre combattuto” dicono però i genitori di Giulio insieme con il loro avvocato, da sempre in prima linea, dopo l’assassinio del figlio, per difendere i diritti umani nel paese arabo. Dove in questi anni sono stati arrestati, e tenuti in carcere per mesi, anche uno dei loro consulenti, Mohammed Abdallah, e Amal Fathy, moglie di Mohammed Lotfy, segretario dell’organizzazione a cui si sono rivolti per seguire la loro difesa, l’Ecrf. “Lo abbiamo detto dal principio: la nostra battaglia non è soltanto per Giulio ma per tutti i Giulio di Egitto” dicono Paola e Claudio. Le promesse mancate dei governi italiani sono state tante. Ma ancora di più sono quelle del governo egiziano: in questi quattro anni e mezzo sono state decine le bugie e i depistaggi che Il Cairo ha provato, compreso l’omicidio di cinque innocenti ingiustamente accusati dell’omicidio i Giulio. Nonostante gli annunci da più di un anno - da quando cioè sono stati iscritti nel registro degli indagati sei agenti della National Security, il servizio segreto civile egiziano, accusati del sequestro di Giulio - la procura generale di Roma ha interrotto ogni collaborazione giudiziaria di fatto con la procura di Roma. Che attende ancora gli esiti di alcune rogatorie. Il governo ha sempre tranquillizzato la famiglia Regeni. Che in più occasioni ha sempre ribadito che la questione non attiene a un lutto personale, ma a una questione della democrazia di un paese che non può che pretendere verità per l’assassinio di un suo cittadino. “Ora, però, è stato raggiunto il limite - dicono Paola, Claudio e l’avvocato Ballerini - Non ci presteremo mai più a nessuna presa in giro da parte degli esponenti di questo governo”. Francia. Il governo prova a mettere un freno alla violenza della polizia di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 9 giugno 2020 Dopo le proteste. Il ministro dell’interno Castaner: “Tolleranza zero sul razzismo nelle forze dell’ordine”. Basta alle tecniche violente di arresto, saranno vietati lo “strangolamento” e le “pressioni sulla nuca e sul ventre”. La Francia proibisce alcune tecniche violente di arresto, lo “strangolamento”, le “pressioni sulla nuca e sul ventre”. Ci sarà “sospensione sistematica” di poliziotti o gendarmi, in caso di “sospette” azioni razziste, con procedure disciplinari in parallelo di quelle penali. Per i controlli di identità, che non dovranno essere utilizzati come una “sanzione” preventiva, il numero di matricola dell’agente dovrà essere ben visibile e verrà generalizzato l’uso di video per testimoniare sullo svolgimento dell’azione. Il numero di controlli di identità non servirà più per “valutare l’attività” di un agente o di un commissariato. La formazione dei poliziotti sarà migliorata e sistematizzata, a partire dalla “sensibilizzazione alle discriminazioni”. Le inchieste generalizzate. Viene istituita una missione di deontologia, ci sarà una collaborazione con organizzazioni anti-razziste come la Licra e un dialogo con un panel di cittadini, già interpellato nel gennaio scorso. Il ministro degli Interni, Christophe Castaner, è intervenuto ieri in un clima di tensione, su richiesta di Emmanuel Macron, per cercare di riportare la calma dopo le manifestazioni che negli ultimi giorni si sono svolte a Parigi e in varie città francesi, sull’onda della protesta negli Usa. Castaner parla di “tolleranza zero” per il razzismo da parte di chi “porta la divisa blu”. Ma il ministro degli Interni difende al tempo stesso la polizia come istituzione: le violenze “non devono più succedere, ma qualche azione di mele marce” non deve screditare tutta la polizia e la gendarmeria, anche se “troppi poliziotti hanno deviato” (frase che non è piaciuta per nulla nella polizia). L’intervento di Castaner mostra una presa di coscienza del dramma del razzismo nella polizia. L’obiettivo è arrivare a ristabilire “una polizia della fiducia” in un paese dove predomina da anni la sfida. Ma il governo cammina sulle uova, in un contesto dove tutti hanno paura di tutti: i giovani, soprattutto nelle banlieues, hanno paura della polizia, i poliziotti a volte temono la violenza di certi quartieri, mentre il governo - debole - ha paura delle reazioni della polizia. In Francia c’è anche un problema di quantificazione del fenomeno, perché la Repubblica non prende in considerazione le comunità di appartenenza ma solo i cittadini singoli, le statistiche etniche non esistono. Castaner ha anche evocato i casi più controversi dell’ultimo periodo, dopo la morte di Adama Traoré, il caso del ragazzino di 14 anni, Gabriel, ferito gravemente, qualche mese fa quello di Cédric Chouviat, morto a causa di un controllo di identità. Con la presidenza Macron c’è stata la repressione violenta del movimento dei gilet gialli. Nel 2019, in Francia 19 persone (17 nel 2018) sono morte “nel quadro di una missione di polizia”. La “polizia della polizia” (organismo amministrativo) ha aperto 1.460 inchieste interne (1.180 nel 2018) per violenza eccessiva. Negli ultimi giorni, c’è stato il caso del gruppo razzista su Facebook, su cui è stata aperta un’inchiesta giudiziaria su richiesta del ministero degli Interni, o il caso dei 6 poliziotti che passano al consiglio di disciplina a Rouen denunciati da un collega nero. Il governo ha reagito ieri dopo giorni di polemiche in crescita, dopo l’inattesa manifestazione di martedì 2 giugno, con 20mila persone di fronte al palazzo di giustizia di Parigi, seguita da altre protesta in provincia (e altre azioni sono attese oggi, giorno dei funerali di George Floyd a Houston). La sinistra ha criticato il silenzio di Macron. La destra si è schiarata come un sol uomo con la polizia, negando l’evidenza. “Le violenze della polizia non esistono”, dicono i Républicains. “Castaner è in vacanza, mentre militanti indigenisti hanno riversato odio verso il nostro paese”, ha affermato Jordan Bardella del Rassemblement national. Stati Uniti. Senza giustizia che pace potrà esserci? di Caterina Musatti riforma.it, 9 giugno 2020 Considerazioni da New York fra Covid e proteste per l’omicidio di George Floyd. Sono giorni che manifestazioni spontanee sfilano in questo o quel quartiere di New York, e in decine di altre città americane, per protestare contro la violenza istituzionale che da sempre si abbatte sulla comunità afroamericana e per ricordare tutti i neri uccisi per mano della polizia statunitense. In bicicletta verso Central Park, ecco quindi che sento le voci, e poi vedo, migliaia di giovani neri, bianchi, latinos, asiatici. Vogliono giustizia e la vogliono ora. E come non condividere questa richiesta? Una intera comunità si sente tenuta a terra con un ginocchio sulla gola e non può respirare, come George Floyd l’uomo ucciso così a Minneapolis, il 25 maggio da un poliziotto. Ma quest’anno non è un anno normale. Le settimane passate le abbiamo spese chiusi in casa, separati dai nostri amici, familiari, colleghi, studenti. Il mondo tutto è alle prese con un’epidemia che solo nell’area metropolitana di New York ha già ucciso più di 40.000 persone. E per contenere il virus, abbiamo fermato, per la prima volta nella storia americana, ampie porzioni dell’economia creando una recessione seconda solo a quella degli anni 30. Quaranta milioni di americani hanno perso il lavoro e chiesto il sussidio di disoccupazione. Milioni di famiglie e di piccole imprese questo mese non sanno come pagare l’affitto. Vicino a me vedo, anche lui in bicicletta, un uomo in camice da infermiere e gli chiedo: “Ma lei che lavora in ospedale non si preoccupa che queste manifestazioni facciano riprendere l’epidemia?”. Ma, calmo mi risponde che è troppo tardi, che questi giovani non li si può più fermare. Che si preoccupa per loro, ma devono poter protestare. E, lo incalzo io, non è tanto per loro che ci si deve preoccupare, sono ventenni e trentenni probabilmente non si ammaleranno, ma è per le loro comunità, i loro anziani, genitori e nonni. Perché la disuguaglianza americana si è manifestata anche così con le comunità nera e latina in cui pochi svolgono lavori che si possono fare “da remoto”, comunità colpite più duramente sia dalla disoccupazione sia da casi gravi di Covid19. E invece l’infermiere è proprio per i ventenni che si preoccupa, come incapace di comprendere appieno la natura infida di questa pandemia che resta silente finché il contagio si muove tra persone giovani e sane per poi esplodere quando raggiunge i più deboli, i malati e gli anziani. Eppure ogni sera alle sette, i newyorchesi applaudono e fanno il tifo per i medici e gli ospedalieri, ma anche per loro stessi tutti, che con disciplina sono riusciti a frenare il virus. L’infermiere però ha ragione. Le manifestazioni non solo non si possono fermare ma, sono convinta, non si devono fermare. Malgrado, il Covid19 che ancora ci minaccia. Malgrado si fosse vicini a riaprire i cantieri e qualche negozio ridando lavoro, già solo in città a più di trecentomila persone. Malgrado anche gli episodi di violento vandalismo e saccheggio che si sono diffusi a macchia d’olio usando le proteste come scusa e copertura. Sotto le nostre finestre abbiamo visto decine di ragazzetti che spaccavano vetrine con mazze da baseball e accette da pompiere per portarsi via un paio di occhiali neri, un cellulare, o un paio di scarpe e le loro azioni così violente e gratuite facevano paura. Ora la città, già piegata economicamente, è anche coperta di legno compensato e molti negozianti ora sono un passo più vicini alla bancarotta. Ma è da qui che parte una importante considerazione. Perché di sera la polizia non ha fermato vandali e ladri. C’era in massa, camionette su camionette, le luci lampeggianti qualche isolato più a nord. Ma ha lasciato fare. Tuttavia, qualche ora più tardi, a Brooklyn ha accerchiato, picchiato, e arrestato i pacifici manifestanti. Queste sono forze dell’ordine che hanno perso ogni direzione morale. Invece di proteggere i cittadini proteggono e difendono i loro membri razzisti e violenti. Invece di garantire il diritto costituzionale di libertà di parola arrestano i manifestanti e lasciano andare liberi i ladri. Ha dunque ragione chi chiede cambiamenti radicali. Tutti i paesi del mondo hanno corpi di polizia, ma questi non hanno bisogno di essere pericolosi eserciti interni percepiti dai neri come temibili forze di occupazione. Penso ai miei genitori, cresciuti durante l’occupazione tedesca e alle regole di sicurezza che i miei nonni insegnarono loro perché potessero andare e tornare da scuola e giocare liberi malgrado i soldati stranieri. Come si può vivere in un paese dove i genitori neri sentono di dover fare lo stesso con i loro figli per assicurarsi che non vengano uccisi dalla polizia? E mentre scrivo, oggi è domenica 7, migliaia di persone sfilano sotto le mie finestre. Black lives matter! E io mi aggiungo a loro. Certamente la vita di ogni donna o uomo conta. E senza giustizia per ogni creatura del Signore, che pace potrà mai esserci? Stati Uniti. Le rivolte un’accusa alla polizia, a Minneapolis piano per sciogliere il dipartimento di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 9 giugno 2020 Un sondaggio: per due americani su tre più pericolosi loro dei disordini. A Washington compare la scritta: “Tagliate i fondi”. Trump ordina il ritiro della Guardia Nazionale. Sull’asfalto della 16esima strada, di fronte alla Casa Bianca, gli attivisti hanno verniciato la frase “Defund the Police”, togliete i fondi alla Polizia, con gli stessi caratteri cubitali gialli usati per l’altra scritta “Black Lives Matter”, autorizzata dalla sindaca di Washington, Muriel Bowser. In due settimane la protesta contro gli agenti di Minneapolis, responsabili secondo la Procura della morte di George Floyd, si è trasformata in un atto di accusa nei confronti della polizia in generale. E proprio dalla città del Minnesota arriva una prima vittoria della protesta: il consiglio comunale di Minneapolis ha approvato il via a un taglio dei fondi e a un processo di smantellamento del dipartimento di polizia, con “l’obiettivo di riformarlo e di ricostruire insieme a tutta la nostra comunità un nuovo modello di sicurezza pubblica che davvero garantisca la sicurezza di tutti”. Il Wall Street Journal pubblica un sondaggio che riflette gli umori negli Stati Uniti: due terzi degli americani sono preoccupati più per gli atteggiamenti violenti delle forze dell’ordine che per le distruzioni notturne di vandali e saccheggiatori. La diffidenza verso i tutori della legge è soverchiante tra gli elettori democratici (81%) ed è solo leggermente minoritaria tra i repubblicani (48%). Inoltre addirittura l’80% degli interpellati ritiene che il Paese stia finendo “fuori controllo”. Ma è fondamentale notare che l’opinione pubblica non mette tutto ciò solo sul conto di Donald Trump. Il tasso di gradimento del presidente si attesta al 45%, solo un punto meno di aprile. Ieri Trump ha annunciato che i circa quattromila militari della Guardia Nazionale, mobilitati per vigilare sulle marce nel fine settimana, potranno tornare a casa. Il leader americano, poi ha attaccato Joe Biden, ritwittando una foto del suo avversario mentre si inginocchia per rendere omaggio alla memoria di Floyd: “I leader guidano, i codardi si inginocchiano”. In realtà la crisi di credibilità della polizia chiama in causa in primo luogo i sindaci. Giovedì scorso, 4 giugno, un editoriale firmato dal board del New York Times invitava Bill de Blasio “ad aprire gli occhi”: la polizia della Grande Mela “è fuori controllo”. Nei giorni successivi alla morte di Floyd, le reazioni violente e fuori bersaglio degli agenti si sono moltiplicate in modo inquietante. Da Minneapolis ad Atlanta e a New York appunto, fino ad arrivare al video di Buffalo, quello con l’anziano spinto malamente a terra. Barack Obama ha invitato gli amministratori locali a rivedere le regole che disciplinano il Dipartimento di Polizia. È un appello in casa, visto che alla guida delle metropoli più esposte ci sono politici democratici. Il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, ha annunciato l’abolizione del chokehold, lo strangolamento, una delle tecniche utilizzabili della polizia per immobilizzare un “sospetto”. Un intervento giudicato tardivo, tanto che sabato Frey è stato fischiato dai suoi concittadini scesi in piazza. Turchia. Arrestati due giornalisti. Ma ora Erdogan incarcera anche le fonti di Marco Ansaldo La Repubblica, 9 giugno 2020 Muyesser Yildiz e Ismail Dukel, esperti di affari militari. Si inasprisce la stretta del Sultano sulla stampa. In poco meno di un mese sono già 12 i reporter finiti in manette. La stretta di Erdogan sulla stampa non si allenta. Anzi, diventa più soffocante dopo l’arresto di altri due giornalisti turchi, messi ora dentro con l’accusa non più di “legami con il terrorismo” bensì di “spionaggio”. Arrivano così in totale a 12 i reporter in manette in Turchia nel giro di meno di un mese. Con loro, adesso, vengono però arrestate anche le fonti: in questo caso gli ufficiali che parlano con i cronisti, come avvenuto nell’ultimo fermo, quello di una opinionista esperta di questioni militari. Muyesser Yildiz è una giornalista nota in Turchia per essere specializzata nel seguire le forze armate, argomento da sempre di enorme presa sull’opinione pubblica, vista l’importanza che i militari rivestono nella Repubblica di Turchia, dove hanno fatto il bello e il cattivo tempo da cento anni a questa parte, golpe compresi, quando fu fondata nel 1923. Il dipartimento antiterrorismo di Ankara le ha ora messo le manette per “avere svelato segreti politici e militari” riguardanti l’intervento dell’esercito in Libia, dove i soldati turchi stanno decisamente voltando le sorti della guerra sostenendo il governo del premier Fayez al Serraj, e oggi inseguono addirittura verso Sirte i ribelli cirenaici guidati dal generale Khalifa Haftar. Il suo media è OdaTV, un sito della sinistra antigovernativa. Yildiz è accusata di avere parlato al telefono con un membro delle forze armate turche, anch’egli arrestato, sui piani militari riguardanti Tripoli. Già lo scorso marzo due reporter di OdaTV erano stati fermati e rischiano fino a nove anni di prigione per avere scritto un articolo sul funerale di un presunto agente dei servizi segreti ucciso in Libia. Nel 2011 Muyesser Yildiz era stata in carcere per oltre un anno, con l’accusa di “terrorismo e diffusione di documenti segreti” dell’allora piano militare chiamato “Ergenekon” volto a provocare un colpo di Stato. Ma nella capitale turca le manette sono scattate anche per Ismail Dukel, corrispondente di Tele1 TV. Le accuse riguarderebbero anche il coinvolgimento militare turco in Siria. Solo pochi giorni fa al Serraj era andato ad Ankara per un incontro ufficiale con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. I due reporter sono interrogati in queste ore dagli agenti delle unità antiterrorismo della polizia. In Turchia il clima verso la stampa indipendente è peggiore che mai. L’arresto nelle ultime settimane di almeno una dozzina di giornalisti, molti dei quali accusati di “spionaggio di segreti politici e militari”, riaccende così i riflettori sul Paese con il più alto numero al mondo di reporter in carcere, stimabili per alcune fonti in un numero difficilmente identificabile, ma fra i 100 e i 150. Il direttore di Tele1 TV, Merdan Yanardag, parla di un tentativo delle autorità di ‘‘dare un ultimatum ai media’’. L’organizzazione Reporters sans frontieres pone la Turchia al 157esimo posto su 180, nell’indice di libertà di stampa. Quello che ancora più colpisce, nelle ultime ore, non è solo l’arresto dei giornalisti, ma persino di quelle che possono apparire come le loro fonti. Così è nel caso di Muyesser Yildiz, dove il militare con cui aveva parlato è anch’egli finito in manette. Nei giorni scorsi a Istanbul è stato inoltre arrestato di nuovo Enis Berberoglu, ex commentatore e poi vice presidente del Partito repubblicano, considerato dal governo conservatore come la fonte dello scoop fatto nel 2017 dal direttore di Cumhuriyet, Can Dundar, sul passaggio di armi turche alla Siria protette dai servizi di intelligence di Ankara. Dundar, che non rivelò mai il nome della propria fonte, si fece quasi cento giorni di carcere prima di essere liberato da un tribunale e fuggire in esilio in Germania. Il deputato Berberoglu passò quasi un anno in cella, prima di tornare libero. La settimana scorsa è stato di nuovo arrestato, e nelle ultime ore rilasciato solo per via delle nuove norme carcerarie sul Covid-19 che prevedono gli arresti domiciliari. Così è avvenuto per lui. Ma altri due reporter curdi fermati lo stesso giorno rimangono tuttora in cella. Assieme ad almeno un centinaio di giornalisti.