Magistratura. Chi demonizza le correnti preferisce la casta di Franco Corleone Il Manifesto, 7 giugno 2020 Per fortuna vi sono differenze di cultura e di sensibilità tra i magistrati, tra garantisti e giustizialisti, tra forcaioli e persone legate ai principi dello stato di diritto. La vicenda Palamara ha innescato una discussione francamente surreale. Invece di affrontare alla radice i problemi della giustizia in Italia, dei suoi rapporti con il potere e dei motivi per cui il rapporto dei magistrati con la politica si sia trasformato in uno scontro infinito per la supremazia, si discute della legge elettorale per l’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura. Viene indicata come fonte della logica di lottizzazione e di spartizione delle nomine dei capi degli Uffici la presenza delle correnti nella magistratura. Tutti sanno che le lotte defatiganti per mettere un proprio uomo a capo delle Procure strategiche sono legate alle norme improvvide che hanno dato al Capo un potere assoluto sugli altri magistrati e un controllo sostanziale sulle priorità delle indagini. Inoltre, il rapporto distorto con il potere dell’informazione, con i rapporti privilegiati con giornalisti fidati ha determinato un ruolo mediatico fortissimo della magistratura rispetto alla politica. Tutto questo miscuglio di perversioni ha accentuato la ricerca di un rapporto con l’opinione pubblica, alla ricerca di un consenso mediatico sulla lotta alla criminalità, spesso con operazioni di facciata destinate a finire nel nulla o ad alimentare la cultura del sospetto o del complotto. Il populismo penale è una malattia contagiosa e ha infettato la Repubblica. La tabe ha origini antiche. Come fu possibile che il Presidente del Tribunale della razza divenisse Presidente della Corte Costituzionale? Come fu possibile che la Cassazione eliminasse le sanzioni contro il fascismo e i giudici si esercitassero nel processo alla Resistenza e nella persecuzione contro i partigiani? Come lamentava Leonardo Sciascia, avere salvaguardato il principio della continuità dello Stato ha consentito che dopo novanta anni sia ancora in vigore il Codice Rocco del 1930, voluto da Mussolini e firmato da Vittorio Emanuele III. Se molte cose sono cambiate nella magistratura ciò è dovuto alla contestazione della prassi giudiziaria e in particolare di quella degli “ermellini” da parte di Magistratura Democratica, e di avere assunto decisioni in nome della Costituzione e non della difesa degli interessi privati (ricordo di avere partecipato da giovane alle contro inaugurazioni dell’Anno giudiziario e alla raccolta firme per un referendum per cancellare i reati d’opinione). Se si vuole discutere seriamente dei problemi della giustizia si ricominci la discussione sulla base dei testi di Achille Battaglia degli anni cinquanta e sessanta, “Processo alla Giustizia” e “I giudici e la politica”. Per fortuna vi sono differenze di cultura e di sensibilità tra i magistrati, tra garantisti e giustizialisti, tra forcaioli e persone legate ai principi dello stato di diritto. Chi demonizza le correnti odia il confronto delle idee e sogna il ritorno della casta o il prevalere della corporazione. Tutte esperienze che abbiamo conosciuto come espressione del peggiore regime. È evidente che se il Csm è eletto per un terzo dai magistrati, il metodo di elezione deve garantire la rappresentanza secondo un metodo limpido. Se non si vogliono far emergere le differenze culturali e di ispirazione ideale, non rimane che il sorteggio. Ma per conseguenza anche le decisioni dei processi potrebbero essere affidate al metodo infallibile della “testa o croce”. Così ci liberemmo anche del fastidio del giusto processo stabilito solennemente dall’art. 111 della Costituzione, conquistato con una aspra battaglia nel 1999. Più che le toghe politicizzate preoccupano le toghe impunite di Iuri Maria Prado Libero, 7 giugno 2020 “Separare nettamente la magistratura dalla politica”: questo balordo ritornello non è un’esclusiva del ministro Bonafede, che ieri l’ha reiterato spiegando che si tratta di “un’istanza fortemente sentita dai cittadini”. L’idea che il problema sia questo - e cioè, per capirsi, il fatto che la magistratura simpatizzi a destra o a manca e si immischi nei movimenti delle fazioni partitiche - è infatti ben diffusa e non coglie, anzi copre, il problema vero: che è esattamente l’opposto e consiste nel costituirsi della magistratura in un potere politico a sé stante, che reclama “autonomia” e “indipendenza” intese esattamente come gli strumenti per difendere quel potere e perpetuarlo. Quel che fa danno non è il giudice di sinistra che impedisce il licenziamento del dipendente che ruba, così come non farebbe danno, se esistesse, il giudice sovranista che assolve il buon padre di famiglia che spara al negro: quel che fa danno è la pretesa che simili spropositi siano sottratti a qualunque forma di controllo sociale e trovino protezione nel luogo comune secondo cui “le sentenze non si commentano”. E non si commentano, secondo il malinteso che governa quest’impostazione, perché l’amministrazione della giustizia non è più un servizio che, come tutti i servizi, può essere assicurato bene o male, ma una specie di sacerdozio impassibile: con la sentenza che cessa di essere un documento pubblico più o meno ragionevole e dunque discutibile, e si trasfigura in un segno oracolare di cui non puoi dir nulla se non bestemmiando. È in questo senso che la magistratura si “politicizza”, non perché pende di qui o di lì, ma esattamente perché si pretende “separata” in questo modo perverso e cioè per difendere il proprio potere di giudicarsi in proprio: che poi vuol dire il potere di assolversi sempre. Il blitz dei grillini scontenti: “Magistrati in pensione più tardi” di LIana MIlella La Repubblica, 7 giugno 2020 Et voilà. Al Senato, colpo di teatro sull’età pensionabile dei magistrati. A qualsiasi categoria appartengano, ordinari, amministrativi, contabili, militari, ma anche avvocati e procuratori dello Stato. E visto che ci siamo pure per medici e chirurghi. Con un nome di spicco che firma l’emendamento, quello del presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra, assieme a una pattuglia di grillini (o già ex) critici sulla gestione del partito (Lannutti, Ricciardi, Giarrusso, Lezzi, Garruti, Coltorti, Corrado, Pavanelli, Guido - lin). Un blitz in tre articoli sui decreti legge del Guardasigilli Alfonso Bonafede fatti per riportare in carcere i quasi 500 mafiosi messi ai domiciliari. Domani la “guerra” si scatenerà in commissione Giustizia. L’ufficio legislativo di via Arenula ha già dato parere negativo. E Bonafede sarebbe a sua volta contrario. Nessun ammiccamento, anche se chi ha proposto il testo vorrebbe sostenere il contrario, da parte del Pd. Perché, sentiti da Repubblica, dicono no sia il responsabile Giustizia dei Dem Walter Verini, sia il capogruppo al Senato Franco Mirabelli. No anche da Piero Grasso di Leu. E da Giuseppe Cucca di Italia Viva. Ma qual è la sostanza della proposta? Dagli attuali 70 anni si vuole ritornare a 72. Ma c’è pure la possibilità di recuperare i giudici andati in pensione dopo il 30 aprile 2019. Per loro si aprirebbe la chance, se presentano la domanda, non solo di rimettersi la toga, ma perfino di riprendersi il posto che avevano, se è ancora libero. O di conquistarne un altro disponibile. Se passasse la norma, resterebbe magistrato per altri due anni Piercamillo Davigo, l’ex pm di Milano oggi al Csm, anziché andare in pensione il 20 ottobre. E, per un pugno di giorni, potrebbe rientrare anche l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, il cui ultimo giorno di lavoro è stato l’8 maggio 2019. Va detto che Davigo, che sicuramente resterà consigliere del Csm, ha già avanzato querele quando una norma simile è stata presentata alla Camera battezzandola come fatta per lui. Ma con lo scandalo Palamara ha senso una norma del genere? Dice “no” l’ex procuratore di Milano Bruti Liberati, “vittima” del taglio da 75 a 70 anni dell’ex premier Renzi nel 2014. “Questi stop and go sono il concime per le peggiori scorribande”. In Europa, in media, le toghe vanno in pensione a 65 anni. Quando è nata la Repubblica italiana l’asticella era a 70 anni. L’ex Guardasigilli Martelli la portò a 72. E Berlusconi nel 2002, nella speranza di spostare un processo da Milano, la spinse a 75 per l’allora presidente della Cassazione Nicola Marvulli. Ma gli andò male lo stesso. Santi Consolo boccia la riforma del Csm di Bonafede: “È un favore alle correnti” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 7 giugno 2020 Santi Consolo ha percorso in prima linea (Nicosia, Enna, Palermo) gli anni più difficili della Sicilia. Dal 1988 al luglio 1992 è stato giudice nel tribunale penale di Palermo, quando diviene sostituto presso la Procura Generale di Palermo, fino al giugno 1998. Viene eletto al Consiglio superiore della magistratura per il quadriennio fino al 2002. Dal 2003 è alla procura generale presso la Cassazione, Vice Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dal 2008 fino al 2011 quando è nominato dal Csm Procuratore generale della corte d’appello di Catanzaro, poi di Caltanissetta. Nel 2013 era stato eletto nel Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, l’organo di autogoverno dei giudici tributari. Da dicembre 2014 al 4 luglio 2018 è stato Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, nominato dal consiglio dei Ministri. Ha vissuto questo lockdown con l’amarezza del distanziamento sociale. “Perché per me rapporti umani ed empatia sono fondamentali”. E forse dovrebbero essere essenziali per chi fa il magistrato. Da Pretore ho lavorato sulle cause civili che diventavano penali perché per banali liti di proprietà fondiarie poi si arrivava a minacce e aggressioni. Allora andavo di persona a fare i sopralluoghi e c’era sempre chi mi invitava a prendere un caffè a casa. Accettavo a condizione che il caffè venisse offerto anche alla controparte e a tutti gli avvocati. Davanti al caffè si parlava di quanto il processo sarebbe durato, e quanto sarebbe costato. Mi guardavano smarriti e mi chiedevano un consiglio. Li facevo mettere d’accordo, portandoli alla composizione bonaria della lite, e chiudendo lì la pratica. Ho ridotto così il numero di fascicoli e notai che anche le sopravvenienze penali diminuivano nel mandamento, rendendo più spedito il funzionamento degli uffici. La vera giustizia si risolve nella composizione volontaria delle controversie e non nel duro ruolo punitivo. La macchina giudiziaria però rimane ingolfata... Perché con la riforma del codice di procedura penale i riti alternativi non hanno avuto successo. La giustizia con riti alternativi effettivi sarebbe molto più rapida. E forse aiuterebbe anche l’amnistia... Ho una posizione diversa. Penso si debba agire sulla depenalizzazione e su una riforma seria e radicale dell’ordinamento penitenziario. Molti tossicodipendenti disperati potrebbero accedere a formule alternative di esecuzione penale con il prezioso aiuto e supporto anche della Polizia penitenziaria. Di carcere ne sa qualcosa, è stato a lungo a capo del Dap... Vice capo e poi per quattro anni capo del Dap. È lì che mi sono convinto che il castigo, come diceva Sant’Agostino, deve essere intriso di tanta umanità. Ho svolto con passione quel ruolo, cercando di rinnovare l’esecuzione penale e trasformare gli istituti penitenziari nella più grande azienda d’Italia. Quasi tutti i detenuti sono in grado di lavorare e dunque vanno formati, spronati a studiare e a impegnarsi nel lavoro. Così si offrono delle opportunità: deve essere un periodo, quello dell’esecuzione, utile a far acquisire alle persone ristrette una nuova dignità che li porta a essere cittadini laboriosi e onesti. Questa è la vera sicurezza per la collettività. In quel ruolo avrebbe visto bene Di Matteo? Nella visione del ministro Bonafede, molto lontana dalla mia, la sua “certezza della pena” non mi sembra in linea con il dettato costituzionale: il suo punto d’arrivo è la sentenza di condanna. E conta solo che la pena inflitta venga scontata fino in fondo. Così per me non è: chi si comporta bene deve essere sostenuto in un percorso di rieducazione. Ma con questa idea dura, punitiva che ha Bonafede, il capo dipartimento ideale era Di Matteo, che il Movimento Cinque Stelle voleva come Ministro. Invece ha scelto Basentini che era sconosciuto a tutti. E perché, secondo lei? Incomprensibile. Spero che prima o poi il Ministro risponda a tale interrogativo. Su tale vicenda persiste enorme opacità. Purtroppo però le carceri sono invece Accademie del crimine... Fino a quando ne ho avuto la possibilità, ho promosso molte centinaia di progetti in autonomia e in amministrazione diretta, impegnando i detenuti anche nel miglioramento delle strutture penitenziarie. I detenuti con il supporto del personale dell’amministrazione penitenziaria sono capaci anche di realizzare sistemi di videosorveglianza delle aree comuni e di automazione dell’apertura dei cancelli. Questo per garantire anche maggiore sicurezza a chi vi lavora. Bonafede dice che ha trovato un solo protocollo relativo ai progetti di lavoro per i detenuti. Non dice la verità. Diciamo che non viene ben informato. Qual è stato il suo rapporto con la magistratura associata? Dopo otto anni in cui sono rimasto fuori dalle correnti ho aderito a Magistratura Indipendente; a Palermo era l’area di Paolo Borsellino. Come espressione del distretto di Palermo sono stato direttamente candidato al Csm, ma non con il sistema elettorale attuale. Con il sistema proporzionale per mega collegi, che era meno peggio dell’attuale. Mi candidai nel 1998, fortemente supportato nel mio distretto ma pressoché sconosciuto altrove. Feci una campagna elettorale di venti giorni, viaggiando e promuovendo riunioni con i colleghi magistrati. Nell’ambito dei Pubblici ministeri risultai il più votato in Italia, ma non ci fu alcun accordo: mi votarono anche molti appartenenti ad altre correnti. Non c’erano ancora le degenerazioni di cui leggiamo oggi... Questo sistema elettorale ha portato all’accentuazione del potere correntizio e alla sua degenerazione. Alcune considerazioni sono doverose: per esigenze di moralizzazione ben sei componenti del Csm si dimisero. E questo ha portato a uno stravolgimento della volontà elettorale espressa dai colleghi magistrati, che si segnala come anomalia. Ora si scoprono - soprattuto dalle chat - nuove vicende che toccano altri componenti attuali del Csm. Forse qualcuno sarà anche componente di quel collegio disciplinare che dovrà valutare quei colleghi che hanno avuto contatti con Palamara. Il messaggio tuttavia è: il Csm nella composizione attuale non si scioglie. Quindi permarrà in carica altri due anni. Una riforma elettorale del Csm non può deludere e non può essere fatta sull’onda dell’emergenza della vicenda Palamara: deve essere una riforma che in esito di un approfondito confronto corregga le gravi storture attuali. L’inchiesta di Perugia non l’ha sorpresa... Dove sarebbe la novità? Il carrierismo associativo c’è sempre stato, le degenerazioni correntizie sono trasversali e toccano, purtroppo, tutte le correnti. Semmai, tale vicenda mette in evidenza l’invasività del trojan, che inoculato nel telefonino di Luca Palamara, in un segmento temporale circoscritto, per via delle alleanze vigenti soltanto in quel momento, ha finito per colpire solo alcune correnti e alcuni settori politici. Credo occorra riflettere molto sull’utilizzo di questi strumenti e soprattutto sulla diffusione di notizie che non hanno rilevanza penale. Lei come riformerebbe il Csm? Evitare che nella scelta ci sia l’influenza delle correnti. Il ballottaggio e la scelta di collegi uninominali piccoli accentuerebbero al contrario le degenerazioni attuali. Due correnti che si mettono d’accordo possono monopolizzare il consenso, sbaragliando le legittime aspettative dei magistrati più validi. Nostalgico del proporzionale? Penso al voto singolo trasferibile: la possibilità di dare a tutti i magistrati la facoltà di scegliere tra tutte le persone che stimano di più in maniera trasversale ed autonoma dalle correnti, con scelte che non sono controllabili. Penso alla possibilità di dare più preferenze in ordine di valore decrescente. Così vado a scegliere i più meritevoli: se posso esprimere dieci preferenze non andrò ad esprimerle per dieci candidati della stessa corrente. Non esisterebbe più la capacità di controllo delle correnti. Cassazione, difensori costretti a gare folli per il deposito degli atti di Giovanni M. Jacobazzi Il Riformista, 7 giugno 2020 Possono accedere agli uffici della cancelleria solo gli avvocati muniti di prenotazione, da mostrare all’ingresso. L’applicazione fornirà il giorno e l’ora dell’appuntamento. Ma posti i a disposizione sono pochi e bisogna tenere costantemente sotto controllo l’applicativo per evitare di perdere lo “slot” libero. Stanno suscitando più di un mal di pancia tra gli avvocati le recenti modalità di accesso in Cassazione previste per la fase due, iniziata lo scorso 12 maggio, della giustizia. In particolare, sono pochi i “posti” disponibili nel singolo giorno. Ma andiamo con ordine. Fino al prossimo 30 giugno, gli avvocati che devono depositare un ricorso o un controricorso presso la cancelleria civile di piazza Cavour sono obbligati a utilizzare l’applicativo “Ufirst”, disponibile sia su smartphone che tablet. Tramite questo applicativo, che sostituisce il “vecchio” ritiro del ticket presso il totem posizionato all’ingresso della Corte, non più in funzione per evitare gli assembramenti, è possibile accedere al servizio telematico di prenotazione online della Cassazione. Possono accedere agli uffici della cancelleria solo gli avvocati muniti di prenotazione, da mostrare all’ingresso. L’applicazione fornirà il giorno e l’ora dell’appuntamento. La priorità viene data al deposito di atti urgenti che scadono nello stesso giorno o nei giorni appena successivi. Per i ricorsi principali e incidentali, sono aperti tre sportelli, con un intervallo fra gli utenti di 10 minuti. Per ogni prenotazione è possibile depositare un solo atto. Per i controricorsi e atti successivi, invece, ogni prenotazione permette di depositare due atti. In entrambi i casi, ciascun utente può effettuare al massimo tre prenotazioni. I posti a disposizione, fanno però rilevare gli avvocati, sono pochi e bisogna tenere costantemente sotto controllo l’applicativo per evitare di perdere lo “slot” libero. I servizi della cancelleria centrale civile sono disponibili dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13. Non è stata prevista la giornata del sabato, che avrebbe dato un contributo importante per lo svolgimento di questo genere di incombenze, aggiungono gli avvocati. Dalla Suprema corte fanno sapere che, anche in vista dell’entrata in vigore del processo telematico civile in Cassazione, gli avvocati devono privilegiare l’invio per posta dei ricorsi e dei controricorsi, evitando di venire personalmente in cancelleria. Il Covid, va detto, ha radicalmente cambiato, come accaduto in tutti i tribunali, anche i riti del palazzaccio. L’accesso alle cancellerie civili e penali, all’archivio centrale civile e all’Urp è ora limitato a un solo utente per volta e nel rispetto del distanziamento di almeno un metro. Negli uffici a diretto contatto col pubblico sono stati installati schermi protettivi in plexigas e colonnine segnapercorso con nastro estensibile per coordinare i flussi degli utenti. Per l’accesso alle aule di udienza infine, tutti devono essere dotati di guanti e mascherine. Tutto ciò almeno fino alla prossima fase tre quando, si spera, ci sarà il ritorno alla normalità. Medici in carcere, medici di serie B di Laura Guerrini quotidianosanita.it, 7 giugno 2020 Sono una dottoressa di una casa circondariale della Romagna. Lavoro in regime di convenzione (come libera professionista) dal 2016 per un totale di 4 anni esatti continuativi. Le condizioni di lavoro non sono delle migliori. Non abbiamo a disposizione una divisa, ne tanto meno un locale dove poterci cambiare: quindi veniamo e torniamo a casa con i nostri abiti civili. I locali dell’infermeria vengono puliti dai detenuti, e non da personale specializzato, con lo stesso straccio che viene usato anche per altri locali. Il nostro ambulatorio non è sanificabile poichè il mobilio presente (di 20 anni fa circa) è in condizioni pietose, le pareti non hanno vernice lavabile. Come è risaputo, la popolazione detenuta è più incline ad atti di autolesionismo quindi capita non di rado che acceda in infermeria un paziente sanguinante: quelle sopradescritte sono le condizioni in cui dobbiamo medicare i nostri pazienti e nelle quali noi dobbiamo lavorare. Passiamo quindi alla più recente questione coronavirus: ai detenuti in ingresso viene prescritto un periodo di 14 giorni di isolamento al termine del quale viene fatto un tampone nasofaringeo. Durante l’isolamento il paziente deve portare la mascherina chirurgica, terminate le due settimane l’amministrazione non fornisce più la mascherina quindi la popolazione detenuta non ha nessun DPI (che sarebbe un mezzo per proteggere sia loro ma anche noi sanitari e gli agenti di polizia penitenziaria con i quali lavoriamo a stretto contatto). Quanto a DPI noi sanitari abbiamo a disposizione delle semplici mascherine chirurgiche, le FFP2 sono contate e riservate alle procedure più invasive. In questo periodo di emergenza non è mai esistito un percorso “sporco” e uno “pulito” eppure gli accessi dei nuovi giunti (i nuovi detenuti) non si sono mai interrotti. Parliamo dunque del trattamento economico: mentre gli infermieri (dipendenti) hanno avuto in bustapaga tutte le indennità “covid-19” noi medici convenzionati nulla eppure mi pare che abbiamo lavorato nello stesso posto e nelle stesse condizioni. Per i medici ospedalieri, come chirurghi, dermatologi, cardiologi ecc ecc, che avevano contratti a di dipendenza a tempo determinato sono state attivate le procedure di stabilizzazione: per noi medici penitenziari, a cui è riservato un contratto di libera professione in convenzione, nessuna stabilizzazione. Ovviamente siamo medici di serie B. Aggiungo, per concludere, una polemica che sostengo da molto tempo ma che mai viene presa in considerazione e che ora più che mai mi vede protagonista poiché in stato “interessante”: l’attività lavorativa medica viene spessissimo considerata lavoro a rischio per le dottoresse incinte dipendenti. Per noi libere professioniste invece no. Strano come la stessa attività assuma caratteristiche di rischio o meno in base al tipo di contratto e che, di conseguenza, venga remunerata o meno. Quindi, anche i nostri figli, oltre che noi, sono di serie B. Sarebbe bello che tutti gli encomi, i grandi discorsi e complimenti di questi mesi nei confronti della professione medica si tramutassero in una parità di trattamento a livello istituzionale ed economico. Campania. Detenuti e detenute, al via i percorsi formativi ilsudonline.it, 7 giugno 2020 Pubblicati sul Burc gli esiti relativi al?l’avviso pubblico per la realizzazione dei percorsi formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti e delle detenute, adulti e minori della Regione Campania con una dotazione finanziaria di 4 milioni di euro. In particolare, saranno finanziati percorsi sperimentali di formazione e di inclusione socio-lavorativa volti al conseguimento di qualifiche professionali, anche tramite esperienze lavorative e soprattutto la certificazione delle competenze pregresse, anche non formali ed informali. I percorsi nascono dalla collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria-Provveditorato Regionale della Campania e il Dipartimento della Giustizia Minorile per la Campania con il supporto del Garante dei detenuti della Regione Campania. “La Regione Campania - spiega l’Assessore Chiara Marciani - vuole fornire uno strumento innovativo capace di attivare percorsi formativi con il coinvolgimento delle organizzazioni del terzo settore, delle forze produttive e delle parti sociali, volti a potenziare le competenze professionali dei detenuti e delle detenute ed a favorire la loro futura occupabilità, anche tramite percorsi personalizzati”. Gli interventi formativi, strutturati in accordo con gli Istituti penitenziari, tengono conto dei diversi requisiti di ingresso e delle caratteristiche soggettive dei destinatari, nonché delle esigenze dei fabbisogni formativi espresse dagli istituti penitenziari campani, in particolare nei settori edilizia, idraulica, elettricità- elettrotecnica, cucina-ristorazione, giardinaggio-floricoltura, sartoria, acconciatura. Toscana. Accordo tra Regione e Crea per l’inserimento lavorativo dei detenuti stamptoscana.it, 7 giugno 2020 Accordo di collaborazione tra la Regione Toscana e il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) per la realizzazione di attività finalizzate all’inclusione lavorativa e sociale dei detenuti, ospiti dei penitenziari di Gorgona e Pianosa. Lo schema della convenzione è stato deliberato nel corso dell’ultima seduta di Giunta su proposta dell’assessora alla formazione, istruzione e lavoro, Cristina Grieco. La delibera definisce anche l’entità delle risorse assegnate, pari a 60 mila e 65 euro, nell’ambito del progetto “Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale”, finanziato dal Pon (Piano operativo nazionale) Inclusione 2014-2020 del Miur, e di cui la Regione è beneficiaria. Il finanziamento assegnato per la realizzazione delle attività del progetto sarà così suddiviso: 48 mila e 800 euro a carico della Regione e i rimanenti 16 mila e 265 euro a carico di Crea. “È un progetto sperimentale decisamente innovativo, cui teniamo molto - spiega Grieco - perché consente, attraverso lo strumento della formazione, l’inserimento lavorativo e sociale dei detenuti e, nello stesso tempo, la promozione dello sviluppo delle attività economiche dei territori direttamente interessati, grazie a una rete di attori, pubblici e privati, costruita in modo strutturato e integrato”. Le attività previste dall’accordo sono molteplici: analisi dei contesti dove saranno avviate le sperimentazioni, definizione dei fabbisogni territoriali, benchmarking (analisi comparativa), raccolta di informazioni strutturate,finalizzate alla conoscenza approfondita dell’organizzazione interna delle colonie agricole, dei processi produttivi, della potenziale domanda e possibili modelli di business, che potranno fare da volano successive fasi progettuali. Puglia. Un aiuto alle donne arriva dal carcere, con le mascherine di Luca Bergamin Corriere del Mezzogiorno, 7 giugno 2020 La cooperativa sociale Officina Creativa dà lavoro alle detenute a Lecce e a Trani ma analoghe attività si svolgono anche nelle case circondariali di Milano, Roma e Salerno. L’ultima novità del Marchio “Made in Carcere” sono le mascherine che le donne, rinchiuse per un periodo di detenzione, stanno confezionando con quel gusto estetico che chi conosce questo brand benefico sa da tempo apprezzare. “Made in Carcere”, infatti, ormai da 13 anni è presente su tutto il territorio nazionale grazie all’intraprendenza di Luciana Delle Donne, fondatrice di “Officina Creativa”, una cooperativa sociale non a scopo di lucro, che ha lasciato a suo tempo la sua professione di manager nel settore finanziario per dedicarsi a tempo pieno a questa missione volta a creare manufatti diversamente utili con le mani delle donne che non possono godere della libertà ma hanno la possibilità di imparare una professione creativa. Così, alla produzione già nota e apprezzata di borse, accessori, cravatte colorate, braccialetti, si sono aggiunte appunto le mascherine (www.storemadeincarcere.it). Dopo un percorso formativo, le detenute possono apprendere un mestiere che sapranno svolgere anche quando il periodo di reclusione sarà finito. “La nostra filosofia - dice la vulcanica Luciana Delle Donne - è volta a dare una seconda possibilità attraverso l’artigianato e i tessuti da confezionare nel segno dell’ironia e della semplicità, impiegando materiali esclusivamente di scarto che le aziende ci donano, perché credono nel valore sociale di quello che facciamo e sono sensibili alle tematiche dell’ecologia e del rispetto dell’ambiente. Cucire insieme è anche un modo per evadere dalla tristezza della detenzione e di lanciare lo sguardo verso nuovi orizzonti”. Se “Made in Carcere” è attiva nei penitenziari di Lecce e Trani, altre attività simili si stanno compiendo in svariate realtà italiane: nelle carceri di Bollate a Milano, Rebibbia a Roma e Salerno, oltre trecento detenuti hanno imparato in fretta a utilizzare le macchine di produzione di questa fondamentale arma difensiva dalla pandemia, donando decine di migliaia di pezzi anche al personale di sorveglianza come è accaduto in particolare a Padova grazie agli sforzi della Cooperativa Giotto. Presto anche alle carceri Matera e Taranto si estenderà questa attività tessile molto coinvolgente anche sul piano emotivo per le detenute che sono consce e orgogliose di poter aiutare, loro che sono chiuse tra le mura, a girare liberamente e serenamente chi invece gode della libertà di muoversi e di vivere. Roma. Detenuto si impicca a Rebibbia, era in “isolamento sanitario precauzionale” nessunotocchicaino.it, 7 giugno 2020 È stato trovato impiccato alle 6 di ieri mattina nel carcere di Rebibbia un detenuto di 42 anni. Le sue iniziali sono P.B. Salgono così a 22 i sucidi avvenuti in carcere dall’inizio dell’anno, tre dei quali avvenuti in “isolamento sanitario precauzionale”. Per gli esponenti di Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem, Sergio D’Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti “quanto accaduto oggi a Rebibbia è l’ennesima riprova della natura strutturalmente mortifera della privazione della libertà in carcere, tanto più mortifera e criminogena quando avviene in condizioni di isolamento. Inoltre è una tragica contraddizione in termini definire “sanitario”, cioè attinente alla salute, e “precauzionale”, cioè attinente alla sicurezza, un “isolamento”, che è il momento più drammatico dello stato di privazione della libertà”. Gli esponenti di Nessuno tocchi Caino hanno poi affermato che: “L’uomo che si è tolto oggi la vita aveva 42 anni, il suo fine pena era previsto nel 2022. Era un lavorante al G 12. A seguito dell’ingresso di un nuovo giunto il 25 maggio rivelatosi asintomatico, erano stati disposti degli isolamenti precauzionali dei detenuti e del personale che erano venuti in contatto con lui. Due sono le considerazioni da fare. La prima, che vanno contenuti gli ingressi in carcere. Tanto più che a Rebibbia Nuovo Complesso al 31 maggio i detenuti presenti erano 1.412 (51 in meno di aprile) in 1.053 posti disponibili, con un sovraffollamento quindi del 134%. Sembra svanita nel nulla la raccomandazione del Procuratore generale presso la Cassazione Giovanni Salvi che ha raccomandato di ridurre al massimo gli ingressi in carcere limitandoli ai reati più gravi, come quelli di sangue. Non come avvenuto a Rebibbia dove ad entrare il 25 maggio è stata una persona per fatti non certamente gravi. La seconda considerazione è che l’isolamento è misura estrema nella esecuzione della quale vanno comunque assicurati “significativi contatti umani” come stabiliscono anche le nuove regole penitenziarie europee. Nel caso in questione come negli altri recentemente denunciati dal Garante Nazionale per le persone private della libertà personale, questa regola minima è stata palesemente violata”. Napoli. Il direttore di Poggioreale: “Per contrastare i suicidi portiamo l’università in carcere” di Francesca Sabella Il Riformista, 7 giugno 2020 Nei penitenziari italiani, in tre mesi ci sono stati 21 suicidi, di cui tre nelle celle della Campania. “I numeri aiutano a farci comprendere la situazione, ma per me anche un solo detenuto che decide di togliersi la vita rappresenta un fallimento”: Antonio Fullone, provveditore dell’amministrazione penitenziaria campana, racconta la sensazione nel leggere i nomi e le storie di coloro che hanno deciso di uccidersi. Insopportabile, per loro, l’idea di vivere chiusi tra quattro mura. E così un lenzuolo bianco stretto intorno al collo li ha consegnati alla morte. Come viene gestito il dramma dei sucidi all’interno delle case circondariali? “Abbiamo dei protocolli anti-suicidio che aggiorniamo ogni anno. C’è un team che prende in carico il detenuto dal momento in cui fa il suo ingresso in carcere. Un medico si occupa di valutare la sua situazione psicologica e di segnalare le situazioni particolarmente a rischio. Vengono seguiti durante tutto il tempo della permanenza in carcere, ma è chiaro che solo entrare in carcere è di per sé un’esperienza sconvolgente. Spesso, però, si tende a dare la colpa all’organizzazione degli istituti penitenziari. Ecco, su questo non sono d’accordo. Gli istituti devono migliorare e non c’è dubbio, ma è sbagliato dire che si muore di carcere, si muore in carcere. Perché sicuramente è una condizione che amplifica degli stati d’animo negativi e ne crea di nuovi”. Quali sono i momenti più duri per chi deve scontare una pena? “Sicuramente l’ingresso e l’impatto con cella e sbarre. Ci sono momenti topici come quello del processo o di una sentenza e spesso influiscono le situazioni familiari e la vita di chi è all’esterno”. L’emergenza Covid-19 ha influito sulla vita dei detenuti? “Sì. La sospensione dei colloqui e l’isolamento preventivo di 15 giorni messo in atto per scongiurare il pericolo di eventuali contagi hanno contribuito a rendere molto dura la vita in carcere”. In che modo si può intervenire per cercare di evitare altri episodi drammatici? “Gli agenti penitenziari devono prestare attenzione, ma non è sempre facile cogliere il momento e capire che il detenuto è vicino a un gesto estremo. Poi è fondamentale creare luoghi di cultura e, soprattutto, educare al pensiero. Non serve riempire il carcere di mille attività che magari non sono funzionali al reinserimento e in linea con la vita che c’è fuori dal carcere. I detenuti devono impiegare il tempo in maniera sensata”. A questo proposito, cosa pensa della realizzazione di un polo universitario all’interno del carcere di Poggioreale? “C’è una sede della Federico II nel carcere di Secondigliano, ce ne vorrebbe una anche a Poggioreale. Raccolgo volentieri la sfida di realizzarla. La cultura è fondamentale, dà ai reclusi gli strumenti per poter capire e affrontare il cambiamento, per decifrare la realtà e gli sbagli, per sviluppare un pensiero critico e autocritico. Credo che la cultura sia l’unica strada per una vita diversa e migliore dopo la galera”. Ora qual è la situazione degli istituti penitenziari della Regione ? “Dalla fine del lockdown, purtroppo, gli ingressi sono aumentati e ad oggi sfioriamo il numero di ingressi pre-Covid. Per il momento riusciamo a gestire i detenuti e a rispettare tutte le norme per prevenire il propagarsi del Coronavirus nelle carceri. Ma se la curva degli ingressi continua a salire sarà difficile rispettare tutte le procedure”. Ultimamente si parla di indulto e amnistia. Lei cosa ne pensa? “Credo che debba essere la politica a occuparsi di queste dinamiche così delicate”. In che modo dovrebbe farlo? “Prendendo le distanze dalle emozioni e dalle implicazioni emotive. È complicato, me ne rendo conto, ma bisogna guardare al sistema carceri con distacco e razionalità. Solo così potremo creare un nuovo sistema penitenziario e, soprattutto, stabilire chiaramente cosa si vuole ottenere dagli istituti penitenziari e quali sono le procedure per renderli davvero funzionali”. “Storie Maledette” porta il diritto in TV, ma senza preservarne valori e confini di Angela Azzaro Il Riformista, 7 giugno 2020 Starera e domenica prossima torna su Rai3 con altre due puntate del suo programma Storie maledette e, per l’occasione, Franca Leosini non ha lesinato dichiarazioni. Del resto, nonostante o forse grazie al fatto che parla di crimini efferati, ha una caterva di fan che le sono fedelissimi e che non aspettano altro che commentare sui social le sue mitiche interviste a persone che sono incarcerate, molto spesso per omicidio. Intervistata da Repubblica ha sottolineato che il suo successo dipende dal puntiglio con cui legge gli atti dei processi, arrivando all’incontro con il reo molto preparata. Preparazione che evidentemente non ha sulla questione carceri, visto che secondo lei l’emergenza coronavirus “è stata gestita con saggezza: una pandemia nelle carceri sarebbe stata una tragedia enorme”. Leosini, che confonde la fortuna con le scelte politiche, o non sa o ha fatto finta di non sapere che durante le proteste sono morte tredici persone e che se non fosse stato per i magistrati di sorveglianza le carceri sarebbero state a rischio collasso, mentre il ministro della Giustizia Bonafede continuava e continua a far finta di nulla. Ma del resto il problema della giornalista Leosini non è certo quello di occuparsi del dramma delle carceri, né di verificare se gli istituti di pena siano rispettosi della Carta costituzionale. Figuriamoci se le interessa come stanno facendo a pezzi alcuni principi cardine come la prescrizione. Eh no… Per lei - lo dice sempre nell’intervista - l’obiettivo è conoscere l’animo umano o meglio - diciamo noi più prosaicamente - l’obiettivo è fare audience con quello che è diventato negli anni il format più seguito: il processo mediatico. “Storie maledette” è un programma longevo che fa parte di quella intasatissima lista di programmi che si occupano di omicidi, sparizioni, cold case. Non credo che ci siano altre tv nel mondo che possano vantare così tanti titoli, a tutte le ore del giorno. Storie maledette intervista i diretti interessati, pone domande, dubbi: ma alla fine il risultato è sempre lo stesso. Lo svilimento del processo vero e proprio, la convinzione che chiunque possa emettere una sentenza. Certo, quasi niente, se paragonato a “Chi l’ha visto?”. Il programma di Federica Sciarelli assomiglia all’ufficio di una procura di cui assume toni e modalità, tra cui la convinzione che un’accusa sia la verità, che un rinvio a giudizio sia una condanna, che se il pm sostiene una teoria, quella teoria non può essere smentita. Sono decenni che questi programmi, purtroppo con grandi ascolti, hanno creato un pubblico convinto che basti sentire un esperto per capire chi è il colpevole, che se la tv lo dice allora non può che essere così. Dal caso di Cogne fino a Bossetti, la tv si è spesso sostituita al processo, dando per buone sempre e comunque le convinzioni della procura. Leosini, è vero, non sempre sposa le ipotesi degli inquirenti, ha le sue teorie, ma l’impostazione del programma è sempre lo stesso: portare il diritto in tv, senza preservarne il valore e i confini. Oggi forse qualcosa sta cambiando. Dal caso dell’uccisione di Yara Gambirasio per cui è stato condannato all’ergastolo Massimo Bossetti, dopo un processo viziato dall’ingerenza del sistema mediatico, sono passati diversi mesi senza che siano nato un altro caso così pervasivo dei palinsesti tv. Ma purtroppo la buona notizia è solo a metà. Perché il palco, lasciato libero dai plastici con cui Vespa ricostruiva la scena del delitto, è stato conquistato dalla magistratura: pm star che confondono il loro lavoro con l’apparizione in video, possibilmente senza contraddittorio o senza discutere dei punti più dolenti del Palamara-gate. Sta nascendo un nuovo format? Purtroppo forse sì. Ma dietro il format e davanti allo schermo ci sono gli spettatori che in questi anni ha visto queste trasmissioni convincendosi, a loro volta, di essere giudici: giudici implacabili e poco preparati, sempre pronti a condannare sulla base delle accuse. Leosini è parte di questo humus, ma in molti la amano perché elegante e maliziosa (ah, quanto piacciono quelle sue domande sul sesso!). Un giorno ci dovremmo fermare e chiederci perché il pubblico italiano sia entrato con tanta determinazione nel tunnel del processo mediatico. Un tunnel dove si sgretola lo stato di diritto e dove (forse fatto ancora più grave) si perde la pietà, la possibilità di perdonare. Leosini annuncia che farà un nuovo programma, che cambierà: un evviva doppio, anche perché promette non sarà di cucina. Chi soffia sul fuoco di Marco Damilano L’Espresso, 7 giugno 2020 Le tensioni sociali innescate dalla crisi sono sul punto di esplodere. In italia è pronta a sfruttarle una destra di piazza e incendiaria. Negli Usa chi le alimenta è il presidente che punta sulla rottura. Siamo alla vigilia di una bomba sociale che sta per esplodere. Ce lo dicono tanti segnali: episodi di microcriminalità non segnalati sulla stampa, una rete pronta a muoversi per intercettare il malcontento e la rabbia, molto distante dalla protesta civile per quello che non va, ma qualcosa di molto distruttivo. I movimenti dei gilet arancioni, affidati a un personaggio folcloristico come un grottesco ma evidentemente ricco di risorse ex generale dei carabinieri, sono soltanto diversivi che servono a distrarre l’opinione pubblica. Mentre qualcosa si muove a livello sotterraneo. E la nostra intelligence da anni è addestrata a fronteggiare e prevenire il terrorismo islamico, ma è molto più impreparata sul fronte interno, collegato con una rete neo-nazista internazionale. La persona che parla è un uomo delle istituzioni, abituato per professione a decifrare da decenni i segnali in codice che arrivano dalla criminalità mafiosa, allergico alle facili preoccupazioni e ai proclami lanciati in pubblico per fare un titolo giornalistico, e infatti anche in questo caso preferisce non apparire. Ma le sue analisi sono più che preoccupanti, anche perché arrivano alla vigilia della settimana più calda del dopo-emergenza. Il 3 giugno l’Italia ha riaperto ufficialmente pure le frontiere fittizie tra le regioni, ma non è stato un momento allegro. Il giorno prima, festa della Repubblica, il cuore di Roma è stato invaso, di mattina e di pomeriggio, dal centro-destra ufficiale e parlamentare e dalla nuova estrema destra arancione, in attesa della manifestazione degli ultras di sabato 5 giugno. Mentre le città americane sono in fiamme per la rivolta dei neri seguita al brutale assassinio di George Floyd di una settimana fa per mano della polizia. Sono eventi in apparenza associati soltanto dal calendario. Ma danno il segno di quanto sta accadendo in questo difficilissimo post-covid. In Italia, dopo le settimane del lockdown caratterizzate dall’affidamento docile, forse fin troppo, alle autorità di governo e di pubblica sicurezza, il tessuto sociale e civile torna a rivelarsi per quello che era prima del 21 febbraio. Un sistema politico che cammina su una lastra sottilissima, sempre in procinto di spezzarsi. Partiti che “non esistono più”, compreso l’unico partito tradizionale sopravvissuto, il Pd, come ha detto il suo stesso padre nobile Romano Prodi. La fiducia nelle istituzioni che torna a calare, la magistratura percorsa da una guerra intestina con motivazioni in linea con questi tempi mediocri, caratterizzati dall’unica prospettiva del successo facile e immediato, come dimostra il caso di Luca Palamara. Di nuovo, dopo tre mesi di auto-isolamento, paura e oltre trentatremila morti, c’è la disperazione sociale fotografata dal governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco. Una miscela esplosiva pronta a essere agitata per infiammare il Paese dagli incendiari di professione, i gruppi neo-fascisti e neo-nazisti che avevano cominciato ad alimentare la tensione prima del contagio e che ora sono rinforzati dalla disoccupazione, i negozi che chiudono, i licenziamenti in arrivo. In tutta Italia, soprattutto si moltiplicano gli allarmi di sindaci e di amministratori, i più sensibili, i più attenti a cogliere i messaggi impliciti nelle manifestazioni di protesta. Nelle piazze delle province emiliane o lombarde più colpite dalla doppia crisi sanitaria e economica, impreparate a trasformarsi in un pugno di settimane da centri della crescita e del benessere a territori simili alle aree interne care a economisti come Fabrizio Barca, in bilico tra progresso e arretratezza. Da settimane spuntano sigle di protesta anti-istituzionale che si fa forza dell’impoverimento collettivo: Risorgi Italia, Rialzati Italia. Giuste rivendicazioni, la rabbia per esempio dei ristoratori riuniti attorno al movimento Horeca, si confondono con lo sciopero fiscale, i movimenti contro i nemici della Nazione, la marcia degli ultras. Un Fronte di cui si scorge visibile una trama, anche se manca, per ora, l’imprenditore politico pronto a cogliere tutto quanto seminato. Ma si riconosce in filigrana la strategia della destra italiana e europea, da circa un secolo a questa parte: qualcuno accende il fuoco, qualcun altro si candiderà a spegnerlo. È la storia della Francia di questi anni con i gilet gialli che hanno devastato per mesi Parigi un anno fa e furono corteggiati da quel Luigi Di Maio che invece in questa settimana ha incontrato a Roma il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, ma anche della Germania, dove esattamente un anno fa, il 2 giugno 2019, un estremista di destra uccise il democristiano Walter Lübcke, sostenitore della politica di apertura ai rifugiati di Angela Merkel, un giovane neonazista ha assaltato la sinagoga di Halle, un altro lupo solitario neo-nazista ha provocato una strage (undici morti) a Hanau, il giorno prima che in Italia cominciasse l’emergenza coronavirus. È un ricatto della paura che passa per il negazionismo (dello sterminio degli ebrei o della pandemia), perché per ideologi e militanti il sistema che tiene in pugno i popoli mente per definizione, individua un nemico da sterilizzare (lo straniero invasore oppure, per un capovolgimento della realtà, i giornalisti che indossano la mascherina), affida a qualcuno il compito di riportare l’ordine. È quanto sta accadendo nel cuore della democrazia occidentale. Negli Stati Uniti il capo degli incendiari brandisce in modo blasfemo la Bibbia e il fucile, dichiara guerra agli Antifa, ai governatori democratici e a un pezzo consistente dei cittadini ed è il vertice della Nazione, il presidente degli Stati Uniti in cerca di una rielezione più difficile di quanto si aspettasse, Donald Trump. Dal bunker il capo della Casa Bianca lancia la sua istigazione alla violenza in un Paese che non bruciava così dal 1968, porta l’America alla rottura (Paul Krugman), come avvenuto in altri momenti della storia, nel grande Paese che è la patria della democrazia e della libertà, ma è percorso fin dalla fondazione dai loro opposti, il razzismo, lo schiavismo, la discriminazione per il colore della pelle o per motivi di genere, come dimostra Jill Lepore nel suo voluminoso racconto appena pubblicato in Italia (“Queste verità”, Rizzoli). La destra punta a spezzare, rompere, lacerare, sia nella sua versione di piazza fetida e mascalzona, come quella italiana, sia in quella che si traveste da populista e occupa i vertici della forza pubblica e economica, come quella americana. E poi si propone di ricostruire, dopo aver distrutto la possibilità di convivenza civile e di uscita solidale dalla crisi drammatica in cui siamo immersi in tutto l’Occidente. Per questo diventa ancora più urgente una ricostruzione non astratta, di carne e di sangue, di riforme che agiscano nel corpo vivo delle persone con i loro bisogni e le loro attese, una ricomposizione attenta e paziente, anche se non lenta, perché di lentezza e di cavilli si muore e anche di astratte fasi costituenti, come quella che vagheggiano il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il suo predecessore Silvio Berlusconi, ma anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Non si ricostruisce che sulle macerie, certamente, ma va evitato che questi impegni siano soltanto la pura anteprima dell’ennesima manovra di Palazzo, magari un governo Conte tre allargato a Forza Italia che isoli la destra politica ma che non servirebbe a isolare la destra nella società. Nello spirito di verità e di coraggio richiesto dall’istituzione ancora capace di parlare al Paese e dalla persona che le dà autorevolezza e prestigio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il destino comune, l’unità morale, sono le parole antidoto al virus dell’odio e della rottura democratica, che arrivano da Codogno, la città lombarda da cui è partito tutto. Il silenzio e il vuoto delle piazze e delle strade di quelle settimane in cui l’Italia è apparsa unita sono già dimenticati, le stesse vie sono di nuovo percorse dagli apprendisti stregoni di ieri e di sempre. Per questo l’unità morale di Mattarella è oggi il contrario di un indistinto approdo tecnico, del trasformismo, dell’embrassons nous. È un ambizioso programma, un manifesto politico. Che attende interpreti all’altezza. Intervista a Jean-Paul Fitoussi: “Dopo le rivolte negli Usa, l’Europa pronta a esplodere” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 7 giugno 2020 “Quello americano è un vulcano in ebollizione. E lo è perché la rivolta sempre più estesa degli afroamericani è determinata da una serie di concause che vanno oltre la brutalità atroce di atti come quello di Minneapolis. Dietro la rabbia innescata dall’uccisione di George Floyd c’è un malessere sociale crescente, diventato insopportabile, di una parte della popolazione americana, i neri, che ha pagato pesantemente, in termini di morti e di ghettizzazione, le conseguenze della folle gestione di Trump dell’emergenza Covid-19. Una gestione irresponsabile, che ha portato allo scoperto, tragicamente, ciò che ha prodotto lo smantellamento di quella che resta, con tutti i suoi limiti, la più importante e progressiva riforma della presidenza Obama: l’assistenza pubblica nel campo della sanità. Al momento della sua elezione, Trump aveva promesso che uno dei suoi primi atti presidenziali sarebbe stato la “sepoltura” dell’Obamacare. È stato di parola. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti”. A sostenerlo, in questa intervista al Riformista, è uno dei più autorevoli economisti ed intellettuali europei: Jean-Paul Fitoussi, Professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma. È attualmente direttore di ricerca all’Observatoire francois des conjonctures economiques, istituto di ricerca economica e previsione, autore di numerosi saggi, l’ultimo dei quali è Il teorema del lampione. O come mettere fine alla sofferenza sociale (Einaudi). Professor Fitoussi, l’America è attraversata da una rivolta degli afroamericani, ma non solo, che si estende a macchia d’olio e si radicalizza. Cosa c’è dietro questa rivolta a cinque mesi dalle elezioni presidenziali? L’estensione, la profondità, la radicalità di questa rivolta è data da una combinazione di diversi elementi. C’è un problema “nero” che attraversa da sempre la storia degli Stati Uniti d’America e che non è stato risolto con la cooptazione dell’”aristocrazia” nera nell’establishment politico. Il secondo elemento è che quelli che sono stati più colpiti dal Coronavirus, in percentuali pazzesche, sono stati proprio gli afroamericani. E sempre gli afroamericani sono i più colpiti dalla crisi economica, dalla disoccupazione che la crisi pandemica ha moltiplicato. Questo “virus” sociale non solo non è stato debellato dalla presidenza Trump, ma al contrario è stato rafforzato, reso ancor più pervasivo. Ecco perché l’America è un vulcano in ebollizione. E un atto barbaro come quello commesso a Minneapolis ha ravvivato tutte le ferite del popolo nero. Mi lasci aggiungere che Trump non è un fenomeno isolato, ma s’incardina in una crisi di leadership che non riguarda solo l’America. Il problema essenziale, la grande “Questione” irrisolta è quella delle diseguaglianze. In una situazione di crisi la gente non ha più fiducia nei Governi. I partiti e i leader populisti cavalcano questo malessere sociale, lo usano come arma da rivolgere contro gli “establishment”. In questo, Trump è figlio dei tempi. Che certo non sono dei più felici”. La minaccia di usare l’esercito contro i “ladroni della suburra”. Farsi immortalare con una Bibbia in mano attorniato da ministri, tutti bianchi. Come si può leggere politicamente la risposta di Donald Trump alla rivolta in corso? La risposta è, a mio avviso, molto semplice: Trump ha scelto di rappresentare l’America bianca, infischiandosene altamente di provare ad essere il presidente di tutti. Negli Stati Uniti è avvenuto un cambiamento profondo, specie nell’ultimo decennio: i neri votano democratico, i bianchi votano repubblicano. Ma se l’80% del voto dei neri era ormai considerato un dato acquisito per i Democratici, il problema semmai era convincerli a votare in massa, quello che ha segnato le ultime elezioni in particolare, è che una gran parte del voto dei bianchi si è indirizzato verso Trump. Si è trattato, come qualcuno l’ha definita, della rivolta dei “piccoli bianchi”, quelli che non sono stati favoriti dalla globalizzazione, una sorta di gilet gialli americani, quelli che vivono tra le due coste, quelli che hanno subito il processo di deindustrializzazione e di desertificazione del territorio, delle città svuotate e socialmente distrutte come Detroit. Trump si gioca ancora questa carta: i bianchi contro i neri. E lo fa radicalizzando ancor più le sue posizioni, portando ad un punto limite la sua immagine di presidente Law and Order. Trump non è una riedizione di Donald Reagan o dei Bush, padre e figlio. Semmai il suo modello è la “lady di ferro” inglese: Margaret Thatcher, ogni atto della quale era preso in funzione e a favore della “sua Inghilterra”, anche se questo voleva dire una contrapposizione durissima, quasi “militare”, con i sindacati. I Democratici americani, ma assieme a loro anche i progressisti europei, dovrebbero seriamente interrogarsi sull’aver lasciato ad un miliardario sovranista la bandiera della critica ad una globalizzazione finanziaria che, per come è stata gestita o subita, ha incrementato le disuguaglianze sociali non solo tra i Nord e i Sud del mondo, ma all’interno stesso dell’Occidente industrializzato. In un’intervista a Il Riformista, Furio Colombo ha affermato, per l’appunto, che quella di Trump è stata la vittoria dell’America dei bianchi contro l’America nera che aveva vissuto il suo momento di riscatto con la presidenza Obama. Si dice che l’ex presidente sia oggi il vero regista della campagna di Joe Biden, che fu peraltro suo vice alla Casa Bianca. Guardando con gli occhi dell’oggi, quale giudizio si sente di dare della presidenza Obama? Obama aveva suscitato entusiasmo evocando “Change” e “Hope” e affermando che “Yes, we can”. Ha rispettato in pieno queste promesse? No, e non per sua colpa. Semplicemente, non ha potuto. Per Obama “Change” non significava ritocchi, aggiustatine, ma costruire infrastrutture, migliorare il sistema di Welfare e questo, insisto, gli è stato impedito. E lo stesso discorso vale per “Hope”, perché Il potere di un Presidente in America non è assoluto, e Obama non ha potuto agire sul terreno cruciale: la lotta alla diseguaglianza. Se gli impediscono di riformare, e non solo “ritoccare”, il sistema di welfare, allora il cambiamento è minato. Obama ci ha provato in tutti i modi, e alcuni risultati importanti li ha ottenuti: l’”Obamacare”, permetteva agli americani di possedere le loro case nella crisi finanziaria. E a conto positivo c’è da mettere anche il piano di rilancio dell’economia Usa che ha dato importanti risultati in termini occupazionali. Questi meriti gli vanno riconosciuti, tanto più alla luce di quanto fatto da Trump. Alla luce degli effetti che la pandemia può e già sta determinando sul piano sociale, economico, occupazionale, l’Europa può essere anch’essa un vulcano pronto a eruttare? Direi proprio di sì. L’Europa, non dimentichiamolo, è la sola regione del mondo ad aver conosciuto la disoccupazione di massa per più di trent’anni e non ha ancora finito. A ciò va aggiunto che esiste un irrisolto problema di integrazione non solo sociale ma per molti versi soprattutto culturale, dei nuovi immigrati. E altro dato preoccupante è che l’Europa, come tale, non ha nessuna politica verso questa nuova popolazione. Si continua a chiudere gli occhi: basta vedere cosa accade in Italia e in Grecia. Il sovranismo di Trump ha fatto proseliti in Europa. Quello di The Donald può risultare un modello vincente anche qui da noi, in Europa? Più che emuli, gli adulatori europei di Trump assomigliano sempre più a delle macchiette. Vede, Trump può avere un sovranismo perché l’America è un grande Paese, una federazione di Stati. In Europa il sovranismo non esiste perché i Paesi “federati” nell’Unione europea non hanno sovranità. Per avere sovranità occorrerebbe costruire una vera federazione europea, gli Stati Uniti d’Europa. Per provare ad esistere come attore protagonista in un mondo globalizzato, l’Europa deve mettersi in condizione di decidere. Quello che non è più derogabile è una vera riforma strutturale non tanto e non solo sul piano economico, quanto su quello delle istituzioni e del Governo europei. Un solo esempio: una riforma strutturale significa che l’Europa non si regge più su un’unica “gamba fiscale”, la Bce, ma finalmente adotta un titolo pubblico sul debito e sugli investimenti: quel titolo sono gli Eurobond. Se non si fa questo, ricominceremo dal tempo della crisi e dal debito sovrano. È ridicolo pensare che oggi il singolo Paese europeo possa avere la sua sovranità come prima. Professor Fitoussi, per chiudere con l’America. Tra cinque mesi si vota per decidere chi sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca. Joe Biden può farcela? Il candidato dei Democratici ha il profilo giusto per compiere questa impresa? Biden può battere Trump, ma non direi che sia un candidato forte. I Democratici non hanno trovato un candidato tipo Obama. Se riuscirà a spuntarla, è perché la maggioranza degli americani, una maggioranza che deve essere ben distribuita nei vari Stati vista la legge elettorale vigente, è stanca, delusa, arrabbiata verso Trump, soprattutto per come ha gestito, con incapacità e violenza, la crisi pandemica. Migranti. Le politiche di Salvini continuano anche con il Governo Conte 2 di Emma Bonino Il Riformista, 7 giugno 2020 Bellanova unica novità nella direzione giusta. Le politiche in tema di immigrazione e asilo sono state quelle su cui, durante il governo gialloverde, Salvini aveva imposto il segno più visibile della sua leadership e di una “legalità” concepita per contrasto con principi fondamentali di diritto e con obblighi giuridici, sistematicamente derogati e contraddetti da norme e provvedimenti di natura eccezionale. La cronicizzazione di queste politiche di emergenza - dai Decreti sicurezza in giù - anche nella stagione del governo giallorosso è la dimostrazione più clamorosa della perfetta continuità tra il Conte I e il Conte II e della sostanziale convergenza dell’agenda dei due esecutivi. Se il governo Conte II era nato per scongiurare i pieni poteri di Salvini, Salvini ha continuato ad esercitare un pieno potere, non solo su questa materia, anche sul nuovo esecutivo. La dottrina del “male minore” è giunta al curioso paradosso di legittimare le cose fatte da Salvini, purché a farle non sia più lui. In questi giorni, a ritornare su questa clamorosa contraddizione è il rapporto sull’Italia di Amnesty International, presentato lo scorso 4 giugno, in cui si denuncia apertamente la continuità di “un’agenda politica di contrasto all’immigrazione, attraverso leggi e misure aventi l’obiettivo di limitare l’esercizio dei diritti e impedire alle persone soccorse in mare di sbarcare in Italia”. Il Presidente di Amnesty International Italia Emanuele Russo, in occasione della presentazione del rapporto 2019-20, ha dichiarato che “l’avvicendamento tra due coalizioni di governo, nonostante alcuni iniziali e promettenti annunci, non ha prodotto una significativa discontinuità nelle politiche sui diritti umani in Italia, in particolare quelle relative a migranti, richiedenti asilo e rifugiati”, ricordando che “per tutto l’anno le navi delle Ong sono state ostacolate da minacce di chiusure dei porti e da ingiustificati ritardi nelle autorizzazioni all’approdo e il 2019 si è chiuso col rinnovo della cooperazione con la Libia per il controllo dei flussi migratori”. Peraltro vale la pena di ricordare che dopo tante polemiche e volgarità su 18 procedure aperte contro le Ong non c’è ad oggi nessuna condanna ma 5 archiviazioni, che delle 11 navi sequestrate 9 sono state dissequestrate, 2 hanno avuto multe esorbitanti da 300.000 euro per non adempienza ad alcune norme di sicurezza. Particolarmente significativo di questa patologica continuità non solo di scelte, ma anche di alibi è stato a mio parere il Decreto interministeriale firmato all’inizio di aprile, in piena emergenza Covid, dai ministri De Micheli (Infrastrutture e Trasporti), Di Maio (Affari Esteri), Lamorgese (Interno) e Speranza (Salute) per il ministero della Salute. Il decreto stabilisce che, a causa dell’emergenza Covid, quelli italiani non si sarebbero più dovuti considerare porti sicuri (quali altri, allora, nel Mediterraneo?) e dunque non si sarebbe potuto autorizzare l’approdo per “unità navali battenti bandiera straniera” per “i casi di soccorso effettuati al di fuori dell’area Sar italiana”. Fermo restando l’esigenza di procedere anche con i richiedenti asilo a controlli e misure di sorveglianza sanitaria utilizzate per tutta la popolazione, che senso ha dichiarare non sicuri i porti italiani esclusivamente per i naufraghi raccolti da navi straniere? I porti diventano sicuri o non sicuri a seconda della nazionalità dell’imbarcazione che chiede di approdare e del suo “contenuto umano”? La ragione di questo contorsionismo giuridico è terra terra: impedire l’attività delle poche Ong rimaste nel Mediterraneo nel pieno della pandemia. Ma la cosa politicamente più significativa è che questo latinorum riecheggia perfettamente la retorica e lo stile salviniano: l’accusa alle Ong straniere di attentare alla sicurezza italiana e l’utilizzo di argomenti burocratici risibili per giustificare la discriminazione delle navi “straniere”. D’altra parte, a orchestrare la polemica contro le Ong e contro i cosiddetti taxi del mare era stato proprio il Movimento 5Stelle che si tiene stretta l’eredità di una politica stupidamente “cattivista”, che rende contraddittori i tentativi italiani di rivedere le regole di Dublino e soprattutto di prevedere una riforma del diritto d’asilo nell’Ue che superi il criterio del Paese di primo ingresso, avanzata anche ieri dalla ministra Lamorgese ai suoi omologhi europei. È possibile richiedere e esigere solidarietà a fronte di un atteggiamento coerente con questa richiesta. Il problema della coerenza nei rapporti con l’Ue per il Governo Conte II è un problema generale, ma né sull’asilo, né sui sostegni alla ripartenza economica post Covid, si può pretendere di ottenere una solidarietà, che anziché essere un riconoscimento di ruolo e di potere alle istituzioni europee, suoni come un cedimento altrui alle nostre pretese nazionaliste. Sullo sfondo di tutto questo rimane il rapporto con la Libia per il contrasto del fenomeno della immigrazione clandestina, che nonostante ipotesi di emendamento e rinegoziazione rimane in piedi, malgrado a non essere più politicamente in piedi siano gli interlocutori libici dell’Italia e malgrado non sia stato in alcun modo risolto il problema della cooperazione con autorità che hanno un doppio volto: di terminali di organizzazioni criminali e, allo stesso tempo, di espressione di poteri locali. Mentre il M5S rivendica a proprio merito la continuità della politica sull’immigrazione, le forze politiche come il Pd, che rischiano di subire elettoralmente il prezzo di questa continuità, proseguono ormai da quasi un anno a promettere cambiamenti che non arrivano mai, ma che continuano a essere promessi. Al di là delle difficoltà interne alle forze politiche, che il piano della discussione su questi temi sia parallelo a quello della realtà e quindi destinato a non incontrarlo mai rende sinistramente dissociato il rapporto tra la politica e il governo, in un perenne gioco delle parti tra maggioranza e opposizione. Una sorta di gattopardismo all’incontrario, in cui anziché cambiare tutto perché nulla cambi, non si cambia nulla perché ogni cambiamento possa continuare a essere promesso a suggello di un patto futuro. Per realizzare un’inversione di rotta, piuttosto che continuare con le promesse, bisognerebbe riprendere e tirare fino alle logiche conseguenze il “filo” rappresentato dal provvedimento di parziale regolarizzazione dei lavoratori stranieri, fortemente voluto dalla ministra Bellanova e favorito da una vera e propria emergenza nel settore agricolo. Quel provvedimento non rappresenta solo un primo passo avanti nella direzione giusta, ma anche una implicita denuncia della insostenibilità di un sistema di flussi, che non sono in grado di assicurare legalmente la forza lavoro richiesta dall’economia e dalle famiglie italiane. Il modo migliore per dare ad esso seguito sarebbe riprendere rapidamente l’esame della proposta di legge di iniziativa popolare “Ero straniero”, per una riforma complessiva della normativa sull’immigrazione, promossa da una ampia coalizione di forze politiche e sociali e parcheggiata da troppo tempo presso la Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio con relatore Riccardo Magi. Lampedusa, data alle fiamme la memoria dei migranti di Alfredo Marsala Il Manifesto, 7 giugno 2020 Mediterraneo. Dopo lo sfregio alla Porta d’Europa, distrutti i “cimiteri” delle carrette del mare. Disagio sociale? Paura di non farcela, con alberghi e ristoranti ancora chiusi per l’assenza dei turisti? Rabbia, perché le istituzioni non risolvono i tanti problemi segnalati nel tempo? Oppure azioni di destabilizzazione di matrice politica? Da due mesi a Lampedusa si respira un clima pesante, inedito. Poco meno di seimila abitanti, tanti problemi: i trasporti arerei e via mare che funzionano a singhiozzo, un poliambulatorio non attrezzato per gestire gran parte delle patologie, il dissalatore rattoppato, le promesse sulle moratorie non mantenute. A inizio aprile, in piena pandemia Covid, la protesta contro i continui sbarchi di migranti di un gruppo di isolani davanti al municipio, è stato solo l’inizio. I due episodi successivi sembrano confermare che la questione migranti sia solo un pretesto. Quattro giorni fa, qualcuno di notte ha “impacchettato” la Porta d’Europa con sacchi neri della spazzatura: uno sfregio al monumento diventato simbolo dell’accoglienza per un’isola mai ostile nonostante il suo grido di dolore non sia mai stato preso sul serio dall’Europa e dallo Stato. Due notti fa, l’azione più sconcertante: qualcuno ha dato fuoco ai resti dei barconi di legno, usati per le traversate, accatastati in due aree, in quelli che vengono definiti i “cimiteri del mare”. Le fiamme di colpo hanno illuminato il cielo buio, rompendo quel silenzio quasi spettrale che inquieta gli abitanti che senza il dramma del Covid sarebbero già immersi nella stagione turistica. Gli incendi hanno carbonizzato i resti, una nube nera ha invaso molte zone. La Procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta al momento a carico di ignoti, mentre le indagini per risalire ai responsabili sono condotte dai carabinieri. Una situazione esplosiva che il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, ha voluto toccare con mano, recandosi nell’isola. Con lui l’eurodeputato Pietro Bartolo, che per anni è stato a capo del poliambulatorio dell’isola. I roghi sono stati domati soltanto all’alba di ieri; per i 15 pompieri in azione ci sono volte sette ore per avere la meglio sulle altissime fiamme che, fra l’area attigua al campo sportivo e il deposito di Capo Ponente, hanno ridotto in cenere una cinquantina di “carrette del mare”. Nessun dubbio sul fatto che gli incendi siano di natura dolosa. “Metteremo tutto l’impegno possibile per fare luce su questi episodi di intolleranza che non rendono giustizia alla solarità del popolo di Lampedusa e che possono danneggiare seriamente il turismo, fonte di ricchezza dell’isola: Lampedusa non può diventare un luogo di guerriglia urbana”, incalza il procuratore aggiunto Salvatore Vella. In mattinata, il ministro Provenzano si è recato nell’hotspot che accoglie i migranti, poi sempre assieme con Pietro Bartolo, si è fermato alla porta d’Europa. Quindi, in due distinti momenti, ha incontrato l’amministrazione comunale e gli imprenditori. “Sono venuto a Lampedusa - ha detto il ministro - per portare la vicinanza delle istituzioni a una comunità offesa da questi gesti, una comunità che ha tenuto alti in questi anni l’onore e la dignità dell’Italia intera e dell’Europa. Lo Stato non si lascia intimidire da questi gesti, la magistratura assicurerà i colpevoli alla giustizia”. Ma, per Provenzano, “lo Stato ha un debito nei confronti di quest’isola”. Perché “anche Lampedusa deve ripartire, assicurando collegamenti e condizioni di sicurezza e vivibilità a chi viene da fuori, e a chi ci vive ogni giorno, quest’isola deve tornare a splendere: è un’isola di luce, non di roghi”. Per il sindaco Totò Martello “c’è un disegno preciso che ha lo scopo di alimentare un clima di tensione e soffiare sul fuoco di una situazione già difficile”. Di manovre destabilizzanti, parla anche Pietro Bartolo. “È evidente che si tratta di un grave gesto alimentato da qualcuno che ha interesse a destabilizzare il clima politico e di convivenza civile sull’isola”. Migranti in mare e corruzione: Malta resta la vergogna d’Europa di Vittorio Malagutti L’Espresso, 7 giugno 2020 A quasi tre anni dalla morte della giornalista Daphne Caruana Galizia, le riforme promesse dal governo ancora non si vedono. E il premier Abela è già in difficoltà, tra nuovi scandali e le imbarazzanti rivelazioni sul mancato soccorso dei barconi provenienti dalla Libia. I migranti respinti in Libia e quelli morti in mare. I rapporti ambigui con la Cina. Gli intrecci tra criminalità, politica e giustizia. Il nuovo che avanza a Malta appare sempre più simile a quel passato di malaffare e corruzione che il nuovo governo dell’isola, in carica dall’inizio dell’anno, afferma di voler cancellare. Per capire se qualcosa sta davvero cambiando nello Stato più piccolo dell’Unione Europea, un Paese in posizione strategica di fonte alle coste africane, da sempre crocevia nei traffici di armi, denaro e uomini, conviene partire da una notizia di una ventina di giorni fa, passata inosservata in Italia. Charles Mercieca, un giovane avvocato in forze all’ufficio del procuratore generale di Malta, ha rassegnato le dimissioni per passare al pool di difesa di Yorgen Fenech, l’uomo d’affari sotto processo come mandante dell’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, uccisa da un’auto bomba il 16 ottobre del 2017. Tre presunti killer in carcere. Un possibile mandante. Ma, due anni dopo l’omicidio della giornalista, il governo di Malta copre ancora le complicità politiche Mercieca nega di essersi mai occupato dell’inchiesta sull’assassinio quando lavorava per la pubblica accusa, ma il suo sorprendente cambio di casacca ha fatto comunque rumore nell’isola. Il ministro della Giustizia, Edward Zammit Lewis ha commissionato un’indagine interna sul caso, dopo che anche la famiglia Caruana Galizia ha denunciato la violazione del codice di condotta degli avvocati. In un Paese dove da sempre il potere giudiziario è alle dipendenze della politica non è certo la prima volta che un magistrato passa dall’altra parte della barricata e trova un impiego in uno studio legale. Sono i tempi e i modi del passaggio a creare imbarazzo nel governo guidato dal laburista Robert Abela, 42 anni, presentato all’opinione pubblica come il volto pulito della politica maltese. Abela, figlio di un ex presidente della Repubblica, si è fatto carico l’impegnativa missione di far dimenticare il suo predecessore e compagno di partito Joseph Muscat, travolto a gennaio dallo scandalo di corruzione e soldi offshore dentro il suo governo, uno scandalo a suo tempo denunciato da Caruana Galizia. Grazie alle inchieste della giornalista assassinata si scoprì che Fenech, ora a processo per l’omicidio, era il titolare di una società di Dubai da cui erano partiti due milioni di dollari destinati ad altre due sigle offshore di Panama. I beneficiari finali del pagamento erano l’allora ministro Konrad Mizzi e Keith Schembri, capo di gabinetto di Muscat. A dicembre dell’anno scorso, una risoluzione del Parlamento europeo aveva espresso seri dubbi sulla credibilità delle indagini sulla morte di Caruana Galizia. E adesso, a sei mesi di distanza, dopo il cambio della guardia al vertice della politica locale, il nuovo governo non può permettersi nuovi passi falsi in quello che appare il banco di prova più importante per riconquistare credibilità internazionale. Una rimonta che appare quantomeno complicata, se si considera, per fare un esempio, che il già citato Mizzi, figura centrale nel caso Caruana Galizia, si è finora sottratto alle indagini perché da metà marzo vive Londra. Il ritorno in patria sarebbe impossibile per non meglio precisati “motivi di salute”. La giustificazione dell’ex ministro è stata accolta a La Valletta con una qualche ironia visto che a differenza della Gran Bretagna, ancora in piena tempesta Covid, Malta ha ormai superato l’epidemia di coronavirus con soli sei morti e 600 casi su una popolazione di 500 mila abitanti. Senza troppi di giri di parole, i parlamentari del Partito Nazionalista, all’opposizione, hanno accusato Abela di aver concesso un salvacondotto a Mizzi, legatissimo a Muscat. Accuse respinte dal premier, che però proprio in questi giorni è costretto a difendersi anche in un altro caso dai delicati risvolti internazionali. A Malta il giudice Joe Mifsud sta indagando sul respingimento illegale in Libia di un barcone di migranti e il capo del governo potrebbe essere chiamato in tribunale a giustificare il mancato soccorso da parte delle Forze armate. Lo scorso aprile, subito dopo Pasqua, le autorità di La Valletta si sono infatti servite di un’imbarcazione privata per raccogliere una cinquantina di disperati in fuga e riportarli a Tripoli tra le braccia dei loro aguzzini. Cinque di loro non ce l’hanno fatta: sono morti nel viaggio di ritorno verso la Libia, mentre altri sette sono annegati prima dell’intervento dei soccorritori. In un secondo caso, come documentato dalle inchieste del quotidiano Avvenire, una nave militare maltese l’11 aprile ha intercettato un gommone carico di migranti, almeno un centinaio, e invece di portarli al sicuro li ha riforniti di carburante e di un motore nuovo indirizzandoli verso l’Italia, dove sono poi sbarcati nel porto siciliano di Pozzallo. L’intervento della Marina di La Valletta, così come è stato documentato negli articoli pubblicati da Avvenire, rappresenta una violazione palese degli accordi e delle convenzioni internazionali e rischia seriamente di guastare le relazioni con Roma e con l’Unione europea. La posizione di Abela si è fatta ancora più imbarazzante da quando è emerso che le operazioni di respingimento segnate dalla morte di 12 migranti sono state affidate a Neville Gafà, che ha confermato sotto giuramento di aver eseguito le disposizioni del capo del governo. Gafà, accreditato di ottimi rapporti con le autorità di Tripoli, è un nome noto alle cronache maltesi per la sua amicizia con Schembri, già capo di gabinetto dell’ex premier Muscat coinvolto insieme a Mizzi nello scandalo dei pagamenti offshore che ha portato alla caduta del precedente governo. In altre parole, un uomo dal passato ingombrante tira in ballo il capo dell’esecutivo di La Valletta in un’operazione palesemente illegale. Dall’Unione Europea per il momento è arrivata solo una vaga esortazione ai Paesi membri perché “continuino a lavorare gli uni con gli altri”. Il credito di Abela verso Bruxelles non è però illimitato e le ultime capriole del governo non fanno che aumentare la diffidenza verso il presunto nuovo corso della politica maltese. La posizione geografica della piccola isola ne fa la piattaforma ideale per ogni sorta di traffico tra Africa ed Europa. Commercio di uomini, i migranti abbandonati in mare dagli scafisti, ma anche di armi destinate a rifornire le milizie che si combattono in Libia. A fine aprile il Times of Malta, il principale quotidiano del Paese, ha rivelato che i servizi di intelligence locali stanno indagando su società maltesi e straniere sospettate di lavorare per conto di Khalifa Haftar, il generale che guida le forze ostili al governo di Tripoli. Non è una sorpresa, allora, se sul piccolo Stato si concentrano le attenzioni delle potenze che puntano a rafforzare la loro posizione nel Mediterraneo ai danni dei tradizionali alleati europei, dalla Gran Bretagna (Malta fa parte del Commonwealth) all’Italia. Come hanno dimostrato le inchieste del consorzio giornalistico Eic (European investigative collaborations) di cui L’Espresso fa parte, passano da La Valletta gli affari della cerchia di parenti e favoriti di Recep Erdogan, il presidente della Turchia. E poi c’è la Cina, che negli ultimi anni si è fatta largo a suon di investimenti. Merito del governo di Muscat, che ha dato via libera a Pechino anche in settori strategici come l’energia e le telecomunicazioni. E così nel 2014 la cinese Shanghai Electric ha comprato per 100 milioni di euro il 33 per cento di Enemalta, l’ex monopolista pubblico dell’elettricità, a cui vanno aggiunti altri 150 milioni per una centrale. È sbarcata a Malta anche Huawei, la multinazionale delle tlc messa al bando negli Usa dall’amministrazione Trump che la considera una sorta di centrale dello spionaggio al servizio del regime cinese. Il governo di La Valletta, invece, non solo si è affidato al partner di Pechino per la sperimentazione della tecnologia 5G, ma ha siglato con Huawei anche un contratto milionario per installare un sistema di videosorveglianza con riconoscimento facciale nelle principali località dell’isola. Vengono dalla Cina anche svariate decine (non esistono statistiche aggiornate in merito) di uomini d’affari che negli anni scorsi hanno ottenuto il passaporto maltese, quindi con libero transito negli Stati dell’Unione europea, grazie a uno specifico programma avviato dal governo Muscat per attirare capitali sull’isola. Un programma criticato da Bruxelles perché non prevede i controlli giudicati indispensabili per sbarrare la strada a criminali e riciclatori di denaro. Al momento il governo Abela non sembra intenzionato a correggere il tiro sulla questione della “cittadinanza facile”. E non ci sono novità in vista neppure per la costruzione di una nuova grande (20 mila metri quadrati) ambasciata di Pechino nella località di Pembroke, a pochi chilometri dalla capitale, nonostante le proteste dei residenti contro un cantiere che spazzerebbe via una delle poche aree verdi della zona. Nulla cambia, per il momento, nonostante le ombre di un passato imbarazzante. Gli accordi con Huawei e Shanghai Electric sono stati infatti siglati grazie al decisivo intervento di Sai Ling, una mediatrice di nazionalità cinese. Non proprio un personaggio qualunque, visto che è la moglie di Mizzi, l’ex fedelissimo di Muscat con società personale a Panama. Mizzi all’epoca era ministro dell’Energia, quindi direttamente coinvolto in quegli affari. Fu Daphne Caruana Galizia puntare il dito per prima contro Ling, pagata 13 mila dollari al mese come console generale a Pechino. Un altro scoop caduto nel vuoto. Stati Uniti. A Washington, la grande marcia per Floyd: mille cortei verso la Casa Bianca di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 7 giugno 2020 Almeno 5 mila tra agenti e militari presidiano le strade. Altre reti di protezione lungo il perimetro della Casa Bianca. E il presidente Trump twitta: “Law and order”. Migliaia di giovani hanno marciato, gridato, ma anche cantato e ballato nelle strade di Washington. Nella notte italiana, mentre le manifestazioni sono ancora in corso, si tenta un primo bilancio. La protesta è stata imponente, ma il numero dei partecipanti sembra lontano da quel milione atteso alla vigilia. Ci si attendeva una testimonianza corale a quasi due settimane dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, schiacciato dal ginocchio e dal peso del poliziotto Derek Chauvin. E ci si aspettava anche una risposta poderosa alla versione trumpiana della linea dura, “law and order” (messaggio ribadito di nuovo via Twitter dal presidente, che poi ha aggiunto: “Molta meno folla del previsto”). Al di là dei numeri, questa testimonianza e questa risposta ci sono state. Non solo a Washington, ma in tante altre città, da Chicago a Philadelphia. Al corteo di Ottawa in Canada anche il premier Trudeau che ha sfilato in mascherina nera tra la folla e si è inginocchiato insieme ai manifestanti in segno di solidarietà a Floyd. A Washington la giornata non ha avuto un’unica regia. Si è anzi spezzettata in 11 iniziative non coordinate. La prima alle ore 12 (le 18 in Italia), con partenza davanti al Lincoln Memorial. L’ultima alle 21 (le tre di notte), organizzata dall’associazione Black Lives Matter. In mezzo ecco i raduni della Black Law Students Association, dei Freedom Fighters DC, dei movimenti Migration Matters e Refuse Fascism; delle Queer and Trans; dei “Concerned Citizens of DC”, “cittadini preoccupati”. E così via. La lunga lista delle organizzazioni spiega perché questa ondata non abbia ancora una leadership strutturata e riconoscibile. È piuttosto uno sciame che ora si addensa e ora si assottiglia; con i giovani a fare la spola da una parte all’altra. La comunità afroamericana dà il tono, ma ci sono tanti bianchi e soprattutto tante teenager, studentesse per lo più. Alcune di loro sono alla prima uscita. Altre hanno dato una mano nei mesi scorsi al senatore Bernie Sanders. Le autorità federali hanno sigillato il cuore della città, chiudendo alle auto un lungo rettangolo che ha come baricentro la Casa Bianca. Ad ogni incrocio, e quindi circa ogni cento metri, c’è un blindato della Guardia Nazionale, affiancato da auto della polizia, dai Servizi Segreti. Sono stati chiamati in servizio persino gli agenti della Dea, l’agenzia anti droga federale. In totale almeno 5 mila tra agenti e militari presidiano le strade. Nella notte tra giovedì e venerdì scorso i reparti della Park Police hanno montato reti di protezione lungo il perimetro della Casa Bianca rimasto scoperto. Sono barriere alte circa 2,5 metri, incastrate su una base di cemento. È un “effetto fortezza” che scende fino al parco che separa il South Portico dalla Constitution Avenue, l’arteria che costeggia la Mall. Lo spazio, la proiezione verso l’esterno della residenza presidenziale non sono casuali. George Washington diede mandato a una commissione di architetti di costruire istituzioni “aperte al popolo”. Ecco perché colpisce vedere la Casa Bianca blindata: un’altra prova di forza di Donald Trump. A metà giornata, per fortuna, tutto sembra filare liscio. Nessun incidente, nessun arresto. “Situazione molto pacifica”, commenta un sottufficiale della polizia, alla guida del gruppo di agenti in bici incaricati di sorvegliare l’incrocio della 16esima, uno dei punti più delicati. A cento metri dalla sua postazione si staglia la recinzione che chiude il Parco Lafayette, la via d’accesso alla Casa Bianca. Qui lunedì 1 giugno Trump aveva fatto sgomberare la folla dalla polizia a cavallo e poi si era messo in posa, impugnando la Bibbia, davanti alla St.John’s Episcopal Church. Per tutta risposta venerdì 5 giugno la sindaca di Washington, Muriel Bowser, aveva autorizzato una squadra di artisti a dipingere la scritta “Black Lives Matter” a caratteri cubitali gialli sull’asfalto. Un’iniziativa destinata a durare, perché “Black Lives Matter Square” è anche il nuovo nome di questo luogo. Ed è proprio qui che si è chiuso il programma. Con una festa. Stati Uniti. In piazza con Black Lives Matter: geografia del dissenso, senza confini di Luca Celada Il Manifesto, 7 giugno 2020 Dopo il silenzio tombale del “lockdown” l’America riscopre la vertigine di un movimento sgargiante. “No Justice! No peace”, il corteo autogestito è potente, giovane e multicolore. “Bobby Kennedy? Non so chi sia”. Ingenuità e rabbia di una generazione di ventenni che guardano avanti. Anche oggi il presidio è davanti alla residenza del sindaco. Il gruppo si stringe attorno a due ufficiali del Lapd (la polizia di Los Angeles, ndr) si tratta concitatamente: “Cosa fate per cambiare?”,”Perché continuate ad ammazzarci?”. D’improvviso un fremito attraversa il gruppo: il consiglio comunale ha da poco annunciato un taglio di $150 milioni dal budget della polizia. Qui sono quasi tutti ventenni e adolescenti, alcuni annuiscono, si celebra la vittoria. Altri la considerano insufficiente, un’operazione di relazioni pubbliche (la spesa per una polizia concepita come forza di contenimento militare e soppressione dei settori subalterni rimane sempre sui $3 miliardi - oltre un terzo del bilancio municipale). Il dibattito a volte è anche furioso, opinioni contrastanti ondeggiano nel gruppo, poi tutto finisce con un coro scandito a ritmo: “George Floyd!”. BLM è un movimento orizzontale, le proteste sorgono spontanee - spuntano ogni giorno a dozzine in diversi punti di questa sconfinata contea, dall’estremo lembo settentrionale della San Fernando Valley fino a Orange County, 100 km a sud - Costa Mesa, Newport Beach, Dana Point - stiamo parlando del cuore vivo della California repubblicana, ricca, e bianca. La partecipazione bianca (asiatica, ispanica) a fianco dei neri stavolta è il dato saliente: dopo Spike Lee questa settimana lo hanno rilevato anche Barack Obama e Al Sharpton durante il memoriale di Floyd. Questi ragazzi, molti liceali, stanno disegnando una nuova geografia del dissenso, dello sdegno per una storia troppo tossica e ammuffita. Le precedenti distinzioni - di colore, di gender - non hanno più significato. C’è una vitalità caotica e allo stesso tempo decisa, verrebbe da dire rivoluzionaria. Non è il momento delle linee politiche o ideologiche, ma dell’indignazione pura. Come se una generazione fosse di colpo la prima a vedere la piaga - pur ben visibile anche prima - ed averla chiamata tutti assieme col suo nome ed aver detto: basta! Nella Casa bianca blindata l’imperatore e i suoi sgherri sono sempre più nudi. foto Luca Celada Il gruppo si muove, verso nord. No, dopo una breve discussione, contrordine: si va a est, verso il centro, lì un paio di cortei stanno già raggiungendo il municipio. Non ci sono tracciati organizzati né permessi. Ogni manifestazione è frutto della volontà collettiva - o dei messaggi via app. Si formano con poco preavviso, non ci sono abbastanza elicotteri per seguirle tutte, né poliziotti. Questo corteo scende lungo Wilshire, il grande viale della città. In testa volontari in moto chiudono gli incroci, dirigono il traffico, non c’è un solo vigile in vista, il corteo è autogestito, in coda ci sono le bici, poi gli skate e le auto con le provviste - alcune ragazze distribuiscono bottigliette di acqua. Dai cantieri gli operai si fermano, mostrano il pugno, lo fanno sul tracciato anche molti commercianti, impiegati. Da quasi ogni auto emerge un pugno, risuonano i clacson della solidarietà. A un incrocio il corteo si ferma. Il megafono chiede di inginocchiarsi - un minuto di raccoglimento per George Floyd, teste chine e pugni tenuti alti. L’emozione si stempera in un altro coro: “No Justice, No Peace!”. Probabilmente nessuno sa che quelle parole erano anche la colonna sonora delle rivolte del ‘92 - dall’aspetto si direbbe che quasi nessuno fosse nato a quell’epoca. Siamo davanti all’Ambassador Hotel, il luogo dell’assassinio di Robert Kennedy, nel 1968. Può essere una coincidenza? Lo faccio notare a un paio di persone: “Qui è stato ammazzato uno che rivendicava cose simile alle vostre”. Ne ricavo un “non lo sapevo” e diversi sguardi vacui. Capisco improvvisamente che non è il momento della memoria, semmai dello sbilanciamento in avanti. L’ingenuità storica, ideologica, può paradossalmente essere una forza di questo movimento proteso al futuro. Lo ha scritto l’altro giorno Amanda Jo Goldstein, professoressa di Berkeley: “La sensazione di affacciarci su qualcosa di rischioso e meraviglioso”. Ed è proprio così, nell’aria c’è la vertigine del possibile, la liberazione dalla zavorra di mille ipocrisie che sprigiona l’energia apparentemente illimitata che è motore essenziale del cambiamento. Un’esplosione vitale tantopiù lampante perché sgorgata dal silenzio tombale di due mesi di lockdown, il contrasto rende il movimento ancora più tangibile, sgargiante, specie adesso che prende la forma di assemblee spontanee, storytelling, musica. Come scrive Joyce Carol Oates, alla “felicità di queste scene, New York è passata da città deserta a una metropoli pulsante di vita, unione, sollevamento spirituale”. Servirà tutto e di più per spazzare secoli di ingiustizia, nella consapevolezza che quegli uomini tristi stretti ai loro fucili e le loro bibbie, metteranno in campo tutta la violenza di cui sono capaci per evitarlo. Ma ora si intravede un movimento capace di resistergli. Egitto. Zaki “l’italiano” in carcere da quattro mesi: i doveri di un Paese di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 7 giugno 2020 Patrick è asmatico: un’infezione polmonare gli sarebbe fatale. Stiamo facendo qualcosa per lui? E per Giulio Regeni? Doppio zero. Oggi sono quattro mesi esatti che Patrick George Zaki è in prigione nel carcere di Tora al Cairo, la capitale del suo Paese, incolpato di non si sa bene quali malefatte contro il regime di Abdel Fattah al Sisi. Un egiziano alle prese con la malagiustizia egiziana. Affari loro? Il fatto è che Zaki, nato da una famiglia borghese copta a Mansoura, 120 chilometri dalla capitale, dal settembre scorso si era guadagnato un master europeo all’Università di Bologna, diventando studente in Italia. Dopo aver brillantemente superato un esame complicato, si concede come premio un breve ritorno a casa dalla sua famiglia. È il 7 febbraio, quando non si sono ancora spenti gli echi dell’ultima commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte indecente di un altro studente italiano, ma di stanza a Cambridge, Giulio Regeni. I familiari, stremati da quattro anni di inutili battaglie per avere almeno un po’ di verità sulla fine atroce e misteriosa di loro figlio, accusano apertamente di omicidio la “dittatura sanguinaria” di Al Sisi. Tre giorni dopo, Patrick Zaki atterra al Cairo, e forse proprio in quanto “italiano” viene arrestato, torturato, interrogato senza esito anche su presunti legami con i Regeni, che non conosceva. Da allora, di 15 giorni in 15 giorni, la sua custodia preventiva viene rinnovata, in attesa di un processo per “istigamento al rovesciamento del governo” che si celebrerà forse tra un anno ma nessuno può dirlo. Nel frattempo, oltre al sospetto che il suo sia stato un sequestro a scopo di avvertimento alle nostre istituzioni (basta indagini su Regeni), il Covid 19 ha fatto la prima vittima anche nel penitenziario di Tora. Patrick è asmatico: un’infezione polmonare, già debilitato com’è, gli sarebbe fatale.Stiamo facendo qualcosa per lui? Stiamo continuando a fare qualcosa per Giulio Regeni? Doppio zero. Una democrazia, la nostra, che lascia che due giovani di 28 anni, entrambi impegnati nello studio e nella pratica dei diritti civili, vengano inghiottiti da una ex repubblica socialista guidata da un presidente padrone e supinamente ne accetta l’insolenza, non brilla né per forza né per decenza. Ma anche se magari non sembra, è un problema che non riguarda solo la coscienza di un Paese. Riguarda il peso che abbiamo, e soprattutto che dovremmo avere, nelle complicate trattative finanziarie che ci attendono al varco a Bruxelles e dintorni. Specie in questo tempo sospeso, imboccato il ponte fragile tra il prima e il dopo Covid, vale la cruda verità annunciata per sempre da Marguerite Duras: “Si crede che quando una cosa finisce, un’altra ricomincia immediatamente. No. Tra le due cose, c’è lo scompiglio”. Ecco, noi siamo proprio in quel punto, nello scompiglio, in ordine sparso. Se guardiamo giù, da un lato ci affacciamo sul precipizio di una crisi economica senza fondo, dall’altro si scorgono le sagome di un milione di senza lavoro precipitati in un buco nel quale rischiano di essere raggiunti da tanti altri disarcionati dal virus. A guidarci nell’incertezza, tra vaghi “piani di rinascita” (meglio sarebbe almeno cambiargli il nome, visto il passato piduista che evocano) e certezze di ripartenza, a cominciare dalla scuola, instabili come le assi su cui camminiamo, c’è un presidente del Consiglio indebolito dagli attacchi dentro e fuori la sua maggioranza e un pacchetto elettorale previsto per settembre che non gli agevola il comando. La speranza è il soccorso alpino dell’Europa, ma molto dipende dalla compattezza con cui ci presenteremo ai prossimi tavoli e dalla credibilità di nazione che riusciremo a esibire. E una piccola storia ignobile come quella di Patrick Zaki, gemella, speriamo non negli esiti, con la fine martoriata e mai spiegata di Giulio Regeni, rappresentano due ombre che non aiutano l’immagine di un Paese che dovrebbe fare rispettare, oltre al proprio onore, anche i propri cittadini, naturali o acquisiti che siano. Rifugiarsi nella ragion di Stato è un comodo espediente per non dire che, oltre un po’ di innocuo baccano diplomatico (compreso il provvisorio ritiro del nostro ambasciatore dopo lo strazio di Regeni, ma dall’agosto 2017 ne è tornato un altro in sede), l’Egitto è un partner da maneggiare con cura sia per gli equilibri geopolitici nella zona sia perché è un più che discreto giacimento di affari. Oltre all’Eni, più di 130 aziende italiane ci lavorano con ottimo profitto (2 miliardi e mezzo di dollari di fatturato, commesse militari, due fregate della Fincantieri pronte ad essere vendute in loco). Restano qui e là in Italia, per esempio sulla facciata di Palazzo Marino del comune di Milano, gli striscioni gialli con la scritta “Verità per Giulio Regeni”. Bologna tutta, a cominciare dall’università dove non smettono di invocare il ritorno del loro compagno Zaki, è unita nella lotta, per quanto impari. Anche se, dopo quattro mesi, qualche segno di resa comincia a intravvedersi. Fino a una settimana fa, un murale con Patrick circondato dal filo spinato, opera di Gianluca Costantini, copriva un’intera facciata del Palazzo dei Notai, vicino a San Petronio. È stato sostituito con il poster di una banca. Un altro murale, questa volta a Roma, via Salaria, ambasciata d’Egitto, realizzato dallo street artist Laika, vede due bravi ragazzi col volto gentile e una barbetta ancora adolescenziale. Uno è Giulio Regeni che abbraccia sorridendo il compagno di sventura Patrick George Zaki e lo rassicura: “Stavolta andrà tutto bene”. Stavolta, non come a lui. Tutto bene, nelle condizioni date, è davvero un atto di fede. Sarebbe già qualcosa se il nostro governo, pur nello scompiglio dell’attraversamento del ponticello, trovasse un minuto per avanzare una richiesta ufficiale e perentoria almeno per la scarcerazione di Patrick, più che giustificata da motivi di salute e dall’essere un soggetto ad altissimo rischio Covid. Dalle carceri egiziane, causa virus, sono già stati allontanati 3 mila detenuti. Ma non Patrick, la cui colpa più grave è quella di essere diventato almeno un po’ italiano. Brasile. Nelle favelas di San Paolo dove la follia di Bolsonaro uccide i più poveri di Lucas Ferraz L’Espresso, 7 giugno 2020 Il presidente non vuole lockdown, non invita a proteggersi, prende in giro chi si preoccupa del coronavirus. Così mentre generali e malavita acquistano sempre più potere, l’epidemia impazza. E a subirne gli effetti sono soprattutto i diseredati degli slum. Nei vicoli stretti del quartiere Paraisópolis, a San Paolo, l’organizzatrice di eventi culturali Renata Alves, 39 anni, è diventata la responsabile del coordinamento delle ambulanze che operano in prima linea contro il coronavirus in una delle più grandi favelas del Brasile. Renata fa parte del cosiddetto “quartier generale”, nato e coordinato dagli stessi abitanti della comunità per affrontare la pandemia come se fosse una missione di guerra. Abituata all’assenza del potere pubblico, la favela si è auto-organizzata per individuare e, in alcuni casi, curare i contagiati dal virus. Finanziata da un’iniziativa chiamata G10, che riunisce le dieci maggiori favelas del Brasile, l’operazione a Paraisópolis ha iniziato a funzionare il 19 marzo, una settimana dopo che l’Oms aveva dichiarato la pandemia globale. In Brasile la curva dei contagi ha superato i 400 mila casi e le morti sono oltre mille al giorno, per un totale di decessi (provvisorio) che mentre questo giornale va in stampa viaggia spedito verso i 30 mila. Ma, soprattutto, la curva è ancora ascendente: gli statistici prevedono almeno 100 mila vittime entro la fine dell’estate. Il paese sta insomma diventando l’epicentro mondiale del coronavirus, gli Usa hanno già sospeso i voli dal Brasile. La città con il maggior numero di morti è San Paolo, 12 milioni di abitanti, e le aree più colpite sono quelle periferiche, economicamente più svantaggiate. Il caos della pandemia ha evidenziato la spropositata forbice sociale del Brasile, settimo tra i Paesi più diseguali al mondo secondo l’Onu. Aspetto negato dal governo nonostante l’evidenza fornita dalle morti da Covid. La maggior parte dei contagiati è afrodiscendente, con un indice di letalità di cinque volte maggiore a quello della popolazione bianca. Nata a Paraisópolis, Renata lavora insieme a un’équipe composta da tre persone che si occupano di primo soccorso, due medici e due infermiere, oltre ai volontari della favela. Solo una delle tre ambulanze pronte ad intervenire è attrezzata con un’unità di terapia intensiva mobile. Un’unità per i circa 100 mila abitanti di Paraisópolis, che compie un secolo nel 2021. Qui, la stragrande maggioranza della popolazione è nera, distribuita in circa 21mila baracche strette in un’area di un milione di metri quadrati. Zone in cui è normale che l’ambulanza non arrivi, anche a causa del difficile accesso dovuto alle intricate viuzze e alla paura della violenza criminale. “Il governo non farà niente per noi, abbiamo smesso di aspettare. Saremo noi il governo e agiremo come meglio crediamo. Ancora una volta non possiamo contare sullo Stato”, afferma Gilson Rodrigues, 35 anni, leader dell’Associazione degli abitanti di Paraisópolis e attuale presidente del G10 Favelas. Il “quartier generale” può contare su 1.450 volontari, 200 dei quali portano nella favela i beni necessari. Parte di questi volontari riceve una piccola remunerazione in denaro. Finora l’area non ha ricevuto nessun tipo di aiuto dal potere pubblico, a parte l’autorizzazione a trasformare due scuole in case di accoglienza per malati Covid - con 510 letti disponibili - per poter isolare i contagiati o i casi sospetti (più di 1.400, tra cui 34 morti). L’isolamento sociale è, infatti, una missione impossibile nelle favelas, dunque si è optato per questo tipo di soluzione. Nelle due strutture, i degenti hanno a disposizione vestiti, internet e televisione. Vengono intrattenuti con attività ludiche e non possono ricevere visite. Sebbene gli studiosi affermino che il virus già circolava nel Paese da gennaio, il primo caso di Covid-19 è stato ufficialmente individuato nel Paese a fine febbraio, un brasiliano di ritorno dalla Lombardia. Tre mesi dopo il Brasile è immerso in un inferno difficile da misurare. Il sistema sanitario di città come Manaus (nel nord, regione amazzonica) è al collasso. Ci si aspetta che presto accada lo stesso a San Paolo, la città più grande dell’America del Sud e anche la più industrializzata. La difficoltà riguarda sia il sistema sanitario pubblico sia quello privato, anche se chi è in grado di pagare ha maggiori probabilità di salvarsi. I cimiteri sono stati ampliati con fosse comuni e le sepolture avvengono anche di notte, vista la crescita esponenziale del numero di morti. Il caos sanitario e sociale è aggravato dalla figura del presidente Jair Bolsonaro, in guerra permanente con i suoi avversari e nemici immaginari da quando ha assunto l’incarico, un anno e mezzo fa. Il suo negazionismo della scienza e l’ostentato disprezzo per i morti hanno evidenziato ciò che il governo non fa neanche lo sforzo di nascondere: un progetto di distruzione e disfacimento istituzionale per rafforzare il suo potere autoritario. Molti iniziano a chiamarlo “assassino” e “genocida”, ma Bolsonaro ha l’appoggio delle Forze Armate - tornate ad avere un ruolo decisivo nella politica come non lo avevano dalla fine della dittatura, nel 1985 - della maggior parte della polizia militare (una sorta di corpo di carabinieri controllati dai governatori), del mercato finanziario e di molti brasiliani sia ricchi sia poveri, come quelli che di recente hanno beneficiato del bonus di 600 reais (100 euro) per contrastare gli effetti della pandemia. La sua popolarità sta diminuendo significativamente ma il presidente gode ancora dei favori di quasi un terzo dell’elettorato. Uno dei principali interpreti della cultura brasiliana, il compositore Gilberto Gil, ritiene che il Paese stia pagando per i suoi “peccati storici” con “un conservatorismo arretrato nella mentalità politica, economica e nei costumi”. Come ogni grande nazione il Brasile è molto complesso, aggiunge Gil, che si trova in quarantena con la famiglia nel suo appartamento di Copacabana, a Rio de Janeiro: “Nel corso della sua storia ci sono stati momenti luminosi, altri oscuri, in una perenne oscillazione che deriva dal nostro processo di formazione come patria. Ora viviamo in un periodo oscuro”. In meno di un mese, mentre il Paese assisteva all’esplosione del contagio, nel governo Bolsonaro si sono succeduti due ministri della sanità, entrambi medici, che non erano d’accordo con la sua decisione sulla riapertura anticipata del commercio e la ripresa dell’economia, oltre alla sua raccomandazione per l’uso indiscriminato della clorochina, senza poter contare su dati scientifici che ne comprovassero l’efficacia. Adesso la sanità è sotto la guida di un generale senza formazione medica, specializzato in logistica, che aumenta la già nutrita schiera di ufficiali dell’esercito nella gestione di aree sensibili dello Stato. Considerato dal Washington Post “il peggior leader mondiale per la gestione del coronavirus”, Bolsonaro mostra indifferenza e mancanza di preparazione per affrontare l’attuale crisi. Non molto tempo fa parlava del Covid come di una “piccola influenza” e di un “virus sopravvalutato”, ammonendo che “tutti moriremo un giorno” e, quando è stato intervistato sulla curva ascendente dei morti, ha risposto di non essere “un becchino”. In aperto contrasto con le misure di isolamento adottate e difese da alcuni governatori e sindaci, Bolsonaro si riunisce e si abbraccia con i suoi sostenitori durante manifestazioni pubbliche, dove si inneggia ad una sorta di autogolpe militare, con la chiusura del Parlamento e della Corte Suprema. Il Brasile vive un crescente isolamento internazionale mai visto nella sua storia, con un presidente considerato un reietto mondiale. Il primo politico straniero ad appoggiare Bolsonaro, ancora durante la sua campagna del 2018, è stato Matteo Salvini ma persino il leader leghista sembra essersi distanziato dall’amico brasiliano. In mezzo alla rapida disgregazione politica e istituzionale, si aggrava la crisi sanitaria, economica e sociale. E i segnali di una possibile caduta del governo non tardano a manifestarsi. Come la divulgazione, di recente, del video integrale di una riunione del consiglio dei ministri, a fine aprile, che ha rivelato lo spirito del presidente e del suo governo, quello che molti insistono nel non voler vedere. I membri dell’esecutivo incentivavano l’adozione di misure a favore della deforestazione dell’Amazzonia durante la pandemia, approfittando del fatto che tutte le attenzioni fossero rivolte al Covid e parlavano di mettere arbitrariamente in prigione sindaci, governatori, ministri della Corte Suprema. Bolsonaro dichiarava il suo desiderio di vedere tutta la popolazione armata - e sui social media brasiliani in molti hanno notato il riferimento a Mussolini. Durante quasi due ore di riunione, il governo ha discusso del Coronavirus solo per 19 minuti mentre per la maggior parte del tempo ha attaccato i difensori della quarantena. Bolsonaro pretendeva cambiamenti ai vertici della polizia federale - che sta investigando la sua cerchia di familiari e amici per crimini legati alla corruzione - dichiarando che non avrebbe permesso a nessuno di “fottere la sua famiglia e i suoi amici”. Il video fa parte delle prove dell’indagine in corso alla Corte Suprema che ha il potenziale di far esplodere il governo. “La situazione economica del paese era già critica, il coronavirus ha peggiorato tutto. Ora c’è la crisi della sanità, dell’occupazione ed il reddito pro capite è sceso e scenderà ancora”, afferma l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso dal suo appartamento di San Paolo, dove trascorre la quarantena. “Il problema è che il governo è stato eletto ed è legittimo”, aggiunge. Sociologo perseguitato dalla dittatura, Cardoso governò il paese tra il 1995 e il 2002, dopo l’avvicinarsi del centrodestra. A lui è succeduto Inácio Lula da Silva, di sinistra, con il quale oggi Cardoso tenta di arrivare a un accordo che riunisca le opposizioni contro il delirio bolsonarista. Quando era ancora semplice deputato, una volta, Bolsonaro disse in tv che il Brasile si sarebbe “risollevato solo dopo una guerra civile”, arrivando a suggerire la fucilazione di 30 mila persone a cominciare dal presidente dell’epoca, Cardoso appunto. “Se il cammino verso l’insensatezza continua, dovremo darci una mano noi democratici, andando al di là delle nostre profonde divergenze”, dice oggi Cardoso. Al contrario di altri Paesi che hanno decretato il lockdown per frenare la diffusione del virus, in Brasile la quarantena non gode ancora del consenso nazionale. Misure restrittive sono state adottate in decine di città, in 11 dei 27 Stati del Paese. Alcune hanno alleggerito l’isolamento prima del tempo, altre hanno tentato di essere più rigorose ma i tentativi restrittivi cadono di fronte alle immagini del governo centrale che vanno in direzione opposta. Mentre nelle favelas e nelle aree più povere il distanziamento sociale è impossibile da realizzare, una situazione ben diversa si osserva nelle zone più ricche. Nei quartieri nobili di San Paolo si entra in ascensore solo con la mascherina e si vede un intenso via vai di moto per la consegna del cibo all’ora di pranzo e cena. Il traffico caotico di San Paolo non si è interrotto ma è diminuito considerevolmente. Nonostante la situazione nel resto del Paese, le persone non solo circolano ma generano anche assembramenti. “Uno dei problemi è relativo alla comunicazione. Qui le persone non capiscono cosa siano la quarantena, il lockdown, il respiratore e nemmeno il coronavirus. Finiscono per dare poco credito a tutto ciò, ancor di più con un presidente che le stimola affinché la vita continui normalmente”, commenta Rodrigues, leader dell’Associazione degli abitanti di Paraisópolis, che sottolinea in particolare le difficoltà dei lavoratori informali: 38,4 milioni di persone su una popolazione di 210 milioni, il 40 per cento degli occupati. Tra i tanti problemi di Paraisópolis, uno è diventato ancora più grave durante la pandemia: la mancanza di acqua. Il servizio viene sospeso tra le otto di sera e le sei del mattino, ogni giorno, da almeno quattro anni.”Come si può mantenere l’igiene senza l’acqua? Se la raccogliamo, corriamo il rischio di far proliferare la dengue”, racconta Renata Alves, riferendosi alla malattia dovuta a un virus che si trasmette attraverso la puntura di una zanzara, altra grande piaga da combattere. Gli abitanti hanno organizzato una manifestazione a metà maggio con mascherine, guanti e rispettando il distanziamento sociale, ma la polizia ha impedito che si avvicinassero alla sede del governo di San Paolo, amministrata da João Doria, esponente principale del partito di Fernando Henrique Cardoso, imprenditore e politico di destra eletto sfruttando la popolarità e le cause di Bolsonaro. Attualmente i due sono in rotta. Favorevole alla quarantena, Doria si è trasformato in uno dei principali nemici del presidente. Nonostante la promessa di riunirsi con gli abitanti per parlare della questione dell’acqua, l’incontro con Doria non c’è mai stato. La relazione con la polizia, una delle principali basi di appoggio di Bolsonaro, è un altro serio problema per la comunità di Paraisópolis. A dicembre, nove giovani sono morti dopo un’azione della polizia gestita male durante una festa nell’area. Paraisópolis è una delle favelas controllate dal Pcc (Primo comando della capitale), una delle maggiori organizzazioni criminali del Brasile e del Sudamerica, conosciuta per i suoi rapporti internazionali con la ‘ndrangheta nel traffico di cocaina. Com’è accaduto in Italia con i pacchi solidali distribuiti dalla mafia, anche in Brasile i narcotrafficanti hanno dato il loro contributo ai servizi medici e all’alimentazione delle comunità, per fare proselitismo nella popolazione. Alla domanda sulla presenza di un “potere parallelo”, Gilson e Renata negano qualsiasi contributo da parte del Pcc alla struttura organizzata per far fronte al Covid. Dopo aver ricevuto donazioni dalle imprese e dagli stessi abitanti del quartiere per far fronte all’emergenza, il G10 Favelas ha promosso un’iniziativa di crowdfunding. I costi del quartier generale sono elevati per la realtà locale: l’organizzazione di ambulanze e personale costa all’incirca 845 euro al giorno. Mentre agli abitanti è stato impedito di protestare contro la mancanza di acqua, sono ancora molti i brasiliani che si spostano nelle strade nel bel mezzo della pandemia, in alcuni casi anche senza mascherina, per protestare contro la decisione della maggior parte degli Stati di imporre il lockdown. In molti casi si tratta di imprenditori e sostenitori del partito di governo, che contano sull’appoggio esplicito della polizia. In diverse occasioni, i sostenitori di Bolsonaro hanno organizzato manifestazioni davanti agli ospedali, impedendo persino il passaggio delle ambulanze. La polizia non ha fatto niente per evitare i disordini, rafforzando il sospetto che il governo stia lavorando per creare una situazione di caos e anarchia. L’azione politica dei militari e della polizia risveglia i vecchi fantasmi dell’America Latina, riportando alla mente i tempi della violenza politica e - cosa che il Brasile non ha mai conosciuto - della guerra civile. In particolare, quest’ultima è stata citata dagli alleati del presidente brasiliano come una minacciosa possibilità. “Camminiamo su una lastra di ghiaccio. Anche se non ci fosse questo proposito esplicito, potremmo marciare in direzione della non democrazia”, dice Cardoso. “Ci sono troppi militari in posizioni civili e questo è rischioso. Se la tensione politica continua, anche se non si vorrà saranno i militari che torneranno a tutelare il Paese. Spero che non si arrivi a tanto ma è necessario stare all’erta”. Medio Oriente. Un carcere segreto per le donne curde, gestito dagli alleati della Turchia di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 7 giugno 2020 Nell’ex stazione di polizia di Afrin i miliziani dell’Els hanno imprigionato senza garanzie né processo le persone accusate di contatti con il Pkk. Un carcere segreto, dove “le donne vengono tenute in condizioni disumane”, secondo la denuncia di parecchie organizzazioni per la difesa dei diritti umani. È l’ultima scoperta della tv curda Rudaw nella zona di Afrin, la regione curda in parte occupate dai turchi e dalle milizie jihadiste alleate di Ankara. La prigione, segnalata da fonti locali all’emittente curda, era in passato sede della stazione di polizia di Afrin ed è oggi utilizzata come quartier generale della divisione Hamza dell’Esercito libero siriano, una formazione ribelle al governo di Damasco sostenuta dai turchi. L’assenza di ogni controllo. La scoperta conferma l’allarme per l’assenza di ogni controllo o legalità nella zona del Rojava invasa dalle truppe di Recep Tayyip Erdogan e alleati. Le detenute, ha confermato un portavoce dell’Esercito libero siriano alla Rudaw, sono “sospettate di aver collaborato con il Pkk”, il partito dei Lavoratori del Kurdistan che la Turchia considera arcinemico del Paese. Il Pkk era schierato a fianco delle truppe curde inquadrate nelle Forze di difesa siriane Sdf che hanno sconfitto sul terreno gli integralisti dello Stato islamico e controllavano Afrin prima dell’avanzata delle milizie filo-turche. Legami col Pkk solo ipotetici. Lo stesso Esercito libero siriano, per bocca del vice responsabile politico Hisham Eskief, ha sottolineato con la tv che “gli ipotetici legami con il Pkk non bastano a tenere imprigionate le donne, perché le milizie non hanno apparato giudiziario né diritto di tenere nessuno in carcere”. A tenere prigioniere le donne sarebbe la polizia militare, ma lo stesso Esercito libero siriano sta conducendo un’inchiesta sugli abusi della divisione Hamza e avrebbe già provveduto a liberare alcune detenute. Episodi definibili tutt’altro che militari. Non è la prima volta che la divisione Hamza è al centro di episodi difficilmente definibili come militari: in passato, scrive la Rudaw, la rapina di uno dei suoi membri in un negozio di Afrin proprietà di una vecchia conoscenza si è trasformata in omicidio, con successivo scontro armato fra miliziani e amici del negoziante. Alla fine sei civili e tre miliziani sono rimasti uccisi. In realtà gli alleati di Erdogan sono da tempo oggetto di denunce da parte delle organizzazioni di difesa dei diritti umani per ripetuti crimini di guerra. E le stesse Nazioni Unite hanno stabilito che “ci sono motivi ragionevoli per credere che membri dell’Esercito libero siriano abbiano commesso omicidi e saccheggi nei territori conquistati”. Cambogia. Scomparso oppositore thailandese in esilio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 giugno 2020 Wanchalearm Satsaksit, 37 anni, oppositore thailandese in esilio in Cambogia, è svanito nel nulla il 4 giugno. Lo ha denunciato ad Amnesty International un parente dell’uomo, che ha riferito di una telefonata interrotta bruscamente alle 17.54 dopo una serie di colpi di tosse e rumori di soffocamento. Quello che si sa è che la telefonata era iniziata quando Satsaksit era uscito dal suo appartamento nella capitale Phnom Penh per fare la spesa. Le immagini registrate dalle telecamere situate nei pressi del palazzo mostrano un’automobile Honda Highlanfder allontanarsi velocemente. Nulla di più. Si sa anche che le autorità thailandesi avevano spiccato un mandato di cattura nei confronti di Satsaksit, chiedendo la sua estradizione al governo cambogiano, sostenendo che egli avesse pubblicato post contro il governo su una pagina dedicata al deposto premier Thaksin Shinawatra. Prima di andare in esilio, Satsaksit era un attivista impegnato nei programmi di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla prevenzione dell’Hiv/Aids. Negli ultimi anni almeno otto attivisti e oppositori sono scomparsi o sono stati uccisi nei paesi confinanti con la Thailandia.