Solo l’amnistia può riportare la legalità di Franco Corleone Il Riformista, 6 giugno 2020 L’idea di clemenza è stata cancellata dalla voglia di vendetta. Per un nuovo inizio è urgente rilanciare la battaglia, a partire dalla proposta di legge per abbassare il quorum irraggiungibile e irragionevole. Quando nel 2018 la Società della Ragione, su impulso del prof Andrea Pugiotto, promosse un seminario di approfondimento sul tema dell’amnistia e dell’indulto poteva apparire, in un tempo dominato dall’uso populistico della giustizia penale, una prova di insensibilità o di ingenuità. O, come si usa dire, una provocazione intellettuale destinata a tradursi nel nulla sul terreno politico. Invece oggi la proposta contenuta alla fine del volume che riproponeva la discussione con oltre venti voci a confronto, torna di attualità, non solo perché è depositata alla Camera dei Deputati grazie all’iniziativa di Riccardo Magi, ma per - ché la crisi della giustizia è esplosa. Ieri si è svolto un incontro coordinato da Stefano Anastasia che con me aveva scritto le considerazioni finali nel volume pubblicato dalle edizioni Ediesse per stabilire una strategia per proseguire una battaglia che diventa centrale. Tutti noi abbiamo ben presente la dura invettiva di Gaetano Salvemini che dalle colonne de II Ponte nel 1949 indicava l’Italia come il Paese delle amnistie e abbiamo ben presente il numero esorbitante di provvedimenti di amnistia e di indulto che ha caratterizzato fino agli anni Novanta la gestione di un sistema non altrimenti governabile. La pratica di governo democristiana che utilizzava i due rubinetti dell’amnistia e dell’indulto per liberare le scrivanie dei tribunali da troppe carte e le carceri da troppi corpi, allo scopo di mantenere in equilibrio il sistema della giustizia, fu interrotta bruscamente nel 1992 con un intervento sull’art. 79 della Costituzione, prevedendo un quorum irraggiungibile e irragionevole per l’approvazione del provvedimento. La giustificazione era motivata dall’entrata in vigore del codice di proceduta penale elabotato da Gian Domenico Pisapia che avrebbe dovuto cambiare radicalmente il sisterna penale italiano, rendendolo al tempo stesso più efficiente e più garantista. Questa aspettativa si risolse presto in una illusione perché la riforma fu ampiamente sterilizzata per il sopravvenire dell’emergenza mafia, per la scelta di criminalizzare il consumo delle droghe, l’irrompere del nuovo fenomeno dell’immigrazione, la scelta del panpenalismo fece esplodere cause e celle. Molto è cambiato nel rapporto con la giustizia da parte dell’opinione pubblica da allora. Le obiezioni alle amnistie erano circoscritte agli illuministi difensori delle regole dello stato di diritto, senza nessuna protesta delle vittime, oggi sono invece cavalcate da giustizialisti, imprenditori della paura e fautori della certezza della pena. L’orientamento culturale ha subito una torsione così forte che il prof. Vincenzo Maiello aveva suggerito di abbandonare il termine “clemenza” per il sapore indulgenziale e il carattere teologico-patemalistico. L’invocazione diffusa della giustizia sotto forma di pena e, specificamente, di carcere nasconde esplicite pulsioni di vendetta privata, in perfetta contrapposizione al pensiero di Aldo Moro. La pandemia ha prodotto effetti enormi sul funzionamento dei tribunali e il sovraffollamento nel carcere con il ritorno delle rivolte (13 detenuti morti sono stati ignobilmente dimenticati in fretta e furia), rendono l’inevitabilità di un provvedimento di amnistia una questione da discutere subito. Non è accettabile che la pratica adottata negli ultimi anni di operare scelte di priorità discrezionale da parte dei pubblici ministeri o su indicazione dei procuratori, mantenendo il simulacro dell’obbligatorietà dell’azione penale, si enfatizzi di fronte all’ingolfamento del sistema, come ha denunciato Paolo Borgna recentemente sull’Avvenire. C’è davvero bisogno di un nuovo inizio. Di fronte a questo dilemma, le giaculatorie sulla velocizzazione dei processi, sulla abolizione della prescrizione, sulla costruzione di nuove carceri, hanno un sapore rancido. Dalla bulimia si è passati all’astinenza più crudele, eliminando il principio di clemenza che costituisce l’elemento destinato a bilanciare gli eccessi sempre possibili del principio di legalità penale. Un altro paradosso che emerge dalla analisi delle conseguenze della sterilizzazione dell’istituto di clemenza collettiva è la contestuale riduzione dell’esercizio della clemenza individuale. Sono purtroppo caduti nel vuoto gli inviti al Presidente Mattarella perché esercitasse pienamente gli spazi offerti dalla sentenza n. 200/2006 della Corte Costituzionale per concedere un numero consistente di grazie umanitarie, indirizzate in modo particolare a detenuti anziani, malati e alle detenute madri. C’è qualcosa di peggio dell’amnistia, ed è l’amnesia. Mette bene in luce questa aporia Paolo Caroli nel volume “Il potere di non punire”, dedicato all’amnistia Togliatti. Occorre coltivare la memoria di un Paese, perché non sia “un ben povero paese anzi diciamo pure, un paese miserabile” e solo cosi siamo obbligati a fare i conti con le contraddizioni e le transizioni. Ci sarà tempo per approfondire i contenuti e le caratteristiche di un provvedimento di amnistia e indulto. Abbiamo deciso di impegnarci per creare le condizioni della decisione del Parlamento, per rifondare uno statuto costituzionale di uno strumento indispensabile “in presenza di situazioni straordinarie o per ragioni eccezionali”. L’impegno sarà prioritariamente finalizzato a far sottoscrivere la proposta di legge 2456 a molti deputati e a organizzare un convegno che abbia la forza di imporre la calendarizzazione del provvedimento entro l’estate. Da oggi, al lavoro e alla lotta, come si diceva iuta volta. Telefonate dei detenuti a figli e parenti: da settimanali a giornaliere Redattore Sociale, 6 giugno 2020 Lo prevedere un emendamento al Dl Giustizia in discussione al Senato presentato da Franco Mirabelli, relatore del testo. La proposta riguarda figli minori o maggiorenni con disabilità, coniuge o convivente e parenti se ricoverati in ospedale. Esclusi i detenuti del 41bis e i condannati per il 4 bis. Mirabelli: “Mi sembrano scelte di buon senso e di civiltà”. Telefonate a parenti e figli per i detenuti non più una volta alla settimana, ma anche ogni giorno. È quanto prevede l’emendamento al Dl Giustizia in discussione al Senato presentato da Franco Mirabelli, capogruppo del Pd in commissione Giustizia a Palazzo Madama, nonché relatore del testo. “È molto importante che il merito di un mio Ddl riguardante l’ampliamento della possibilità, per i detenuti comuni, di contatti telefonici con i propri familiari sia diventato il testo di un emendamento che, come relatore, ho presentato al Dl Giustizia in discussione al Senato”, ha spiegato Mirabelli. L’emendamento prevede la possibilità di chiamare “una volta al giorno se la stessa si svolga con figli minori o figli maggiorenni portatori di una disabilità grave - si legge nel testo dell’emendamento - e nei casi in cui si svolga con il coniuge, l’altra parte dell’unione civile, persona stabilmente convivente o legata all’internato da relazione stabilmente affettiva, con il padre, la madre, il fratello o la sorella del condannato qualora gli stessi siano ricoverati presso strutture ospedaliere”. Esclusi da queste norme i detenuti al regime del 41bis e quelli condannato per il 4bis, a cui è concessa una telefonata a settimana. “Mi sembrano scelte di buon senso e di civiltà - aggiunge Mirabelli - visto che fino ad oggi per i detenuti comuni era prevista una telefonata a settimana. Sono convinto che queste norme, una volta approvate, contribuiranno a rendere più degna la vita dei detenuti nelle carceri italiane”. Il Covid ha fatto esplodere le carceri di tutto il mondo, ma solo in Italia si evoca la “trattativa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2020 Le proteste dei detenuti dall’Europa, al Sud America, fino al Medio Oriente. Durante l’apice della pandemia il malcontento carcerario, poi sfociato in rivolte, non è stato solo un caso italiano. Ma mentre in tutto il mondo nessuno ha visto un disegno criminale ordito da chissà quale “entità”, da noi il retropensiero ha fatto nuovamente da padrone scaturendo non solo interrogazioni parlamentari, ma addirittura inchieste giudiziarie. Oltre al virus biologico, da noi c’è anche il virus complottista che ha infettato le nostre menti. Un problema che rende il nostro Paese uno “Stato di eccezione” anche per questo. Prendiamo ad esempio l’Europa: oltre all’Italia, anche in Francia, Croazia, Svizzera, Romania e Grecia ci sono state rivolte e proteste da parte dei detenuti impauriti per lo stesso motivo nostrano. Nella prigione francese di Uzerch il 22 marzo 200 detenuti hanno preso il controllo di uno degli edifici dell’istituto, incendiato diversi materassi e reso inutilizzabili quasi 250 celle; le ragioni principali delle rivolte sono state la paura del Coronavirus e l’interruzione dei colloqui. Nello stesso giorno diverse proteste di minore intensità sono state registrate anche in altre carceri francesi. Il 14 aprile alcuni detenuti ristretti in Grecia hanno dato vita a una protesta che ha preso la forma di un’astensione dal lavoro; i detenuti, oltre a protestare per la sospensione dei colloqui, chiedevano serie misure per decongestionamento delle sovraffollate carceri, che non sono mai state adottate dal governo. Nelle altre parti del mondo idem. Al carcere brasiliano di San Paolo c’è stata una enorme protesta, presa d’ostaggi ed una evasione di oltre mille detenuti. In Colombia, invece, una rivolta nel carcere di Pasto, nella città di San Juan de Pasto. I detenuti hanno manifestato per due ore, appiccando incendi all’interno del complesso carcerario. Unità della polizia nazionale e la squadra antisommossa dell’esercito sono intervenute per sedare la rivolta. I detenuti chiedevano il rispetto dei loro diritti e la possibilità di ricevere visite dai loro parenti. Tra le richieste: anche la detenzione domiciliare per i reclusi non pericolosi. All’esterno del carcere, diversi membri della famiglia hanno richiesto un controllo della prigione da parte delle agenzie umanitarie. Lo stesso giorno è scoppiata una rivolta nella prigione di Bouwer (provincia di Cordoba in Argentina). I detenuti hanno chiesto di poter scontare la pena ai domiciliari. Hanno denunciato il fatto che la prigione non aveva adottato alcuna misura sanitaria per proteggerli dal Coronavirus. Oppure in Libano dove i detenuti, lamentando un grande sovraffollamento, hanno richiesto di essere rilasciati per paura di essere contagiati. Alcuni video hanno mostrato la rabbia dei manifestanti reclusi nelle proprie celle, mentre cercano di appiccare incendi o rompere le porte. Altri hanno dato avvio ad uno sciopero della fame. Tali episodi hanno causato il ferimento di diversi detenuti, alcuni portati in ospedale per ricevere l’assistenza necessaria. Poi c’è l’Iran dove migliaia di prigionieri hanno organizzato proteste in almeno otto carceri dell’Iran per il timore che potessero contrarre il Covid- 19. Secondo fonti giudicate credibili da Amnesty International, le forze di sicurezza hanno reagito usando gas lacrimogeni e proiettili veri, uccidendo così 35 detenuti e ferendone altre centinaia. In una prigione, un altro detenuto sarebbe morto dopo essere stato picchiato. Le richieste dei detenuti di tutto il mondo sono state le stesse. Per chi ha reati meno gravi o per i detenuti in regime cautelare, la possibilità di scontare in regime detentivo domiciliare, avendo così la possibilità di mantenere un distanziamento tra detenuti consono alle misure adottate con l’epidemia in corso, mentre per chi resta a regime detentivo carcerario i detenuti di tutto il mondo hanno richiesto l’applicazione di strumenti atti alla protezione individuale, quali mascherine e guanti. Ma solo da noi, in Italia, c’è chi ha visto un disegno criminale dietro le rivolte. Si evoca la “trattativa Stato Mafia”. Oramai il teorema vale per tutte le stagioni e soprattutto quando si attuano misure per garantire il diritto umano. Tale retropensiero è diventato una spada di Damocle per qualsiasi governo. Reazionario o progressista che sia. Funzione rieducativa della pena, riflessioni sulla sua concreta applicabilità di Carlotta Nicotera* salvisjuribus.it, 6 giugno 2020 “Errare è insito nella natura di tutti […] e non vi è legge che possa distoglierli da ciò. […] Bisogna dunque […] riconoscere che la povertà, che sotto lo stimolo della necessità rende temerari, ovvero la pienezza del benessere, che, per le suggestioni dell’insolenza e dell’orgoglio rende insaziabili, e così pure le altre circostanze, ovunque trionfi l’implacabile prepotenza di un impulso, spingono sotto l’impeto della passione gli uomini allo sbaraglio” (Tucidide, La guerra del Peloponneso). Sin dall’antichità si è sentita l’esigenza di interrogarsi sulla finalità dell’applicazione di una pena nei confronti di tutti coloro che trasgredissero le norme poste a base di ciascun ordinamento giuridico rinvenendo, spesso, tale finalità nel perseguimento esclusivo della sola punizione del condannato. La stessa analisi etimologica della parola “pena” rievoca una matrice che tende al riconoscimento di una funzione esclusivamente punitiva di quest’ultima: péna s. f. [lat. poena “castigo, molestia, sofferenza”, dal gr. ????? “ammenda, castigo”]. - 1. Punizione, castigo inflitti a chi ha commesso una colpa, ha causato un danno e sim. In partic.: a. Con riferimento alla giustizia umana, sanzione afflittiva… Tale definizione sembra non sfiorare neppure trasversalmente la questione inerente la dignità del destinatario della sanzione nonché il rispetto e il riconoscimento dei suoi diritti umani, conquista questa cui si è pervenuti con il tempo e con defatiganti battaglie. La dicotomia “rispetto dei diritti umani” e “funzione punitiva” della pena rientra in un tema di ampio respiro che abbraccia il rapporto tendenzialmente conflittuale intercorrente tra diritti dell’uomo e diritto penale, da intendersi quest’ultimo nella sua più ampia accezione e, dunque, comprendente sia il diritto penale sostanziale che il diritto processuale nonché il diritto penitenziario. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, è così che uno dei più autorevoli philosophes illuministi, François - Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire, il quale scrisse un Commento al libro “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria definito dallo stesso Voltaiere “grande amatore dell’umanità”, gettò le basi per una rivisitazione della funzione punitiva della pena meglio rielaborata nei successivi anni a venire. Nelle riflessioni di Voltaire sono ravvisabili molteplici germi del pensiero umanitarista che caratterizzò il c.d. Secolo dei Lumi e che contribuì ad una rivisitazione in chiave umanista del trattamento sanzionatorio. La pena, pertanto, consiste nella misura afflittiva irrogata coattivamente all’autore di un reato a seguito dell’accertamento giurisdizionale di tale illecito. I caratteri principali della pena criminale nel nostro attuale ordinamento possono essere tratteggiati nei seguenti termini: - Prevalente funzione afflittiva o retributiva; - Di emenda; - Necessità di un procedimento di applicazione della pena che garantisca il diritto di difesa di chi vi è sottoposto; - Produzione automatica di ulteriori effetti penali (valutazione della personalità del reo, della sua pericolosità sociale) - Della proporzionalità della pena al fatto commesso. L’art. 25, comma 1, della nostra carta costituzionale stabilisce che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge”, rimarcando l’intima correlazione tra i principi del “nullum crimen sine lege” e del “nulla pena sine lege”. Ma, ad assumere importanza centrale, è il principio della personalità della responsabilità penale sancito dall’art. 27 della Carta fondamentale in virtù del quale l’entità di tale responsabilità penale deve essere sempre e comunque proporzionata alla colpevolezza del singolo, non potendo mai eccedere la misura corrispondente al grado di quest’ultima (Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Marinucci, Dolcini, Studi di diritto penale, 1991, 70). L’irrogazione della pena non deve, dunque, smarrire la sua funzione risocializzante venendo avvertita dal condannato come ingiusta, sproporzionata e, pertanto, immeritata. La proporzionalità della pena riceve copertura costituzionale dagli articoli 3 e 27 della Costituzione i quali, nello stabilire il trattamento diverso di situazioni diverse (art. 3 Cost.), impongono altresì di modellare la pena in modo tale che possa tendere al principio rieducativo producendone i suoi effetti. L’Assemblea Costituente, con la stesura dell’art. 27 della Costituzione, ha posto l’assoluto divieto di trattamenti sanzionatori che vadano ad incidere negativamente su profili umani da ritenersi intangibili, in un’ottica garantista e democratica dei diritti inviolabili dell’uomo. Recita l’articolo 27 della Costituzione “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” non potendo svolgere alcuna funzione risocializzante trattamenti che siano contrari a quest’ultimo. In perfetta sintonia con il principio di umanizzazione della sanzione penale si pone lo stesso art. 27, comma terzo della Costituzione il quale dispone che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. A fronte di tale formulazione, però, è necessario che vigano dei principi agevolmente individuabili al fine di poter fornire a chi è chiamato ad applicare la pena dei validi parametri alla luce dei quali indirizzare l’opera di rieducazione del condannato. La rieducazione, pertanto, deve costituire il perno centrale della sanzione da tenere nella dovuta considerazione sia in fase di cognizione che in fase di esecuzione. La stessa Corte Costituzionale si è occupata dell’aspetto umanitario unitamente a quello del finalismo rieducativo e con riferimento a quest’ultimo ha sostenuto con sentenza 313/1990 che : “la necessità costituzionale che la pena debba tendere alla rieducazione, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica, invece, proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”. La Corte ribadisce dunque che il fine primario della pena debba essere costituito dalla sua finalità rieducativa, finalità che deve necessariamente permeare sia la fase della cognizione che della esecuzione che, infine, della sorveglianza. Si rende necessario, a questo punto, trattare, seppur brevemente, della portata contenutistica del termine “rieducazione”. Quest’ultimo, illuminato della concezione laica statale, deve tendere alla “risocializzazione” del condannato e non di certo alla sua “rimoralizzazione”. La rieducazione non è un concetto assimilabile a quello di pentimento bensì alla capacità del condannato di potere correggere i propri comportamenti antisociali ed antigiuridici reinserendosi, seppur progressivamente, nella comunità sociale. Ma è proprio sull’effettivo piano pratico di attuazione del principio de quo che ci si è trovati spesso e malvolentieri innanzi all’evidenza del suo fallimento. Secondo l’analisi di alcuni dati statistici (Rapporto “Associazione Antigone” sugli istituti penitenziari) nel 2017 quasi la metà dei decessi avvenuti in carcere sono suicidi (52 su 123). Gli atti di autolesionismo stimati risultano essere 9510, con picchi altissimi in alcuni istituti penitenziari. Ma c’è altro: diminuiscono i reati e aumentano i detenuti. Per esprimere un reale intento educativo, la pena dovrebbe essere commisurata alle effettive necessità educative del soggetto condannato, cosa infattibile sul piano pratico in quanto imporrebbe la necessità di lasciare indeterminati i minimi ed i massimi edittali di pena. Inoltre, non si può non incorrere nella contraddittorietà di fondo che si rinviene nell’attribuire la funzione di reinserimento sociale allo strumento più antisociale per eccellenza, il carcere. Pertanto, concludendo, non si può, ad oggi, non interrogarsi sulla reale portata del concetto riabilitativo della pena. Nessuno, infatti, può correggere i propri vuoti morali con la sola severità della penitenza. *Avvocato Rientrati in cella 50 boss: erano quelli più pericolosi di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2020 Dopo il dl Bonafede, molti detenuti usciti con la scusa del Covid tornano dentro o in centri clinici penitenziari. Inclusi 2 dei 3 in regime di 41bis. Sono oltre 50 i boss tornati in carcere, in centri clinici penitenziari o in strutture equiparate, a tre settimane dal decreto “anti scarcerazioni” voluto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Un provvedimento varato dopo che 253 detenuti dell’alta sicurezza e tre del 41bis (356, non 376 complessivi come ha scritto la stampa) sono stati posti ai domiciliari per alto rischio Covid-19, perché soffrono di altre patologie. Appena giovedì scorso, sono stati revocati i domiciliari a Vincenzino Iannazzo, boss al 41bis. Lo ha deciso la Corte d’Appello di Catanzaro alla luce del decreto che ha chiesto ai giudici competenti di riesaminare le scarcerazioni, dato che siamo nella fase 3 della pandemia. Iannazzo, ritenuto il capo dell’omonima cosca di ‘ndrangheta di Lamezia Terme, è stato condannato in appello a 14 anni e mezzo di carcere. Ora è detenuto nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo. Per una revisione dei domiciliari si era mosso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che, dopo le dimissioni di Francesco Basentini, ha come direttore Bernardo Petralia. Il vice è Roberto Tartaglia, che ha la delega ai detenuti 41bis e alta sicurezza. Proprio il decreto del 9 maggio ha attribuito al Dap il potere di indicare ai giudici competenti soluzioni sanitarie adeguate, alternative ai domiciliari, che concilino il diritto alla salute dei detenuti con il dritto alla sicurezza dei cittadini, come, appunto, i reparti di medicina protetta dell’ospedale di Viterbo o il Pertini di Roma o i nuovi padiglioni di Parma, Trani, Lecce. Iannazzo era ai primi posti dell’elenco di 40 detenuti compilato da Tartaglia subito dopo il decreto. Si tratta di una lista “prioritaria” in base allapericolosità sociale dei 256 detenuti finiti ai domiciliari. E si vedono già dei risultati. Prima che a Iannazzo sono stati revocati i domiciliari ad altri boss. Come Francesco Bonura, al 41bis, legato a Bernardo Provenzano. Il provvedimento del giudice di Sorveglianza di Milano, del 19 maggio, ha recepito l’indicazione del Dap (Percolle o Pertini). Il 20 maggio è la Corte d’Appello di Palermo a revocare i domiciliari a Cataldo Franco, all’ergastolo per concorso nel rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, sequestrato per 25 mesi, strangolato e sciolto nell’acido nel 1996. Sempre della “lista prioritaria” di Tartaglia, fanno parte altri detenuti a cui sono stati revocati i domiciliari in queste settimane: Antonio Sacco, boss di Brancaccio, a Palermo, Pietro Pollichino, boss corleonese; Antonino Sudato, altro boss siciliano; CarmineAlvaro, capo della omonima ndrina di Sinopoli; Antonio Mandaglio, “capo società” di ‘ndrangheta nel Lecchese; Vincenzo Lucio, camorrista del clan Birra di Ercolano; Vincenzo Guida, accusato a Milano di aver creato una sorta di “banca della camorra”; Francesco Barívelo, del clan Perelli di Taranto, condannato all’ergastolo per l’omicidio, nel 1994, dell’agente della polizia penitenziaria Carmelo Magli: “Dal primo giorno - ha dichiarato Petralia - siamo impegnati a dare seguito al ruolo che il nuovo decreto assegna al Dap, ma in un certo senso questa vicenda era in cima alla lista. Lo dovevamo al corpo che mi onoro di guidare”. Dei tre detenuti al 41bis scarcerati tra marzo e aprile, resta ai domiciliari soltanto Pasquale Zagaria, il camorrista del clan dei Casalesi finito a casa della moglie, nel Bresciano, in piena zona rossa Covid, su decisione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari, complice una malagestione del caso da parte del Dap a guida Basentini. Sulla revoca o meno dei domiciliari non c’è ancora una decisione del Tribunale di Sorveglianza perché ha prima dovuto rinviare di unase Itimanal’udienza, per un difetto di notifica alla difesa e poi, giovedì si è riservato sia sulla revoca o meno del provvedimento sia sulla richiesta degli avvocati di rivolgersi alla Corte costituzionale, come ha fatto il Tribunale di Spoleto, perché il decreto Bonafede violerebbe il diritto di difesa. Nel frattempo, Zagaria è in un ospedale lombardo per le complicazioni di un esame. Religione in carcere: intesa tra Dap e Comunità Islamiche di Marco Belli gnewsonline.it, 6 giugno 2020 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rinnova la collaborazione con l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (Ucoii) per favorire l’assistenza spirituale e gli incontri di preghiera per i detenuti di fede islamica. Il capo del Dap Bernardo Petralia e il presidente dell’Ucoii Yassine Lafram hanno infatti firmato un Protocollo d’intesa, di durata biennale, che rinnova quello siglato nel novembre 2015. L’accordo attua il principio della libertà religiosa previsto per tutti i cittadini e sancito dall’articolo 19 della Costituzione, nonché quello prescritto dall’articolo 26 dell’Ordinamento Penitenziario che garantisce a detenuti e internati di professare la propria fede religiosa anche in carcere. Principi che, considerata la multietnicità che da alcuni anni caratterizza la popolazione detenuta, vengono garantiti negli istituti alle diverse fedi e culture religiose professate. Secondo quanto previsto dal protocollo, l’Ucoii provvederà a comunicare alla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dap una lista di nominativi di persone che svolgono la funzione di imam sul territorio italiano e che sono interessate a prestare la propria opera negli istituti penitenziari. Poiché attualmente non esistono leggi che regolino i rapporti fra Stato italiano e comunità islamiche, questo elenco dovrà preventivamente ricevere il nulla osta della Direzione Centrale degli Affari dei Culti del Ministero dell’Interno. L’elenco, inoltre, dovrà contenere l’indicazione della moschea dove ogni imam esercita l’attività di culto e, per ciascun nominativo, la scelta delle province - tre al massimo - dove egli intenda prestare la propria assistenza religiosa. Le correnti dei magistrati e la giustizia rimossa di Paolo Mieli Corriere della Sera, 6 giugno 2020 L’ordine giudiziario è scosso dalla melma che emerge nelle intercettazioni e fa tremare di nuovo il Csm. Distratta dall’annunciata pioggia di miliardi in arrivo dall’Europa e dalla prospettiva degli “Stati generali per la rinascita” di Giuseppe Conte (a cui saranno ammesse, si apprende, anche star del mondo artistico), l’Italia - appena uscita dall’epidemia - non ha avuto il tempo per accorgersi del mare di melma che sta sommergendo l’ordine giudiziario. I magistrati perbene assistono attoniti e forse rassegnati, come è lecito desumere dal loro silenzio. I media sfornano le intercettazioni di alcuni disinvolti colleghi togati che ordiscono trame per spartirsi Procure e altri posti di potere. Per lo più ricorrendo a un linguaggio assai sconveniente. Il caso d’origine è nuovamente quello dell’ex capo dell’Anm Luca Palamara che scoppiò un anno fa e, già allora, fece vacillare il Consiglio superiore della magistratura. Adesso è riesploso con una nuova messe di intercettazioni: il Csm ha tremato una seconda volta ed è stato nuovamente costretto a intervenire Sergio Mattarella. Le pagine in cui sono state verbalizzate le chiacchiere dei tessitori di trame sarebbero sessantamila, ragion per cui possiamo immaginare che le indiscrezioni continueranno ad essere distillate a lungo. Magari per sgambettare questo o quel giudice in carriera. Stavolta tutto ha avuto una certa eco, quasi casualmente, allorché nella trasmissione domenicale di Massimo Giletti, “Non è l’Arena”, è giunta un’inattesa telefonata del giudice Nino Di Matteo. Il quale, in modo sobrio e impeccabilmente circostanziato, ha reso noto che nel giugno del 2018 il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede gli offrì la guida del Dipartimento amministrazione penitenziaria e il giorno successivo si rimangiò la proposta. Niente di che, all’apparenza. Cose che capitano. Senonché la memoria di Di Matteo si è risvegliata nel momento in cui - in seguito al clamore provocato dalla provvisoria uscita dal carcere, per il Covid, di qualche centinaio di malviventi - l’uomo nominato due anni fa alla guida del Dap, Francesco Basentini, è stato costretto alle dimissioni. Poi a capo del Dipartimento è stato nominato Dino Petralia, procuratore generale di Reggio Calabria. Neanche stavolta è toccato a Di Matteo, nel frattempo approdato al Consiglio superiore della magistratura. Con ammirevole tenacia - forse anche perché gli ascolti nel frattempo crescevano - Giletti, nelle domeniche successive, ha continuato a riproporre il quesito: cosa indusse Bonafede a comportarsi in quel modo scortese con Di Matteo? Domanda non impropria se si tiene conto del fatto che il magistrato del cosiddetto “processo trattativa Stato-mafia” da anni era una sorta di mito per il Movimento 5 Stelle; Beppe Grillo e i suoi seguaci lo adulavano colmandolo di complimenti e annunciavano in ogni occasione che, fossero mai giunti al potere, lo avrebbero nominato ministro di Giustizia. Come minimo. Ma quando nel giugno del 2018 andarono al governo, si dimenticarono di lui. Tutti, tranne Bonafede che, divenuto titolare del ministero idealmente assegnato all’eroe del M5S, ritenne di sdebitarsi offrendogli quel posto al Dap che per importanza equivale a quello di Capo della Polizia. Mentre glielo proponeva, sia Bonafede che Di Matteo sapevano che alcuni mafiosi imprigionati annunciavano un finimondo nel caso quel magistrato fosse stato messo alla guida del Dipartimento. Anzi il ministro lasciò intendere che era proprio per aver avuto conoscenza delle minacce dei boss che aveva deciso di chiamarlo a quell’incarico. Poi però nel corso di poche ore notturne ci ripensò. E scelse in sua vece un giudice, per così dire, molto diverso da Di Matteo. In ogni caso assai meno idolatrato dai militanti del Movimento. Cosa accadde quella notte di giugno del 2018? Ci fu qualche veto? Anche Bonafede poche domeniche fa telefonò in diretta a “Non è l’Arena” e non trovò spiegazioni convincenti al cambiamento di idea di due anni prima. Dopodiché il ministro fu investito dalla mozione di sfiducia, salvato per il rotto della cuffia da Matteo Renzi e del caso Di Matteo non si parlò più. Si notò che coloro i quali in passato ne avevano fatto oggetto di venerazione, in quel frangente lo avevano abbandonato al proprio destino e avevano difeso il ministro. Qualcuno aveva addirittura ironizzato suggerendo al giudice di guardare meno la tv. Tutti fecero finta di non capire. A cominciare da politici e opinionisti del centrodestra che tuttora ritengono Di Matteo un persecutore di Berlusconi e da quelli del centrosinistra (moderato) che lo ricordano come il magistrato che provocò qualche turbamento a Giorgio Napolitano. Gli altri considerarono non opportuno esporre Bonafede (e Conte) a un rischio e lasciarono il magistrato palermitano al suo destino. Senza nemmeno curare le forme e riconoscerne in qualche modo le ragioni. Tutti tranne il sindaco di Napoli, l’ex magistrato Luigi de Magistris, che quelle vicende ha mostrato di conoscerle assai bene e ha corroborato le successive puntate dell’inchiesta di Giletti con rilievi assai circostanziati su molti uomini che hanno ruotato intorno al Dap di Basentini. Persino su Giulio Romano, capo dell’ufficio trattamento dei detenuti, un beniamino dei radicali eredi di Marco Pannella. Si trattava di accuse davvero terribili. De Magistris mandava i suoi siluri, faceva vedere che aveva in mano dei fogli e curiosamente il giorno successivo nessuna delle persone citate replicava, spiegava, querelava. Poi è arrivato nello studio di “La7” anche Palamara. E lì, nonostante il ricorso a parole forbite, la semplice esposizione delle modalità con cui si procede ancor oggi alle nomine degli incarichi in campo giudiziario faceva rabbrividire. Palamara ha tenuto a citare il nome dei più importanti procuratori della Repubblica per sottolineare come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazione. Talvolta, ha lasciato intendere, d’accordo con l’uomo di maggior rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno con qualcuno della sua corrente. E qui siamo giunti al punto: le correnti della magistratura che sono diventate qualcosa di assai anomalo. Non se ne conoscono più i motivi di differenziazione ideologica. Appaiono centri di potere e come tali si muovono. Sono fortissime, si alleano, si combattono. Si sa di pochi magistrati che abbiano fatto carriera senza aver preso parte a questa particolare forma di vita associativa. Ricorrono, le correnti, al linguaggio della politica - “destra”, “sinistra” - ma è un’evidente finzione. A questo punto è chiaro che il problema non è più, come in passato, quello di porre rimedio a una subalternità alla politica. La politica è con le spalle al muro. Il potere sono loro, i magistrati che hanno in mano le correnti. Della crescita di questo potere hanno dato prova negli ultimi venticinque anni contribuendo non marginalmente a far saltare in aria i governi di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi; mettendo alle corde Matteo Renzi e Matteo Salvini; infilzando una gran quantità di politici di calibro minore. Pochissimi tra questi uomini di partito piccoli e grandi hanno resistito, quando se ne è presentata l’opportunità, alla tentazione di approfittare dei guai giudiziari dei propri avversari. Tutti, allorché sono stati investiti dalle inchieste, si sono aggrappati alla tenda e hanno pronunciato orazioni che, nei loro intenti, avrebbero dovuto lasciar traccia nei libri di storia. Ma, di quei discorsi, nei libri di storia ne resterà solo uno: quello di Bettino Craxi del 3 luglio 1992. E un cambiamento virtuoso della giustizia italiana si avrà solo quando un magistrato darà battaglia al sistema degenerato delle correnti. A testa alta, mentre è ancora in servizio. Mettendo nel conto che subirà l’ostracismo dei colleghi. Tutti. O quasi. Csm guidato dal merito, la riforma sia condivisa di Alfonso Bonafede* Il Dubbio, 6 giugno 2020 La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario non è più differibile. È una esigenza che non nasce adesso con il cosiddetto “caso Palamara”: fin dal mio primo giuramento come Ministro della Giustizia ho individuato come prioritario un intervento incisivo sulle degenerazioni del correntismo e sui rapporti tra politica e magistratura. Quel progetto si era arenato a causa della caduta del governo Conte I ed è stato immediatamente ripreso con l’attuale maggioranza. L’intervento normativo deve essere ponderato con il massimo equilibrio e deve scaturire dall’interlocuzione con tutte le forze politiche e con gli operatori del diritto. Nel corso di questa settimana ho incontrato le forze di opposizione, l’Anm, il Cnf, l’Ocf, l’Unione Camere Penali, l’Unione Camere Civili e l’Aiga. Il metodo dialogico dovrà accompagnare le progressive evoluzioni del testo. Abbiamo adesso l’imperdibile occasione di sancire una discontinuità rispetto alle storture del passato ma anche di gettare le fondamenta di una prospettiva nuova e più solida. Una riforma che, senza perseguire obiettivi punitivi verso la magistratura nel suo complesso, consenta a quest’ultima di recuperare credibilità e di restituire ai cittadini fiducia nella giustizia. Come ho già detto, sono tre i pilastri della riforma: porre al centro il merito; mettere fine alle degenerazioni del correntismo; erigere un muro fra magistratura e politica. Tutte le chat e le intercettazioni di cui si parla in questi giorni sono all’attenzione dell’ispettorato generale del Ministero. Essendo contitolare dell’azione disciplinare, non intendo commentare quanto emerge da quelle comunicazioni. Non posso sottrarmi però alla considerazione delle dinamiche patologiche che emergono da alcune di esse; dinamiche in cui il principio del “merito” è sacrificato sull’altare della spartizione correntizia degli incarichi. Ed è proprio il principio del merito che vogliamo ristabilire, introducendo criteri oggettivi che riducano gli spazi di discrezionalità strumentalizzabili per il perseguimento di obiettivi diversi dall’unico che dovrebbe improntare quelle scelte, quello della massimizzazione dell’efficienza e della qualità dell’amministrazione della giustizia. Uno dei punti principali è rappresentato dal sistema di elezione dei membri togati del Csm. La nostra Costituzione impedisce la configurazione di un sorteggio realmente efficace. Purtroppo, il sistema dell’unico collegio nazionale, nato nelle intenzioni dell’allora Ministro Castelli per eliminare il correntismo, si è rivelato fallimentare. Il sistema elettorale con ballottaggio su cui stiamo lavorando parte da collegi piccoli, idonei a fare emergere un consenso maggiormente legato al territorio e alla professionalità del singolo magistrato. Infine, un’istanza fortemente sentita dai cittadini è quella di separare nettamente la magistratura dalla politica. Una richiesta che arriva anche dal Greco, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa. È mia ferma convinzione che, nel momento in cui un magistrato compie la scelta di entrare nell’agone politico, non possa più tornare alla magistratura giudicante o requirente. Un magistrato non deve solo essere terzo ma deve anche apparire tale. La portata e la profondità del mutamento, la sua incidenza su assetti da lungo tempo sedimentati, il coinvolgimento di valori costituzionali e diritti fondamentali rendono evidente la necessità di solidi percorsi di condivisione. *Ministro della Giustizia “Sì, riapriamo i tribunali”. Così Bonafede risponde all’allarme dell’avvocatura di Errico Novi Il Dubbio, 6 giugno 2020 Non se ne può più. Se ci fosse da sintetizzare in tre parole, è quanto l’avvocatura ha detto al ministro Alfonso Bonafede. Non se ne può più di una giustizia “paralizzata e quasi del tutto inaccessibile”, di “una situazione di stallo nei tribunali”, che “non può più trovare giustificazione nel momento in cui l’intero Paese programma la ripartenza di tutte le attività produttive e sociali”, come scriveranno Cnf e Ocf poco dopo aver visto il guardasigilli. Ma il bello è che nel lungo incontro riservato ieri mattina da Bonafede alle rappresentanze forensi è come se anche a lui, al ministro, sia venuto naturale quel “non se ne può più”. Così, dopo aver raccolto le sollecitazioni, oltre che di Cnf e Ocf, anche di Aiga, Unione Camere penali e Unione Camere civili, Bonafede diffonde una nota che traduce l’impazienza in piano d’azione: “Il quadro sanitario è migliorato. La giustizia deve tornare in tempi celeri alla normalità. Alla luce del mutato scenario”, dice il responsabile della Giustizia, “ci indirizziamo verso la riapertura generale. Le eccezioni”. chiarisce, “dovranno essere debitamente motivate da ragioni sanitarie conclamate”. Significa che a breve arriverà una modifica di legge. Con ogni probabilità, si andrà a correggere il famigerato articolo 83 del Dl Cura Italia. Verrà eliminata l’infinita gamma di opzioini offerte alla libera scelta di singoli presidenti di Tribunale e procuratori capo su come, e quanto, far ripartire udienze e indagini. In una nuova norma, forse incardinata all’interno della legge di conversione del decreto Giustizia, si potrebbe prevedere che il capo dell’ufficio giudiziario limiti lo svolgimento dell’attività solo qualora l’autorità sanitaria regionale gli segnali un riaccendersi dei focolai. Adesso si tratta di verificare i tempi dell’intervento. Ma sull’intenzione politica del ministro non sembrano esserci riserve: vuole riaprire davvero i palazzi di giustizia. Ne parla anche con l’Anm, ricevuta subito dopo le delegazioni forensi. “Incontri positivi”, li definisce Bonafede, “in cui tutti si sono trovati d’accordo nel prendere atto del miglioramento del quadro sanitario nazionale”. Naturalmente restano sul tappeto molte questioni pratiche. Una, per esempio, segnalata anche in un comunicato dell’Unione Camere penali: “La situazione di blocco è dovuta anche e soprattutto al collocamento in smart working della maggior parte del personale amministrativo, che peraltro da casa non può accedere né ai fascicoli né ai registri”. E quest’ultimo specifico intralcio, ha chiarito anche il capo dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, Barbara Fabbrini, non è realisticamente superabile in due o tre settimane. Ma intanto Fabbrini stessa prefigura una nuova circolare, la terza sul punto, che riarticolerà in forma riduttiva il ricorso al lavoro da remoto per i cancellieri. E soprattutto, a rendere in un mondo o nell’altro impensabile esitazioni di qualsiasi tipo è l’impressione lasciata nel guardasigilli dalle parole gravi usate dalla presidente facente funzioni del Cnf Maria Masi e dal coordinatore dell’Ocf Giovanni Malinconico: “Ne va della tenuta sociale del Paese”, hanno detto. “In un momento tanto drammatico per l’Italia, la giustizia ha raggiunto uno dei livelli più critici della storia repubblicana: è oggi paralizzata e quasi del tutto inaccessibile”, ricorderanno Masi e Malinconico anche in una nota diffusa dopo il briefing di via Arenula. Cnf e Ocf si dicono pronti “ad assumere ogni iniziativa utile affinché anche per il comparto della giustizia sia possibile ripartire concretamente nell’interesse dei diritti dei cittadini”. Fino appunto alla rievocazione di quel caveat rappresentato dal vivo al guardasigilli: “Così è a rischio la tenuta socio- economica del Paese, privato del presidio imprescindibile della funzione giurisdizionale”. Ed è questione che prescinde “dalle esigenze della magistratura, dell’avvocatura e degli addetti agli uffici giudiziari”. Masi e Malinconico ripeteranno anche nel loro comunicato che “l’amministrazione della giustizia è un presidio di democrazia che riguarda tutti i cittadini, perché il suo funzionamento incide sulle irrinunciabili aspettative di essere tutelati, di veder riconosciuti i propri diritti in tempi accettabili e secondo la legge, e rappresenta il livello stesso di civiltà del Paese”. Parole forti. Rese pubbliche. Ma espresse di persona al ministro. Insieme con le sollecitazioni, raccolte immediatamente da Bonafede, a modificare l’articolo 83 in modo da ripartire “con la trattazione delle udienze in compresenza fisica, con la sola eccezione dei casi in cui ciò sia motivatamente impossibile per persistenti esigenze di natura sanitaria”. L’alternativa delle “modalità telematiche già individuate” va bene purché “effettive e non pretesto di ingiustificati rinvii”. Nel confronto sono valutate anche altre ipotesi. Non ultima “l’ulteriore previsione della possibilità di tenere udienze ovunque anche nel pomeriggio, eventualmente recuperando la giornata del sabato e intervenendo per utilizzare anche il periodo ordinariamente coperto dalla sospensione feriale” come si legge nella nota dell’Unione Camere penali. Sull’eccezione agostana, è pronta una proposta del Pd, come anticipato ieri dal Dubbio. Bonafede non esclude nulla: ha in mente di chiudere con la paralisi. Agli avvocati chiede valutazioni anche sulla rifiorma del Csm. Le parti si lasciano in vista di “un’interlocuzione aggiornata a quando il testo sarà maggiormente definito a seguito degli incontri tenutisi questa settimana, nella consapevolezza che dovrà trattarsi di una riforma incisiva”, specifica via Arenula. Secondo Gian Domenico Caiazza ed Eriberto Rosso, presidente e segretario dei penalisti italiani, la sola via perché il ddl sul Csm sia efficace coincide con la “separazione delle carriere e dei Csm”. Il ministro però è fermo sull’idea di procedere con legge ordinaria. In ogni caso le prossime ore riporteranno la giustizia, quella vera e non romanzata dalle intercettazioni, in primo piano- Finocchiaro: “Non esiste un caso Palamara, ma un problema di spartizione delle nomine” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 6 giugno 2020 Anna Finocchiaro ha attraversato, nella sua Sicilia, le tappe importanti della carriera giuridica; laureatasi a 22 anni, è stata Procuratrice al tribunale di Catania fino al 1987. Da lì in avanti, impegno politico a tempo pieno, prima nel consiglio Comunale e poi in Parlamento. È stata due volte ministra, a vent’anni di distanza: la prima volta alle Pari Opportunità con Prodi, nel 1996, l’ultima con Gentiloni, ai Rapporti con il Parlamento, nel 2016. Adesso fa parte del Comitato scientifico e a capo del gruppo di lavoro dedicato a Sistema economico e giustizia per l’associazione “Italia decide”. Che momento vive la magistratura? È un momento non solo difficile ma anche fortemente rischioso, perché l’indipendenza della magistratura deve affermarsi come caposaldo della democrazia. E questa indipendenza vive se si afferma un credito di fiducia e di autorevolezza presso l’opinione pubblica. Vede analogie con altri momenti? Siamo in un momento molto delicato, come non ricordo di averne mai visti in passato. La giustizia cammina sulle gambe degli uomini, e delle donne. Possono esserci momenti di caduta di fiducia ma ciò che si sta oggi maneggiando è un passaggio nel quale è in gioco non solo un valore che appartiene alla magistratura, ma un fatto di civiltà. Quello dell’efficienza giudiziaria e della fiducia dei cittadini nel sistema-Giustizia è uno dei parametri sui quali vengono scrutinati i paesi che vogliono appartenere agli Stati membri dell’Unione. Non è una cosa marginale. Siamo in una partita molto seria. Priorità per la riforma del Csm? È un punto essenziale, e in qualche modo il Csm rappresenta l’autogoverno e l’indipendenza della magistratura. Va fatto un dibattito molto profondo, e non una incursione dal sapore punitivo o peggio, restaurativo. Basterà la riforma elettorale? È uno strumento, ma non basta. Bisogna fare una riforma importante, per rispondere a problemi di questa gravità. Nella magistratura associata andava così da tempo. Non da sempre. Ricordo il peso culturale che avevano le correnti, anche per la formazione dei magistrati, sull’interpretazione da dare alle leggi. Ricordo il dibattito sulla legislazione d’emergenza durante il terrorismo. Ricordo il dibattito sui temi ambientali, tra anime diverse. E il confronto sulla necessità di orientare le interpretazioni secondo la Costituzione. C’era un perché: un pezzo di costruzione della democrazia italiana, della fisionomia giuridica italiana è derivato dalla dialettica di confronto interna alla magistratura associata. Cosa si è interrotto in questo percorso? La Costituzione viene messa con i piedi per terra dai giudici ordinari, attraverso l’interpretazione. Ma se guardo a questa deriva, non mi piace. È un’altra cosa, rispetto alla magistratura associata. Cosa mi può dire di Palamara? Ha creduto di esercitare un ruolo, ma ha ecceduto. Però non esiste un caso Palamara. Esiste un problema di spartizione delle nomine che va cambiato. Mentre Bonafede festeggia l’abolizione della prescrizione… Io la trovo una cosa incivile, francamente. Tutti hanno diritto di sapere in tempi ragionevoli chi è colpevole e chi innocente. È un problema di civiltà. Cosa lo abbiamo scritto a fare nella Costituzione che il processo deve avere una ragionevole durata? Anche perché lo stigma del processo diventa un anticipo della condanna. Il processo oggi è la pena. Ed è contrario al diritto. Quali sono le proposte di Italia Decide? Due priorità: la riforma dell’abuso d’ufficio e della responsabilità contabile. Due questioni che nutrono la cosiddetta “paura della firma”, quel blocco che agisce a livello amministrativo per timore delle responsabilità che ne possono derivare non soltanto per evitare un fatto illecito, ma per timore delle inchieste che possono derivare da una firma. Ed ecco che i funzionari pubblici non si espongono più al punto di non autorizzare spese e interventi necessari, essenziali. Per non sbagliare, tengono la penna in tasca. Ne ha iniziato a parlare anche il premier Conte. È un tema di riflessione sul quale richiamiamo il dibattito pubblico. Ne hanno parlato Conte ma anche Sabino Cassese, Paola Severino… sta finalmente cadendo un tabù. Il nostro Paese necessita di uno sblocco di sistema, non ci possiamo più permettere questa ritrosia alla firma. Mettiamoci nei panni del funzionario timoroso. Sì, guardiamo dentro all’avversione al rischio del pubblico funzionario. Quanto più incerto è il quadro di riferimento del pubblico funzionario, tanto più questa paura diventa elemento sistemico di blocco. E non si dà il via a lavori, a cantieri, ad appalti. E allora dobbiamo precisare cos’è l’abuso d’ufficio: il cittadino deve sapere cosa è lecito e cosa illecito. La prevedibilità della condotta e quindi della sanzione è essenziale, ed è un elemento di garanzia. La condotta illecita del pubblico ufficiale deve realizzarsi in relazione a leggi e regolamenti chiari. Dato che da noi leggi e regolamenti non sono chiari, ecco che l’abuso d’ufficio si moltiplica, diventa una costante. La burocrazia diventa carceriera di se stessa. È un sistema mostruoso, arricchito da principi di soft law: pensiamo ai provvedimenti Anac o a quelli AgCom. Se Anac dice che c’è bisogno di gara anche per appalti sotto soglia, ecco che i funzionari pubblici per timore aderiscono all’indirizzo Anac, complicandosi ulteriormente la vita. Un cambio di passo necessario. Sì, una chiave per liberare il sistema. Se il riferimento costituzionale è quello del buon andamento e della funzionalità della pubblica amministrazione, bisogna attenersi a questo principio. Possiamo immaginare di limitare il perimetro dell’abuso d’ufficio oppure ripristinare l’interesse privato. Perché su cento procedimenti di abuso d’ufficio circa l’80% vengono archiviati o prosciolti. E allora perché bloccare tutto, dalle macchine amministrative a quelle giudiziarie? Giustizia, cultura delle garanzie come antidoto al caos di Anna Rossomando* Il Riformista, 6 giugno 2020 Il caso Palamara mette a rischio la credibilità delle toghe. Ma per evitare derive sovraniste, non basta riformare il Csm: bisogna riportare il processo nelle aule, sottrarlo all’arena mediatica, e riprendere la riforma delle carceri di Orlando. Uue settimane fa, nel respingere l’attacco politico al governo con la bocciatura della mozione di sfiducia nei confronti del ministro Bonafede, siamo stati chiari: sulla giustizia bisogna riattivare la strada delle riforme, che segni una netta discontinuità con il governo giallo-verde. Ora più che mai, in un’epoca attraversata da populismi e sovranismi, la giustizia resta il punto più alto dell’equilibrio costituzionale nella separazione dei poteri e conseguentemente l’aspetto cruciale della tutela delle libertà di tutti. In questo quadro di riferimento si misurerà una vera cultura delle garanzie ed è fuori asse dibattere ancora dell’anacronistica contrapposizione tra giustizialismo e garantismo. Dobbiamo lasciarci alle spalle un dibattito sulla giustizia che negli ultimi trent’anni è stato lo specchio del deterioramento del confronto politico-istituzionale e della funzione stessa della politica. Oggi il rischio è l’accentramento del potere e dell’omologazione al più forte, l’esatta negazione della politica. Qualsiasi soluzione non può prescindere dal necessario riferimento all’equilibrio tra i poteri dello Stato così come sancito dalla nostra Costituzione. Il dibattito sulla giustizia si è riacceso in un momento difficile per le nostre istituzioni. Non si può negare che le recenti vicende portate alla luce dal caso Palamara impongano senza indugi la riforma del Csm; non c’è tempo da perdere perché è in gioco la credibilità della magistratura. Dopo il colpo subito non si può restare senza una risposta decisa e tempestiva delle istituzioni e, come ha affermato il Presidente della Repubblica Mattarella, questo intervento spetta alla politica e al Parlamento. Non illudiamoci però che la sola riforma del Csm risolva la questione, “tocca alla magistratura rifondare un patto etico e culturale nell’associazionismo giudiziario e nell’autogoverno”, come ha scritto Ezia Maccora. Tornando alla riforma non si tratta solamente di modificare il modello elettorale; sono diversi infatti i nodi da affrontare: nomine dirigenziali degli uffici giudiziari rigorosamente motivate, con l’inserimento nella valutazione di criteri oggettivi che limitino la discrezionalità; valorizzazione del ruolo dei consigli giudiziari rafforzando il peso dell’avvocatura per la formazione dei pareri da inviare al Csm, velocizzandone l’iter; separazione della funzione disciplinare da quella delle nomine. Sul metodo elettorale nessun sorteggio: non può essere il caso lo strumento di accesso al Csm. Eliminare la rappresentanza non è una soluzione, così come non lo è “abolire” le correnti; è la loro degenerazione che ha compromesso il pluralismo delle idee, necessario all’elaborazione di proposte sulla politica giudiziaria. La nostra proposta è sostituire il collegio nazionale con collegi più piccoli per riavvicinare la rappresentanza agli elettori; doppio turno per evitare localismit garanzia di parità di genere. Infine no alla preclusione per i parlamentari quali membri laici del Csm: vanno contrastati i rapporti impropri tra politica e attività del Consiglio, non la legittimità di chi ha ricoperto cariche politiche. L’urgenza della riforma del Csm non può in ogni caso oscurare la necessità di alcuni interventi prioritari come la riforma del processo penale e di quello civile, così come quella dell’ordinamento penitenziario. Cultura delle garanzie significa tempi ragionevoli, non l’annichilimento del processo, messo a rischio dagli opposti della prescrizione breve (di berlusconiana memoria) e della prescrizione mai. La prescrizione non è il modo di affrontare i tempi del processo. Servono misure deflattive, diverse risposte per le differenti domande di giustizia, completare l’informatizzazione dei servizi. Cultura delle garanzie è celebrare il processo nelle aule e non nella gogna mediatica. Dobbiamo proseguire sulla riforma del processo civile iniziata nella scorsa legislatura e anche in questo caso la priorità è di nuovo quella dei tempi: per renderla utile davvero a tutti i cittadini senza distinzione di censo e per diventare un supporto al sistema economico del Paese. Poi riprendere senza tentennamenti la riforma Orlando dell’ordinamento penitenziario, contrastando con coraggio la propaganda del “devono marcire in galera”. Quella riforma attingeva a un patrimonio di proposte elaborate dagli Stati Generali sull’esecuzione penale che aveva coinvolto le migliori competenze del settore. Il complesso di questi interventi ha come fondamento la tutela dei diritti nello stato di diritto. La cultura delle garanzie, radicata nei principi della nostra Costituzione e cifra delle democrazie liberali, è inconciliabile con nuovi e vecchi autoritarismi e si scontra frontalmente con la teorizzazione sovranista che inizia a vedere alcune applicazioni in Europa e non solo. La legittimazione e la credibilità delle democrazie liberali non passa per l’agitazione dei problemi o lo stantio tentativo di mantenimento dello status quo, ma vive nella capacità di intervento in settori nevralgici come la giustizia, con il tempismo necessario in una fase di crisi come quella che stiamo vivendo. *Vicepresidente del Senato e senatrice Pd Perché ci vuole la riforma del Csm: 60mila pagine di chat e la scoperta dell’acqua calda di Piero Tony Il Riformista, 6 giugno 2020 Mai avrebbe pensato il consigliere Palamara di poter avere il telefono sotto controllo, è chiaro che si sarebbe cautelato invece di parlare e far parlare in libertà. Né tanto meno avrebbe pensato che potessero sparare al passerotto con un missile a testata nucleare anziché con la solita fionda. Perché tale è la differenza tra l’iperpervasivo trojan, pardon captatore informatico, che documenta spezzoni di vita - ideato e prodotto solo per ragioni militari e di intelligence - ed il tradizionale impianto di intercettazione presso le procure (art. 268 cpp). La conferma? 60mila pagine di chat. Credo che le comunicazioni intercettate su misfatti di correntismo e politica nell’ambito del procedimento contro Palamara per corruzione semplice e corruzione in atti giudiziari (delitti che per loro titolo consentirono l’utilizzo del captatore, si dice che la corruzione in atti giudiziari sia stata poi archiviata) ed altri reati minori, pubblicate da alcuni giornali, siano niente più di un frame di una lunga storia sempre uguale che andiamo denunciando da decenni, la scoperta dell’acqua calda per intenderci. E credo che queste comunicazioni palesemente non abbiano alcun rilievo penale. E che pertanto, appena depositate, almeno in buona parte, avrebbero dovuto essere eliminate dal giudice, per la loro irrilevanza investigativa, nell’apposita “udienza stralcio” prevista dal Codice di procedura penale. Cosa non avvenuta, chissà per quale ragione. Come, chissà per quale ragione, per quanto si legge, pare che le intercettazioni presentino vuoti in circostanze topiche ed unidirezionali. Per tutti questi motivi credo che la loro pubblicazione su alcuni giornali sia avvenuta in violazione quantomeno del codice deontologico di autoregolamentazione. Stando così le cose, possiamo ora occuparcene? In caso di risposta affermativa, è libertà di stampa, diritto/dovere di cronaca o solo, come spesso ha celiato il Foglio, libertà di sputtanamento? E va distinto tra liceità di pubblicazione e liceità di scriverne e discuterne una volta che la pubblicazione sia ormai e comunque avvenuta? C’è poco da fare, come dal letame notoriamente può spuntare un fiore così dal trogolo di queste intercettazioni su commistione tra politici e magistrati può nascere un interrogativo etico: inutilizzabilità all’americana tamquam non esset, oppure utilizzabilità all’italiana visto che con l’avvenuta pubblicazione ormai i buoi sono scappati dalla stalla e, soprattutto, il danno diretto si è già verificato? Mi parrebbe grottesco ignorare il diritto di cronaca su qualcosa che è già avvenuto. Per di più maggiore informazione non può che essere di pubblico interesse ed utilità. Tutto quello che è emerso è la scoperta dell’acqua calda, si diceva, con la non piccola differenza che ora l’imperante malcostume giudiziario è comprovato al di là di ogni ragionevole dubbio, una sorta di ineffabile ed incontestabile documentario. Erano anni che andavamo denunciando lo strapotere dei pm sia al Csm che al ministero. Le logiche solo correntizie che governano il sistema giustizia; le tante indagini espletate secondo il vento politico; le nomine di dirigenti perfino distrettuali, senza la minima esperienza dirigenziale, decise sulla sola base del loro peso correntizio; i privilegi carrieristici concessi ai più maneggioni di corridoio a discapito dei magistrati più composti e più professionali. Palamara non è un mostro ma uno dei tanti nel sistema associativo. Sta scontando la presente vicenda vuoi per maggiore disponibilità (quasi da zelante attendente militare di una volta: organizzazione di cene carbonare, di inghippi per promozioni e nomine ma anche procacciamento di biglietti allo stadio… o aiuto per trovare casa… o presentazione a qualche vip) vuoi perché all’esito di codeste gare carrieristiche ci sono sempre vincitori che giubilano e vinti che sovente covano rancore ritenendo a torto o ragione di aver subito soprusi. Sarà pure solo un mediatore, come va dicendo. Non sarà il solo mostro, come ritengo. Ma di certo ha parlato e straparlato dicendo cose terrificanti. Ma andiamo con ordine. Quella della magistratura è una delle funzioni più importanti e per questo più protette dallo Stato. I magistrati la esercitano in nome del popolo, sono soggetti soltanto alla legge (art.101 Cost.), fanno parte di un ordine autonomo ed indipendente (art. 104 Cost.), sono inamovibili e si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni (art.107 Cost.). Come non bastasse, grazie alla legge Breganza della fine degli anni 60 il loro trattamento economico progredisce pressoché automaticamente… “basta che continuino a respirare” ironizzano i malintenzionati, e tutto ciò è sacrosanto perché - lo ha spiegato ripetutamente la Corte Costituzionale - l’automatismo corrisponde alla “peculiare ratio di attuare il precetto costituzionale dell’indipendenza e di evitare che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri”. Per questo giustamente sono stati eliminati i concorsi interni, si progredisce a ruoli aperti e le qualifiche cui è legata la progressione economica sono state sganciate dalle funzioni effettivamente svolte. Ne consegue che ad un magistrato non occorra molto coraggio per essere e restare tranquillamente autonomo ed indipendente nel suo operare, per mandare a quel paese chi possa osare di turbare la sua imparzialità con grilli da politicastro. Malgrado ciò il correntismo imperversa e si continua a fingere di non capire che politica e terzietà sono tra loro incompatibili. Malgrado tutto ciò imperversano carrierismo e lotte all’ultimo sangue quali quelle di cui si scrive. Da sempre. Ma soprattutto da quando nel 2006 (D.Lvo n.106/2006) le Procure sono state pesantemente gerarchizzate ed il procuratore della Repubblica è divenuto “titolare esclusivo dell’azione penale” e siccome comandare è meglio che far l’amore, come dicono… e siccome il criterio di anzianità da che era primo è diventato ultimo e dunque la discrezionalità è alta… tutto si spiega, compresi gli estemporanei lacchezzi intercettati, gli occhi dolci ai Palamara di turno e la dignità sotto i piedi. Perché appaiono terrificanti - come prima si diceva - le parole del consigliere Palamara? Perché disvelano uno scenario quasi irrealistico che non può non riverberarsi anche attorno a vicende trascorse. È terrificante il dialogo tra due magistrati che in quanto tali dovrebbero essere - così almeno usano autocertificarsi nelle correnti più di sinistra - “sentinelle della legalità”: il primo esprime stupore per un’incriminazione del ministro dell’Interno, in relazione alla nave Diciotti, in quanto a torto o ragione la ritiene abnorme, tanto che conclude con un “siamo indifendibili” e si sente rispondere da Palamara apertamente, ovvero senza arzigogoli, “hai ragione ma ora bisogna attaccarlo”. Ed il primo - un procuratore della Repubblica, credo di aver letto da qualche parte - non ribatte insultando ferocemente, come sarebbe stato giusto, o almeno esclamando ma che cavolo dici. Ma il discorso finisce lì per i due magistrati, che dovrebbero essere per dettato costituzionale autonomi terzi imparziali indipendenti. Nel paradosso che i magistrati per legge non possono essere iscritti a partiti politici ma, iscritti a correnti iperpoliticizzate ad essi contigue, possono invece organizzare un’allegra fronda politica al ministro dell’ interno. Analisi delle frasi: “siamo indifendibili” vuol dire che il ministro è indagato per un reato che non sussiste o comunque non ha commesso; “hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo” vuol dire che, sì d’accordo, è innocente ma il particolare è di nessuna importanza visto che per contingenti ragioni politiche bisogna continuare a tenerlo sotto processo. Argomentazioni che forse sanno di usurpazione. È terrificante perché siamo la patria di un procedimento scarsamente garantito dove magistrati di codesta risma potrebbero fare e disfare a loro piacimento. La patria dove, come scrisse Enzo Tortora alla sua Francesca, può accadere di tutto a tutti. La patria - come diceva Giovanni Falcone - di giudice e pm parenti tra di loro, del concorso esterno in concorso interno, dell’applicazione retroattiva della legge Severino, del rito accusatorio che più inquisitorio non si può visto l’assoluto predominio di indagini preliminari svolte alle spalle della difesa, delle azioni penali obbligatorie ma chiuse nei cassetti fino al loro spirare, dei non pochi massacri mediatici, delle inchieste senza fine che durano decenni quanto agli esecutori ed altri decenni quanto ai mandanti e delle sentenze definitive che non arrivano mai in tempo utile, etc. Terrificante perché, in un contesto così barbaro, il paradigmatico invito “hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo” da parte di chi - come le mitologiche tre Parche - quale potente big correntizio ed ex componente del Csm presiede i destini professionali dei magistrati potrebbe far ripensare al passato; in particolare potrebbe evocare e rendere comprensibili sia alcune sgangherate stagioni di guerra giudiziaria finite quasi tutte nel nulla, tipo quelle di Carnevale Berlusconi con Ruby, Mannino, Mori, Mafiacapitale sia la sorridente e fino ad oggi incomprensibile commiserazione per chi allora avesse temerariamente mostrato di dubitare sulla fondatezza delle impostazioni accusatorie. Per l’avvenuta conferma delle loro denunce, i cd garantisti dovrebbero finalmente gioire. Nulla di tutto ciò, lo scandalo non può che preoccupare ben sapendo come sia vitale ed insostituibile - per l’accettazione di qualsiasi giudizio - la funzione giurisdizionale esercitata con dignità e cultura, in modo autorevole credibile e terzo in nome del popolo (art.101 Cost.) con un giusto processo (art.111 Cost.). Ma si dice che non è mai troppo tardi. Dopo decenni di troppo paziente immobilismo urge uno scossone radicale, che faccia dimenticare le miserie messe in luce dal trojan e recuperare immagine ed efficienza mediante una trasformazione strutturale di tutto il sistema. Partendo dalla riforma del Csm mediante sistema misto tra sorteggio ed elezione, unico modo per evitare giri e promesse elettorali, aspettative e pretese, logiche di appartenenza. Dimenticando la riformetta Bonafede che bolle in pentola, a quel che pare ingenuamente incentrata su di un gattopardesco doppio turno con ballottaggio. E poi continuando con tutto quello che, al fine di armonizzare l’ordinamento giudiziario al codice di rito 1989, come ritornello si invoca inutilmente da sempre: separazione delle carriere, abolizione dell’impugnabilità da parte del pm delle sentenze assolutorie, abolizione del divieto della reformatio in peius, depenalizzazione degli ancora troppi illeciti bagatellari, “rianimazione” della fase dibattimentale, della difesa, del contraddittorio etc. Tanto per cominciare. Riformare il Csm con la nomina di un terzo dei componenti da parte del capo dello Stato di Vincenzo Lippolis Il Dubbio, 6 giugno 2020 La riforma del Csm è venuta alla ribalta dopo le recenti, non commendevoli vicende che hanno coinvolto alcuni dei suoi membri. È questione non nuova che torna ciclicamente, ma che non si è mai risolta. Rimane costante negli anni la critica all’organo di autogoverno della magistratura ordinaria di esercitare le proprie competenze in maniera corporativa, di essere condizionato da trattative e da scambi tra le correnti. Il ministro della giustizia si è impegnato a presentare un disegno di legge che modifichi la situazione attuale. Da quel che si sa, l’idea centrale è quella di intervenire con una legge ordinaria sul sistema elettorale del Consiglio e sui criteri di nomina per gli uffici. Per rompere le incrostazioni corporative, appare tuttavia opportuno modificare l’articolo 104 della Costituzione nella parte in cui disciplina la composizione dell’organo. Come è noto, il Csm è composto da tre membri di diritto (il Presidente della Repubblica che lo presiede, il primo presidente e il procuratore generale della cassazione), da venti componenti eletti dai magistrati e dieci eletti dal Parlamento in seduta comune. È la netta prevalenza dei componenti “togati” il nodo che si deve sciogliere. A tal fine sarebbe utile riprendere una proposta avanzata nel 2008 dall’ex presidente della Camera, Violante, e prevista in un disegno di legge dei senatori Compagna e Del Pennino: attribuire al Presidente della Repubblica la competenza a nominare un terzo dei membri non di diritto del Consiglio, facendo eleggere gli altri due terzi in numero uguale dai magistrati e dal Parlamento. Si avrebbe così una composizione che riecheggerebbe quella della Corte costituzionale. La nomina presidenziale di un terzo dei componenti darebbe maggiore spessore e significato alla presidenza dell’organo da parte del capo dello Stato e, provenendo da un organo di garanzia, potrebbe svolgere una funzione equilibratrice, evitando la prevalenza dello spirito corporativo e correntizio o la possibile influenza della politica. Per evitare la critica di voler rendere minoritaria la componente dei magistrati si potrebbe poi prevedere che i componenti di nomina presidenziale non debbano necessariamente appartenere alle categorie degli eleggibili dal parlamento (professori universitari in materie giuridiche e avvocati con quindici anni di esercizio), ma possano essere anche dei magistrati. Starà al prudente giudizio del capo dello Stato bilanciare le nomine di sua competenza. Il problema della più idonea composizione del Consiglio superiore della magistratura non è di oggi, ma fu oggetto di attenta analisi, di incertezze e di opinioni divergenti in seno alla Costituente. Da un lato, non si voleva far correre il rischio di una angusta chiusura di tipo corporativo, dall’altro, si temeva di scalfire l’indipendenza della magistratura. Non è inutile ricordare però che il progetto elaborato dalla Commissione dei settantacinque prevedeva una composizione paritaria tra “togati” e “laici” e che solo un emendamento presentato in assemblea dall’onorevole Scalfaro fissò la proporzione due terzi e un terzo. Prevedendo un intervento equilibratore del Presidente della Repubblica si potrebbe sciogliere il dilemma che si erano posti i costituenti. Violenza sulle donne, l’altra pandemia di Laura Salvinelli Il Manifesto, 6 giugno 2020 Centri antiviolenza. Voci dal centro GiuridicaMente Libera del Pigneto a Roma e da altri centri, allertati durante il lockdown. “La separazione per me non è stata una liberazione ma un aumento di tensione, perché mentre il pazzo in casa in qualche modo lo gestivo, fuori casa è diventato una scheggia impazzita. Ogni giorno che mi alzo mi chiedo cosa succederà oggi. Sono sempre sotto botta, mi sembra che la vita mi abbia puntato. E ora col Coronavirus le cose si sono aggravate: io e i miei 2 figli stiamo uno sui piedi degli altri, la didattica, che è il mio lavoro, non funziona a distanza, devo fare i compiti per i ragazzi che sono peggiorati, uno spacca la casa… e io non sono la dea Kalì”. Una donna vittima di violenza è in colloquio con un’operatrice del centro antiviolenza dell’organizzazione di volontariato GiuridicaMente Libera del Pigneto a Roma. Siamo nella fase 2 del lockdown e con le dovute precauzioni stanno ricominciando gli incontri. Chiedo a Giulia Masi, avvocata, presidente dell’associazione e operatrice, una storia per avere un’idea di come stanno aiutando le donne durante la pandemia. “Comunicando solo attraverso WhatsApp siamo riuscite a organizzare la fuoriuscita da casa di una donna che il marito aveva provato ad affogare e l’abbiamo messa in protezione. Le abbiamo scritto su messaggi tutto quello che doveva portarsi via e nell’arco di mezza giornata l’abbiamo sostenuta nel lasciare la casa, è stato più semplice perché non ha figli. Con la scusa di andare a fare la spesa è uscita e non è più tornata. Abbiamo finalmente potuto vederla in volto con una videochiamata. L’abbiamo messa in protezione in un residence convenzionato poiché le case rifugio, che hanno già pochissimi posti disponibili, non sono sufficienti per accogliere nuove donne durante l’epidemia”. Le operatrici del centro emanano energia femminista attiva. Anche se formate, ci tengono a non professionalizzare il tema della violenza di genere, che non è solo un problema legale o psicologico ma soprattutto culturale, e va affrontato innanzitutto attraverso una relazione fra donne alla pari. A tutelare la donna, non assisterla. Considerano la violenza di genere una questione culturale, non una psicopatologia sociale. GiuridicaMente Libera è una delle 130 realtà tra associazioni, gruppi di auto mutuo aiuto, centri antiviolenza, sportelli, case rifugio, professioniste, eccetera della rete nazionale Reama per l’empowerment e l’auto mutuo aiuto della Fondazione Pangea Onlus. Reama ha uno sportello online che mette le donne in contatto con l’aiuto più vicino. Simona Lanzoni è coordinatrice di Reama, vicepresidente di Pangea e del Grevio del Consiglio d’Europa, il gruppo di esperte in azione contro la violenza di genere e la violenza domestica. Ha denunciato l’iniziale crollo delle richieste d’aiuto ai centri nonostante l’aumento della violenza e l’inaccessibilità delle case rifugio. Le domando se le denunce hanno avuto effetto, com’è la situazione ora e cosa propone per il post-emergenza: “Il Ministero dell’Interno e il Dipartimento delle pari opportunità hanno messo a disposizione nuove case rifugio, anche se non sappiamo quante siano e se saranno permanenti; le procure, la polizia e la magistratura hanno accelerato le procedure e sono stati emessi più ordini di protezione per le donne soprattutto in ambito penale; il Dipartimento per le pari opportunità ha lanciato una grande campagna informativa per cui le donne sono tornate a chiedere aiuto, anche se avrebbero dovuto tradurla almeno in inglese, francese e arabo perché nei servizi bisogna considerare tutte le donne, anche le straniere. Insomma una risposta da parte delle istituzioni c’è stata, anche se parziale. Il vero problema è stato quello della tempestività, cruciale durante le emergenze. È pure vero che è stata la prima grande emergenza che ha coinvolto 60 milioni di persone: diciamo che è stata una prova collettiva, una bella lezione per tutta l’Italia. Ora si deve lavorare per consolidare e portare avanti le buone pratiche attuate in questo periodo. Secondo me è pure fondamentale considerare la violenza subita dai minori. Uno dei grossi nodi del periodo è che i figli sono rimasti chiusi in casa con le mamme e se c’è stata violenza, l’hanno subita anche loro, almeno psicologicamente, se non anche fisicamente. È allarmante che ancora le istituzioni non si rendano conto di quanto la violenza assistita incida sul rigenerare la violenza per la coazione a ripetere, o come vittime o come carnefici”. Conclude le sue riflessioni sul Coronavirus: “Credo che dopo l’emergenza bisognerà ripartire prendendo in considerazione le raccomandazioni del Grevio, cioè: prevenzione, protezione e perseguimento dei colpevoli, il tutto con l’idea delle politiche integrate”. Infine, le chiedo se pensa come me che quella che quella scatenata contro Silvia Romano sia violenza misogina. “Io la vedo come violenza su Silvia solo perché donna. Quando si parla degli uomini non si sente dire mai niente. Forse perché sono le donne che dovrebbero fare i discorsi violenti nei loro confronti? Forse questo dimostra che le donne non sono così violente?” “Alle donne dico: ribellatevi agli uomini violenti” di Andrea Priante Corriere del Veneto, 6 giugno 2020 “Spero che tutto ciò che mi è capitato possa servire ad altre. È questo che voglio dire alle donne: se siete vittima di violenze, denunciate chi vi fa del male”. L’ex compagna di Felice Maniero esce allo scoperto. “Almeno spero che tutto ciò che mi è capitato possa servire ad altre. Ora che sono al sicuro in una struttura protetta, ora che delle persone si stanno prendendo cura di me, ho finalmente capito quanto sia importante trovare il coraggio di ribellarsi. È questo che voglio dire alle donne: se siete vittima di violenze, denunciate chi vi fa del male”. L’ex compagna di Felice Maniero esce allo scoperto. E lo fa affidando al suo legale, l’avvocato Germana Giacobbe, le risposte alle domande che il Corriere del Veneto le ha posto nei giorni scorsi. La donna, una padovana di 48 anni, ha riflettuto a lungo se valesse la pena parlare dopo che la storia della sua turbolenta separazione dall’ex boss della Mala del Brenta è finita su tutti i giornali. Ha deciso di farlo adesso, all’indomani della condanna di Faccia d’angelo a quattro anni di carcere per il reato di maltrattamenti, decisa dal tribunale di Brescia. “La sentenza non mi ha colto di sorpresa - fa sapere la donna - sapevo che ciò che stavo raccontando non era nient’altro che la verità. In questi mesi, lui ha fatto capire che mi sarei allontanata solo perché non riusciva più a garantirmi i lussi di un tempo, ma è una bugia. In venticinque anni di convivenza ne abbiamo passate di tutti i colori: periodi belli, in cui eravamo felici, ma anche momenti difficili. Senza contare che le difficoltà economiche si trascinavano già da alcuni anni”. Non vuole entrare nel dettaglio di quanto emerso durante il processo: le botte, gli insulti e le umiliazioni divenute quotidiane. “Non cerco vendetta, non l’ho mai voluta”, assicura. “Quando ho confidato ai medici ciò che mi capitava tra le mura domestiche, non l’ho fatto con l’obiettivo di fargli del male. Ricordo di aver avuto un crollo emotivo, non ce la facevo davvero più ad andare avanti in quel modo. Sia chiaro, non rinnego nulla di ciò che ho fatto: è una verità che andava raccontata”. Ma adesso - dice - è tutto passato. “Non mi sento più minacciata”, spiega. Dal giorno dell’arresto di Felicetto, la sua ex compagna vive in una comunità fuori regione, specializzata proprio nel sostenere le donne vittime di violenze domestiche. “Dopo tutto quello che è capitato, ora voglio solo pensare un po’ a me stessa: al futuro mio e di mia figlia. Voglio lavorare e darmi da fare per ricostruirmi una nuova vita”. L’avvocato Germana Giacobbe è soddisfatta della sentenza: “Il giudice ha ritenuto coerente e credibile la ricostruzione delle violenze subite. Ora la mia cliente può affrontare con serenità il percorso che la porterà a non essere più soltanto la compagna di un ex boss della criminalità organizzata”. Intanto proprio ieri sono state pubblicate le motivazioni della condanna. Il giudice Roberto Spanò ritiene accertata “al di là di ogni ragionevole dubbio la responsabilità dell’imputato”. Il racconto delle violenze fatto dalla vittima viene definito “affidabile”, “coerente”, con un “elevato coefficiente di realismo e verosimiglianza”. Nel definire la condanna a 4 anni, il magistrato ha tenuto conto sia “dell’alluvionale sequenza di imprese criminali di elevatissimo allarme sociale” che contraddistinguono il passato di Maniero, sia “i comportamenti violenti e manipolatori tenuti in carcere”. E proprio nella prigione di Voghera, spiega il giudice, in questi mesi Felicetto si è scatenato, con iniziative che - secondo la stessa direzione puntavano a “destabilizzare l’ordine e la sicurezza dell’istituto”, ma anche con aggressioni degli altri detenuti. Frequenti le risse. È stato perfino denunciato con l’accusa di “progettare di compiere l’omicidio di un carcerato mediante una legna a punta creata artigianalmente”. Milano. L’avvocato paralizzato dopo una caduta in Procura: nessuno a processo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 giugno 2020 Antonio Montinaro, 32 anni, non può più camminare dopo essere caduto, il 18 gennaio 2019, dal troppo basso parapetto della scala Y del 4° piano. I pm di Brescia archiviano magistrati e ministero. All’interno dei Palazzi di Giustizia italiani - è la tesi della Procura di Brescia competente sulle gravi lesioni riportate da Antonio Montinaro, il 32enne avvocato paralizzato a seguito della caduta il 18 gennaio 2019 dal troppo basso parapetto della scala Y del 4° piano della Procura di Milano - un conto sarebbero gli spazi adibiti ad attività giudiziaria, luoghi di lavoro nei quali le violazioni delle norme sulla sicurezza antinfortunistica potrebbero essere in ipotesi ricondotte alla responsabilità dei capi degli uffici giudiziari quali “datori di lavoro”; e un altro conto sarebbero gli spazi comuni (come scale e pianerottoli), non adibiti ad attività giudiziaria, che esulerebbero dall’ambito dei capi-ufficio per ricadere invece nella sfera di competenza dell’”ente proprietario”. In base a questa interpretazione la Procura di Brescia chiede l’archiviazione dell’ipotesi di reato per la quale (senza che si fosse saputo) aveva indagato, come posizioni di garanzia, sia i capi degli uffici giudiziari (il procuratore Francesco Greco, la presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi, l’allora procuratore generale Roberto Alfonso, il presidente del Tribunale Roberto Bichi), che dal 2015 avevano più volte scritto al ministero della Giustizia sull’urgenza di mettere in sicurezza i tanti parapetti alti appena 75 centimetri; sia l’allora direttore generale delle Risorse materiali del ministero, Antonio Mungo. E l’”ente proprietario”, non specificato dall’archiviazione? Nello stratificarsi di norme parrebbe appunto non dover essere identificato nel ministero della Giustizia, dal 2015 subentrato ai Comuni nel pagare le spese di funzionamento dei Palazzi di Giustizia, ma non “proprietario” degli immobili, che invece nelle varie città appartengono o al Comune o (come a Milano) all’Agenzia del Demanio sottoposta agli indirizzi del ministero dell’Economia. Ma la pm Ketty Bressanelli, il procuratore aggiunto (a lungo reggente l’ufficio) Carlo Nocerino e il neoprocuratore Francesco Prete non procedono a indagare altri soggetti perché la ritenuta distinzione tra luoghi di lavoro giudiziario e spazi comuni comporta che - diversamente dalla procedibilità d’ufficio degli infortuni nel primo caso (quelli con i capi-ufficio teorici “datori di lavoro” ai fini della sicurezza sul lavoro) - l’infortunio in uno spazio comune (la scala) sarebbe invece procedibile per legge solo su querela della parte offesa. Che però non c’è, perché non fu sporta nel 2019 dai legali dell’avvocato. All’epoca, infatti, e già nella visita a Milano subito dopo il dramma, il Guardasigilli Alfonso Bonafede aveva assicurato che il ministero (che ha poi stanziato 650.000 euro per la sicurezza delle balaustre) sarebbe stato vicino allo sfortunato avvocato. In effetti il suo legale Gian Antonio Maggio conferma che via Arenula, in attesa dello stabilizzarsi dei danni, ha sempre manifestato totale disponibilità a risarcire Montinaro (in via diretta, non esistendo copertura assicurativa). Tuttavia l’intento non si è ancora tradotto in concreto, anche per le remore di Avvocatura dello Stato e Corte dei Conti a esborsi (qui sarebbe una cifra tra 1,2 e 2 milioni) in assenza di titoli esecutivi. Il legale dell’avvocato ha proposto un negozio ricognitorio di debito (cioè un atto con il quale il debitore riconosce il debito a seguito di una transazione), ma sinora senza risultati, e spiega quindi di stare per instaurare un’ordinaria causa civile. Più in generale sarà interessante vedere l’esito della richiesta di archiviazione. Sia sulla distinzione spazi di lavoro/spazi comuni, già non intuitiva in una scala, specie se come qui a due passi (e quindi per forza percorsa) per accedere ad esempio all’Ufficio deposito atti. Sia sulla possibilità che “datori di lavoro”, negli spazi adibiti a funzioni giudiziarie, siano considerati quei capi-uffici che rimarcano invece di non avere gli “autonomi poteri decisionali e di spesa” che per legge identificano il datore di lavoro. Padova. Nel lockdown meno reati contro il patrimonio ma più truffe online di Elisa Fais Il Gazzettino, 6 giugno 2020 Calano i reati nel padovano in tempo di Coronavirus: si dimezzano quelli contro il patrimonio e aumentano le truffe on-line. É il bilancio dell’attività portata avanti dai carabinieri durante i primi cinque mesi dell’anno, i dati sono stati presentati ieri in occasione della Festa dell’Arma. Da gennaio a maggio sono stati commessi 9.295 reati sul territorio, a fronte dei 12.978 dello scorso anno. Sono state arrestate 154 persone e altre 1.520 denunciate in stato di libertà. Nonostante l’emergenza sanitaria in corso, dall’inizio dell’anno sono stati svolti 7.500 servizi esterni con l’impiego di 14.500 militari. A questi si vanno ad aggiungere tutti i servizi per il mantenimento dell’ordine pubblico, per un totale di 3.313, con impiego di 6.800 militari. Il report evidenzia un deciso decremento dei reati contro il patrimonio: 3.475 da gennaio a maggio di quest’anno contro 6.014 nello stesso periodo nel 2019. In calo anche le rapine, commesse prevalentemente per strada, che da 79 sono diventate 61. Si nota, invece, un leggero incremento (da 1.263 a 1.296) delle truffe commesse via web, da mettere in stretta correlazione con la permanenza forzata in casa delle persone che ha comportato un maggiore ricorso al commercio on line per l’acquisto di merce, con relativo aumento dell’esposizione ai raggiri da parte di malintenzionati che vendono sul web generi di qualsiasi natura, promettendone l’invio dopo il pagamento, senza mantenere fede all’impegno. Il forte contrasto alla diffusione degli stupefacenti, da subito affrontato con la pianificazione di servizi dedicati nelle aree cittadine più sensibili, ha dato i suoi frutti. Il numero di reati scoperti passa da 207 dello scorso anno, a 268. In questo particolare settore sono state denunciate in stato di libertà 228 persone, mentre ne sono state arrestate 40. Sono stati sequestrati complessivamente 400 grammi di cocaina, 350 grammi di eroina, 300 grammi di hashish e 1.600 piante di marijuana. Durante l’emergenza sanitaria i carabinieri sono stati impegnati su vari fronti con l’obiettivo di contenere la diffusione del Coronavirus. Sin da subito i militari hanno presidiato l’ospedale di Schiavonia e il comune di Vo’: oltre a svolgere i servizi di vigilanza ai punti di accesso delle due località, numerosi sono stati gli interventi a favore della popolazione. Tra le attività a sostegno delle fasce più deboli, si ricorda il ritiro e la consegna della pensione per conto degli anziani impossibilitati a muoversi di casa e la distribuzione di generi alimentari e beni di prima necessità alle famiglie in difficoltà.Le celebrazioni per il 206esimo anniversario dell’Arma a Padova, come nel resto d’Italia, si sono svolte in un clima di sobrietà. Durante l’evento sono stati ricordati tutti coloro che hanno perso la vita a causa dell’epidemia, tra cui anche numerosi carabinieri che hanno contratto il virus durante lo svolgimento del servizio a favore delle comunità. Il comando provinciale carabinieri di Padova ha alle dipendenze cinque Compagnie e cinquanta stazioni nei vari comuni del territorio. Tra le operazioni portate a termine negli ultimi mesi si ricorda quella dei carabinieri della compagnia di Este che, insieme ai militari della stazione di Santa Margherita d’Adige, hanno sequestrato beni mobili, immobili e rapporti bancari nei confronti di sei persone (cinque residenti a Borgo Veneto e una a Este, di cui tre in carcere e una agli arresti domiciliari) per un valore complessivo di 300 mila euro. Il clan di origine croata e sinti è stato accusato di almeno diciotto furti in appartamento commessi in Veneto e Toscana fra l’aprile 2018 e il febbraio successivo. Tutto era partito dagli accertamenti patrimoniali nei confronti delle persone facenti parte del sodalizio criminale. Sanremo (Im). Dai detenuti 100 kg di alimenti per la colletta della Caritas La Stampa, 6 giugno 2020 Con la mediazione del cappellano don Alessio Antonelli. La Caritas dice grazie ai detenuti del carcere di Sanremo che con la mediazione del cappellano don Alessio Antonelli hanno contribuito alla colletta alimentare promossa dalla Caritas diocesana per le famglie in difficoltà a causa della crisi economica provocata dal coronavirus. Alla fine sono stati cento i chili di prodotti alimentari acquistati dai reclusi e consegnati a Caritas che ha realizzato e consegnato i “pacchi di sostegno” ai bisognosi. “Un grazie di cuore a quanti hanno contribuito - è stata la risposta arrivata dal Centro Ascolto Caritas di Sanremo - nonostante i detenuti siano in una difficile condizione hanno voluto condividere le loro poche risorse per questo gesto di grande solidarietà”. Una prova concreta, insomma, di recupero sociale nell’ambito di quel percorso di riabilitazione che deve essere al centro della rinascita di chi ha sbagliato e sta pagando il contro dietro alle sbarre. Caritas, sempre ieri, ha attivato un’altra collaborazione con i penitenziari di Sanremo e Imperia mettendo a disposizione cinque posti per i reclusi senza fissa dimora che non potevano usufruire delle agevolazioni che consentono a chi ha meno di 18 mesi di pena residua di lasciare la cella (tre sono già stati occupati). Il presidente del consiglio regionale Alessandro Piana ha ringraziato pubblicamente ieri il sovrintendente della polizia penitenziaria del carcere di Sanremo Vincenzo Carpentieri che durante l’emergenza Covid-19 ha realizzato insieme alla moglie 1500 mascherine donate alla Croce Verde di Arma e agli agenti suoi colleghi. Un’attività termine durante il tempo libero. Franca Leosini: “Nei delitti si nascondono le grandi passioni della vita, l’amore e la tragedia” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 giugno 2020 “Il mandante di un delitto è un vigliacco che si macchia la coscienza ma non si sporca le mani? Oppure accade che paghi per una colpa che non ha commesso?”: è con questo interrogativo che domenica 7 giugno riparte su Rai 3 alle 21:20 Storie Maledette, condotto da Franca Leosini. Saranno solo due gli appuntamenti in quanto, a causa della pandemia di coronavirus, non è stato possibile per la troupe entrare in carcere per le interviste. Franca, quale sarà la prima storia maledetta di questa stagione? Mi occupo di una vicenda giudiziaria quando credo che quella storia abbia in sé elementi di drammatico interesse sul piano umano e sociale. Il titolo della prima puntata, in onda domenica 7 giugno su Rai 3 alle 21:20, è “ Quello scotch che sigilla un mistero”.È il delitto di Dina Dore, 37 anni, uccisa da due killer: solo uno dei due per la giustizia ha un nome. L’omicidio di Dina Dore è avvenuto nel 2008 a Gavoi in Sardegna: colpita nel garage di casa da un oggetto contundente, Dina poi è stata soffocata con del nastro da imballaggio che le ha chiuso il respiro. Accanto a lei figlia di soli 8 mesi. Ho incontrato Francesco Rocca, marito della vittima, condannato all’ergastolo con l’accusa di essere stato il mandante dell’omicidio. È una storia di Barbagia: e la fantasia corre ai pastori, corre ai grandi sequestri di persona. E invece è una storia di passione che si è conclusa in tragedia. La seconda storia invece di cosa tratterà? Protagonista della seconda storia, in onda domenica 14 giugno alle 21:20 su Rai 3, è Sonia Bracciale, una giovane donna condannata a 21 di reclusione con l’accusa di essere stata la mandante del pestaggio che ha portato alla morte del marito Dino Reatti. Titolo della puntata è “Quegli amori fatali”. In questa serie di Storie Maledette ho preso in esame vicende nelle quali i protagonisti - che tuttora si professano innocenti - sono i mandanti della grande tragedia. Ma chi è il mandante di un delitto? È un vigliacco che si macchia la coscienza ma non si sporca le mani? Oppure accade che paghi per una colpa che non ha commesso? Io spero sempre che anche coloro che, condannati, si professano innocenti siano colpevoli; sarebbe, infatti, terribile se stessero scontando un ergastolo senza colpa alcuna. In media in un anno ci sono 1000 errori giudiziari. Io nutro un grande rispetto per la magistratura. Peraltro se non avessi fatto la giornalista, avrei scelto la strada della magistratura. Esistono gli errori giudiziari, però dobbiamo sempre pensare che i magistrati sono uomini e possono sbagliare. Negli ultimi anni è corrente l’uso del termine “femminicidio”. Qual è il tuo parere? È un termine che detesto, lo ritengo una definizione quasi offensiva. Le donne sono donne, non sono femmine. Si tratta di omicidio che ha per vittima una donna. Esiste per caso il maschicidio? Con le tue storie maledette, hai contribuito a riaprire però anche dei casi giudiziari. Ce ne puoi ricordare uno? Si tratta di una storia di oltre venti anni fa, ed è quella degli amanti diabolici del Viminale. Ritenevo innocente Massimo Pisano, condannato in tre gradi di giudizio all’ergastolo con l’accusa di essere il responsabile dell’omicidio della moglie, perché innamorato di un’altra donna. Con la mia intervista ho contribuito in modo determinante alla revisione del processo. Massimo Pisano è stato assolto. E cosa hai imparato stando a contatto con il mondo del carcere ormai da decenni? Un detenuto una volta ha paragonato il carcere ad una cantina sociale: nella cantina si gettano gli oggetti che non ci servono più, nel carcere abbandoniamo le persone di cui non vogliamo curarci. Come giudichi l’attuale condizione delle carceri? Il carcere è un luogo di pena, intesa anche come sofferenza. È la conclusione drammatica del destino di persone che pagano duramente per l’errore commesso. Ci sono in Italia strutture all’avanguardia - Opera, Bollate, Rebibbia, per citarne alcune. Altre, sono meno attrezzate. È importante che i detenuti possano anche studiare e lavorare. Ma definire il carcere una cantina sociale significa offendere non le strutture penitenziarie ma coloro che in quelle strutture con grande impegno operano. Ho grandissimo rispetto per il lavoro, troppe volte sottostimato, dei direttori delle carceri, che sono spesso donne, e degli agenti di custodia: svolgono un lavoro duro, delicato, impegnativo sul piano umano. Storie Maledette nasce nel 1994. Che progetti hai per il tuo futuro professionale? Sono napoletana, quindi scaramantica: posso solo dirti che ho in mente un altro progetto che spero di realizzare. Amo però moltissimo Storie maledette e pertanto mi auguro che continui ad incontrare in futuro il gradimento del pubblico. Da dove nasce il tuo interesse per il noir? Nei noir scorrono tutte le grandi passioni della vita. Nelle mie storie queste passioni si sono tradotte in tragedia. Per passioni intendo tutti i rapporti interpersonali, compreso quelli tra genitori e figli, oltre naturalmente quelli tra amanti. Ricordo quando nel 2008 intervistai Aral Gabriele. Ventisette anni all’epoca dei fatti: nel 2002 uccise i genitori. Li amava troppo e non sapeva come dire che non si stava per laureare, come aveva fatto loro credere. Ha scelto la morte pur di non dare a quei genitori amatissimi un dolore. Dietro un delitto c’è molto spesso un grande amore. Gli ospiti di Storie Maledette sono spesso persone che molti considerano mostri. Sono il male assoluto, individui che non avrebbero diritto neanche alla parola, come molti hanno ritenuto quando per Storie Maledette hai intervistato Antonio Ciontoli, condannato per il colpo di pistola che ha spezzato la giovane vita di Marco Vannini. Tutti hanno il diritto alla parola, così come è giusto che paghino per la colpa di cui si sono resi responsabili. “Liberaci dai nostri mali”, l’inchiesta nelle carceri italiane di Katya Maugeri recensione di Saro Faraci sicilianetwork.info, 6 giugno 2020 I giornali non hanno al loro interno le pagine di cronaca grigia. C’è la cronaca nera, quella bianca, la rosa, la giudiziaria e la sportiva e così via, ma non c’è la cronaca del grigio, il colore che esprime le diverse prospettive di vista. Un colore che cambia significato a seconda di come lo guardiamo, proprio perché si presta ad essere un punto di sosta, di osservazione, di considerazione e valutazione del mondo circostante. Il grigio dona un momento particolare per prendere respiro oltre la frenesia della vita quotidiana. Per questo motivo, il colore grigio lo si trova solo nelle inchieste, come quella sulle carceri italiane con cui Katya Maugeri, giornalista e direttrice del nostro giornale Sicilia Network, ha dato vita al suo libro-racconto Liberaci dai nostri mali pubblicato nel 2019 da Villaggio Maori Edizioni, vincitore del premio Etna Book come miglior opera prima, presentato ieri pomeriggio in occasione di una diretta Facebook presto disponibile su YouTube sul canale ufficiale della casa editrice, in cui, oltre all’autrice, hanno preso parte Vera Navarria e il sottoscritto. Il grigio è il colore del sospeso, tra il bianco e il nero, tra il bene e il male, ma nessuno può vivere a lungo in una condizione di grigio, o di amarlo a lungo. Se da un lato questo colore ci insegna a gestire le emozioni, ad osservarle e a scegliere come esprimerle e dona quel momento sospeso di attesa, necessario per spegnere i condizionamenti ed aprire il cuore; dall’altro lato il grigio è incertezza, tristezza, malinconia, è il colore delle ceneri. È una cromia ricca, più volubile rispetto a tutti gli altri colori, compreso il nero da qui spesso originano i fatti tratteggiati in Liberaci dai nostri mali. Bisogna prendersi dunque qualche ora per leggere tutto d’un fiato il libro racconto di Katya Maugeri dove, varcando il cancello delle case circondariali ed incontrando i detenuti, sono riportate sette storie di sette uomini che hanno commesso crimini e stanno scontando la loro pena. Questi uomini però dentro il carcere hanno provato, anche con l’ausilio di tanti programmi di rieducazione come quelli ex art. 21, a ricostruire un percorso di umanizzazione, non sempre completo, assai travagliato e sicuramente imperfetto, ma pur sempre umano. La giustizia, ricorda l’autrice in una delle tante “ore d’aria”, ha diverse sfaccettature. Ce n’è perfino una dialogica e riparativa, rigenerativa e ristorativa, che si sforza di umanizzare la pena. Ma ha bisogno di grande maturità di tutti e dell’indispensabile funzione dei mediatori nel far incontrare rei, vittime, familiari e la società civile, superando i pregiudizi, ma rispettando pure il dolore di chi ha subito il crimine. Limitandosi ad osservare e ad ascoltare, come dovrebbe fare sempre un buon giornalista, ma provando pure a decodificare le emozioni dei suoi interlocutori come deve far sapere chi scrive un libro, l’autrice ha provato a ripercorrere il cammino inverso di uomini dalle vite storte, i detenuti che, ossessionati fuori dall’amore il potere (il denaro, la droga, il possesso, la violenza), all’interno del carcere si sono lasciati sedurre lentamente dal potere dell’amore, gli affetti, l’amicizia, la famiglia. Amore che magari non hanno mai conosciuto prima, per via di una infanzia difficile, o che hanno perduto, sciupato e lacerato per via della loro condotta criminale e che adesso provano a riconquistare. Ieri pomeriggio, nella presentazione di “Liberaci dai nostri mali”, il libro di Katya Maugeri abbiamo provato a rileggerlo così, senza entrare nel dettaglio delle sette storie e delle altrettante ore d’aria che, con profonde riflessioni sulle condizioni carcerarie in Italia, anticipano i contenuti di ogni racconto. Lo abbiamo riletto cercando di capire se, invertendo l’ordine dei fattori, cioè amore e potere, il risultato si modifica e sicuramente cambia. Lo abbiamo riletto, provando a decifrare se nelle storie raccontate, i protagonisti siano più affascinati dall’idea della libertà di, cioè la suprema facoltà umana di scegliere e la conseguente responsabilità delle proprie azioni, piuttosto che dal desiderio di libertà da, che è liberazione da qualcosa (il carcere), ma diventa pure paura dell’ignoto perché, oltre le sbarre, la società non ha mai un occhio di riguardo per gli ex detenuti. Lo abbiamo riletto, infine, guardando ai canoni della scrittura, ai codici del linguaggio utilizzati da Katya Maugeri. È una scrittura generativa quella di Liberaci dai nostri mali che attraversa tutte le tre fasi tipiche della generatività: quella creativa, di ideazione delle storie-racconti; quella organizzativa, del prendersi cura, sia dei protagonisti delle storie che delle parole utilizzate per descriverne emozioni e sensazioni; infine la fase transitiva, del lasciar andare dove non ci sono conclusioni, perché ogni lettore è libero di trovarle da solo e a seconda delle proprie inclinazioni emotive, e dove non si conosce nemmeno la fine delle sette storie perché alcuni dei protagonisti non usciranno mai più dal carcere, altri invece si aggrappano alla speranza che, però, nel libro della Maugeri è sempre l’ultima a morire, non è la prima a nascere. E anche questa è una condanna. Un’ultima notazione di colore. Ma non è colore grigio. Il termine “vita” è uno dei più utilizzati e viene riportato 55 volte nelle quasi cento pagine del libro-racconto. Sarà un caso? Nell’inchiesta di Katya Maugeri la scrittura diventa proiezione della vita ed aguzza i sensi. Per leggere con le orecchie e per sentire con gli occhi. Francia. Aumentano le denunce di razzismo nella polizia di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 6 giugno 2020 Il ministro degli Interni francese, Christophe Castaner, ha sollecitato ieri la Procura della Repubblica ad aprire un’inchiesta sull’ultimo caso di razzismo nella polizia scoperto online: in un gruppo Facebook di 8mila utenti, dei poliziotti si sono scambiati foto e frasi ingiuriose su neri e arabi. L’odioso episodio fa il paio con quello di Rouen: dopo la denuncia di un poliziotto nero, 6 suoi colleghi sono passati al consiglio di disciplina per i messaggi razzisti su Whatsapp. La questione del razzismo e della violenza della polizia è tornata in questi giorni in primo piano in Francia, sull’onda delle proteste negli Usa. Oggi, sono state convocate due nuove manifestazioni di fronte all’ambasciata americana, per George Floyd - ma soprattutto per avere la verità su Adama Traoré, ragazzo nero di 24 anni morto in un commissariato della banlieue parigina nel luglio 2016. Il prefetto Didier Lallement ha proibito le manifestazioni per ragioni sanitarie, ma ha anche evocato gli scontri che hanno avuto luogo in coda alla manifestazione, anch’essa proibita, di martedì scorso per Adama, che ha riunito 20mila persone di fronte al nuovo palazzo di giustizia (ieri uno dei 18 arrestati è stato condannato a 8 mesi di carcere). Altre manifestazioni hanno avuto luogo in questa settimana in varie città di provincia. Ma la Ligue de défense noire africaine non ha annullato la protesta: “Manifestare è un diritto inalienabile” sottolineano, tanto più quando le violenze razziste esplodono. Il governo cerca di riportare la calma. La portavoce, Sibeth Ndiaye, ha giustificato la decisione del prefetto: “Se abbiamo proibito le riunioni di più di 5mila persone in tutta la Francia è perché c’è una ragione sanitaria, chi ha voglia di manifestare deve trovare un altro modo per esprimersi”. Sibeth Ndiaye ammette che le manifestazioni di questi giorni “rivelano un certo malessere, almeno presso una parte dei francesi, quindi dobbiamo ascoltare ed essere capaci di dare una risposta”. La portavoce non ritiene però che “la polizia in Francia sia razzista in modo organizzato, anche se ci sono individui che possono esserlo”: “Il nostro paese non è razzista, lo dico e lo ripeto con molta forza, sono felice di vivere qui come donna nera”. Una petizione, che invita i cittadini a “svegliarsi” per lottare contro il razzismo e le violenze della polizia ha raccolto in poche ore decine di migliaia di firme. In questi giorni l’attenzione è focalizzata di nuovo sulla tragedia di Adama Traoré. La sorella Assa Traoré ha organizzato un comitato di sostegno che lotta per la verità. La battaglia è tra autopsie mediche, quelle ordinate dal tribunale negano l’asfissia causata dalla violenza dell’arresto, mentre una contro-expertise fatta su decisione della famiglia conferma la brutalità dell’azione della polizia. Ieri, il tribunale ha deciso di interrogare due nuovi testimoni, uno presente all’arresto e un altro che aveva accolto Adama nella fuga di fronte agli agenti. Adama non è un caso isolato, ci sono altri esempi di morti inspiegate. Inoltre, c’è il razzismo quotidiano, i controlli di identità continui che subiscono neri e arabi, i poliziotti che danno del tu, la mancanza di rispetto. Stati Uniti. Cambiare la polizia di Daniele Raineri Il Foglio, 6 giugno 2020 Le manifestazioni in America puntano a riforme importanti, la più grande è la fine della qualified immunity. Questi giorni di proteste negli Stati Uniti contro la brutalità poliziesca hanno visto accumularsi altri episodi di brutalità poliziesca - in molti casi davanti alle telecamere - e hanno portato argomenti molto buoni a chi vuole abolire la cosiddetta qualified immunity, che è lo scudo legale che da quasi quarant’anni protegge gli agenti. Nelle strade è come se la curva d’apprendimento fosse piatta. Ieri due agenti della polizia di Buffalo, nello stato di New York, hanno spinto per terra un passante di settantacinque anni e magrolino che non stava facendo nulla se non camminare sul marciapiede. L’anziano è caduto all’indietro, ha battuto la nuca, ha cominciato a perdere sangue - colava dall’orecchio - mentre la telecamera di una rete televisiva a quattro metri di distanza continuava a filmare la scena. L’uomo è vivo e in ospedale ma la perdita di sangue dall’interno è il segno di una brutta ferita. Nel primo rapporto della polizia si dice che “un uomo è inciampato e si è fatto male”, ma poi i due agenti sono stati sospesi. Considerata la coazione a ripetere, si capisce perché le proteste chiedono una riforma della polizia americana. Tra le richieste ci sono un database nazionale degli agenti cacciati dalla polizia in modo che non vadano ad arruolarsi nella polizia di un altro stato, regole più strette su cosa fare con le body-cam (le telecamere indossate dagli agenti), un protocollo nazionale e uguale per tutti sull’uso della forza (per esempio: quella mossa di tenere George Floyd schiacciato a terra con il ginocchio sulla gola non è permessa da alcune forze di polizia, ma da altre sì) e l’identificazione precisa degli agenti - e questo è un punto importante, perché a Washington in questi giorni molte agenzie governative hanno mandato i loro uomini a fare ordine pubblico e a un certo punto non era più possibile capire chi fosse chi. Si vedevano soltanto uomini con giubbotti, elmetti e armi, che non dichiaravano il loro reparto d’appartenenza e dicevano in modo vago di essere lì “per ordine del dipartimento di Giustizia”. Si tratta di richieste che puntano a uno standard federale ma si scontreranno con il fatto che ogni stato vuole decidere in autonomia. Tra le domande, la più importante è la fine della qualified immunity che protegge i poliziotti dalle conseguenze civili di quello che fanno. In teoria tutti i cittadini americani possono fare causa ai funzionari dello stato se pensano che i loro diritti civili siano stati violati. I procedimenti penali sono rari, le cause civili potrebbero essere un buon deterrente. In pratica però la qualified immunity si frappone tra i funzionari e le conseguenze delle loro decisioni e quando divenne legge nel 1982 lo scopo era far funzionare la macchina dello stato senza che ci fossero continue cause immotivate, violazioni dei diritti civili immaginarie e richieste di risarcimenti per ragioni superficiali. Il problema è che si è trasformata in una promessa di impunità per i poliziotti. Se un agente compie un atto illegale o incostituzionale ai danni di qualcuno c’è materiale per sostenere che c’è stata una violazione dei diritti civili, ma scatta la qualified immunity e può essere annullata soltanto a patto che ci sia già un chiaro caso nel quale lo stesso atto è stato dichiarato illegale o incostituzionale. Quando si dice “lo stesso atto” vuol dire proprio lo stesso atto in modo specifico. Altrimenti vale la qualified immunity. A febbraio le accuse contro un agente che in Texas aveva spruzzato dello spray al peperoncino contro un detenuto chiuso nella sua cella senza alcun motivo sono cadute perché gli altri casi che stabilivano una chiara protezione legale dei detenuti riguardavano percosse e l’uso di taser senza alcun motivo. Suona ridicolo, ma funziona così. Soltanto quest’anno, secondo una ricerca fatta dal sito di notizie Usa Today, lo scudo legale ha protetto alcuni funzionari che avevano rubato 225 mila dollari, guardie che hanno chiuso un detenuto in una cella allagata da acqua di fogna per giorni, un poliziotto che ha sparato a un bambino di dieci anni mentre cercava di colpire il cane di famiglia “non minaccioso” e altri casi. Due giorni fa la Corte suprema americana ha annunciato che rivedrà la dottrina della qualified immunity, per vedere se regge ancora - e lo farà a causa della morte di George Floyd. In questi giorni al Congresso è stata presentata una riforma di legge per abolire lo scudo legale. Filippine. L’accusa delle Nazioni Unite: “Duterte assassino” di Valerio Sofia Il Dubbio, 6 giugno 2020 Tutti gli omicidi extragiudiziari del presidente. L’uomo forte di Manila ha sempre rivendicato il diritto a uccidere i trafficanti di droga. sarebbero 25mila le vittime delle squadre della morte. Una specie di botta e risposta indiretto tra il governo delle Filippine di Rodrigo Duterte e le Nazioni Unite. Mentre il presidente fa approvare una ulteriore stretta sulle politiche di sicurezza, dall’Onu arriva un rapporto su quello che la strategia di Duterte è costato all’arcipelago n termini di diritti umani e anche di vite. La Camera Bassa del Parlamento di Manila ha approvato a larga maggioranza una legge già approvata dal Senato secondo la quale in nome dell’antiterrorismo diventano legali l’arresto senza giustificazione e la detenzione per 14 giorni di sospetti “terroristi”. Il termine “terrorista” dovrà essere definito da un nuovo Consiglio antiterrorismo che potrebbe avere anche il potere di ordinare gli arresti senza l’intervento di un giudice. Sono poi previste pene da 12 anni di reclusione fino all’ergastolo per chiunque proponga e partecipi - o anche solo inciti - alla pianificazione o all’addestramento di un “attacco terroristico”. Nel mirino di Duterte ci sono gli insorti che ancora animano la guerriglia jihadista e il rapimento di missionari cattolici in alcune isole filippine, come i ribelli islamici di Abu Sayyaf che più di una volta hanno lavorato in “franchising” con l’Isis o con al-Qaeda. Ma anche e forse soprattutto i trafficanti di droga (che nella filosofia di Duterte non vengono distinti dagli utilizzatori) contro i quali il presidente ha dichiarato una violenta guerra fin dall’inizio del suo mandato. Ma quello che temono le opposizioni e le organizzazioni dei diritti umani è che la vaghezza della definizione dei “bersagli” a fronte di un evidente e considerevole aumento delle potenzialità repressive diventi uno strumento diretto verso gli oppositori. Proprio nelle stesse ore l’Ufficio Onu per i diritti umani di Ginevra presieduto da Micelle Bachelet ha pubblicato un rapporto completo, il primo dopo anni di denunce, sulla controversa campagna di Duterte per sradicare le droghe illegali ufficializzata nel 2016 quando è stato eletto Capo di Stato ma portata avanti anni prima quando rivestiva il ruolo di governatore dell’isola di Mindanao, il “laboratorio” delle sua idea repressiva di azione politica. Duterte non ha mai nascosto che ritiene lecito e utile ricorrere a qualsiasi mezzo nella sua campagna per fermare il traffico di stupefacenti, il che include la licenza di uccidere per le forze di polizia. E infatti il bilancio ufficiale delle operazioni dei corpi speciali delle forze dell’ordine conta fino ad ora l’uccisione di almeno 8.600 persone. Ma secondo varie fonti la cifra reale si attesterebbe intorno al triplo di quella dichiarata. Il rapporto delle Nazioni Unite denuncia soprattutto la persistente impunità di cui godono gli esecutori di omicidi extragiudiziari che non riguardano solo persone legate al mondo della droga, ma anche rappresentanti delle associazioni per i diritti sociali ed umani rei di criticare la linea di tolleranza zero dell’uomo forte di Manila. Il rapporto dell’Onu parla anche di “insormontabili barriere per accedere alla giustizia” da parte delle vittime e dei loro parenti. Come è andato lo scambio di detenuti tra Iran e Stati Uniti di Marta Allevato agi.it, 6 giugno 2020 Sia Washington che Teheran hanno chiesto la scarcerazione dei rispettivi prigionieri per preoccupazioni sanitarie, legate alla diffusione del nuovo coronavirus nelle carceri. L’Iran ha rilasciato il veterano della Marina statunitense, Michael White, dopo circa due anni di detenzione, come parte di uno scambio di prigionieri negoziato con gli Usa; l’episodio ha dato modo al presidente Donald Trump per rilanciare l’invito a Teheran a siglare un nuovo accordo sul nucleare. White, che durante la detenzione ha sofferto di asma e di una recidiva di cancro, era stato rilasciato a marzo, dietro licenza medica, e consegnato all’ambasciata svizzera - che rappresenta gli interessi americani in Iran dal 1980, dopo la rottura dei rapporti diplomatici tra i due Paesi - a condizione che rimanesse in Iran. In seguito gli era stato diagnosticato anche il Covid-19 ed era stato ricoverato in ospedale. “Sono felice di annunciare che l’incubo è finito”, ha dichiarato la madre del veterano, Joanna White, in un comunicati, “mio figlio è sano e sta tornando a casa”. “Che bello riavere Michael a casa” ha scritto Trump su Twitter, dando la notizia del suo arrivo negli Usa. “Grazie all’Iran. Non aspettate dopo le presidenziali Usa a fare il Grande Accordo. Vincerò. Adesso fareste un accordo migliore”, ha poi aggiunto. Come parte dell’accordo, gli Usa hanno liberato Matteo Taerri, un medico con doppia cittadinanza americana e iraniana, arrestato con accuse di aver aggirato le sanzioni, secondo quanto ha riferito il suo avvocato. Sia Washington che Teheran hanno chiesto la scarcerazione dei rispettivi prigionieri per preoccupazioni sanitarie, legate alla diffusione del nuovo coronavirus nelle carceri. Il ministero degli Esteri svizzero ha confermato che la Confederazione elvetica ha avuto un “ruolo nel gesto umanitario” che ha avuto luogo e ha portato al rilascio di White e Taheri. “Il nostro Paese è pronto per ulteriori agevolazioni, secondo la sua lunga tradizione di buoni uffici”, ha aggiunto il dicastero. Il ministro degli Esteri della Repubblica islamica, Javad Zarif, ha espresso gioia per il fatto che Taerri e White potranno riabbracciare le rispettive famiglie come anche il secondo iraniano tornato in patria questa settimana, Sirous Asgari, dopo essere stato scagionato dalle accuse di aver trafugato segreti commerciali negli Usa. “Questo può accadere per tutti i prigionieri”, ha dichiarato Zarif su Twitter, “non c’è bisogno di operare una sezione. Gli ostaggi iraniani detenuti negli o per contro degli Usa devono tornare a casa”. White, 48 anni, faceva parte dei circa 100 mila detenuti rilasciati sulla base di licenza medica in Iran, dopo lo scoppio della pandemia; è stato detenuto con accuse non rese pubbliche mentre stava provando a lasciare il Paese con la sua fidanzata iraniana e in seguito condannato a 10 anni di carcere. La Repubblica islamica, già in passato, ha arrestato cittadini stranieri usandoli poi come pedina di scambio, sottolinea il Wall Street Journal, riportando la notizia della liberazione del veterano Usa. Taerri, conosciuto anche come Majid Taheri, farà ritorno in Iran per visitare la famiglia nei prossimi giorni, ha reso noto il suo legale, aggiungendo però che ha in programma di tornare e rimanere negli Stati Uniti a lavorare. Afghanistan. Un virus che si chiama fame di Laura Salvinell Il Manifesto, 6 giugno 2020 L’attività di Susanna Fioretti, infermiera volontaria della Croce Rossa e presidente di “Nove Onlus” per le donne afghane. Una delle donne che ci ha chiesto aiuto ha detto: “Il virus ce l’abbiamo da tanto tempo in casa e si chiama fame. Abbiamo bisogno di cibo”. Le statistiche ufficiali indicano 178 decessi in Afghanistan, ma non sono affidabili. Il governatore della Provincia di Herat Abdul Quayom Rahimi ha dichiarato il 14 marzo: “Temo che arrivi il giorno in cui non si potranno nemmeno raccogliere i morti”. Herat è stata la città più colpita all’inizio, quando il vicino Iran ha aperto unilateralmente la frontiera, lasciando tornare a casa gli afgani, preferibilmente quelli malati. L’emergenza sfugge al controllo: si fanno pochissimi tamponi, non si sanno le cifre reali, alcune persone infette sono scappate dagli ospedali. Il lockdown a Kabul è durato dal 28 marzo al 24 maggio, esteso a tutto il territorio. Per di più è stato il periodo di Ramadan dal 24 aprile al 23 maggio”. A parlarmi è Susanna Fioretti, presidente di Nove Onlus, fondata da un gruppo di esperti di cooperazione internazionale di cui è entrato a far parte Alberto Cairo, icona umanitaria e cittadino onorario afgano. Susanna, infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana ed esperta sociale di genere, ha lavorato in progetti di emergenza e sviluppo in Mauritania, Iran, India, Yemen, Mozambico, Sudan, Sud Sudan e Afghanistan, per la Croce Rossa Italiana, la Croce Rossa Internazionale, il Ministero degli Affari Esteri. Ora lei è bloccata a Roma, Alberto (per scelta) a Kabul. Le chiedo della situazione delle donne perché se il virus si chiama fame sono loro le ultime a mangiare in Afghanistan. “II 2020 secondo molti addetti ai lavori avrebbe dovuto essere ground-breaking per la parità di genere. A causa del Covid-19 invece anche i limitati passi avanti fatti rischiano di essere vanificati, perché le donne sono le più penalizzate dagli effetti della pandemia. Agli alti livelli - Nei Paesi in via di sviluppo se da una parte rappresentano circa il 70% degli operatori sanitari e sono quindi molto più esposte al rischio di contagio, dall’altra sono poco o per niente rappresentate nei livelli più alti, dunque non vengono coinvolte nelle decisioni su come affrontare l’emergenza e le sue conseguenze. Per di più molte donne sono impegnate nell’economia informale, che è la prima a cedere in caso di blocchi. Anche in Italia parte di quelle impiegate ‘al nero’ sono dovute restare a casa perdendo il lavoro. Inoltre, le donne rappresentano la grande maggioranza di chi si occupa del cosiddetto care work non retribuito: accudimento di figli, fratelli minori, parenti malati, disabili, oltre a faccende domestiche di ogni tipo. La pandemia aggrava questo peso e chi è riuscita a fatica a procurarsi un guadagno con una piccola attività, spesso non può continuare per mancanza di tempo, facendo così un passo indietro verso la povertà e la dipendenza economica. Anche in campo educativo sono penalizzate soprattutto le femmine nei Paesi dove la scolarizzazione è bassa: se la scuola chiude, o bambine e ragazze vengono tenute in casa perché la pandemia aumenta i bisogni familiari, spesso a scuola non tornano mai più. Inoltre, quando le risorse scarseggiano, vengono tagliati i fondi a servizi sanitari importanti per le donne, come i consultori per la contraccezione, per cui per esempio possono esserci molte più adolescenti incinte, o quelli di assistenza psicologica per le vittime di violenza. Centro di ascolto - E l’impatto che più temo del Coronavirus sulle donne afghane è proprio la violenza. A Herat il centro di ascolto per le donne maltrattate era stato ubicato in un ospedale, così potevano andarci di nascosto, senza suscitare sospetti, ma è stato chiuso e trasformato in centro anti-Covid. In Afghanistan non ci sono dati certi sul numero di donne che subiscono violenza, perché molti casi restano sconosciuti. Le stime ufficiali parlano del 51%, e se a livello mondiale si prevede un aumento di oltre il 20% durante il lockdown, in Afghanistan si teme si vada ben oltre. E lì è difficile salvarsi. Quando una donna grande o piccola trova la forza di scappare, se non ha contatti con gli enti che offrono fra mille rischi protezione alle vittime di violenza, si rivolge alla polizia, che quasi sempre la riporta alla famiglia con conseguenze drammatiche”. Nove Onlus ha formato finora oltre 2.200 ragazze afghane, ha trovato a centinaia di loro posti di lavoro qualificati e retribuiti. In meno di 2 anni ha fatto ottenere la patente di guida a quasi 200 donne (il 16,4% di tutte le patentate di Kabul in 5 anni), e lanciato il ‘Pink Shuttlè, il primo servizio di trasporto solo per donne, con pulmini guidati da donne, finanziato da ‘Only the Brave Foundation’. Durante l’emergenza Coronavirus, grazie ai fondi elargiti da ‘The Nando and Elsa Peretti Foundation’ ha aiutato a Kabul 190 famiglie dei distretti più poveri, in molte delle quali il capofamiglia è una donna, distribuendo a ognuna 70 chili di alimenti essenziali, mascherine, disinfettanti e guanti, mentre a 125 famiglie di persone disabili ha consegnato lo stesso kit di materiale igienico e un voucher per l’acquisto di cibo. L’intervento, in cui è stato coinvolto un medico per insegnare le misure che prevengono il contagio, ha aiutato nel complesso oltre 2500 persone (ogni famiglia afgana è composta in media di 8 persone). “Quando un anziano del distretto dove stavamo distribuendo ha saputo che gli aiuti provenivano da una piccola organizzazione italiana, ha pianto dalla commozione, perché aveva visto in televisione che l’Italia è uno dei Paesi più colpiti dal Covid-19”. Anche in Italia - Nove Onlus è impegnata nell’emergenza Coronavirus anche in Italia. A Roma e Ladispoli ha partecipato ad acquisto e distribuzione di generi alimentari a famiglie in difficoltà e senzatetto, in collaborazione con la Croce Rossa Italiana; lo stesso ha fatto per donne vulnerabili assistite dalla Cooperativa l’Accoglienza. A Salerno e Roccapiemonte, insieme a Coldiretti, ha fornito generi di prima necessità che sono stati distribuiti a famiglie indigenti attraverso la Caritas, aiutando anche le piccole realtà produttive locali in crisi per il blocco della distribuzione. Susanna Fioretti è nata e vissuta nella ‘“oma bene” fino a quando, dopo aver seguito il corso di infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana, ha cominciato a fare servizio nel campo Casilino 900, dove fra risse e prostituzione convivevano nomadi e emigrati campani che avevano disposizione una sola fontana e una fossa come unico bagno. “È allora che ho aperto gli occhi e ho capito che cosa volevo fare”. Quando i figli sono cresciuti ha cambiato vita: affrontata una battaglia ecologica contro il progetto di una gigantesca centrale termoelettrica su una delle ultime spiagge dove nidificavano le tartarughe nell’isola di Rodi, e costruita lì la prima casa ecologica dell’isola con i muri di paglia, ha cominciato il lavoro di cooperante. Ha raccontato le sue avventure umane e umanitarie in 4 libri: Frammenti di una storia romana (Palombi 1989) sull’esperienza del Casilino 900, La tela di Penelope (Sideral 2004) e Involontaria (Einaudi 2011) in cui ha messo tutto insieme, amori, figli, nipoti, missioni, perché “la mia vita è questa”, e Quattro al secondo (Stampa Alternativa 2017, titolo riferito al numero di nascite sulla terra) che racconta le storie di quattro bambine nate in condizioni e luoghi molto diversi, riflettendo su quanto conta dove, come e da chi si nasce e cresce. Le chiedo se pensa che il Coronavirus possa essere l’occasione per ricostruire un mondo migliore: “Poiché la pandemia amplifica le diseguagliane, sono d’accordo con chi raccomanda di impegnarsi per evitarlo e cogliere invece l’opportunità di ricostruire società più inclusive, che mettano le donne, le ragazze e le bambine al centro. Come? Assicurandosi che siano adeguatamente rappresentate in tutte le sedi dove si prendono le decisioni, anche in Italia, dove si sono viste ben poche donne nelle varie task forces. E privilegiandole in ogni risposta all’impatto socio-economico, senza dimenticare l’economia informale, da cui moltissime dipendono. Se necessario ricorrendo a sanatorie: perché sanare lo svantaggio femminile dovrebbe essere lecito almeno quanto lo è stato regolarizzare la posizione di chi ha frodato il fisco. Le privazioni derivanti dal Covid-19 che abbiamo sperimentato sulla nostra pelle potrebbero avere anche il risvolto positivo di avvicinarci alla parte di umanità che subisce costantemente e ben più duramente stigma, paura, mancanza di libertà, impossibilità di stare accanto a chi si ama, veri razionamenti, fame e tanto altro. L’ambiente non è il mio campo ma chiunque può vedere l’effetto che anche su di esso ha avuto il lockdown, creando una sorta di gigantesco laboratorio che nessun ambientalista si è mai sognato di avere. Chi avrebbe potuto bloccare intere città e nazioni, chiudere in casa miliardi di persone per studiare dal vivo la relazione tra traffico di ogni tipo e inquinamento, e tutto ciò che ne deriva per animali selvatici, acque, spazzatura e via dicendo? Penso che abbiamo imparato cose importanti da tutto questo e spero che riusciremo a servircene per ripartire con una visione nuova, in economia ma non solo”. Siria. La guerra del pane di Michele Giorgio Il Manifesto, 6 giugno 2020 Damasco è impegnata a reperire sul mercato internazionale il grano necessario a coprire la domanda interna. Guerra e incendi dolosi minacciano il pane a basso costo, bene essenziale per milioni di siriani. Il nuovo record negativo non ha sorpreso nessuno. Il dollaro nei giorni scorsi ha sfondato la soglia delle 2000 lire siriane e il costante ribasso della valuta comprometterà il già limitato potere di acquisto della popolazione. Nulla lascia immaginare una inversione di tendenza. Sono tanti e purtroppo consolidati i motivi della crisi economica che rischia di affondare il paese. La guerra in realtà non è finita anche se l’esercito siriano e le milizie alleate hanno ripreso il controllo di buona parte del territorio. La ricostruzione non è mai cominciata a causa delle pressioni degli Stati uniti e di vari Stati europei, Francia in testa, sull’Onu e le agenzie internazionali. Lo scopo di questi paesi è rendere difficile la vita al presidente Bashar Assad, in realtà la complicano solo alla popolazione siriana. E anche la Russia ha rallentato il suo impegno. E presto contro la Siria entreranno in vigore altre sanzioni dell’Amministrazione Trump. Pesa inoltre il blocco dei conti bancari in Libano dove i siriani più facoltosi hanno depositato somme significative negli anni passati, così come la riduzione delle rimesse degli emigrati frutto dell’emergenza coronavirus. Che la situazione economica siriana sia fortemente peggiorata lo conferma anche lo scontro frontale in atto tra Assad e il suo cugino miliardario Rami Makhlouf. Il conflitto non è frutto di questioni personali e di lotta per il potere come hanno scritto e detto alcuni, bensì dell’urgenza del governo di attingere ai grandi patrimoni per procurarsi, al più presto, fondi aggiuntivi, essenziali in questa fase. In gioco c’è la solidità del potere, che passa anche dalla capacità dell’esecutivo di garantire un minimo di stabilità alla popolazione civile, esausta, che ogni giorno fa i conti con disoccupazione, carovita, corruzione, scarsità di carburante e la progressiva scomparsa del welfare per mancanza di fondi. Siamo nel pieno della mietitura e mai come quest’anno il raccolto di grano è centrale per i programmi del governo. Un dato è già noto: non sarà sufficiente a coprire la domanda interna (4,3 milioni di tonnellate). Damasco perciò è impegnata, più degli anni passati, a garantirsi altro grano sul mercato internazionale, con esiti talvolta positivi - di recente è stato siglato un accordo con l’alleata Mosca che però copre solo una parte della richiesta siriana - e altri meno fortunati. A complicare le cose c’è anche la competizione con l’Amministrazione Autonoma curda nel Rojava per l’acquisto del grano dai produttori. La Siria nel 2019, secondo le statistiche della Fao, è stata uno dei dieci paesi più colpiti dall’insicurezza alimentare (a rischio circa 6,5 ??milioni di persone). Anni di guerra e di frammentazione territoriale hanno fatto danni enormi. Anche la siccità ha colpito duro. Nel 2018 la produzione di grano è stata di soli 1,2 milioni di tonnellate, la più bassa dal 1989. La siccità ha colpito principalmente Raqqa, Deir e-Zor, Hasakah e Aleppo nel nord, e Hama nella Siria centrale. Queste aree complessivamente rappresentano il 96% della produzione totale di grano in Siria. A peggiorare le cose è il sensibile aumento degli incendi di terreni agricoli, non poche volte di origine dolosa innescati da speculatori che puntano al rialzo dei prezzi e, più di rado, da gruppi armati di vario orientamento che sperano aumentare le difficoltà del governo di Damasco di fronte alla popolazione. L’anno scorso sono andati in fumo quasi 85.000 ettari di colture e nel 2020 non andrà meglio. Dati sconfortanti per un paese che un tempo era noto per l’attenzione che dava alla produzione agricola e all’autosufficienza alimentare. “Occorrono quasi tre milioni di tonnellate di grano per mettere al sicuro il paese nel 2020 e nella prima parte del 2021, altrimenti non ci sarà farina a sufficienza per il pane e per sfamare la popolazione”, ci spiega un giornalista siriano che ha chiesto di rimanere anonimo. “Dopo il lockdown dell’economia proclamato dal governo per contenere la pandemia - aggiunge - il pane a basso costo, grazie ai sussidi dello Stato, è diventato ancora di più una linea rossa per i siriani, soprattutto per quelli che appoggiano Assad”. Un mese fa, durante una riunione con il governo, il presidente ha ammesso che “la sfida più difficile è garantire beni di prima necessità (alla popolazione), in particolare i generi alimentari”. Quindi ha rimosso il ministro del commercio interno e della protezione dei consumatori, Atef al-Naddaf. Al suo sostituto, Talal al Barazi, è stato dato l’incarico di percorrere ogni strada possibile per tenere bassi i prezzi dei generi alimentari, sottraendoli a monopoli e contrabbando. I problemi di fondo del settore agricolo siriano non sono destinati a cambiare, almeno non nel medio periodo. Negli ultimi nove anni la produzione di grano si è quasi dimezzata, scendendo da 4,1 milioni di tonnellate nel 2011 a 2,2 milioni nel 2019. La guerra è solo una delle cause del calo. Un impatto notevole l’ha avuto il liberismo economico introdotto a partire dal 2005 da Assad e dai suoi esperti. La priorità è stata data alla crescita dei settori bancario, turistico, immobiliare e delle telecomunicazioni - facendo la fortuna di personaggi come Rami Makhlouf e Firas Tlass - ed è stata messa da parte la vecchia guardia baathista, più socialista e legata al padre del presidente, Hafez al Assad, che aveva sempre dato grande rilievo all’agricoltura. Dal 2005 al 2009, il tasso di crescita del settore è sceso in media dell’1,5% e 600.000 lavoratori - il 44% della forza lavoro agricola - hanno lasciato il settore. Tra il 2007 e il 2008, l’area totale dedicata alla produzione di grano è diminuita di 180mila ettari. La guerra giunta nel 2011 ha fatto il resto. Molti agricoltori siriani ora sono profughi in Siria, Libano e Giordania e i danni ai sistemi di irrigazione e ai macchinari e i prezzi elevati dei fertilizzanti non lasciano immaginare un loro ritorno. La Siria granaio del Medio oriente ormai è solo un lontano ricordo.