Renzi: “Basentini? La sua nomina al Dap grazie all’inchiesta Tempa Rossa” askanews.it, 8 giugno 2020 “La cosa sconvolgente è il fatto che sia stato nominato Basentini al Dap e che Bonafede ci abbia messo troppo per cacciarlo”. Così Matteo Renzi, a Non è l’Arena, su La7. Per Renzi “adesso qualcuno dovrebbe farsi delle domande su quella vicenda di Tempa Rossa”. “Il vero merito di Basentini agli occhi di quella maggioranza era stata aver fatto un’inchiesta assurda, un’inchiesta fuffa, sulla vicenda Tempa Rossa, una procura che ha interrogato metà del governo di allora, grandissimo dispiego di forze, interrogatori nella sede dei ministeri”, ha proseguito Renzi. “Quella indagine non è arrivata a nulla, neanche in fase di indagine e cosa ha prodotto? Ha prodotto le dimissioni della bravissima ministra Guidi, ha prodotto la diffusione illegittima tanto per cambiare di intercettazioni private che non c’entravano niente, e ha prodotto un danno di immagine ma nel caso del dottor Basentini evidentemente è stata sufficiente per essere indicato come il capo del Dap, un luogo strategico” e “che non sia stato in grado il dottor Basentini di gestire il Dap è sotto gli occhi di tutti. Non ci sono stati solo boss scarcerati” ma anche delle “rivolte” nelle carceri in cui “sono morti 13 detenuti”. Ora, ha concluso, “sarebbe ora il caso di capire di più su quella indagine”. La riforma secondo i penalisti: separazione delle carriere e due Csm di Angela Stella Il Riformista, 8 giugno 2020 La ripresa dell’attività giudiziaria in questa nuova fase è stata al centro del tavolo convocato ieri dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con le delegazioni delle rappresentanze forensi - Unione delle Camere Penali Italiane, Aiga, Ocf, Unione delle Camere Civili, Cnf. Da mesi gli avvocati stanno denunciando la totale paralisi del loro lavoro, con rinvio delle udienze nel 2021, e con danni per la macchina della giustizia, e una conseguente negazione dei diritti ai cittadini. In molti palazzi di Giustizia - hanno fatto presente dall’Ucpi - è necessario avere appuntamenti rilasciati via mail per poter accedere alle cancellerie e alle segreterie, che peraltro osservano orari di apertura assai ridotti, e l’attività di udienza non supera il 15 - 20% dei ruoli. Una situazione di blocco dovuta anche e soprattutto al collocamento in smart-working della maggior parte del personale amministrativo, che da casa non può accedere né ai fascicoli né ai registri. I penalisti hanno avanzato delle proposte: “abbiamo chiesto al Ministro di recuperare il periodo di sospensione feriale di agosto, quantomeno in parte e soprattutto di immaginare un orario dell’attività di udienza anche nel pomeriggio inoltrato e il sabato mattina. L’obiettivo è evitare che si formi un carico di arretrato ingestibile. L’avvocatura attende un gesto politico rapido e deciso, e crediamo che sia una posizione condivisa da tutte le sigle presenti e anche dall’avvocatura istituzionale”. D’accordo Bonafede che al termine dell’incontro ha fatto sapere che “la giustizia deve tornare in tempi celeri alla normalità. Alla luce del mutato scenario, ci indirizziamo verso la riapertura generale, le eccezioni dovranno essere debitamente motivate da ragioni sanitarie conclamate”. L’incontro è durato diverse ore: assente al tavolo, stranamente rispetto alle previsioni della vigilia, l’Anm, come fa notare al Riformista l’avvocato Eriberto Rosso, Segretario dell’Ucpi, che era presente insieme al Presidente Gian Domenico Caiazza: “Non ci spieghiamo questa assenza, le altre volte l’Anm era al tavolo con noi”. Infatti dal Ministero hanno fatto sapere che l’incontro con l’Associazione Nazionale Magistrati è avvenuto dopo quello con le rappresentanze dell’avvocatura. A Bonafede i penalisti hanno ribadito la propria posizione sulla riforma del Csm: “L’Ucpi ha ribadito la proposta di riforma costituzionale di separazione delle carriere, la necessità di prevedere due Consigli Superiori della Magistratura e di intervenire con provvedimenti di drastica limitazione dei fuori ruolo”. Questo tema sarà affrontato in una successiva riunione, la cui data è ancora da fissare. La legge di riforma per la separazione delle carriere, promossa dall’Ucpi, sarà in aula alla Camera dei deputati il 29 giugno 2020. Cascini: “Crisi può essere un’opportunità, il problema è la classe dirigente della magistratura” Il Dubbio, 8 giugno 2020 Il consigliere del Csm sullo scandalo Palamara: “Spettacolo avvilente, le correnti devono fare un passo indietro”. “Oggi assistiamo ad uno spettacolo avvilente di relazioni di potere all’interno della magistratura. Sono anni che lanciamo un grido d’allarme”. È quanto ha detto il magistrato e componente del Csm Giuseppe Cascini, alla trasmissione di Lucia Annunziata su Rai Tre, intervenendo sul “caso Palamara”. “Ci dispiace di non essere riusciti a convincere gli altri. Questo scandalo getta un discredito sull’intera magistratura, è un problema che riguarda tutta la classe dirigente della magistratura. Tutta. Ho sempre detto che l’autogoverno rischiava di suicidarsi. Abbiamo tutti la responsabilità”. “Su 9mila magistrati ci sono 1.200 dirigenti: è un esercito di generali ed eserciti così raramente vincono le guerre. Dobbiamo ridurre drasticamente il numero di dirigenti”, ha spiegato, La pubblicazione delle intercettazioni relativa al caso Palamara, spiegato il magistrato, “risalgono a tre anni fa, non riguardano questo Csm e ci danno uno spettacolo avvilente delle relazioni di potere all’interno della magistratura. Noi da anni diciamo che serve un passo indietro delle correnti rispetto alla gestione del potere. C’è una pressione enorme di parte della magistratura per acquisire incarichi direttivi. Il programma di Area era proprio di eliminare il correntismo, prima che emergessero quei fatti e dispiace che non siamo riusciti a convincere tutti”. “La crisi” della magistratura “può essere una opportunità. Possiamo fare un totale cambio di passo - ha aggiunto -. Il rischio di chiusura corporativa esiste. Occorre ridurre il potere ai dirigenti, ridurne il numero”, osserva. Le frasi su Salvini “sono totalmente inammissibili. Mai un magistrato deve pensare che una cosa si faccia contro qualcuno. E anche se viene detto in una conversazione privata ci segnala una cultura che è lontana dalla mia”, spiega Cascini riferendosi alle intercettazioni su Palamara e sui giudici che hanno chiesto di attaccare Salvini, nel mirino della magistratura nella vicenda “Gregoretti”. “Un quotidiano ha dato un’immagine di me che non rappresenta la realtà - ha aggiunto -. Io penso che non debbano esserci ombre su una persona che copre cariche pubbliche. C’è stata una manipolazione del contenuto di alcuni messaggi. Io ho avuto una lunga collaborazione con Luca Palamara: si è creato un rapporto tra noi”. “C’è il rischio di delegittimazione della magistratura. Stiamo cambiando” all’interno del Csm “le nostre regole interne, rendendo più stringenti i criteri di nomine. Le iniziative del ministro Bonafede” sulla riforma del Csm vanno in una giusta direzione, ha aggiunto. “Il collegio nazionale ha dato un potere enorme non solo alle correnti ma soprattutto ai centri di interessi, di potere che raccolgono il voto. Cambiare la legge elettorale” per la composizione del Csm “è fondamentale”, ha spiegato. “Palamara è diventato il simbolo di una cosa più grande di lui”. Furti, incidenti, droghe, risse: processi lenti sui reati diffusi di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2020 Il periodo di lockdown e la lenta ripresa dell’attività giudiziaria allungherà i tempi dei processi che riguardano soprattutto i reati ritenuti meno gravi, ma che provocano un maggiore allarme sociale: le cause in materia di droga, furti, risse e incidenti stradali sono quelle che più stanno risentendo dei rinvii e per cui l’arretrato rischia di aumentare. Si tratta di un settore della giustizia già in sofferenza prima dell’epidemia: in 10 anni, dal 2010 al 2019, le cause pendenti del rito monocratico (in cui la decisione spetta a un solo giudice) sono cresciute del 42 per cento. Una situazione che può diventare esplosiva per l’impatto delle misure di contenimento del Covid-19. E, con l’allungarsi dei tempi, cresce il rischio di prescrizione. Monocratico in sofferenza - In controtendenza rispetto alla riduzione dell’arretrato in primo grado (-5,7% dal 2010 al 2019), nel rito monocratico le pendenze sono continuamente aumentate. Il giudice monocratico si occupa dei reati meno gravi, che però sono quelli che fanno registrare il maggior numero di nuovi processi: nel 2018 sono stati 342.585 contro i 14.514 del collegiale, in base ai dati del ministero della Giustizia. Si tratta di reati che, come il traffico di droga, gli incidenti stradali o i furti, toccano da vicino la vita delle persone e incidono sulla percezione collettiva della capacità del sistema di far fronte alla domanda di giustizia. Le difficoltà si concentrano nelle grandi sedi. A Napoli i processi arretrati sono circa 32mila, a Roma nel 2018, secondo i dati ministeriali, poco più di 21mila. In alcuni tribunali l’aumento delle pendenze è stato esponenziale: a Salerno dal 2009 al 2018 sono salite quasi del 130%, mentre a Palermo del 123 per cento. “Dal 2009 le iscrizioni sono raddoppiate: l’organico invece è rimasto lo stesso (nel monocratico circa 20 giudici) mentre in procura i sostituti sono quasi 40”, dice il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale. A Roma, viceversa, l’arretrato in dieci anni è sceso (-22,7%) proprio grazie a un accordo fra Tribunale e Procura. “Nel 2017 - spiega il presidente vicario, Antonino La Malfa - abbiamo avviato un intervento congiunto: la Procura ha ridotto le iscrizioni, ricorrendo di più ad archiviazioni e decreti penali, mentre il Tribunale ha aumentato le udienze di prima comparizione e processi”. L’impatto del Covid-19 - Su questa situazione si è abbattuta l’epidemia. Nella fase 1, da marzo all’11 maggio, sono state sospese le udienze penali, con poche eccezioni (convalide di arresto e processi con detenuti, su loro richiesta). Nella fase 2, dal 12 maggio al 31 luglio, l’attività è ripresa, ma resta lontana dai ritmi usuali: l’obbligo di evitare assembramenti restringe l’uso delle aule e i processi da remoto sono limitati dai paletti messi dal decreto 28/2020. Ad aggravare la situazione l’impossibilità per il personale amministrativo che lavora da remoto di accedere ai registri di cognizione. “Devono tornare negli uffici, perché a casa non possono fare nulla ed è assurdo che anche in Regioni dove i contagi sono al minimo tutto resti chiuso”, accusa il presidente dell’Unione camere penali Gian Domenico Caiazza. Nel diluvio di rinvii, i più colpiti sono i procedimenti di competenza del tribunale monocratico. “Va data priorità ai processi che riguardano i delitti più gravi, come dispone l’articolo 132-bis delle disposizioni di attuazione al Codice di procedura penale”, spiega il coordinatore del settore penale del Tribunale di Milano, Marco Tremolada: “Anche noi - conferma - cercheremo di recuperare prima i processi del tribunale collegiale di quelli del monocratico”. A Milano i rinvii sono fissati a distanza di 15 giorni: si spera di riuscire a celebrare le udienze prima dell’autunno e nei prossimi giorni saranno riviste le linee guida per ampliare le cause da trattare. Anche al Tribunale di Napoli, spiega la presidente, Elisabetta Garzo, i limiti sono stati allentati: “Da oggi ogni giudice monocratico può trattare fino a 10 processi, anziché 5. Ma sul ruolo ce ne sono almeno il doppio. L’obiettivo è ampliare ancora, anche prima del 31 luglio, se i dati sul contagio restano positivi”. Finora, a Napoli sono stati rinviati circa 10mila procedimenti del tribunale monocratico nella fase 1 e già 8.000 nella fase 2. I tempi più lunghi dei processi potrebbero far crescere le prescrizioni. “Il rischio di aumento esiste - ammette La Malfa. Già oggi la procura produce più processi di quanti il tribunale ne riesca a smaltire. Per alleggerire il monocratico bisognerebbe depenalizzazione alcuni reati, come quelli fiscali, che andrebbero, invece, contrastati sul piano amministrativo” La partecipazione qualificata nel reato di associazione mafiosa. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2020 Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere di stampo mafioso - Promotori, dirigenti, organizzatori - Accertamento. Ai fini della configurabilità del reato di promozione, di direzione od organizzazione del gruppo criminale, ex art. 416-bis, comma 2, c.p., è necessario che un ruolo apicale o una posizione dirigenziale risultino in concreto esercitati e quindi necessaria è la verifica dell’effettivo esercizio del ruolo di vertice che lo renda riconoscibile, sia pure sotto l’aspetto sintomatico, sia all’esterno, che nell’ambito del sodalizio, realizzando un effettivo risultato di assoggettamento interno. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 28 maggio 2020 n. 16202. Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - Dirigenti capi e promotori - Associazione di tipo mafioso - Qualifica di capo - Effettivo esercizio del ruolo di vertice - Necessità. Con riferimento all’ipotesi di cui all’articolo 416-bis, comma 2, c.p., costituisce nozione presupposta della fattispecie normativa una modalità di formazione della associazione di stampo mafioso, cui è necessariamente connessa una strutturazione gerarchica per soggezione-adesione o affiliazione, avanzamenti e gradi, che rende indispensabile per assurgere a ruolo dirigenziale un precedente e verificato percorso da associato e il conferimento del grado apicale, riconosciuto e condiviso dalla compagine associativa, così da realizzare contemporaneamente anche quell’assoggettamento interno che, al pari dell’assoggettamento esterno, connota la fattispecie. L’assunzione del ruolo deve, in ogni caso, obiettivamente manifestarsi, almeno sotto l’aspetto sintomatico, divenendo così riconoscibile e riconosciuta, oltre che ab externo, nell’ambito del sodalizio e realizzando quindi un effettivo risultato di assoggettamento interno. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 6 settembre 2017 n. 40530. Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - Associazione di stampo mafioso - Responsabilità del “capo famiglia” a titolo di concorso nel reato - Fine - Conoscenza dei progetti e del coinvolgimento dei suoi uomini - Sufficienza - Esclusione - Collaborazione effettiva - Necessità - Ragioni - Fattispecie. In tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, non sussiste la responsabilità del cosiddetto “capo famiglia”, a titolo di concorso nel reato-fine “eccellente” (nella specie strage e delitti connessi), qualora questi, ancorché a conoscenza dei progetti in corso e del coinvolgimento operativo di “suoi” uomini, non abbia prestato fattiva e concreta collaborazione nell’organizzazione e gestione del reato, decisa dalla struttura di vertice del sodalizio criminale, in quanto l’omessa attivazione di ipotetici provvedimenti interdittivi non potrebbe comunque essere considerata equivalente a una prestazione di consenso o addirittura alla formulazione di un ordine nei confronti dei propri uomini. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 27 febbraio 2015 n. 8929. Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - Capi e promotori - Associazione di tipo mafioso - Qualifica di capo, promotore od organizzatore - Effettivo esercizio del ruolo di vertice - Necessità. In tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, ai fini della configurabilità del reato di promozione, di regime od organizzazione del gruppo criminale è necessario che un ruolo apicale o una posizione dirigenziale risultino in concreto esercitati. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 22 gennaio 2015 n. 3137. Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - Capi e promotori - Associazione di tipo mafioso - Qualifica di capo, promotore od organizzatore - Posizione formale - Sufficienza - Esclusione - Effettivo esercizio del ruolo di vertice - Necessità - Fattispecie. Il ruolo direttivo nell’ambito di un’associazione per delinquere di tipo mafioso è correttamente escluso dal giudice di merito quando la posizione di vertice, pur formalmente attribuita all’imputato all’interno della consorteria, non sia stata in concreto esercitata. (Fattispecie in cui l’imputato, dopo essere stato investito della funzione di reggente di una cosca, era stato successivamente sostituito per non aver effettivamente svolto tale compito). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 3 maggio 2013 n. 19191. Il pugno a gioco fermo durante la partita di calcio è reato di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2020 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 12 maggio 2020 n. 14685. In caso di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva, non sussistono i presupposti di applicabilità della scriminante sportiva: a) quando si constati assenza di collegamento funzionale tra l’evento lesivo e la competizione sportiva; b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso; c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all’azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell’attività. Con la sentenza n. 14685/2020 la Corte di cassazione chiarisce che mentre la condotta lesiva va ritenuta esente da sanzione penale allorché sia finalisticamente inserita nel contesto dell’attività sportiva, ricorre, al contrario, l’ipotesi di lesioni volontarie qualora la gara sia soltanto la “occasione” della condotta violenta mirata alla persona dell’antagonista. I fatti della vicenda: il pugno a gioco fermo - Secondo la dichiarazione della persona offesa, durante un incontro di calcio l’imputato le aveva sferrato un pugno seguito da un colpo sul braccio, mentre il gioco era fermo, in quanto le squadre erano in attesa di una punizione. La persona offesa aveva inoltre specificato che egli stava semplicemente ponendo in essere una marcatura dell’avversario, nell’intento di proteggere la propria porta, essendo il calcio di punizione in favore della squadra avversaria. La versione dei fatti era confermata da cinque testimoni. Tribunale in prime cure e Corte di Appello poi, avevano condannato l’imputato a pena di giustizia, oltre al risarcimento dei danni, per aver cagionato alla persona offesa lesioni personali: dal pugno era derivato l’indebolimento permanente degli organi dentali. L’imputato ricorreva in Cassazione asserendo di aver posto in essere una ordinaria azione di smarcatura calcistica: girandosi in rotazione con le braccia aperte aveva involontariamente colpito in viso l’avversario. A suo dire si trattava in buona sostanza di una azione finalisticamente inserita nel contesto di un’attività sportiva e, come tale, evidentemente scriminata dal consenso dell’avente diritto in relazione al rischio consentito nell’ambito dell’attività sportiva. Slealtà sportiva, “fischio” dell’arbitro, reato - In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva, non sussistono i presupposti di applicabilità della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto con riferimento al cosiddetto rischio consentito, né ricorrono quelli di una causa di giustificazione in considerazione dell’interesse primario che l’Ordinamento riconnette alla pratica dello sport, nell’ipotesi in cui, durante una partita di calcio ma a gioco fermo, un calciatore colpisca l’avversario. Ciò in quanto, imprescindibile presupposto della non punibilità della condotta riferibile ad attività agonistiche è che essa non travalichi il dovere di “lealtà sportiva”, il quale richiede il rispetto delle norme che regolamentano le singole discipline, di guisa che gli atleti non siano esposti a un rischio superiore a quello consentito da quella determinata pratica e accettato dal partecipante medio. Deriva che la condotta lesiva ma esente da sanzione penale deve essere, anzitutto, finalisticamente inserita nel contesto dell’attività sportiva, mentre ricorre l’ipotesi di lesioni volontarie punibili, nel caso in cui la gara sia soltanto l’occasione dell’azione violenta diretta alla persona dell’antagonista. In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva che implichi l’uso della forza fisica e il contrasto anche duro tra avversari, l’area del rischio consentito è quindi delimitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali - si badi - va valutata in concreto, con riferimento all’elemento psicologico dell’agente il cui comportamento può essere la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario “approfittando” della circostanza del gioco. In tema di lesioni cagionate colposamente a terzi nell’esercizio di attività sportive, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale è necessario accertare se l’evento lesivo si sia o meno verificato nel corso di una “tipica azione di gioco”, specificamente ricostruita in punto di fatto, non potendo essere desunta la natura colposa della condotta unicamente dalla circostanza della rilevazione di un “fallo” fischiato dall’arbitro. Ebbene nel caso in esame la condotta risulta posta in essere allorquando i giocatori delle due squadre si stavano posizionando per, rispettivamente, sfruttare la posizione e difendere la propria porta, mettendo a punto le consuete marcature in attesa che l’arbitro fischiasse per il calcio di punizione. A ben vedere dunque, il gioco era indiscutibilmente fermo, e il pugno sferrato dall’imputato era chiaramente diretto e volontario, nonché avulso da qualsiasi dinamica di gioco. Pensieri e parole di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 8 giugno 2020 Il fatto (quotidiano) di sabato è la lista dei cattivi; al contrario di Oscar Schindler, la brava giornalista dà i numeri, facendo nomi e cognomi, e dal solito argomentare possiamo trarre qualche buona informazione per l’opinione pubblica. La prima è che il Ministro Bonafede ha varato “un decreto “anti scarcerazioni”, dopo che 253 detenuti dell’alta sicurezza e tre del 41 bis (356, non 376 complessivi, come ha scritto la stampa) sono stati posti ai domiciliari per alto rischio Covid-19, perché soffrono di altre patologie”. Già si sapeva, si dirà, ma la nostra zelante cronista ci fornisce argomenti di riflessione. Il primo, com’è evidente, è che il decreto ha la finalità di impedire le scarcerazioni; siccome non si tratta di evasioni, ma appunto, di provvedimenti legalmente assunti da una moltitudine di magistrati, occorre prendere atto che il Governo, con decretazione di urgenza, ha deciso di far strame (tra l’altro) della separazione dei poteri. Il secondo è che i provvedimenti legalmente assunti per motivi sanitari devono essere travolti per una ragion di Stato; dalla sicurezza della cura alla cura della sicurezza. Il terzo, è che i numeri “scritti dalla stampa” non sono veri, ma leggermente inferiori; non è dato comprendere a quale categoria si riferisca l’autrice - di là la stampa, di qua ci sono loro, del Fatto - ma non è un mistero per nessuno che il quotidiano romano sia la sponda preferita del Ministro, e dunque parli con voce della verità. Il quarto, di cui la brava giornalista non dice, è che la lista (la sua, quella del Ministro, il che è uguale) comprende anche persone che stanno scontando pene per reati comuni; poi certo, qualcuno dalla Commissione Antimafia propone di abolire lo scioglimento del cumulo, e dunque sarebbe possibile tenere incatenati al proprio agito anche persone che abbiano avuto condanne per fatti gravi lontani nel tempo, impedendo l’accesso a misure alternative per altri reati comuni che siano in espiazione. Infine, con un virgolettato del nuovo Capo del Dipartimento, si assume che questi abbia affermato che “dar seguito al ruolo che il nuovo decreto assegna al Dap” sia un suo pensiero “in cima alla lista”; secondo quanto riportato nell’articolo, il Dott. Petralia avrebbe affermato che ciò si è fatto perché “lo dovevamo al corpo che mi onoro di guidare”. Vogliamo credere che non sia così, poiché è davvero incomprensibile che una condotta come quella richiesta al Dap dal decreto (fornire informazioni ai magistrati su istituti o reparti idonei alle cure di detenuti malati) sia “dovuta al corpo”; forse è il corpo delle persone malate (anche quelle cattivissime, checché ne pensi Renzi) che avrebbe bisogno di attenzione, e non un “corpo” dell’Amministrazione, cui non si deve proprio nulla di speciale per ciò che riguarda il rispetto della legge (anche di questo decreto), che va osservata per dovere costituzionale (art. 54), e non per risposta a qualcosa o qualcuno. Infine, immancabile: la nostra giornalista afferma che “molti detenuti usciti con la scusa del Covid tornano dentro o in centri clinici penitenziari”. Con la scusa. È un’affermazione grave e volgare, che sottende l’idea della mistificazione, della strumentalità, dello scambio tra salute e sicurezza, e non già della ricerca di un ragionevole equilibrio, giacché la Dignità (offesa da una detenzione degradante quando la salute è in pericolo - lo dice l’art. 3 della Cedu) non si acquista per meriti e non si perde per demeriti. La “scusa” offende i tanti (decine e decine) magistrati che hanno fatto il loro dovere, utilizzando norme pre repubblicane, non certo emergenziali, e i tanti avvocati che hanno semplicemente fatto quel che si impegnano a fare quando prestano giuramento all’inizio della loro professione. Manca ancora una cosa, che l’articolista dovrebbe sapere, e che invece non dice: non è passato un mese dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto legge n.29 e già due magistrati di sorveglianza (Spoleto e Avellino) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale. Forse non tutto funziona a dovere. Ma tutto questo Federica non lo sa, e comunque non lo scrive; forse perché “è la punizione che mantiene nell’ordine l’intera razza degli uomini” (De Maistre). *Avvocato Contributo alla discussione sugli Icam di Carla Forcolin* Ristretti Orizzonti, 8 giugno 2020 Giovedì 4 giugno il Garante Regionale della Regione Piemonte, on Bruno Mellano, ha organizzato un’interessante video assemblea, dov’erano presenti molte importanti personalità, che ho ascoltato con attenzione, ma dove non mi è stato possibile intervenire. Nessun rappresentante istituzionale del Veneto c’era e io sono solo la Presidente di un’associazione di volontariato, che però ha seguito i bambini del nido prima, dell’Icam poi, quotidianamente, per 16 anni. Portandoli all’asilo nido, alla scuola materna, in spiaggia d’estate, per tre giorni pieni a settimana, ecc. Nella video assemblea, sono state dette molte cose importanti, per esempio che gli Icam sono un passo avanti rispetto ai nidi, ma rimangono carcere; anzi, la dott. Monica Cristina Gallo, garante del comune di Torino, ha fatto notare che negli Icam c’è bisogno soprattutto di svolgere attività e progetti, di dare vita alle giornate. Ora tenervi i bambini fino a sei anni, senza che questo sia fatto, è davvero creare dei disadattati, a cui è stata rovinata tutta la preziosa prima infanzia. Un conto è se i bambini vanno in casa-famiglia, che non dev’essere necessariamente “protetta”, come hanno fatto notare Lia Sacerdote di “Bambinisenzasbarre” e Giuseppe Longo dell’Associazione “Papa Giovanni XXIII” (possono essere accolti anche nelle strutture già preesistenti e non è chiaro in cosa le case protette siano diverse dalle altre) un altro è se stanno negli Icam. Per questo l’associazione “La gabbianella” ha lanciato una petizione, reperibile sul sito: www.lagabbianella.org, in cui chiede che finché i bambini staranno in carcere o in Icam, vi escano a tre anni, come succedeva prima della legge 62. Se in casa-famiglia può andar bene vivere con la mamma fino a sei anni e anche fino a dieci (si spera in pochi casi), in carcere questo è pregiudizievole per il futuro del bambino e fonte di sofferenza per il suo presente. Le case-famiglia necessitano di finanziamenti per funzionare: piuttosto che spendere il denaro pubblico per farne di nuove, sembra sensato spendere per la loro gestione/mantenimento e stabilire se è di competenza dello Stato o delle Regioni. Di certo non si può pensare che sia il terzo settore a mantenerle. Un detenuto allo Stato costa circa 250 € al giorno, una ristretta madre in casa-famiglia circa 50 €, secondo quanto ha detto Luigi De Mauro, presidente della Consulta Penitenziaria di Roma. Conviene a tutti “rieducare” le donne in un ambiente idoneo. Ho spiegato diffusamente ogni cosa in un libro che uscirà in autunno con F. Angeli, ma è bene che si considerino da subito le conseguenze di certe giuste affermazioni: perché restare in Icam-carcere un tempo doppio di prima? Tre anni sono già perfino troppi e dalla mamma si viene separati ugualmente, se il giudice di sorveglianza decide che la stessa non può accedere alla casa-famiglia! Il problema del mantenimento del rapporto a distanza con la madre si pone comunque ed è il modo in cui lo si risolve che determina la durezza o l’accettabilità della situazione per bambini e genitori. Tutto ciò per invitare gli “addetti ai lavori” a considerare la proposta di rivedere la legge 62, anche alla luce di queste concrete riflessioni. *Associazione “La gabbianella e altri animali” Campania. Il Garante Ciambriello: “Controllare lo stress di ogni detenuto” di Viviana Lanza Il Riformista, 8 giugno 2020 Un problema all’interno delle carceri sono i suicidi in cella. E una possibile soluzione potrebbe essere quella di potenziare il sostegno psicologico se, come emerge dall’ultima relazione annuale del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, “va riscontrata la difficoltà negli istituti di pena di avviare programmi di igiene mentale di comunità dato il limitato o assente accesso ai servizi psichiatrici”. Finire in cella per la prima volta, soprattutto per un’accusa che si ritiene infondata o quando ci si ritiene vittima di errori giudiziari, è dura. Durissima. Chi ha provato questa esperienza racconta lo smarrimento, lo sconforto, la paura. L’istituto che ha il più alto tasso di suicidi è Poggioreale sebbene non sia tra gli istituti con il maggior livello di sovraffollamento. “Risulta evidente dunque che i fattori di rischio suicidario non sono riconducibili esclusivamente alle caratteristiche dell’istituto, bensì si intrecciano con le caratteristiche personali, come dichiarato dall’Organizzazione mondiale della salute nel rapporto sul suicidio del 2003”, si legge nella relazione del garante che fa il punto su un anno di storie ed eventi accaduti nei 15 penitenziari della Campania. “Gli istituti di pena sono luoghi dove si concentrano gruppi vulnerabili che sono tradizionalmente tra quelli più a rischio. L’impatto psicologico dell’arresto e dell’incarcerazione, le crisi di astinenza dei tossicodipendenti, la consapevolezza di una condanna lunga o lo stress quotidiano della vita in carcere possono superare la soglia di resistenza del detenuto medio e a maggior ragione di quello a rischio elevato”, è l’analisi. Non in tutti gli ambienti carcerari esistono procedure che consentono di identificare e gestire i detenuti più fragili, quelli che possono tentare o realizzare l’estremo gesto di togliersi la vita. Non basta lo screening per gli indicatori di rischio elevato. Quello che manca o va potenziato, secondo la relazione del garante, è un adeguato monitoraggio del livello di stress dei detenuti: “Vi è poca probabilità di identificare situazioni di rischio acuto”. Eccolo il nodo, il punto su cui intervenire è la soluzione proposta. Perché, come emerge dall’analisi dei dati del rapporto annuale, “anche laddove programmi o procedure adeguate sussistono, eventuali condizioni di sovraccarico lavorativo per il personale o il loro mancato addestramento possono talvolta impedire il riconoscimento dei segnali precoci di rischio suicidario”. Sardegna. Covid-19, zero casi di contagio nelle carceri sarde di Alessandro Congia sardegnalive.net, 8 giugno 2020 Cireddu, Uil-Pa: “Non abbassiamo comunque la guardia”. Intervista al segretario della Uil-Pa Polizia Penitenziaria della Sardegna Michele Cireddu sull’attuale situazione in Sardegna. Michele Cireddu, a distanza di diversi mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria possiamo fare un bilancio sulla situazione relativa gli Istituti della Sardegna, gli agenti come hanno reagito? Non voglia sembrare un commento corporativo ma posso affermare senza paura di smentita che la Polizia Penitenziaria anche in Sardegna ha dimostrato una grande capacità nel fronteggiare l’emergenza sanitaria e nel contenere le proteste da parte dei detenuti. Sono stati periodi difficili, mentre nella penisola si susseguivano le proteste, le distruzioni delle camere detentive e dei locali ed aumentavano i casi di contagio, in Sardegna i nostri poliziotti sono riusciti ad evitare che la situazione potesse degenerare. Questo ha determinato degli evidenti sacrifici, in primis sono state accantonate le relazioni sociali esterne ed è stata sacrificata la famiglia perché, (cosi come hanno fatto le altre forze di Polizia, i medici e gli infermieri) per fronteggiare questa pandemia non si è badato all’orario di lavoro. Spesso sono stati effettuati doppi turni nella consapevolezza che, soprattutto nelle fasi più critiche i nostri poliziotti erano sprovvisti dei dispositivi di protezione individuale e questo ha reso ancora più eroica l’opera degli Agenti ma nel contempo ha evidenziato l’inadeguatezza dei vertici del Dipartimento che a nostro avviso hanno dimostrato di non essere all’altezza nemmeno dalla comodità del loro smart working. Ci sono stati casi di positività tra gli agenti o tra i detenuti in Regione? Fortunatamente non ci risulta ci siano stati dei casi di positività, mi preme rimarcare che insieme a tutte le Organizzazioni Sindacali abbiamo dato battaglia per sottoporre il personale ai test sierologici. Inizialmente volevano escludere gli istituti penitenziari ma la nostra caparbietà e la sensibilità che hanno dimostrato alcuni esponenti politici ha permesso di testare anche gli operatori considerati da tanti, in maniera erronea, “di confine”. Nella penisola purtroppo si sono invece registrati centinaia di postivi tra gli operatori e tra i detenuti, abbiamo assistito con grande preoccupazione all’escalation di proteste e all’aumento dei contagi, fortunatamente la situazione sembra essere migliorata un po’ ovunque. Le dimissioni del Capo del Dipartimento Basentini, dopo le polemiche relative le scarcerazioni di detenuti appartenenti al 41 bis hanno determinato difficoltà in Regione? Uno dei detenuti che ha beneficiato delle misure era ristretto nell’Istituto di Sassari, la Uil ha preso posizione a livello nazionale, di conseguenza sembra superfluo aggiungere qualcosa in merito. Per quanto riguarda le dimissioni del Capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, n.d.r.) invece posso affermare che in regione non abbiamo avvertito nessuno scossone in quanto gli interventi in favore del distretto non mi sembra siano mai arrivati. Malgrado si sia recato più volte in visita nei vari istituti per constatare di persona la situazione sarda, ha espresso solo delle parole che si sono rivelate semplici proclami per contrastare le aggressioni a danno degli Agenti, per impedire l’introduzione dei microcellulari fornendo le apparecchiature idonee e per dotare gli istituti più grandi della regione di un nucleo cinofili per contrastare l’introduzione in carcere di sostanze stupefacenti. Nessuna di queste splendide promesse sono state realizzate, di conseguenza possiamo a malincuore affermare che, almeno per la Sardegna, sia stata una gestione fallimentare. Cosa vi aspettate dal nuovo Capo del Dipartimento? Devo ammettere che le aspettative sono tante, se già riuscisse a portare a termine qualche semplice e realizzabilissimo intervento sarebbe un buon inizio, ma l’esperienza insegna che dal momento in cui viene nominato un nuovo responsabile, trascorrono lunghi periodi “di silenzio” perché c’è la necessità di capire quali possano essere le necessità della periferia. Dovrà essere inoltre capace a gestire e valorizzare un Corpo di Polizia malgrado provenga dal ruolo della magistratura cosa non facile soprattutto perché come sappiamo per previsione legislativa il Capo del Dipartimento non proviene dalla stessa Polizia che dovrà gestire. Come vi apprestate ad affrontare la fase 3 negli Istituti Penitenziari? Intanto ci saranno delle difficoltà maggiori per gestire i servizi che prima dell’emergenza sanitaria prevedevano delle modalità diverse, mi riferisco per esempio ai colloqui tra i detenuti ed i familiari. Oltre ai controlli per evitare che vengano introdotti oggetti o sostanze non consentiti i nostri poliziotti dovranno evitare infatti che possano essere disattesi gli obblighi anti contagio, un surplus che sembra semplice ma che la carenza organica rende estremamente difficile. Stesse difficoltà che affronteranno gli Agenti del NTP e che stanno affrontando i Poliziotti che lavorano nelle sezioni detentive che svolgono un lavoro oscuro, poco riconosciuto ma che personalmente definisco eroico. Per quanto riguarda invece l’attività sindacale, continueremo a batterci affinché alcune Direzioni non continuino a ledere le pari opportunità tra tutto il personale e non continuino a limitare la progressione della carriera dei Poliziotti che hanno partecipato e vinto regolari interpelli per essere inseriti in posti di servizio ambiti. Se chi Dirige un Istituto penitenziario non è attento a gestire il personale in maniera imparziale causa inevitabilmente più danni di uno tsunami. Inutile che dal Dipartimento forniscano delle linee guida per cercare di limitare il turno lavorativo negli Agenti se nei fatti concreti alcune Direzioni fanno esattamente il contrario di quanto previsto. Continueremo a batterci per il rispetto delle regole e degli accordi sindacali ed è quello che faremo durante l’incontro di mercoledì p.v. in videoconferenza con il Provveditore Maurizio Veneziano. Abbiamo infatti chiesto un urgente incontro per riprendere le questioni sospese durante il lockdown imposto dal Governo. Un modo certamente insolito di effettuare le riunioni sindacali ma quanto mai necessario. Milano. Dentro il carcere di San Vittore: “Così abbiamo vinto il Covid” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 8 giugno 2020 Nel reparto speciale che ha curato 62 pazienti: “Un gioco di squadra tra volontari, agenti e detenuti”. Il primo contagiato di San Vittore è datato 30 marzo e in realtà non stava neanche a San Vittore: un detenuto ricoverato in ospedale da novembre e per altri motivi. Il virus lo prese là fuori, e altresì fuori guarì. Quella che in carcere era già entrata da un pezzo però era la paura. Tra i detenuti e tra gli agenti, non solo per sé ma quasi di più per le loro famiglie. “Non è stato semplice all’inizio”, dice Ruggero Giuliani che di San Vittore è il coordinatore sanitario, finalmente sorridendo (o quasi) sotto la mascherina. Ma ora intorno a lui l’équipe di Medici Senza Frontiere arrivata poco più di due mesi fa cammina lungo il corridoio che porta al Centro Covid allestito nel frattempo e al cui ingresso, appena di qua dal cancello, un agente tutto bardato indica ormai con naturalezza la bacinella di candeggina lì in terra per la disinfezione delle suole: in tutto simile a quella che potrebbe star fuori da un reparto colera in Haiti. L’ordinaria amministrazione per Msf. “È stata una lezione importante”, dice il direttore Giacinto Siciliano. Molto impegnativa, va da sé, con in mezzo la rivolta esplosa il 9 marzo qui come in altre carceri italiane. Ma oggi San Vittore, forse, può ricominciare a guardare avanti con in più l’esperienza unica di aver allestito in tempo record un reparto Covid non solo per i “suoi” detenuti ma per anche per quelli degli altri istituti lombardi. In tutto 62 pazienti accolti e curati, finora. Una ventina di San Vittore. Gli altri soprattutto da Lecco e Voghera. Un paio da Bergamo e Brescia. Centro clinico - Solo uno non ce l’ha fatta. Asintomatico, peggiorato in poche ore, ricoverato al San Paolo, due settimana di terapia intensiva, niente da fare. Il reparto Covid di San Vittore, realizzato in quello che prima era il Centro clinico, è attrezzato “solo” per i trattamenti normali. Che non è poco in un carcere: trasferiti al Centro clinico dell’altro carcere milanese di Opera i 90 pazienti presenti “prima”, questo è stato trasformato secondo i criteri disegnati dagli esperti di Msf. La loro équipe - ci sono Marco Bertotto, Sara Sartini, Silvana Gastaldi - è arrivata poche settimane dopo che il carcere aveva interrotto in via cautelare quasi tutte le attività di gruppo dei detenuti, i colloqui con gli esterni, l’ingresso dei volontari. “Momenti di tensione altissima”, ricorda chi c’era. Nessuno sapeva bene cosa fare, come del resto fuori. “Ma quando siamo arrivati e abbiamo cominciato a spiegare come comportarsi - dice la dottoressa Sartini - il clima è diventato di fiducia e le cose sono andate sempre meglio”. È divenuto un modello, spiega Bertotto: “Come Msf lo abbiamo portato nelle Marche, in Piemonte, in Liguria”. Mentre a San Vittore il lavoro quotidiano, finita la formazione, veniva portato avanti dall’équipe medica del carcere. Volontari - Tutti volontari gli operatori del reparto. Sia tra gli agenti (“Prima si son fatti avanti i più giovani - riconosce Pietro Corallo, 27 anni di servizio - e sul loro esempio anche noi più anziani abbiamo capito che dovevamo esserci”) sia tra i detenuti addetti ai servizi di cucina e pulizia. Come Stefano Belfiore, 37 anni: “Una esperienza molto forte, che mi porterò fuori”. Il resto del lavoro più impegnativo è stata la gestione ingressi dei nuovi arrestati: impossibile imporre una quarantena individuale a ciascuno, adottata una quarantena a gruppi divisi per giorno di arrivo, al quinto raggio. Ha funzionato. Così come sta funzionando una delle attività di cui Covid, a fronte dell’interruzione di tutte le altre, ha invece quasi imposto l’avvio: un gruppo di detenuti e detenute produce attualmente 2.500 mascherine al giorno, in parte destinate anche all’esterno. Dopodiché questo ha rappresentato solo una parte di quel che sono stati i mesi Covid in carcere. Problemi giganteschi a cui si è cercata una soluzione nei limiti del possibile, e talora con risultati che sarebbe anche bello conservare: “Come le telefonate e videochiamate quotidiane tra detenuti e familiari”, dice Siciliano. “E anche per la polizia penitenziaria - sottolinea il comandante Manuela Federico - è stato un momento di ritrovata collettività”. “All’inizio - ricorda il provveditore regionale Pietro Buffa - il timore era che il virus potesse essere per le carceri una tragedia: abbiamo sperimentato che agire in squadra consente di affrontare anche le situazioni più difficili”. Come era stata, in marzo, la rivolta che aveva devastato il Terzo raggio. Ora anche il reparto La Nave all’ultimo piano, coordinato dalla équipe di Graziella Bertelli, è stato completamente rimesso a posto dagli stessi detenuti. Il fotografo Nanni Fontana ha regalato al reparto fotografie giganti che ora lo riempiono. E quel che l’intero carcere aspetta, un po’ alla volta, è a questo punto la ripresa delle attività. Che per fortuna, piano piano, sta iniziando. Perché di virus si muore ed è vero. Ma di inattività, in un luogo chiuso, si può comunque impazzire. Carinola (Ce). In carcere con 7 telefoni, bufera sul sacerdote: “Sono stato ingannato” di Marilù Musto Il Mattino, 8 giugno 2020 “Era un cofanetto, mi hanno detto che c’era del tabacco all’interno da consegnare a un detenuto, in realtà c’erano sette telefoni cellulari. Io non lo sapevo. È stata una mia ingenuità prendere in consegna il cofanetto, sono stato ingannato da questa persona che mi ha dato il pacco”. Padre Pierangelo Marchi è frastornato. Ieri è stato perquisito, interrogato e trattenuto per cinque ore nel carcere di Carinola. Che non è certo Alzatraz, evidentemente. Lì, ci sono detenuti con condanne definitive con pene massime non superiori ai sette anni. Il metal detector è suonato al suo ingresso e quando gli agenti della polizia penitenziaria hanno aperto il cofanetto che il sacerdote aveva fra le mani, hanno trovo la sorpresa: 7 telefoni. Più uno, il suo. La versione del sacerdote - Lui, nel carcere, ci era andato per consegnare un pacco con abiti a un detenuto con cui era entrato in confidenza, ma un amico di quest’ultimo gli aveva chiesto un favore per un altro detenuto. Una cosetta semplice: consegnare il cofanetto. “Io gli ho anche detto: ma non è che mi metti nei guai? Lui mi ha rassicurato. Me lo sentivo che c’era qualcosa di strano, a dirla tutta - spiega padre Marchi - è stata una pugnalata alle spalle”. Il Sindacato - La notizia è venuta a galla ieri pomeriggio, grazie a un comunicato stampa di Emanuele Moretti e Ciro Auricchio, presidente e segretario regionale dell’Uspp: “Un prete ha cercato di introdurre in carcere sette cellulari”, hanno scritto i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria. “L’episodio evidenzia la necessità di dotare la penitenziaria di strumenti avanzati, in grado di schermare gli istituti di pena”. Vero, ma non basta. Il 28 aprile nel carcere di Secondigliano era stato intercettato un drone con 6 cellulari per detenuti. Dal muro di cinta, una sentinella aveva intercettato il drone che, in avaria, era precipitato prima di giungere al Reparto detentivo S2, nel cortile dei passeggi del carcere. Metal detector - Ora, l’attenzione si è spostata a Caserta. Padre Pierangelo Marchi, trevigiano trapiantato a Caserta, ha raccontato la sua versione dei fatti agli agenti, prima di tornare nella Tenda di Abramo, l’associazione che aiuta i più deboli in tutta la provincia. Cinque anni di volontariato nel carcere di Carinola, una vita passata ad accudire chi ha bisogno: padre Pierangelo, dell’ordine dei Sacramentini, non se lo aspettava. “Questo episodio non mette in discussione i miei cinque anni di volontariato in carcere - spiega adesso - ho peccato di ingenuità. All’inizio la figlia di questo detenuto mi incaricava di portare abiti al padre, ma non è mai successo nulla. Tutto veniva controllato all’ingresso, questa volta invece il metal detector è suonato, con mia sorpresa. Non c’è dolo, ma colpa. Mi hanno ingannato e facendo questo hanno messo nei guai me e gettato cattiva luce sul carcere di Carinola, che non ha bisogno di questa etichetta”. Ma chi era il destinatario dei telefoni cellulari? “C’era il destinatario, certo. Ma io non lo sapevo, per me dentro quel pacco c’era tabacco”, conclude il sacerdote. Don Marco Pozza: “I detenuti sono il mio quinto Vangelo” di Emanuele Ambrosio ilsussidiario.net, 8 giugno 2020 Don Marco Pozza, il parroco del carcere “Due Palazzi” di Padova ospite della nuova puntata di “Da noi…a ruota libera”, il programma condotto da Francesca Fialdini e trasmesso domenica 7 giugno 2020 nel pomeriggio di Raiuno. Il teologo e parroco è conosciuto anche come conduttore televisivo, mentre i più giovani lo chiamano don Spritz. Lui stesso, invece, si definisce come “uno straccio di prete al quale Dio s’intestardisce ad accreditare simpatia, usando misericordia” ed un grande appassionato di Antoine de Saint-Exupéry, l’autore de “Il piccolo principe”, una delle opere letterarie più famose e conosciute al mondo. La passione per la scrittura e per lo studio l’hanno spinto a conseguire il Dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana con una dissertazione su Cittadella, la sola opera postuma dello scrittore-aviatore francese. Non solo teologo e conduttore, Don Marco è anche autore di diversi libri. Il debutto arriva nel 2011 con il romanzo “Penultima lucertola a destra” seguito l’anno dopo da “Contropiede”. La grande popolarità come autore arriva con la trilogia dedicata alla figura di Cristo iniziata nel 2015 con “L’imbarazzo di Dio” seguito da “L’agguato di Dio” e “L’iradiddìo”. Don Marco Pozza e Papa Francesco: “per me è un Papà” - Nel 2016 proprio grazie alle sue opere autoriali Don Marco Pozza riceve il Premio Speciale Biagio Agnes per il giornalismo e debutta come conduttore nel programma “Le ragioni della speranza” trasmesso su Rai1. L’anno dopo approda a Tv2000 dove conduce il programma “Padre Nostro” con la presenza fissa di Papa Francesco con cui ha scritto anche il libro “Quando pregate dite: Padre nostro” edito per Rizzoli. Parlando proprio della fede, Don Marco intervisto da La voce dei Berici ha raccontato: “la mia fede è cresciuta e si è confermata sotto la guida di tre Pontefici: Giovanni Paolo è stato per me un Papa da guardare, Benedetto XVI un Papa da ascoltare, Francesco un Papa da toccare”. In particolare il parroco si è soffermato proprio su Papa Francesco con cui ha collaborato e lavorato a stretto contatto. “Con Papa Francesco, poi, ho dovuto aggiungere un accento: da Papa a Papà” - ha detto Don Marco - “Dio è generosissimo con me, mi sta donando una pagina sacra incredibile da vivere in questi anni: stare a contatto spiritualmente con Pietro è come stare seduti alla sorgente e poter bere l’acqua appena uscita dalla fonte. Freschezza pura”. Infine l’uomo si è soffermato anche sul suo compito di parroco all’interno del carcere “Due Palazzi” a Padova: “i detenuti mi chiedono di sedermi vicino e attraversare assieme a loro questo pezzo fastidioso di vita che mi cambia nel profondo. Sarò per sempre loro grato non del male che hanno commesso ma della sete di riscatto che qualcuno di loro mi mostra in presa-diretta. Sono il mio quinto Vangelo”. Con il virus globale più disuguaglianze di Milena Gabanelli e Luigi Offeddu Corriere della Sera, 8 giugno 2020 Il Covid aumenterà il divario tra ricchi e poveri, mentre le aziende accorciano (e riportano a casa) la filiera. La risposta Ue: ripartire sui binari della sostenibilità. Un microorganismo a nome Covid-19 sta rovesciando gli schemi, i ritmi e le regole della globalizzazione mondiale. È partito dalla Cina seguendo le stesse vie della globalizzazione: commercio e turismo via aerea, e poi tutte le altre strade di contatto fra gli abitanti della terra. In quattro mesi il virus ha contagiato 7 milioni di persone e ne ha uccise 380 mila. La Cina è il più grande fornitore al mondo di prodotti a basso costo, soprattutto nella componentistica meccanica e nel tessile. È il luogo dove molte aziende occidentali negli ultimi vent’anni hanno delocalizzato parte dei propri impianti inseguendo i minori costi del lavoro. Epicentro del contagio: Europa, e poi Stati Uniti, ovvero i Paesi che hanno delocalizzato di più o che dipendono dalle forniture cinesi. Unica cura o prevenzione finora conosciuta, il distanziamento fisico, cioè il contrario della globalizzazione. Da 107.000 voli al giorno a zero - Con il traffico aereo bloccato ovunque, per oltre 2 mesi da Pechino non arriva più la componentistica nemmeno per le attività strategiche. Per le compagnie aeree è il tracollo. Nel 2019 l’incremento del traffico era stato del 75% rispetto al 2008, anno della grande crisi economica, e la Iata prevedeva per l’intero 2020 una media di 107 mila voli al giorno con 4,3 miliardi di passeggeri. La Lufthansa, compagnia tedesca che ha tradizionali e intensi contatti con l’Asia, cancella fra marzo e aprile 23 mila voli a lungo e medio raggio, mette in cassa integrazione due terzi dei dipendenti, e annuncia che smantellerà 42 aerei. Solo da giugno la compagnia tedesca, che ora sta trattando l’ingresso dello Stato nel capitale, riprenderà forse con 160 voli al giorno. Aiuti di Stato per 7 miliardi ad Air France. Negli Usa, le compagnie aeree chiedono aiuti per 50 miliardi di dollari. Petrolio: i produttori pagano chi lo compra - Nessuno immaginava una paralisi totale dei trasporti nel giro di due settimane, e quando si fermano le auto e tutti i voli civili, i depositi di stoccaggio del petrolio diventano pericolosamente pieni. Per dare un’idea: un jumbo consuma in media 63 mila litri di kerosene per coprire i 6 mila chilometri di volo Milano-New York. Il mercato del petrolio opera con il sistema del “future”, un contratto con il quale le parti si obbligano a scambiarsi ad una certa scadenza un certo quantitativo, ad un prezzo stabilito. Ma quando la domanda cala improvvisamente e la produzione rimane la stessa, sei disposto a pagare pur di liberarti del carico. Per la prima volta nella storia il petrolio, il 21 aprile, i produttori americani per far spazio nei depositi, hanno pagato gli acquirenti 37 dollari per ogni barile di West Texas Intermediate, considerato il punto di riferimento per tutto il greggio Usa. Oggi quello stesso barile, che a febbraio valeva 54 dollari, viene venduto a 37,2 dollari. Il calo trascina in basso i prezzi delle materie prime, ma ovunque crollano i consumi, la produzione e la domanda di ogni bene, che non sia sanitario o alimentare. Si fermano i progetti di ricerca e sviluppo. Cala il Pil in 170 Paesi - In marzo-aprile l’export cinese aumenta del 3-5% grazie a 9,2 miliardi di euro incassati esportando prodotti medici. Cresce anche il tessile, riconvertito alle mascherine, ma è un export legato a una contingenza. Il Fondo monetario, che fino a pochi mesi fa prevedeva per il 2020 una crescita media mondiale del +3,3%, ora paventa la peggiore recessione mondiale dal 1930, (-3%), con un indebolimento del pil pro-capite in 170 Paesi (in Italia calo del 9,5%, e nell’Eurozona di circa il 7%). Il Fondo teme per il 2020-2021 una perdita mondiale cumulata di 9 mila miliardi di dollari. A chi offrirà ora Pechino i suoi prodotti? I segni di un cambiamento strutturale della sua economia interna ci sono già. Molte aziende europee si stanno organizzando per accorciare la filiera: la pandemia ha dimostrato che dipendere da un solo fornitore è pericoloso. Doppio shock per l’Africa - Il virus riporta indietro nel tempo anche, o soprattutto, quelle nazioni in via di sviluppo che, grazie alla globalizzazione, avevano fatto dei progressi. In 30 anni le esportazioni di materie prime dall’Africa verso l’Occidente erano passate da 127 a 539 miliardi di dollari, ed era cresciuto il pil procapite medio, passando in alcuni paesi da 3.300 dollari a 4.700. Oggi l l’Onu prospetta “carestie di proporzioni bibliche entro pochi mesi” e per i paesi a rischio fame i numeri salgono da 135 a 250 milioni di persone. Mentre i numeri delle vittime e contagi nessuno è in grado di contarli per mancanza di strutture sanitarie. L’1% possiede il 20% della ricchezza totale - Crescono le disuguaglianze. Negli Stati Uniti, percorsi da tumulti razziali e sociali, finora in 26 milioni hanno chiesto il sussidio di disoccupazione. Negli ultimi 30 anni, chi era ricco si è arricchito ancora di più, e chi era povero ha visto peggiorare le proprie condizioni. Nel 1980 all’1% più ricco della popolazione Usa toccava l’11% della ricchezza totale, nel 2014 la quota era arrivata al 20%. Secondo gli ultimi dati Oxfam presentati a Davos, 2.153 miliardari hanno più denaro del 60% della popolazione mondiale. La globalizzazione consente ogni anno alle grandi multinazionali - come le Hi-Tech - di non versare 500 miliardi di dollari agli Stati dove fanno profitti. Secondo una recente indagine del fondo Fair Tax Mark, pubblicato da Fortune, a dicembre 2019, i giganti della Silicon Valley (Amazon, Facebook, Apple, Netflix, Google, Microsoft) hanno versato in tasse, dal 2010 al 2019, là dove fanno i loro profitti 100,2 miliardi di dollari in meno di quanto avrebbero dovuto. Gli esperti del mestiere definiscono questo sistema, “doppio irlandese con sandwich olandese”. Prima si dirottano i profitti su una società irlandese, poi attraverso una seconda olandese, su un’altra sussidiaria olandese situata a Bermuda. Cambiano i codici fiscali, e il gioco può diventare un domino. Dopo questa crisi globale, sanitaria e sociale, sarà difficile eludere ancora il tema della redistribuzione della ricchezza, di una maggiore giustizia. Il ritorno in patria e il Green Deal - E qualcosa si muove: negli ultimi 5 anni in Europa 253 aziende sono tornate a produrre almeno in parte in patria; 39 sono italiane, soprattutto alcuni marchi del lusso. Secondo l’indagine Eurofound, promossa da Commissione e Parlamento Europeo, Italia, Francia e Regno Unito sono state dal 2015 in poi le 3 nazioni Ue con il numero più alto di relocalizzazioni. Si torna a casa per una globale riorganizzazione dell’azienda (61% dei casi), per accorciare i tempi di consegna (55%), per il ritrovato prestigio garantito dal “made in”, anche a seguito dell’obbligo a scrivere in etichetta l’origine della materia prima (48%). Nel 2020 della pandemia, questa tendenza potrebbe accelerare, anche perché sta fiorendo una nuova sensibilità, soprattutto nei giovani, che premia chi produce rispettando le regole del fair trade. Intanto dentro al Parlamento europeo è nata un’alleanza globale composta da ministri di 11 Paesi, 79 eurodeputati, 37 amministratori delegati, 28 associazioni di imprese o confederazioni sindacali, e le più grandi ong. Lo scopo è quello di trasformare una disgrazia in una opportunità: con i miliardi stanziati per la ricostruzione sviluppare un modello di prosperità più sostenibile. Vuol dire avviare lo European Green Deal, il piano della nuova Commissione Europea per arrivare entro il 2050 a una Ue libera dal Co2. È stato presentato l’11 dicembre, proprio mentre il Covid-19 iniziava il suo viaggio distruttivo. Alla protesta contro il razzismo tornano le Sardine e rilanciano lo ius soli di Ilario Lombardo La Stampa, 8 giugno 2020 Nella maggioranza si riapre la polemica. Dura 8 minuti e 46 secondi l’omaggio commosso di Piazza del Popolo a George Floyd, il cittadino afroamericano ucciso da un agente di polizia a Minneapolis, il 25 maggio. Sono i minuti interminabili che scandiscono gli ultimi istanti di vita di un uomo ucciso da un agente di polizia mentre implorava: “I cant’breathe”, non riesco a respirare. Sotto il cielo di Roma, a mezzogiorno migliaia di persone restano in ginocchio per quattro minuti, per altri quattro minuti restano in piedi con il pugno alzato per dire no al razzismo, in silenzio. “Black lives matter” riecheggiano i cartelli. E quelle parole ripetute ancora: “I can’t breathe”. È stata una studentessa romana di 25 anni, Denise Fuja Berhane, a lanciare con due amici l’idea raccolta dalle associazioni che si battono contro ogni discriminazione, a partire da Women’s March Rome, 6.000 sardine, Neri Italiani, Black Italians (Nibi). A rispondere è una folla di giovani (tremila persone secondo gli organizzatori) di ogni colore, origine e religione che riunisce per ricordare che sui diritti l’Italia non può dirsi innocente. A partire dai colpevoli ritardi sulla cittadinanza ai nuovi italiani. “Noi saremmo per lo ius soli puro, ma bisogna bonificare la narrazione farlocca e strumentale portata avanti da certi personaggi della politica” sostiene Mattia Santori, leader delle Sardine. Il movimento, sommerso durante il lockdown, riparte da dove era rimasto. Dalla proposta sulla cittadinanza. Dall’assedio alla politica per una legge troppe volte sventolata e rimasta poco più che uno slogan. Nella coda di un’emergenza sanitaria che fa intravedere gli albori di una crisi terribile, il dibattito sullo ius soli rischia di trasformarsi in merce politica sul mercato del consenso. Le opposizioni già pronte a colpire se il governo dovesse riaprire i cantieri della norma. E la maggioranza spaccata. Leu è il primo partito a chiedere di rimetterla al centro dell’agenda. Mentre il M5S, che tra le sue mille anime non trova modo di mettersi d’accordo, ostenta indifferenza, pronto a sostenere che “la questione non è all’ordine del giorno”. Infine il Pd che per ora reagisce blandamente, nonostante sia titolare di due proposte su tre depositate alla Camera. In mezzo a tutti, il premier Giuseppe Conte resta convinto che, considerate le non facili conciliazioni, se ne debba occupare il Parlamento. Tentennamenti stigmatizzati dalla piazza romana. Lo ripete Aboubakar Soumahoro, bracciante e sindacalista Usb: “Una certa politica ha continuato a costruire il proprio consenso discriminando in base alla provenienza geografica, religiosa, sessuale”. Ma è di Stella Jean, giovane stilista italo-haitiana, la voce che arriva al cuore: “Non è possibile che i miei figli subiscano le stesse minacce, insulti e aggressioni che ho subito io. Tutti loro meritano la cittadinanza. Siamo tutti meticci, gli italiani per primi. L’altro già voi”. Migranti. Caso Riace: “Illegittimo chiudere i progetti d’accoglienza” di Simona Musco Il Dubbio, 8 giugno 2020 Il Consiglio di Stato dà torto a Salvini. L’allora ministro dell’Interno mise fine ai progetti dopo l’arresto del sindaco. Ma non avrebbe potuto farlo. Il ministero dell’Interno non avrebbe potuto chiudere i progetti d’accoglienza a Riace. A stabilirlo definitivamente è il Consiglio di Stato, che lo scorso 28 maggio ha respinto il ricorso avanzato dal Viminale dopo che, lo scorso anno, il Tar di Reggio Calabria aveva messo nero su bianco l’illegittimità di quella decisione. Partendo, intanto, dal mancato invio di una diffida vera e propria, tant’è vero che le criticità evidenziate dal ministero non avevano impedito la proroga del progetto. Ma soprattutto, il ministero dell’Interno non avrebbe mai contestato puntualmente al Comune le irregolarità rilevate, né avrebbe assegnato un termine entro cui risolverle. E nonostante questo, ad ottobre 2018, pochi giorni dopo l’arresto dell’allora sindaco Domenico Lucano, che di quel progetto era l’anima, il ministero dell’Interno allora guidato da Matteo Salvini aveva disposto il trasferimento dei migranti, riportando il paese di nuovo allo spopolamento. “L’Amministrazione statale prima di adottare qualunque misura demolitoria deve attivarsi per far correggere i comportamenti non conformi operando in modo da riportare a regime le eventuali anomalie”, scrive il Consiglio di Stato, sottolineando come “il potere sanzionatorio/demolitorio è esercitabile solo se l’ente locale che si assume sia incorso in criticità sia stato avvisato, essendogli state chiaramente esposte le carenze e le irregolarità da sanare, gli sia stato assegnato un congruo termine per sanarle, e ciò nonostante, non vi abbia provveduto”. Insomma, l’atto del Viminale avrebbe dovuto essere chiaro nei richiami, consentendo così al Comune di Riace, laddove possibile, di risolvere le criticità. Analizzando la nota del 28 gennaio 2017, i giudici di Palazzo Spada hanno sottolineato “che tale atto non solo non soddisfa i requisiti di forma stigmatizzati dal Tar, ma neppure quelli sostanziali, non potendo ritenersi che abbia raggiunto il suo scopo”. L’avviso avrebbe dovuto, infatti, rispettare tre requisiti: l’adozione da parte della Direzione centrale, l’individuazione di ogni inosservanza accertata e l’invito ad ottemperare alle inosservanze rilevate entro il termine assegnato, pena la decurtazione del punteggio. Nel caso in questione, però, solo il primo dei tre requisiti è stato rispettato, presentando “gravi carenze in ordine ai successivi”. La nota del 28 gennaio 2017, infatti, “contiene un elenco di criticità indicate sinteticamente con le lettere a), b), c) ecc. fino alla lett. k); per l’individuazione concreta dei rilievi si fa il generico riferimento alla nota del Servizio Centrale del 23 dicembre 2016 senza concretamente individuare i punti critici; con riferimento alle irregolarità amministrative e gestionali la nota è assolutamente generica limitandosi a richiamare la relazione della Prefettura”. Manca, inoltre, palesemente, l’indicazione del termine entro cui provvedere alla risoluzione delle criticità. “Se la ratio della diffida è quella di assegnare un termine per consentire all’ente locale di correggere le anomalie, è del tutto evidente che questo deve essere ragionevole e proporzionale allo scopo: tale può non ritenersi l’invito contenuto nella nota del 28 gennaio 2017 che impone una prestazione ad horas, pur in presenza di plurimi profili di irregolarità in precedenza evidenziati”, scrivono i giudici. Inoltre, la chiusura del progetto è arrivata nel giro di circa un mese dall’adozione del provvedimento che aveva rifinanziato i progetti d’accoglienza per il triennio successivo, nonostante le criticità fossero già state manifestate in precedenza dal ministero dell’Interno: “ciò rende ragionevole ipotizzare che il Comune non avesse interpretato tale atto nel senso propugnato dal ministero appellante, in assenza di elementi formali idonei a farlo qualificare come invito/diffida, e cioè come l’atto propedeutico all’adozione del provvedimento di revoca del contributo assegnato”. Inoltre, il 26 gennaio 2017 la Prefettura di Reggio Calabria aveva redatto una relazione positiva sul “sistema Riace e ciò, nell’ottica del Comune, “avrebbe potuto incidere positivamente sulle valutazioni del ministero”. “Se si considera il contesto anche temporale nel quale la nota è stata trasmessa, il tenore dell’atto, la carenza di un formale espresso riferimento alla natura di avviso/invito ex art 27 c. 2 cit. e la mancata rispondenza ai requisiti di forma di tale specifico atto - affermano i giudici - deve condividersi con il Tar che a tale atto “non può attribuirsi un valore diverso da quello di una nota volta richiamare l’attenzione dell’amministrazione comunale sull’esigenza di porre rimedio alle criticità riscontrate nel precedente triennio”, che peraltro non avevano comportato il rifiuto di ammettere il progetto al contributo per il triennio successivo. A ciò occorre aggiungere che come puntualmente rilevato dal Tar, nella nota del 28 gennaio 2017 non vi è alcun espresso riferimento alle criticità correlate alla banca dati che poi hanno comportato la decurtazione del punteggio e che le contestazioni relative alla gestione amministrativo-contabile dell’ente sono troppo generiche pur avendo assunto un effetto determinante ai fini della revoca del contributo”. Tutto ha a che fare con due note del Viminale: una del gennaio 2017, con la quale, in vista del nuovo triennio di finanziamento, poi approvato, il Comune venne sollecitato a comunicare le iniziative per “ricomporre con immediatezza tutti gli aspetti di criticità emersi durante le visite ispettive”, e una di luglio 2018, con la quale venne comunicato l’avvio del procedimento di revoca del contributo. Per i giudici del Tar è “palesemente irragionevole e contraddittorio ritenere che, ad appena un mese dal decreto con il quale era stato rifinanziato il “sistema Riace”, il Viminale abbia diffidato l’ente ed avviato il procedimento per revocare i fondi. Come se un procedimento già chiuso fosse stato riaperto e modificato nel suo contenuto. Il tutto con un atto che, in ogni caso, “violerebbe” le regole di “trasparenza” e “partecipazione al procedimento amministrativo degli interessati”, affermano i giudici. Contestazioni “troppo generiche”, anche quando ritenute decisive nella scelta di revoca, “e che, pertanto, avrebbero dovuto essere previamente contestate con ben altra puntualità”. La critica dei giudici è forte: l’amministrazione statale si sarebbe limitata a vuoti formalismi procedimentali, senza rispettare “le forme che essa stessa, peraltro, si è data”, prorogando in un primo momento il progetto e poi decidendo, per le stesse ragioni, di cassarlo. Con una “contraddittorietà”, affermano i giudici, “manifesta”, in quanto le difficoltà del “sistema Riace” erano note e risalenti, almeno, al precedente triennio, ma il procedimento ispettivo non si era concluso con la revoca del finanziamento, bensì con la sua proroga, ragione per cui il Comune non poteva che dedurne il superamento delle criticità. E i risultati di quelle ispezioni non sono stati inoltrati alla Commissione deputata alla valutazione dei progetti o, se ciò è stato fatto, non si è provveduto ad impedire la proroga del finanziamento, peraltro richiesto dal Comune il 30 ottobre 2016, chiaro “indice dell’illegittimità” dell’atto del ministero. “L’autorizzazione alla prosecuzione del progetto può, dunque, trovare spiegazione solo con “la massima benevolenza dell’amministrazione” che ha anche messo a disposizione del Comune “risorse umane e finanziarie”, nonostante il caos gestionale ed operativo “che emerge con chiarezza dagli atti di causa”. Insomma, “i riconosciuti ed innegabili meriti del “sistema Riace”“, secondo i giudici, avrebbero “giocato un ruolo decisivo nel ritenere superate (e non penalizzanti) le criticità”, che non potevano essere recuperate a posteriori, “per motivare la revoca, se non rinnovando per intero il procedimento”. Alla luce della documentazione, insomma, “il progetto avrebbe dovuto essere eventualmente chiuso alla scadenza naturale. Averne autorizzato la prosecuzione, lasciando la gestione di ingenti risorse pubbliche in mano ad un’amministrazione comunale, per quanto ricca di buoni propositi e di idee innovative, ritenuta priva delle risorse tecniche per gestirle in modo puntuale ed efficiente, appare fonte di danno erariale”, da segnalare alle autorità competenti. E “che il “modello Riace” fosse assolutamente encomiabile negli intenti ed anche negli esiti del processo di integrazione - si legge - è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti”. Insomma, quell’atto non aveva fondamento. Ma i progetti, ormai, sono chiusi e Riace è di nuovo vuota. Migranti. L’allarme dei Servizi: pronti a partire in 20mila da Libia e Turchia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 8 giugno 2020 Libia e Turchia potrebbero allentare i controlli su chi parte. Sbarco autorizzato dai maltesi: “Minacce all’equipaggio”. Allentare i controlli e consentire ai migranti di partire. È questa l’arma di ricatto che la Libia può utilizzare per ottenere nuove concessioni. Ma è soprattutto lo strumento di pressione che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ormai alleato principale del capo del governo di Tripoli Al Sarraj, per trattare con l’Europa. Ecco perché il governo italiano ha riattivato le relazioni diplomatiche, ma anche l’attività di intelligence affidata all’Aise, nel Nord Africa. E la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese sta gestendo personalmente questa fase di uscita dall’emergenza coronavirus nella consapevolezza che il ritorno in mare delle navi delle Ong potrebbe far ricominciare gli sbarchi sulle nostre coste, anche se i porti continuano ad essere chiusi. Secondo gli ultimi report ci sarebbero almeno 20 mila stranieri pronti a salpare. Persone che in questi mesi di lockdown mondiale si sono affidati alle milizie e ai trafficanti in attesa di trovare un mezzo su cui imbarcarsi. La convinzione degli esperti è che i viaggi, adesso che è stata superata la fase peggiore della pandemia, potrebbero riprendere a ritmo elevato. Prova ne sia che moltissime persone sono già riuscite a partire: l’ultimo bollettino del Viminale parla di 5.461 approdate fino a ieri nonostante la sospensione delle attività delle organizzazioni non governative, a fronte dei 1.878 arrivati nel 2019. Tra loro anche molti tunisini - sono 818 - che arrivano con gommoni e pescherecci e approdano soprattutto sulle spiagge. Ieri le autorità maltesi hanno autorizzato lo sbarco dei 425 migranti che si trovavano da 40 giorni a bordo di quattro barconi turistici affittati dal governo de La Valletta per tenerli al largo dell’isola durante la pandemia da coronavirus. “Siamo stati costretti perché minacciavano l’equipaggio”, ha sostenuto il premier Robert Abela, prima di sollecitare una redistribuzione gestita dall’Europa. E potrebbe essere proprio questo il primo banco di prova di quello che potrebbe accadere nelle prossime settimane. Dopo la Sea Watch, che ha ripreso l’attività di pattugliamento e soccorso due giorni fa, anche altre organizzazioni non governative hanno deciso di tornare in mare e questo fa presumere che riprendano gli sbarchi o comunque le richieste di approdo così come accadeva nei mesi scorsi. “Siamo finalmente in viaggio, nei tre mesi passati a Messina per adeguarci alle misure anti-Covid 19, le istituzioni non hanno garantito i soccorsi in mare e, dunque, “a nostra presenza è più che mai necessaria”, è scritto nel tweet postato da Sea Watch. Un’attività che l’Italia non sembra aver intenzione di agevolare. Proprio in queste ore il governo ha deciso di riattivare la trattativa con Tripoli offrendo la consegna dei mezzi e degli aiuti che erano già stati promessi. Oltre alle motovedette e agli altri strumenti per il controllo delle coste, l’Italia si è detta disponibile a trattare la fornitura di apparecchiature utili a garantire la sorveglianza delle frontiere interne, così come i libici chiedono ormai da anni. Egitto. Dalla Libia alle armi: Conte sente Al-Sisi, silenzio su Regeni di Francesca Sforza La Stampa, 8 giugno 2020 Colloquio fra i due leader, ma nessuna risposta sul ricercatore ucciso. L’impressione, però, è che il messaggio sia diventato una frase d’occasione, magari sentita, ma comunque non penetrante abbastanza da far in modo di non essere in agenda per l’incontro successivo. Sarebbe ipocrita tuttavia caricare sulle spalle del solo premier Conte la vergogna di mercanteggiare con l’Egitto all’ombra del corpo di Giulio Regeni. Innanzitutto perché Conte non è andato a titolo personale a parlare della vendita di 6 fregate, di una ventina di pattugliatori navali, di 24 cacciabombardieri Eurofighter e di 24 aerei addestratori M346, con un contratto per forniture militari del valore complessivo di 9 miliardi di dollari, il maggiore mai rilasciato dall’Italia dal dopoguerra. Ci è andato a nome di un governo che nei giorni scorsi è stato sul tema ampiamente consultato, a tutti i livelli. Un governo che aveva avviato l’operazione già nel 2019, ai tempi della maggioranza giallo-verde, prima del Conte 2, ma molto dopo l’assassinio di Giulio Regeni, avvenuto nel 2016. Nessuno sollevò obiezioni allora - e fu un errore - ed è dunque bizzarro che le polemiche si sollevino oggi. Poi perché sono anni che l’interscambio Italia-Egitto non si ferma: trentacinque miliardi nell’ultimo triennio, una forte presenza di Eni, che addirittura riuscì a far entrare in produzione a tempo di record il giacimento egiziano di Baltim South West, scoperto nel giugno 2016, con l’opinione pubblica ancora sotto choc per quell’assassinio, avvenuto tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio dello stesso anno. Ora, va bene difendere gli interessi nazionali, l’economia, i posti di lavoro, e va bene persino usare l’argomento “se non comprano le nostre fregate compreranno quelle dei francesi”, ma quando arriverà il momento per chiedere giustizia sul caso Regeni e ottenerla sul serio, in modo che la famiglia e l’opinione pubblica possano avere la percezione di vivere un Paese che, senza ricorrere alle ipocrisie, sappia garantire sicurezza e rispetto dei diritti? Non è secondario il fatto che gli egiziani ricerchino nell’Italia un partner per il processo di stabilizzazione in Libia. Nel corso della telefonata, il premier Conte ha preso atto del tentativo del Cairo di mandare avanti una mediazione con il generale di Bengasi Khalifa Haftar in vista della realizzazione degli obiettivi di Berlino. A nessuno in Europa può piacere una Libia spartita tra la Turchia e la Russia, ed è interesse dell’Italia che l’Onu riprenda il controllo della situazione. A questo scopo si sono cercati di tenere sempre aperti i canali di comunicazione con le parti in conflitto, pur restando sulla carta a fianco del governo riconosciuto di Tripoli. Oggi il banco di prova è atteso a Ginevra, dove ci si aspetta che i contendenti si siedano fisicamente intorno allo stesso tavolo e siano in grado di definire gli scenari per il futuro di una Libia stabile. Di nuovo, possibile non esista nessuna forma di “leverage” che la nostra diplomazia possa sollevare, per rendere la nostra interlocuzione con l’Egitto più motivata sulla soluzione del caso Regeni? Il fatto che quello tra Italia ed Egitto sia un binario di interessi trafficatissimo - che ci vede come interlocutori per le commesse militari e per il processo di stabilizzazione in Libia - rischia con il tempo di far passare il caso Regeni per un binario morto, l’unico in cui gli sforzi sono a senso unico, da parte della procura e delle autorità italiane. E se certo garantisce che neanche un posto di lavoro vada perduto, e neanche un euro vada indirizzato ad altri anziché a noi, non toglie la sconfitta valoriale, né la rende meno grave. A quando dunque le prime risposte? L’arresto a febbraio scorso dello studente e attivista egiziano George Zaki, che frequentava un master presso l’Università di Bologna è il segno che perdere tempo, sul fronte dei diritti, non coincide con l’attesa e la speranza, ma con un rapido scivolare all’indietro, nella terra desolata delle “circostanze non del tutto chiarite”. Usa, la protesta pacifica piega Trump che ritira la Guardia nazionale di Federico Rampini La Repubblica, 8 giugno 2020 Donald Trump ritira la Guardia Nazionale dalle vie di Washington. Il sindaco di New York Bili de Blasio cancella il coprifuoco e promette tagli al bilancio della polizia. Dopo un sabato segnato da grandi manifestazioni pacifiche, che hanno inondato la capitale federale e centinaia di altre città negli Stati Uniti, c’è già un primo bollettino di vittoria per il movimento nato dopo la morte di George Floyd. La svolta c’è stata nelle ultime due giornate, quando la protesta è diventata sempre più numerosa e sempre meno violenta. Il sabato di Washington e New York, Los Angeles e San Francisco, ha visto pochi scontri, rare tensioni con le forze dell’ordine, mentre prevaleva un clima di impegno civile e perfino di festa. A Washington i concerti di strada hanno preso il posto del fumo da lacrimogeni. Le razzie violente, gli assalti alle vetrine, i saccheggi di negozi di marca non si sono ripetuti. Chi puntava sullo scontro - compreso il presidente “Law and Order” - è stato neutralizzato da una cooperazione convergente: nel movimento è salita la vigilanza contro estremisti, professionisti dello scontro e predatori; nelle autorità ha prevalso quasi ovunque un dispiegamento di polizia più composto e calmo che nei primi giorni. A confermare il nuovo clima è arrivata ieri la decisione del segretario dell’Esercito, Ryan McCarthy, di ritirare da Washington anche i 5.000 riservisti della Guardia Nazionale, dopo che i reparti dei militari erano già partiti. “Le proteste sono diventate di natura pacifica”, ha constatato McCarthy. Una grande vincitrice della giornata di sabato è la 47enne sindaca afroamericana di Washington, Muriel Bowser. Per la grinta con cui ha tenuto testa a Trump, spuntandola sull’uso dei militari in piazza, è balzata all’attenzione nazionale ed è entrata di prepotenza nella rosa delle candidate alla vicepresidenza nel ticket di Joe Biden. La Bowser aveva definito l’uso di militari nelle strade della capitale “un’invasione”. Ieri nel commentare la partenza di tutte le truppe ha detto: “Ho dovuto difendere i miei concittadini, è triste dirlo, contro delle forze annate federali”. Al decimo giorno delle proteste si comincia a misurare un impatto anche sugli equilibri interni al partito democratico, con un ritorno in forze dell’ala sinistra. Alla sinistra radicale, da cui de Blasio proviene, il sindaco di New York ieri ha fatto concessioni importanti. Ha tolto il coprifuoco delle otto di sera, adeguandosi alla decisione della Bowser: sabato a Washington infatti si è avuta la prova che è possibile tenere l’ordine senza la mannaia del coprifuoco serale (che anzi a volte genera inutili arresti di massa). Soprattutto, de Blasio per la prima volta ha annunciato che taglierà i fondi al New York Police Department. La polizia della Grande Mela ha un bilancio di 6 miliardi di dollari annui, sul totale metropolitano di 90 miliardi. “Spostiamo risorse a favore dei servizi sociali e dei giovani”, ha annunciato. “De-fund the police”, è uno degli slogan più popolari nei cortei di questi giorni. A livello nazionale però si levano voci critiche nel partito democratico. Diversi parlamentari hanno ammonito sul rischio di un remake degli anni 60, 70 e 80, quando la sinistra regalò il tema dell’ordine pubblico ai conservatori come Richard Nixon, Ronald Reagan, Rudolph Giuliani. Tornare alla divaricazione fra la destra “Law and Order” e la sinistra lassista contro il crimine? Trump sta facendo di tutto per descrivere così la contrapposizione. Altri temi su cui il movimento antirazzista punta a conquistare cambiamenti concreti, riguardano la riforma del codice penale e delle leggi di polizia. Queste riforme si scontrano con un ostacolo: il sindacato di polizia. Le forze dell’ordine sono iper-sindacalizzate e come tali iper-protette. L’ennesimo abuso di poliziotti a Buffalo ritratto in un video divenuto virale (il 75enne spintonato dagli agenti, che sanguina a terra nell’indifferenza della pattuglia) ha riportato in primo piano il ruolo nefasto del sindacato di polizia. È potentissimo, temuto dai sindaci, e difende per principio tutti i poliziotti anche quando hanno commesso reati gravi. Altro errore giudiziario negli Usa: condanna a morte annullata dopo 23 anni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 giugno 2020 Il 5 giugno una giudice della Pennsylvania ha ordinato il rilascio di Walter Ogrod, annullando la condanna a morte inflittagli nel 1996 per la morte di una bambina di quattro anni, Barbara Jean Horn. La giudice ha stabilito, come tardivamente ammesso anche dalla procura dello stato, che Ogrod era stato condannato a morte sulla base di prove false, tra cui la testimonianza di un informatore, suo compagno di cella. Come in altre vicende di cui abbiamo parlato in questo blog, siamo di fronte a un classico “cold case”, un delitto irrisolto su cui dopo diversi anni (l’omicidio della piccola Barbara avvenne nel 1988), la procura decide di riaprire le indagini. Si trova un compagno di cella del sospetto (in prigione per altri reati), lo si arruola come informatore in cambio di sconti di pena e lo si induce a dire il falso: in questo caso, che Ogrod aveva confidato di essere l’assassino. Poco importò, all’epoca del processo, che non fosse emerso alcun elemento di prova che collegasse Ogrod all’omicidio, che i testimoni oculari avessero indicato un uomo dalle fattezze diverse e che lo stesso Ogrod fosse stato costretto a firmare una confessione sotto coercizione da parte della polizia di Philadelphia. Queste le scuse del procuratore della Pennsylvania, che sarebbe stato molto meglio fossero state pronunciate alla fine del secolo scorso: “Sono molto dispiaciuto che ci siano voluti così tanti anni per dimostrare la sua innocenza e che le parole della sua confessione erano state scritte da agenti di polizia e non da lui. Non solo Ogrod è stato privato della sua libertà personale per oltre 20 anni, ma ha rischiato anche di essere messo a morte sulla base di accuse false”. Il finale di questo post lo lasciamo alla mamma di Barbara, Sharon Fahy, che non credette mai alla versione ufficiale: “Sono infuriata per il fatto che la persona che ha preso la vita di mia figlia sia con ogni probabilità ancora in giro a piede libero”. Quella di Ogrod è la tredicesima volta in 20 anni in cui in Pennsylvania viene annullata una condanna a morte. Scambio di detenuti: Trump ringrazia l’Iran. Teheran: non è frutto di negoziati agenziastampaitalia.it, 8 giugno 2020 Donald Trump ieri poche ore dopo l’arrivo del veterano della Marina americano negli Usa in un tweet ha ringraziato l’Iran per averlo liberato. Secondo l’agenzia iraniana Irna Trump dopo l’arrivo di Michael White sul suolo americano ha scritto: “Sono felice che Michael White è tornato a casa. È molto emozionante. Grazie Iran!”. Il presidente americano ha inoltre ripetuto le sue solite bugie sui negoziati con Teheran: “ciò indica che un accordo è possibile”. È da ricordare che sono stati proprio gli Usa a ritirarsi unilateralmente dall’accordo nucleare internazionale firmato nel 2015 da Teheran con i cosiddetti (5+1). Nel frattempo il segretario del Supremo Consiglio di Sicurezza Nazionale dell’Iran, Ali Shamkhani venerdì sera su Twitter ha ricordato che lo scambio di detenuti tra Iran e Stati Uniti non è il frutto di alcuna trattativa tra i due paesi ribadendo che neanche in futuro non si terrà nessun negoziato tra Teheran e Washington. Giovedì sera anche il ministro degli Esteri della Repubblica islamica, Mohammad Javad Zarif, ha espresso gioia per il fatto che il dottor Majid Taheri e White potranno riabbracciare le rispettive famiglie come anche il secondo iraniano tornato in patria questa settimana, Sirous Asgari, dopo essere stato scagionato dalle false accuse di aver trafugato segreti commerciali negli Usa. “Questo può accadere per tutti i prigionieri”, ha dichiarato Zarif su Twitter, “non c’è bisogno di operare una sezione. Gli ostaggi iraniani detenuti negli o per contro degli Usa devono tornare a casa”.