Al 31 maggio 7.800 detenuti in meno rispetto a febbraio di Giovanni Augello Redattore Sociale, 5 giugno 2020 I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 maggio parlano di 53.387, contro i 61.230 del 29 febbraio scorso. Mai così vicini ai dati della capienza regolamentare. Diminuiscono anche i detenuti stranieri. Si attenua il calo della popolazione penitenziaria registrato sin dai primi mesi dell’emergenza coronavirus. I dati al 31 maggio 2020, infatti, mostrano ancora una diminuzione dei detenuti nelle carceri italiane, ma il trend non è paragonabile a quello verificatosi tra marzo e aprile. Sono 53.387 i detenuti presenti nei 189 istituti penitenziari italiani (a fine aprile erano 53.904, mentre a fine febbraio 2020 erano oltre 61 mila), contro una capienza regolamentare dichiarata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di 50.472 posti. A fine maggio, quindi, ci sono oltre 7,8 mila detenuti in meno rispetto ai mesi precedenti alla pandemia. L’emergenza coronavirus, tuttavia, ha di fatto invertito una tendenza al rialzo dei numeri della popolazione carceraria. Dopo il picco di oltre 67 mila detenuti registrato nel 2010 sono dovuti passare ben cinque anni affinché i dati potessero scendere in modo significativo. Dal 2015, però, il numero dei detenuti è tornato a crescere costantemente portando la popolazione penitenziaria a superare quota 60 mila presenze già dalla fine del 2019. In calo anche il numero di detenuti stranieri presenti: al 31 maggio sono 17.572, mentre il 29 febbraio 2020 erano 19.899. 4bis, la Consulta si esprimerà anche sulla libertà condizionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 giugno 2020 La Cassazione ha sollevato la questione di legittimità per l’ergastolano che non abbia collaborato. La Corte costituzionale ha già riconosciuto l’illegittimità del divieto di un permesso premio per i detenuti ostativi. Dopo il permesso premio, la Corte costituzionale dovrà esprimersi anche sulla liberazione condizionale che non può esser concessa a chi non collabora con la giustizia. Parliamo sempre dell’ergastolo ostativo, ovvero l’espressione che indica quel peculiare regime previsto nell’ipotesi in cui l’individuo sia condannato all’ergastolo per uno dei gravi delitti di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario e non collabori con la giustizia ai sensi dell’art. 58- ter dell’ordinamento. Quest’ultima disposizione, in particolare, definisce quali persone che collaborano con la giustizia coloro che “anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”. In queste ipotesi - ovvero in assenza di collaborazione - gli ergastolani non possono accedere ad una serie di benefici penitenziari, quali il lavoro all’esterno, i permessi premio, le misure alternative alla detenzione e, ai sensi della l. 203/ 1991, la liberazione condizionale. Ora, con la decisione numero 4 del 2020, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3, 27 e 117 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo che non abbia collaborato possa essere ammesso alla liberazione condizionale. Non a caso la Cassazione, a proposito dei precedenti giurisprudenziali, fa anche riferimento alla sua ordinanza relativa al caso Canizzaro. Quello nel quale aveva avanzato l’illegittimità costituzionale poi riconosciuta dalla Consulta. La Cassazione, con quella scorsa ordinanza, ha ritenuto infatti rilevante e non manifestamente infondata, la questione di costituzionalità dell’art. 4 bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario, in riferimento agli art. 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58 ter, possa essere ammesso al godimento di un permesso premio di cui all’art. 30 ter dell’ordinamento penitenziario. Ora, com’è detto, è la volta della liberazione condizionale. Quest’ultima comporta la sospensione dell’esecuzione della pena che rimane da scontare ed è un beneficio di cui può godere il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, il quale si desume dai rapporti del detenuto con il personale carcerario, con gli altri detenuti, con i propri familiari, dall’attività di lavoro e di studio svolta nell’ambiente carcerario e dall’interessamento nei confronti delle vittime del delitto. Infatti, la mancata richiesta di perdono da parte del condannato nei confronti della vittima del reato da lui commesso e la sua indifferenza verso la stessa ben possono incidere negativamente sulla valutazione del comportamento dell’imputato. Mentre si ritiene che non possa, di per sé, costituire ostacolo la mancata ammissione del condannato delle proprie responsabilità. Mirabelli (Pd): bene norme su telefonate detenuti in Dl Giustizia in discussione al Senato Agenpress.it, 5 giugno 2020 “È molto importante che il merito di un mio Ddl riguardante l’ampliamento della possibilità, per i detenuti comuni, di contatti telefonici con i propri familiari sia diventato il testo di un emendamento che, come relatore, ho presentato al Dl Giustizia in discussione al Senato. Nell’emendamento si prevede la possibilità di chiamare ogni giorno i figli minorenni e quelli maggiorenni se portatori di handicap. Sempre il detenuto comune potrà chiamare una volta al giorno il coniuge, il convivente, la parte dell’unione civile, i fratelli e le sorelle se ricoverati. Sono esclusi da queste norme i detenuti al regime del 41 bis e quelli condannato per il 4 bis, a cui è concessa una telefonata a settimana. Mi sembrano scelte di buon senso e di civiltà visto che fino ad oggi per i detenuti comuni era prevista una telefonata a settimana. Sono convinto che queste norme, una volta approvate, contribuiranno a rendere più degna la vita dei detenuti nelle carceri italiane”. A.S 1786. Emendamento Dopo l’articolo 2 inserire il seguente: “Art. 2-bis - (Modifiche all’articolo 39 del regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, in materia di corrispondenza telefonica delle persone detenute). 1. All’articolo 39 del regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 3 le parole “se la stessa si svolga con prole di età inferiore a dieci anni,” sono soppresse; b) dopo il comma 3 è inserito il seguente: “3-bis. L’autorizzazione può essere concessa una volta al giorno se la stessa si svolga con figli minori o figli maggiorenni portatori di una disabilità grave e nei casi in cui si svolga con il coniuge, l’altra parte dell’unione civile, persona stabilmente convivente o legata all’internato da relazione stabilmente affettiva, con il padre, la madre, il fratello o la sorella del condannato qualora gli stessi siano ricoverati presso strutture ospedaliere. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell’articolo 4bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 l’autorizzazione non può essere concessa più di una volta a settimana. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354”. Ritornano le messe in carcere, i cappellani accanto ai detenuti di Antonio Maria Mira Avvenire, 5 giugno 2020 Tornano le messe anche in carcere. Lo prevede una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che autorizza le celebrazioni eucaristiche con la partecipazione dei detenuti a partire dallo scorso 1° giugno. Una ripresa fortemente auspicata dai cappellani delle carceri, che si sono fatti interpreti delle richieste dei detenuti. Sono previste restrizioni e “particolari cautele”, soprattutto per le distanze tra le persone. Più severe di quelle fuori dal carcere. Una severità molto netta per le celebrazioni, in istituti dove peraltro nelle celle a causa del sovraffollamento le distanze di sicurezza non possono certo essere rispettate. Il documento cita il protocollo tra presidente del Consiglio e Conferenza episcopale italiana, sottolineando che le misure previste dovranno essere applicate “con le ulteriori accortezze che la specificità degli istituti penitenziari prevede”. Il Dap, nella circolare inviata ai Provveditori regionali, sottolinea come “la ripresa dell’attività religiosa esige particolari cautele”. In particolare bisognerà “valutare l’idoneità degli spazi a disposizione per le celebrazioni, stabilendo - sulla base delle dimensioni e delle caratteristiche dei locali - il numero di persone che potranno assistervi”. Ricordiamo che tranne pochi casi, le cappelle in carcere sono generalmente molto piccole. Proprio per questo la circolare invita le direzioni delle carceri a valutare “in accordo con l’autorità sanitaria, l’opportunità di consentire lo svolgimento delle celebrazioni in spazi aperti adeguatamente predisposti”. Comunque, avverte il Dap, “dovranno essere evitati contatti interpersonali, assicurando una distanza minima di almeno due metri”. Durante le Messe dovranno essere indossate le mascherine, mentre “l’accesso dei detenuti dovrà avvenire in modo scaglionato, evitando assembramenti e contatti con porte e maniglie”. E ancora “sarà evitato l’utilizzo di sussidi per i canti o di altro tipo”, mentre “si ometterà lo scambio del segno della pace”. Prima dell’ingresso nel luogo della celebrazione “i cappellani saranno invitati ad un controllo delle generali condizioni di salute”. Potranno inoltre “accedere in aiuto ai cappellani, in numero minimo indispensabile” anche diaconi e suore ma solo dopo aver sottoscritto una dichiarazione sullo stato di salute e sui contatti a rischio. La circolare è giunta anche a tutti i cappellani, assieme a un messaggio dell’Ispettore generale, don Raffaele Grimaldi. “Vi scrivo ancora una volta per incoraggiare il vostro servizio pastorale, per dirvi ancora grazie per non aver abbandonato il gregge a voi affidato; so che continuamente tutti voi non avete fatto mancare la vostra presenza nell’istituto, anche se il vostro ministero lo avete vissuto lontano dai detenuti”. Si assicura la massima attenzione, in contatto col Dap, “per cercare di rendere meno complicata e più serena e agevole la vostra missione accanto ai detenuti”. Don Raffaele riconosce le difficoltà denunciate da alcuni cappellani ma chiede di “avviare un dialogo costruttivo con le vostre Direzioni e con l’area sicurezza”. Aggiungendo che questo però, “non significa non far sentire la nostra voce e stare inermi davanti ad ingiustizie e chiusure”. E comunque, conclude, “il nostro ministero non è solo rinchiuso nella Messa, ma è fatto anche di dialoghi personali con i ristretti, con le loro famiglie, gli operatori del carcere e con il grande popolo della polizia penitenziaria che ha bisogno di vicinanza e di incoraggiamento. Siamo uomini della consolazione che asciugano le lacrime di cuori smarriti”. Tutto questo don Raffaele ha spiegato al nuovo direttore del Dap, Dino Petralia, in un recentissimo incontro. Con la richiesta di autorizzare al più presto l’ingresso in carcere anche dei volontari, magari cominciando dal 23 giugno, giornata che ricorda san Giuseppe Cafasso, patrono dei cappellani. Un ponte di umanità attraverso le sbarre: la pandemia non ha fermato la solidarietà santegidio.org, 5 giugno 2020 La pandemia non ha interrotto l’amicizia che da anni lega la Comunità di Sant’Egidio alle persone che vivono nelle carceri in Italia e in altre parti del mondo. Quando sono state sospese le visite, abbiamo voluto rispondere a una pressante domanda di non essere dimenticati cercando delle possibilità di ‘forzare le sbarre’, soprattutto quelle invisibili dell’isolamento che sono le più pesanti. Le lettere sono state il primo strumento per far giungere la nostra vicinanza, per capire e rispondere alle paure e ai turbamenti di chi vive in carcere, per rinsaldare i legami con il mondo esterno e con i propri familiari. Non è mancata da parte dei detenuti la solidarietà, soprattutto la preoccupazione per gli anziani per le notizie che arrivavano attraverso i telegiornali “Questo virus ha fatto tanto male, tanti anziani morti dentro questi lager vestiti da case da riposo”, “Prego per la mia nonna di 95 anni che vive in una casa di riposo”, “Prego soprattutto per gli anziani, visto quanto sta succedendo nelle Rsa”, “Non posso non esprimere preoccupazione per quello che sta accadendo e per tutte le persone indifese che si ritrovano di fronte a un’ennesima guerra. Naturalmente parlo degli anziani, ma da che mondo è mondo l’amore di Dio ha vinto, vince e vincerà”. “Gli anziani sono a rischio molto più di tutte le altre categorie sociali ed io mi deprimevo pensando solo a me e alla mia condizione di detenuto!”. Tanta la paura per i propri familiari, soprattutto quelli più lontani “Oggi ho telefonato alla mia famiglia in Egitto e mi hanno detto che anche lì sono chiusi in casa”. Parole di sostegno verso chi vive per strada: “Anche la gente fuori soffre, prego per tutte quelle persone che sono in mezzo alla strada”, “Che Dio ci protegga dal coronavirus e che l’Italia e tutti ricominciamo una vita nuova senza più sbagli. Vorrei tanto essere con voi per aiutare chi sta in mezzo alla strada”. Oltre alla carezza delle parole abbiamo voluto far arrivare a tutti il nostro affetto organizzando ripetute distribuzioni di generi per l’igiene personale, mascherine, disinfettanti, schede telefoniche, carta da lettera e buste affrancate, dolci per la Pasqua e la festa dell’Eid, indumenti. Un impegno di solidarietà che ha attraversato l’Italia con distribuzioni negli istituti penitenziari di Novara, Vercelli, Genova, Lucca, Terni, Roma, Cassino, Civitavecchia, Latina, Napoli e altre sono in corso proprio in questi giorni. D’altra parte l’impoverimento di tanti in questo tempo di pandemia ha pesato anche sulle famiglie di chi è carcerato e ad alcuni è venuto meno quel sostegno necessario per tirare avanti che arriva generalmente attraverso i pacchi dei parenti. Dal carcere stesso sono partite iniziative a sostegno di chi è più in difficoltà o impegnato nella lotta contro il Covid-19: i detenuti della Gorgona hanno offerto prodotti da loro coltivati per gli indigenti di Livorno, a Rebibbia sono state raccolte offerte in denaro per l’ospedale Spallanzani e il Policlinico Gemelli, a Rovigo la Polizia penitenziaria ha donato cibo per i poveri. La solidarietà è stata il ponte che ha unito il mondo fuori a quello dentro il carcere e che ha dato dignità a chi troppo spesso è isolato e dimenticato. Lenta, diseguale e obsoleta. Ecco la giustizia italiana secondo il Cnr Il Dubbio, 5 giugno 2020 I costi per la giustizia penale variano da un minimo di 290 euro a un massimo di circa 2.000. E un procedimento civile dura in media 250 giorni nel tribunale più veloce e 2.200 giorni circa nel più lento. L’efficienza e l’efficacia della giustizia sono due sfide che il Paese da anni deve affrontare per rimuovere i fattori che ostacolano lo sviluppo economico e il perseguimento della giustizia sociale. Nei prossimi mesi, a causa della pandemia da Covid-19, le criticità sociali ed economiche si acuiranno, incrementando il contenzioso in materia commerciale, di lavoro e di famiglia. Allo stesso tempo, è difficile ritenere che le risorse per la giustizia possano aumentare, per cui si dovranno individuare altri approcci per migliorare efficacia ed efficienza. Una ricerca svolta dall’Istituto di informatica giuridica e sistemi giudiziari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Igsg) ha stimato per tutti i tribunali italiani il costo medio per procedimento civile e penale (efficienza) e lo ha rapportato ai tempi di definizione delle cause (efficacia), dimostrando che “ci sono significative disparità e ampi margini di miglioramento”, in entrambi i termini. Si tratta del primo studio di questo tipo condotto nel nostro paese e rappresenta un nuovo punto di partenza per capire come utilizzare al meglio le risorse a disposizione. I dati sono stati pubblicati su “Questione giustizia”, affiancati a un cruscotto interattivo che permette a tutti i lettori di visualizzare e comparare costi e tempi medi di definizione per ciascun ufficio italiano. “Dalla ricerca emerge un quadro estremamente disomogeneo, con costi medi per causa definita che variano, a seconda del tribunale, da un minimo di 290 euro ad un massimo di circa 2.000 euro per i procedimenti penali, e dai 180 ai 620 euro per i procedimenti civili. Anche i tempi medi di definizione, come noto, presentano una grande variabilità: un procedimento civile dura in media 250 giorni nel tribunale più veloce e 2.200 giorni circa nel più lento, mentre un procedimento penale dura in media dai 120 ai 1.500 giorni. È quindi evidente che i livelli di efficienza ed efficacia sono molto diversi, differenziando sostanzialmente il servizio offerto a seconda del territorio”, dice Francesco Contini, ricercatore del Cnr-Igsg e coautore dello studio. I dati mostrano da un lato un problema di allocazione delle risorse, ma dall’altro ampi margini di miglioramento che potrebbero rendere il sistema più economico ed equo. “Sia sull’efficienza sia sull’efficacia, alcuni tribunali ottengono performance che, se fossero raggiunte da un maggior numero di uffici, permetterebbero una radicale riduzione dei tempi della giustizia nella definizione delle cause a parità di spesa, con una maggiore omogeneità a livello nazionale”, prosegue Contini. “Queste differenze possono essere in parte spiegate dalla diversa complessità delle cause da trattare, ma vi sono differenze tra tribunali di dimensioni analoghe e posti in territori simili che sottolineano l’importanza della diversa organizzazione degli uffici”. Aggiunge Federica Viapiana, coautrice dello studio: “Gli strumenti per affrontare queste differenze non mancano. Un primo passo dovrebbe essere il superamento della logica delle piante organiche, obsoleta, poco trasparente, poco flessibile e inadeguata a rispondere prontamente a situazioni impreviste ed emergenziali, come nel caso della recente pandemia. A questo proposito, diversi paesi europei adottano sistemi di finanziamento dei tribunali basati sui costi standard che permettono un’allocazione più equa delle risorse a disposizione - ogni ufficio viene finanziato considerando il tipo e il numero di cause che deve definire - e che quindi incentivano tutti gli operatori a rendere più efficiente ed efficace la trattazione delle cause”. Csm, sì al nuovo capo di gabinetto di Bonafede. Ma il Consiglio e le correnti si spaccano di Liana Milella La Repubblica, 5 giugno 2020 Con 14 sì, 7 contrari e 4 astenuti via libera a Raffaele Piccirillo. Sì del pg Salvi, contro Di Matteo, astenuto Davigo. Una battaglia durissima, la prima del dopo Covid, e anche del dopo discovery delle chat di Luca Palamara. Che fa registrare anche una significativa spaccatura all’interno delle stesse correnti, come Autonomia e indipendenza e Magistratura indipendente, nonché tra i laici di Forza Italia. Al Csm sono andate in onda tre ore di scontro sul via libera al nuovo capo di gabinetto del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Passa con 14 voti a favore Raffaele Piccirillo, toga della Cassazione, ma già in via Arenula con l’ex ministro Andrea Orlando e soprattutto con un incarico prestigioso nel Gruppo europeo degli Stati contro la corruzione. Gli votano contro sette consiglieri, tra cui spiccano i nomi di Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita. Tra i quattro astenuti c’è anche Piercamillo Davigo. Vota a favore invece il Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che con un breve, ma netto intervento, smonta l’argomento di chi avrebbe voluto stoppare Piccirillo, che solo dal 21 maggio aveva preso possesso del posto di sostituto procuratore generale della Cassazione, cioè l’ufficio di Salvi. La tesi è che, vista la scopertura del 20,83% di quell’ufficio, non si può togliere un altro magistrato. Ma Salvi scopre la contraddizione. Non solo perché, solo tre mesi fa, a febbraio, e con una scopertura maggiore, è stato dato il via libera, dallo stesso ufficio al Dap, a Giulio Romano, l’ormai famoso magistrato che ha scritto, ma non ha firmato, la circolare del 21 marzo che di fatto ha dato il via libera alle scarcerazioni di quasi 500 mafiosi. Allora, ricorda Salvi, non ci fu né dibattito, né furono sollevate le obiezioni che invece oggi sono sul tavolo contro Piccirillo. Quando, come ricorda Salvi, l’organico dell’ufficio è anche aumentato non solo per i nove posti in più assegnati, ma perché sono tornati in Cassazione sia Romano che Fulvio Baldi, l’ex capo di gabinetto dimissionario per le chat con Palamara. Ma partiamo innanzitutto dai numeri e dall’esito del voto. A favore di Piccirillo nell’appello nominale delle 12 e 45 dicono sì i cinque consiglieri della sinistra di Area, i tre di Unicost, Salvi, il primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone (di Magistratura indipendente), il laico di Forza Italia Cerabona. Votano no i due laici della Lega Cavanna e Basile, il forzista Lanzi, Di Matteo, Ardita e Ilaria Pepe di Autonomia e indipedenza, D’Amato di Mi. Si astengono in quattro, Davigo e Marra (di A&I), Micciché e Braggion di Mi. Evidente già qui come sia Magistratura indipendente che Autonomia e indipendenza si siano divise su Piccirillo. Altrettanto evidente dai numeri, anche se l’argomentazione viene contestata durante il plenum, è che si sia creato un asse tra la destra della politica, Lega e Forza Italia, con la destra della magistratura, che cerca di fermare il sì a Piccirillo. Un magistrato senza un’appartenenza correntizia, ma solo vagamente riconducibile alla sinistra di Area. Chi vuole bloccare la sua nomina in via Arenula usa proprio un argomento tecnico e numerico. Cioè la scopertura alla procura generale della Cassazione del 20,83%. Lo sostiene subito il leghista Cavanna. Lo motiva Nino Di Matteo, reduce dallo scontro con il Guardasigilli Bonafede sulla sua mancata nomina due anni fa a capo del Dap. Ecco il suo ragionamento: “Sulla scopertura della Cassazione, il 4 marzo 2020, in terza commissione, ampliando i posti di quel concorso da sette a nove, abbiamo scritto che gli uffici versano in situazione di particolare sofferenza per vuoti di organico e per carichi lavoro, soprattutto per il lavoro della commissione disciplinare. Dal 4 marzo le esigenze disciplinari sono aumentate. Noi non possiamo, a seconda dei casi e delle esigenze, attestare un dato certamente reale e poi ignorarlo sulla base di esigenze contrapposte quando quel dato si è aggravato”. Interviene Salvi, e l’argomentazione perde vigore. Ma ne resta sul tappeto un’altra, quella della rilevanza costituzionale del ministro della Giustizia e della possibilità di negargli il suo primo collaboratore, il capo di gabinetto che ha chiesto. Qui parte una nuova divisione. Perché i laici di M5S - Donati, Benedetti e Gigliotti - non hanno dubbi sul fatto che la Costituzione “copre” ampiamente le funzioni del Guardasigilli. Mentre all’opposto c’è chi lo nega. Perché, come sostiene Ilaria Pepe di A&I, la Carta “copre il ministro, ma non di certo i suoi collaboratori”. Ma c’è un’altra tesi di Di Matteo che agita il Csm, quella che lui spiega così: “L’enorme questione sta nella folle e scomposta corsa di magistrati per avere incarichi direttivi e posti fuori ruolo, e nella decisione delle correnti su chi debba vincere. Questo è il problema, non tanto quello delle porte girevoli tra politica e giustizia. In molti casi, e questo è il caso, è che le porte girevoli si muovono vorticosamente, rivelando una magistratura alla ricerca di cariche di prestigio”. Ovviamente Di Matteo cita la storia di Piccirillo che “già tra il 2014 e il 2018 aveva avuto incarichi con un altro governo”. Da qui il suo netto no a concedere al collega un altro fuori ruolo, questa volta con Bonafede. Sul fronte opposto, tra chi invece vota per il via libera a Piccirillo, ci sono gli argomenti di Giuseppe Cascini di Area, di Michele Ciambellini di Unicost, dei laici di M5S, da un lato la rilevanza costituzionale del ruolo del Guardasigilli e dall’altra la debolezza delle argomentazioni sul vuoto in Cassazione dopo la puntualizzazione di Giovanni Salvi. Nonché, soprattutto, il precedente del via libera a Giulio Romano, proveniente dallo stesso ufficio e destinato al Dap, cioè sempre all’amministrazione della Giustizia. Perché sì a lui appena tre mesi fa e adesso no a Piccirillo? Nessuno lo dice, ma certo pesa il fatto che in via Arenula Bonafede stia lavorando alla riforma del Csm. Come pesa sicuramente la dura contrapposizione tra lui e Di Matteo. Che presto, davanti alla commissione parlamentare Antimafia, confermerà la ricostruzione dei fatti di due anni fa che, come lui stesso ha già sostenuto, non lo portarono al vertice del Dap. Ermini: “Csm, bene la riforma anti-correnti. Le toghe rispondano solo alla legge” di Francesco Grignetti La Stampa, 5 giugno 2020 Il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura: “Stop alle porte girevoli con la politica. Chi entra nel Consiglio deve tagliare il cordone ombelicale con il passato, come accade per la Consulta”. È vigilia di grandi trasformazioni, al Consiglio superiore della magistratura. L’onda lunga del caso Palamara l’ha investito frontalmente e il governo sta lavorando per rivedere le regole. Il vicepresidente David Ermini è pronto a collaborare per una riforma “che è necessaria”. Giusto sbarrare le porte girevoli tra politica e magistratura… “Ottimo”. Ma una legge non sarà sufficiente, se la mentalità del correntismo resterà dominante. “Ci vuole una rivoluzione culturale. Chi entra nel Csm deve tagliare il cordone ombelicale con il passato, come accade per la Consulta”. Ermini, aspettando il testo della riforma, quali sono i paletti irrinunciabili? “Facile: va salvaguardato l’autogoverno della magistratura, ma soprattutto l’autonomia della giurisdizione, di cui sono parti fondamentali anche gli avvocati e i professori del diritto. È un cardine della democrazia, lo prevede la Costituzione, ed è un architrave del nostro sistema istituzionale. Che è fatto di pesi e contrappesi. Perciò io dico che sì, occorre una riforma, e non spetta a noi del Csm dire il come. Deciderà il Parlamento nelle sue sovrane prerogative. Noi ovviamente non faremo mancare il nostro parere, strettamente tecnico, mai politico”. Andiamo al cuore del problema. Lei che cosa raccomanderebbe? “Interrompere il meccanismo delle cosiddette porte girevoli. Se un magistrato decide di scendere in politica, poi non può tornare indietro come nulla fosse. Occorre salvaguardare anche la percezione d’imparzialità che il cittadino ha della magistratura. Ma c’è un altro problema non minore: vanno scollegate le correnti dal Consiglio superiore. Noi siamo stati votati dopo essere stati designati da un gruppo parlamentare o anche da una corrente, non mi scandalizzo, ma subito dopo bisogna dimenticarsene. Come è per i giudici della Corte costituzionale. Una volta eletti, si deve rispondere solo alla legge, alla Costituzione e al Presidente della Repubblica. E ciò a salvaguardia proprio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura”. Le famose intercettazioni in fondo raccontano che lei si è reso autonomo da chi l’aveva proposto e sostenuto e aveva delle attese… “Ho letto. E non fa piacere vedere che persone che mi avevano sostenuto nutrivano nei miei confronti quel tipo di considerazione. Umanamente, è stato doloroso. Ma come è evidente, se qualcuno pensava questo, non è andata così”. Negli incontri notturni contro di lei erano scatenati… “Perché ormai mi vedevano come un ostacolo ai loro disegni”. Era iniziata la partita più importante di tutte, la scelta del nuovo procuratore capo di Roma…. “Prima ancora, c’era stato il problema di Torino. Armando Spataro era andato in pensione a dicembre, io insistevo con la commissione Nomine di fare presto, ma vedevo che non si procedeva”. Si capì che qualcosa non andava perché lei chiese di tenere audizioni con i candidati a procuratore di Roma e non la ascoltarono… “Esatto. Non mi ero inventato nulla. Il Presidente Mattarella ci aveva chiamato al Quirinale un po’ di mesi prima, a me e ai presidenti delle diverse commissioni, e ci aveva raccomandato di procedere alle nomine secondo l’ordine cronologico di scopertura, così come previsto dalla circolare, una alla volta, non a pacchetto, e tenendo dove possibile le audizioni, come era prassi in occasione delle nomine dei grandi uffici giudiziari. Sa, un’audizione è importante. Permette di conoscere la persona, di fargli qualche domanda, di toccare con mano le sue idee. Sono tutti candidati di altissimo livello. È ovvio che siano ferrati. Ma saranno anche buoni capiufficio?”. Le dissero di no… “Quel giorno non ho avuto paura di fare la mia battaglia. Pur sapendo che non sarei stato ascoltato e che avrebbero bocciato una mia richiesta condivisa con il Quirinale. Questa ora è agli atti. E su questa strada, posso assicurarlo, il Consiglio andrà molto avanti”. L’Associazione magistrati è pronta a rigenerarsi. Ma ora la politica ci ascolti di Luca Poniz* Il Dubbio, 5 giugno 2020 “Il linguaggio che usiamo parlando in confidenza e intimità è un trojan. È una spia autentica, degnissima di fede. Via le maschere artificiali della decenza e della convenienza, mette in mostra una sostanza”, scriveva Gustavo Zagrebelsky, commentando, un anno fa, la pubblicazione delle prime intercettazioni e di parti significative dell’indagine di Perugia. Un anno dopo, altri pezzi di dialoghi (quanto selezionati, e con quale criterio, si vedrà) offrono elementi ulteriori dello stesso mondo, ma con una “prospettiva” più ampia: un diffuso sistema di relazioni, e ulteriori aspetti della stessa sostanza. Una sostanza che oscilla dall’illecito, al torbido, dall’inopportuno all’avvilente, e che interessa diversi, e diversamente gravi, piani: l’interferenza esterna sul Csm; carrierismo e correntismo, e rapporto tra magistratura e autogoverno (e dunque condizionamento interno del Consiglio); sospetti di interferenza giurisdizionale; rapporto tra politica e magistratura, nella sua evidente reciprocità, ben oltre i luoghi, e i momenti, in cui essa è fisiologica, e assume anzi i contorni di una relazione personale, e quelli discutibili di un’ambizione personale, evidentissima nel protagonismo di taluno. Sarebbe naturalmente singolare affrontare oggi “il caso Palamara” dal solo lato del suo ruolo, e delle sue condotte: e tuttavia appare non meno singolare la pretesa - evidentemente tutt’altro che disinteressata - di trarre dalla sua pur indubbia, enorme rilevanza una sorta di paradigma dell’intera magistratura, e soprattutto del modo di essere della giurisdizione, della sua imparzialità, e del suo rigore, in un tentativo di delegittimazione che muove da giudizi sommari ed indistinti, e pretende di travolgere tutto, magistratura, Csm, associazionismo giudiziario. Un anno fa emerse con nettezza un tentativo di condizionamento del Csm nella scelta del Procuratore della Repubblica di Roma; la gravità dei fatti portò ad una rivolta nella comunità dei magistrati, ed a conseguenze senza precedenti. Cinque consiglieri del Csm e il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione dimessi, come richiesto con fermezza dall’Anm. Ad oggi l’assunzione di responsabilità ha riguardato solo i magistrati coinvolti, mentre non ha riguardato minimamente il lato della politica. Quei fatti mostrarono subito l’urgenza di interventi, che infatti l’Anm ha posto immediatamente al centro del dibattito e della proposta, rivolta alla politica, al Csm e naturalmente alla magistratura stessa, ed ai gruppi associativi. È doveroso ricordare che con largo anticipo rispetto all’esplosione dello scandalo rivelato dall’indagine di Perugia, l’Anm aveva sollecitato il legislatore ad intervenire sui tanti nodi che essa ha disvelato: sul rientro in ruolo dei magistrati dopo aver ricoperto varie funzioni politiche, ponendo in modo chiaro il tema della possibile compromissione dell’immagine di imparzialità e di terzietà; sul rientro in ruolo dei Consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura, sollecitando la previsione di un termine più ampio prima che potessero richiedere qualsivoglia incarico diverso da quello prima ricoperto (e siamo ancor oggi in attesa di conoscere chi, e perché, abbia voluto, all’opposto, cancellare del tutto il termine, evidentemente nell’interesse di aspirazioni soggettive); aveva sollevato reiterati rilievi sull’attuale legge elettorale per l’elezione del Csm. Eppure non una delle nostre proposte è stata accolta; come nessuna delle altre avanzate, con ancora maggiore completezza, nel giugno del 2019, all’esplodere della crisi e alla esplicita presa d’atto che urgeva (ed urge oggi ancora di più) una serie di riforme imposte dalle ragioni della crisi stessa: un nuovo sistema elettorale in grado di restituire ai magistrati una scelta reale e non condizionata dai gruppi (l’Anm ha cercato, per le elezioni suppletive conseguenti alle dimissioni dei consiglieri, di favorire questo percorso, sia pure nei limiti delle norme esistenti); una modifica radicale delle norme sull’ordinamento giudiziario, al fine di ridisciplinare la carriera, le sue tappe (spesso trampolini di lancio per tappe ulteriori), e ridurre gli spazi di un’ampia discrezionalità che, concessa dal 2006 al Csm, ha costituito una formidabile occasione di esercizio di potere, più che delle correnti, dentro le correnti; una vera temporaneità delle funzioni direttive. Molti altri i temi da affrontare: tra essi l’assetto delle Procure, improntato dalla riforma del 2006 ad una accentuata gerarchizzazione interna, e sottratto ad un penetrante controllo organizzativo che invece il Csm esercita sugli uffici giudicanti. È sorprendente dunque che oggi l’Anm sia destinataria di critiche di segno opposto: inerzia colpevole, se non corrività; o “interferenza indebita”, come se analizzare, discutere, proporre non costituisca la ragione stessa, e l’essenza, dell’associazionismo giudiziario. Essenziale, però, affrontare - senza l’alibi delle inerzie e delle responsabilità altrui - quello che la magistratura può e deve fare, da sé, senza attendere la politica, ed anzi precedendola: muovere da una severa, schietta, profonda autocritica, che riguarda il modo di concepire l’associazionismo, il suo ruolo, e in esso le correnti, la loro dirigenza, le relazioni improprie per loro tramite coltivate. Se è vero che (l’avvilente) competitività tra i magistrati, determinata da diffuse ambizioni di carriera, ha trovato terreno fertile in riforme ordinamentali da ripensare dalle fondamenta, è non meno vero che essa ha intercettato le peggiori dinamiche di potere e i più deteriori costumi dentro le correnti: compito nostro è riscrivere le regole dell’etica dentro i gruppi, restituendo a loro e all’Associazione, che ne è l’alto denominatore comune, il ruolo essenziale che ha avuto nell’attuazione del modello costituzionale di giurisdizione. È in gioco la fiducia dei cittadini nei loro giudici, e con essa il fondamento della nostra legittimazione. *Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati La guerra tra politica e magistratura, una lotta di potere senza innocenti di Giorgio Cavagnaro Il Dubbio, 5 giugno 2020 Qual è la reale posta in gioco? La diatriba in atto sul tema della giustizia italiana riveste in tutta evidenza un’importanza cruciale. In un tempo in cui i giudizi vengono tagliati con l’accetta dei 240 caratteri di Twitter, gli antichi volumi consegnati alla saggezza umana da secoli di Diritto sembrano essere polverizzati, annichiliti in un vortice distruttivo che non conosce più il bene supremo della riflessione. Così, mi sono rivolto a una fonte sicura. Un mio parente stretto, ormai abbondantemente oltre gli ottant’anni, è stato procuratore Generale della Repubblica. Conosco bene la sua onestà intellettuale, cristallina, e mi sono deciso a chiedergli cosa ne pensasse del momento presente, in termini di rapporto tra magistratura e politica. Non è facile per me distillare, nella marea di dettagli, molti anche tecnici, che mi è stata proposta con la precisione del giurista e l’angoscia desolata dell’uomo ormai irrimediabilmente disilluso, un’opinione personale sul tema. Quello che mi è apparso chiaro è che la guerra senza quartiere tra i due poteri, politico e giudiziario, dura ormai da troppi decenni ed è giunta a un punto che rischia di essere fatale per la Repubblica. La magistratura, da sempre convinta che il grande Male, la corruzione, si sia impossessato della politica in modo irreversibile, è scesa in campo lancia in resta, animata da un fervore quasi mistico. Trasformandosi però assai repentinamente in una livida replica del nemico originale, la politica sporca, come spesso accade. Le correnti dell’Associazione nazionale magistrati come i partiti politici, la lotta per il potere che si sostituisce alle buone intenzioni, il giustizialismo che cede il passo alla giustizia. Come sempre, tutto dipende dagli interpreti. Ci sono stati Falcone e Borsellino e c’è Luca Palamara. C’è stata la prima Repubblica, inchiodata dalle circostanze internazionali a cinquant’anni di potere democristiano e c’è stato il ciclone di Mani Pulite, che di fatto ha aperto la strada al regno, per molti rivelatosi tutt’altro che positivo per l’Italia, di un leader con conflitto di interessi del calibro di Silvio Berlusconi. Oggi il rischio è ancora più grande, lo stridore delle armi in un campo di battaglia sempre più lontano dalla comprensione popolare, è assordante. Da una parte, una magistratura mai così inquinata e “carrierista”; dall’altra una politica dallo spessore ben sotto il limite di guardia. E la posta in gioco, stavolta, si chiama sistema democratico. Dopo Magistratopoli, 9 idee per riportare la legalità tra le toghe di Piero Sansonetti Il Riformista, 5 giugno 2020 Magistratopoli passerà. Le macchine che cancellano tutto sono già in moto. In particolare, nell’opera di rimozione, sono impegnati i grandi giornali, che seminano silenzi come non facevano da 70 anni. È da quando è nata la repubblica che i giornali non erano così silenziosi e omertosi. Pagine bianche. La ferita per la libertà di stampa è profondissima, non sarà facile rimarginarla. Allora proviamo a fare un po’ d’ordine, prima che cali il silenzio e ci si dimentichi persino il nome di Luca Palamara. Mettiamo per iscritto nove domande alle quali, ne siamo abbastanza certi, nessuno vorrà rispondere. 1 - Se risulta che la gran parte dei procuratori nominati negli ultimi due anni e mezzo (da quando ha iniziato a funzionare il trojan) hanno ottenuto la nomina non sulla base dei propri meriti, della propria sapienza, delle proprie competenze e abilità, ma invece in virtù di piccoli giochi di potere, non è giusto annullare tutte le nomine? Provo ad essere più chiaro, e magari un po’ più rozzo: il voto in Csm con il quale sono stati scelti i procuratori è stato in modo evidente un voto di scambio. Non dico che sia reato (non lo ho mai pensato), ma che valore può avere una nomina ottenuta col voto di scambio? 2 - Se i magistrati hanno chiaramente dimostrato di non sapersi governare, chi deve governare la giustizia e la magistratura? Le intercettazioni ci spiegano senza possibilità di errore che i magistrati approfittano della composizione del Csm, dove dispongono della maggioranza assoluta, per fare mercato di potere e non per amministrare la giustizia. Del resto non si capisce come nella tripartizione dei poteri possa esistere un potere del tutto sciolto da ogni controllo. Diciamo, usando il vocabolario, un potere assoluto. Un potere assoluto non è compatibile con uno stato liberale. E allora non è forse necessario immaginare un Csm che sia estraneo ai giochi di potere della magistratura e che possa esercitare un controllo reale sulla magistratura? Diciamo un Csm composto da giuristi, avvocati, personalità della cultura, magari anche ex magistrati - scelti dal Parlamento con maggioranze molto larghe e con mandato molto lungo - in grado di controllare davvero, e dunque di ridurre, il potere della magistratura. 3 - Quante sentenze emesse in questi anni sono state oggetto di un negoziato tra Pm e giudice? Che vuol dire negoziato? Che se un Pm ha un potere riconoscibile all’interno dell’Anm, o ha fatto parte del Csm e dunque, ragionevolmente, può avere ancora voce in capitolo sulle nomine e sulle carriere dei giudici, come si può pensare che il giudice sia imparziale e non condizionato nel momento in cui deve accettare o respingere una richiesta di quel Pm? 4 - Non è il caso, allora, di annullare tutte le sentenze che sono state emesse in condizioni simili a quelle descritte al punto 3, e di rifare tutti i processi? Di più: non vanno annullati tutti i procedimenti avviati da Pm “sospettabili” di eccesso di potere e tutte le decisioni prese dal Gip che possono avere subito l’influenza dei Pm? 5 - Si può riformare il Csm senza prima decretare la separazione delle carriere? Le intercettazioni dimostrano che attualmente l’articolo 111 della Costituzione, che prevede l’imparzialità e la terzietà del giudice (e quindi anche del Gip) cioè l’equidistanza nei confronti dell’accusa e della difesa, non è rispettato. Gip, giudici, Pm, Procuratori si frequentano, familiarizzano, vanno a cena, fanno “banda” (è una espressione che si trova in una delle intercettazioni) e dunque operano in una situazione di totale illegalità. Ed è una illegalità - realizzata in forma di sopraffazione - che lede drammaticamente i diritti degli imputati. Non è urgente separare le carriere e separare anche i luoghi fisici di lavoro, cioè le procure e i tribunali, e di conseguenza istituire due organi distinti di governo della magistratura? Come può essere terzo un giudice la cui carriera viene determinata da un organismo dove i Pm sono grande maggioranza (l’attuale Csm)? 6 - Il dottor Palamara, recentemente, in Tv - che ormai è uno dei luoghi privilegiati della giurisdizione - ha spiegato che le intercettazioni che lo riguardano sono “decontestualizzate”. E che questo produce pessime interpretazioni. Quindi non hanno valore. Ha ragione. Non è forse vero che sulla base di intercettazioni decontestualizzate sono state emesse tonnellate di sentenze di condanna? Spesso, addirittura, sulla base di intercettazioni non dirette, ma di persone non imputate che, chiacchierando, accusavano l’imputato? Se dobbiamo prendere sul serio le parole di Palamara - e penso che dobbiamo - non dovremmo anche annullare tutte le sentenze pronunciate sulla base esclusiva di intercettazioni? 7 - Se il magistrato - come dice la Costituzione - deve essere sottoposto solo alla legge, l’Anm non è una associazione illegale? Il magistrato, se non è un eroe isolato - ce ne sono, ma non sono la maggioranza - è sicuramente condizionato dall’Anm, che del resto rivendica il suo ruolo e la sua egemonia. E in particolare è condizionato dalla corrente alla quale si è iscritto. Questo è contro la legge. La Anm non è, nelle condizioni attuali, un’associazione sovversiva, che intralcia la democrazia e lo stato di diritto? 8 - Un membro del Csm, e precisamente il togato Nino Di Matteo, ha accusato il ministro della Giustizia di avere preso decisioni politiche e amministrative subendo il ricatto della mafia. Questo, evidentemente, è un reato. La Procura di Roma ha avviato una indagine sul ministro accusato di concorso con la mafia? Oppure contro Di Matteo sospettabile di calunnia? O, ancora, contro lo stesso Di Matteo che per due anni, avendo la notizia del reato del ministro Bonafede, l’ha nascosta? 9 - L’associazione magistrati, attraverso il proprio giornale (Il Fatto Quotidiano) ha avanzato la sua proposta di riforma del Csm: l’idea - in presenza delle prove di una degenerazione della componente togata del Csm - è quella di aumentare questa presenza, eliminando la piccola componente democratica (quella scelta dal Parlamento e quindi dai cittadini). Si può immaginare questa richiesta come una vera e propria proposta, ufficiale, di stabilire il potere assoluto della magistratura (soprattutto della magistratura deviata) e di trasformare lo Stato di diritto in Stato dei Pm? Detenute madri: sì ai domiciliari anche se ci sono precedenti e la pena residua è oltre il tetto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 4 giugno 2020 n. 16945. Domiciliari, per la donna con figli di età inferiore ai 10 anni, anche se ha molti precedenti per furto aggravato e il rischio di recidiva. E non importa neppure che la pena residua sia superiore ai 4 anni. La Corte di cassazione, con la sentenza 16945, annulla l’ordinanza con la quale era stata respinta la domanda di detenzione domiciliare, misura concessa alla donna per tre anni ma revocata quando la sua condanna per furto aggravato era diventata definitiva. Alla base del no, malgrado la presenza di figli con un’età inferiore ai 10 anni, uno dei quali aveva appena compiuto i tre, i numerosi precedenti per furto aggravato. Un crimine che l’imputata, aveva continuato a commettere anche quando era incinta, usando anzi il suo stato, per evitare il carcere. Per i giudici del riesame era alto anche il rischio di recidiva e poco adatto il luogo per la detenzione domiciliare nel quale la ricorrente viveva con il compagno, anche lui con un discreto “curriculum” penale. La Cassazione si muove però sulla scia della giurisprudenza della Consulta, affermando la necessità di bilanciare i dati con l’interesse all’unità del nucleo familiare, rilevante ai fini dello sviluppo della personalità del minore al quale la norma (articolo 47quinquies dell’ordinamento penitenziario) è finalizzata. Rivelazione di segreti industriali per chi utilizza know-how della vecchia azienda in altra nuova di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 4 giugno 2020 n. 16975. Rivelazione di segreti industriali per i meccanici che, prima lavoravano presso una grande azienda e che successivamente creando una srl, si sono messi in concorrenza con la vecchia impresa costruendo prodotti con caratteristiche simili. Questo il principio espresso dalla Cassazione penale con la sentenza n. 16975/20. I fatti - Quattro prestatori operavano per un’importante azienda che si occupava di costruire e di commercializzare apparecchiature meccaniche, elettroniche per il serraggio, il cui mercato era costituito da importanti case automobilistiche italiane ed estere quali Fiat, Mercedes, Audi, Ferrari e Ducati. La società era riuscita a raggiungere livelli tecnologici davvero importanti realizzando un prodotto molto sofisticato denominato “Torque supervisor”, finalizzato alla gestione dei fissaggi. Successivamente parte dei lavoratori hanno abbandonato la società costituendone altra analoga che produceva macchinari molto simili a quelli fatti in precedenza. Ricorda la Cassazione come nel caso concreto ricorra la concorrenza sleale, infatti, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’oggetto specifico della violazione, nel caso di specie, non ha riguardato l’appropriazione di software, ma il complesso delle informazioni ulteriori e successivamente acquisite dalla ex società di appartenenza, che ha portato alla elaborazione di know how originale altamente sofisticato. Conclusioni - Peraltro è bene ricordare come già la Corte d’appello avesse riscontrato sia il danno patrimoniale, sia quello non patrimoniale, consistito nel danno all’immagine imprenditoriale patito dalla parte civile per essere stata screditata dai propri collaboratori ponendo sul mercato un prodotto alternativo a quello della società presso cui avevano lavorato fino a pochi mesi prima i quattro ricorrenti. La prescrizione non esime il giudice da accertare se il testimone ha detto la verità di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 4 giugno 2020 n. 16986. La verità di quanto espresso dal testimone è alla base dell’esimente della diffamazione agita nell’adempimento di un dovere. Infatti, se si appura che il testimone ha mentito, venendo meno al dovere di dire la verità, la causa di non punibilità non scatta determinando l’irrilevanza penale delle affermazioni diffamatorie. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 16896 di oggi ha dichiarato carente la sentenza che nel constatare la prescrizione del reato di diffamazione contestato aveva totalmente mancato di accertare la verità o meno delle dichiarazioni rese dal ricorrente in un’audizione davanti al tribunale dei minori. Come chiarisce la Cassazione tale lacuna motivazionale non è giustificata dal fatto che il reato sia prescritto e lascia irrisolta l’accusa ai fini degli effetti civili. La vicenda - La vicenda riguarda la testimonianza resa dal compagno della madre di un minore conteso con il padre. Quest’ultimo era stato, infatti, accusato di aver manipolato il proprio figlio al fine di fargli dire che il compagno della madre aveva avuto comportamenti abusivi verso di lui. E, inoltre, che il padre del bambino aveva falsamente affermato di essere stato vittima di violenza privata da parte del ricorrente che lo avrebbe minacciato al fine di far ritrattare le accuse nei propri confronti. In un clima altamente conflittuale determinatosi dall’incrocio di due coppie (l’ex moglie del ricorrente aveva poi sposato il padre del bambino) dove i rispettivi figli minori avevano patito la separazione dei propri genitori, sarebbe stato importante acclarare la verità dei fatti addebitati in sede di audizione davanti al giudice minorile. Ma la verità del fatto addebitato, e lamentato come “diffamatorio”, è comunque una componente essenziale del giudizio e, in particolare, nel caso dove formalmente ricorre una scriminante che rende invece perfettamente lecite le attribuzioni di responsabilità contro chi si ritiene diffamato. Campania. Tre suicidi in pochi mesi, quando il carcere toglie la libertà e anche la vita di Viviana Lanza Il Riformista, 5 giugno 2020 La denuncia del Garante dei detenuti: in Campania cresce il numero delle persone che si uccidono in cella. Nel 2019 impennata di atti autolesionistici. Ciambriello: gli educatori non bastano, servono altre figure sociali. Dario aveva 38 anni, era nato e cresciuto nel Salernitano ed era arrivato nel carcere di Secondigliano per un’accusa legata a un reato odiosissimo, violenza sessuale. Era in attesa di giudizio, come la maggior parte dei detenuti nelle carceri italiane. Il 27 febbraio lo hanno trovato impiccato nella sua cella mentre il mondo fuori cominciava a fare i conti con l’epidemia da Coronavirus. È stato un caso di suicidio. Emil, 32 anni, era arrivato in Italia dalla Romania ed era finito nel carcere di Aversa per espiare una condanna per il reato di rapina. A novembre avrebbe riacquistato la libertà, ma non ce l’ha fatta ad aspettare: lo hanno trovato il 5 aprile scorso impiccato. Suicidio anche in questo caso. Lamine aveva 28 anni, era algerino. Si è suicidato il 5 maggio scorso, asfissia da gas la causa del decesso stabilita dai medici. È stato trovato senza vita nel reparto Danubio ma proveniva dal reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere dove circa un mese prima altri detenuti avevano denunciato di aver subìto presunti pestaggi. Dario, Emil e Lamine sono i tre detenuti morti suicidi in istituti di pena campani i cui nomi sono finiti nell’elenco dei 21 casi registrati dall’inizio del 2020 nelle carceri di tutta Italia. Sono nomi le cui storie finiscono archiviate come “eventi critici” e usate per statistiche che rendono le dimensioni di un bilancio sempre drammatico, provando a riportare la questione della vivibilità in carcere tra i temi delicati per i quali viene richiesto un maggiore impegno da parte della politica e delle istituzioni. Un nuovo grido di allarme arriva dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: “L’emergenza Coronavirus ha pesato enormemente sulla già precaria situazione delle carceri in Campania. Dall’inizio dell’anno in Italia si sono registrati 21 suicidi, tre in Campania dal 27 febbraio ad oggi. Le galere servono a togliere la libertà, non la vita”, tuona Ciambriello. “Ogni suicidio - aggiunge - ha una risposta diversa ma comunque propone sicuramente delle domande e le sintesi esplicative non funzionano per spiegare gesti di disperazione così gravi. La scelta di una persona di togliersi la vita non deve mai, da nessuno, essere strumentalizzata”. Ciambriello punta l’attenzione su un dato comune ai suicidi degli ultimi tempi: “Mi colpisce il fatto che, tra gli ultimi suicidi in Italia, ci siano persone che avevano appena fatto ingresso in istituto ed erano state collocate in isolamento sanitario precauzionale”. La maggior parte di chi ha scelto di togliersi la vita, quindi, non era in cella da molto tempo. Cosa abbia spinto queste persone a un gesto così estremo? Quali paure e quali angosce fanno leva su di loro al punto da decidere di non darsi nemmeno più una possibilità? “Dietro una scelta di suicidio - spiega il garante regionale dei detenuti che da anni si impegna in Campania per i diritti di chi è recluso in carcere - può esserci solitudine, disagio psichico, trattamento sommario con psicofarmaci, assenza di speranza, disperazione per il processo o la condanna, abusi. Non è possibile ricondurre a una la motivazione”. È chiaro che ci sono aspetti su cui occorre soffermarsi con riflessioni più ampie. “Non si può morire di carcere in carcere - ribadisce Ciambriello - Invito le istituzioni ai vari livelli, il Ministero della Giustizia, gli operatori del privato sociale, a una riflessione perché accanto alla precarietà endemica del carcere si stanno aggiungendo vulnerabilità e disagi in questo periodo di Covid”. Il particolare momento storico vissuto attualmente con gli effetti dell’isolamento causato dalla pandemia possono aver avuto un peso, ma il discorso appare più complesso. Ciambriello pone anche l’accento sulla necessità di misure mirate. “In questo senso occorre prevedere un incremento di figure sociali sostanziali, altro che un concorso per 95 educatori in tutta Italia. Bisogna andare oltre l’attuazione di quel protocollo anti-suicidario che si applica in condizioni normali ma che non dà buoni risultati”. Dall’ultima relazione annuale sulle carceri emerge che a fronte di un calo dei decessi per morte naturale negli istituti campani (-13%) si è registrato nel 2019 un aumento dei suicidi (53 casi, il 41% in più rispetto al passato) e una preoccupante impennata dei tentativi di suicidio (1.198 casi). Vuol dire che un detenuto ogni 900 ha provato a togliersi la vita in cella. Marche. Il Garante fa ripartire l’azione di monitoraggio degli istituti penitenziari occhioallanotizia.it, 5 giugno 2020 Riparte venerdì da Villa Fastiggi di Pesaro l’azione di monitoraggio degli istituti penitenziari marchigiani, messa in atto dal Garante dei diritti Andrea Nobili. Nel periodo di lockdown la verifica della situazione complessiva ed i colloqui con i detenuti sono stati concretizzati per via telematica. Un’unica eccezione nei giorni scorsi, quando l’Autorità di garanzia ha effettuato un sopralluogo a Montacuto e Barcaglione per una valutazione, risultata pienamente positiva, delle disposizioni adottate in occasione del ripristino degli incontri tra gli stessi detenuti ed i loro familiari. Da questa settimana l’azione ritornerà in presenza e Nobili ha già chiesto di poter incontrare il Direttore della Casa circondariale di Pesaro, nonché il Comandante della Polizia penitenziaria, il dirigente medico e quello che sovrintende le attività trattamentali. Saranno ascoltati anche i detenuti che ne hanno fatto richiesta. “Il ritorno alla normalità - sottolinea Nobili - va ovviamente supportato attraverso tutte le precauzioni del caso. Per questo motivo abbiamo ritenuto necessario un confronto con le diverse componenti che operano nel carcere, allo scopo di avere una fotografia quanto più esaustiva della situazione, a partire dall’aspetto sanitario. Il nostro auspicio è anche quello di poter riattivare, quanto prima, le attività trattamentali, dando così seguito ai diversi progetti già in itinere prima dell’emergenza epidemiologica”. Nei prossimi giorni il Garante visiterà tutti gli altri istituti marchigiani, estendendo la richiesta di incontro a direttori, comandanti e dirigenti di settore. Milano. Morto a 48 anni nel carcere di Opera, Francesco è evaso... dopo 28 anni al 41bis di Sergio D’Elia Il Riformista, 5 giugno 2020 Francesco Di Dio ha tolto il disturbo, se n’è andato in silenzio, senza lanciare un allarme. Solo nella sua cella del carcere di Opera, il cuore ha smesso di battere e si è addormentato per sempre. Lo immagino ancora vivo, disteso sul letto, con la sua faccia sempre serena e sorridente, rotonda come una luna piena. Aveva 48 anni ed era in prigione da 30. Soffriva di mali che un po’ la natura gli ha inflitto, ma che la galera, con il suo carico strutturale di dolore aggiuntivo, ha reso intollerabili, più gravi e irreversibili. Dei suoi decenni di pena e dei suoi dolori, Francesco non si è mai lamentato. I primi li ha accettati come un dovere, per i secondi a volte non veniva creduto. Come accade spesso in carcere, dove il luogo comune, anche contro ogni evidenza, è sempre lo stesso: il detenuto simula l’inesistente, manifesta l’inverosimile, proietta la propria malattia, per scamparla, per evadere da una realtà deprimente, mortifera. Nessuno vuole intendere che il carcere è di per sé dannoso, criminale e criminogeno, aggiunge dolore a dolore, odio a odio, violenza a violenza. Francesco era altruista al punto da non considerare mai sé stesso, il suo cuore che batteva a intermittenza irregolare, il suo respiro sempre colto d’affanno. Soprattutto il suo diabete, che si era incaricato di fare quello che il potere da tempo avrebbe dovuto e non aveva voluto fare: sospendere l’esecuzione della pena per gravi motivi di salute. Il diabete si era assunto la responsabilità di scarcerarlo un po’ alla volta, partendo dai piedi, amputati poco a poco, un pezzo oggi un pezzo domani. Finché non è “evaso” del tutto, uscito - come si dice - coi piedi davanti, con le parti rimaste. In piena pandemia aveva rifiutato un ricovero in ospedale, non si sa se per paura del colpo di grazia di un possibile contagio o per non occupare un posto letto che voleva lasciare libero per altri che lui riteneva più gravi di lui. Prima gli altri, avanti il prossimo, qualcuno che più di lui meritasse attenzione, soccorso, cura, Era iscritto a Nessuno tocchi Caino e al Partito Radicale. Veniva ai laboratori Spes contro spem nel teatro di Opera, a volte in sedia a rotelle, a volte con le stampelle. Il suo modo d’essere lo portava sempre a pensare bene, a sentire e sentirsi bene, a fare del bene. Era l’incarnazione della speranza contro ogni ragionevole speranza. Ho conosciuto Francesco la prima volta nell’estate del 2002 durante un viaggio che con Maurizio Turco ci ha condotto a scoprire un mondo avvolto nel segreto di stato, le cayenne italiane del 41bis, macabro monumento della lotta alla mafia e quintessenza dell’isolamento. Un totem sacro e intoccabile per l’antimafia di professione, quella giudiziaria e quella giornalistica, unite come un sol uomo nella gestione di un “negozio” che ha la sua bella e luccicante vetrina, ma anche un retrobottega brutto e cupo. Dove in vetrina è esposto il capo fine e nobile della lotta alla mafia, mentre nel retrobottega è stipata la mercanzia grossolana comunemente usata nella lotta alla mafia. Tutti sono allineati e coperti alla necessità di conservare questo mondo. Nessuno che ricordi la “verità” elementare di Marco Pannella e la sua “lezione” di coerenza nonviolenta che ha sempre rifiutato la tragica dottrina ottocentesca del fine che giustifica i mezzi. Perché - diceva Marco - quel che accade è invece che i fini più nobili, idee sacrosante siano pregiudicati e distrutti dai mezzi sbagliati usati per conseguirli. Solo di recente il dogma del carcere duro ha visto cadere alcune delle sue più disumane e insensate prescrizioni, grazie all’opera della Corte Costituzionale che, nell’ultimo anno, prima ha consentito la cottura di cibi in cella e poi la possibilità di condividerli tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità. Nel 2002 - rileggo nel libro Tortura Democratica, scritto all’esito del viaggio nei luoghi dove non alberga la speranza - Francesco Di Dio era detenuto nel Carcere di L’Aquila, aveva 30 anni, era in carcere dal 28 gennaio 1991, in 41 bis dal luglio 1992, condannato in via definitiva all’ergastolo per strage e omicidio. La strage era avvenuta a Gela nel novembre 1990, che causò 8 morti e 7 feriti nello scontro tra stidda e Cosa Nostra. La stidda di Francesco era definitivamente caduta quando l’ho incontrato per la seconda volta. Era il 2015, c’era il Congresso di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Opera dove le stelle cadenti degli stidiciari violenti erano pronte, all’incontro con Marco Pannella, a diventare stelle comete che brillano di una luce interiore, la luce della coscienza, e illuminano una nuova via, finalmente orientata ai valori umani. Con Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, Maria Brucale, Simona Giannetti, ogni mese, incontravamo Francesco Di Dio, che ha animato fino alla morte, il Laboratorio Spes contra spem di Opera, insieme a Orazio Paolello e a Gaetano Puzzangaro, lo “stiddaro” che un tempo causò la morte e ora è testimone nella causa di beatificazione di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”. Come loro, Francesco era cambiato, aveva scelto la nonviolenza. Il sistema carcerario, invece, è rimasto quel che è sempre stato, strutturalmente violento. E, di fronte alla violenza del carcere che lo ha recluso fino alla morte, Francesco ha scelto la via del diritto e della tolleranza. Ha tolto il disturbo, si è liberato del carcere con una evasione innocente: se n’è andato di notte, nel sonno, senza procurare allarme ai suoi compagni, senza svegliare i suoi custodi, senza fare male a nessuno. Ancora una volta altruista, attento al prossimo. Un modo gentile per denunciare la durezza e la volgarità del carcere e della pena, un modo dolce di raccontare la banalità del male proprio del diritto penale che rispecchia in un modo eguale e contrario il male del delitto. Ciao Francesco, dedicheremo al ricordo di te il primo laboratorio di Spes contro Spem, appena torniamo a Opera, la fabbrica degli uomini rinati, dove Caino non abita più, è diventato costruttore di città. Reggio Calabria. I genitori sono in galera e lo Stato li abbandona di Ilario Ammendolia Il Riformista, 5 giugno 2020 Fratello e sorella, oggi bravi liceali, hanno per fortuna trovato supporto nei nonni. La battaglia di Rita Bernardini perché si riconosca il dovuto. Era il 30 luglio del 2014 quando due fratellini, Pippo e Katy, (nomi di fantasia) nel cuore della notte hanno visto la polizia piombare nella loro abitazione e portarsi via i loro genitori. Succedeva a Rosarno (Rc): Pippo aveva 13 anni e la bambina appena 10. Il Tribunale dei minori di Reggio Calabria ha affidato i due bambini ai nonni materni con il compito di mantenerli, provvedere alla loro istruzione ma anche di accompagnare i ragazzi a visitare i loro genitori in carcere, perché, nonostante tutto, sia Pippo che Katy continuano a vedere in loro “figure fondamentali di riferimento e dei quali attendono il ritorno a casa” (dalla sentenza di affido). I nonni non si sottraggono. Ed oggi i due ragazzi sono dei bravi liceali che frequentano la scuola con ottimi risultati. E lo “Stato”? Non pervenuto. Il nonno ha fatto il giro delle sette chiese per chiedere il contributo previsto da una legge dello Stato (n.149/2001 art.5) e da analoga legge dalla Regione Calabria. Inutilmente. Il diritto è stato negato! La pigrizia della burocrazia, s’è sommata al disinteresse degli organi dello Stato e della Regione, totalmente assenti nonostante siano in gioco le disposizioni sui minori riconosciuti dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991. Il mantenimento dei minori, fino a questo momento, è ricaduto interamente sulle spalle del nonno che è l’unico della famiglia ad avere un lavoro. Siamo venuti a conoscenza del “caso” perché i nonni dei ragazzi, stanchi e disperati, e dopo essersi rivolti inutilmente a tutte le autorità dello Stato e di Regione Calabria, sono arrivati a Rita Bernardini, del Partito radicale, che minaccia di iniziare uno sciopero della fame qualora la burocrazia statale e regionale perseverasse nel colpevole torpore. I calabresi in carcere rappresentano il 6,2% del totale dei detenuti sebbene la Calabria abbia appena il 3% della popolazione italiana. Quanti sono i casi come quelli di Pippo e Katy? Non lo sappiamo! Una cosa però appare certa: se i due ragazzi non avessero trovato dei nonni attenti e responsabili, il loro avvenire sarebbe stato segnato ed in un futuro prossimo, molto probabilmente, lo “Stato” sarebbe stato costretto a combatterli perché collocati dall’altra parte della barricata. In Calabria si spendono ogni anno milioni e milioni di euro in una presunta lotta contro la ‘ndrangheta caratterizzata da squadroni di militari armati sino ai denti, da auto blindate di ultima generazione e scortate come fossimo a Kabul, convegni a iosa e provvedimenti repressivi a strascico. Ma nessuno si cura di bonificare il terreno su cui il crimine attecchisce. E così un diritto negato oggi, si “traduce” molto spesso in un criminale da combattere domani. E purtroppo c’è chi dei criminali ha bisogno come l’aria per giustificare la presenza sul territorio calabrese del più imponente apparato repressivo dell’Europa occidentale. Il “caso” di Pippo e Katy è l’ulteriore dimostrazione di quanto faccia comodo la “Calabria criminale” per non affrontare seriamente la questione meridionale. Modena. Il Sindaco risponde a interrogazione sulla rivolta in carcere dello scorso 8 marzo modena2000.it, 5 giugno 2020 “Fatti gravissimi, la politica ha il dovere di accertare le cause e individuare soluzioni”. “I rapporti di collaborazione del carcere di Sant’Anna con il Comune e la città sono proficui e solidissimi e, se in futuro il Consiglio sarà interessato, faremo richiesta alla Direzione per consentire ai consiglieri di effettuare una visita alla Casa circondariale, come già avvenuto nella scorsa consiliatura”. Lo ha precisato il sindaco Gian Carlo Muzzarelli nella seduta del Consiglio comunale di oggi, giovedì 4 giugno, in risposta all’interrogazione, trasformata in interpellanza, di Sinistra per Modena presentata dal consigliere Vincenzo Walter Stella sulla rivolta che si è verificata domenica 8 marzo alla Casa circondariale di Sant’Anna, così come nelle carceri di altre città italiane, legata alle restrizioni sulle visite di parenti e conoscenti nella situazione di emergenza sanitaria e alle preoccupazioni per la possibilità di contagio da Coronavirus. La rivolta, si è conclusa senza alcun detenuto evaso ma con il tragico bilancio di 9 morti, diversi feriti e con la devastazione della struttura tuttora chiusa in attesa di ripristino. Il consigliere ha chiesto in particolare in quali termini l’Amministrazione ha seguito tali accadimenti, se l’Amministrazione è a conoscenza delle azioni disposte dalla struttura carceraria per affrontare la fase di emergenza sanitaria per Covid-19, e quali e quanti danni ha subito la struttura. Il sindaco ha sottolineato che “quanto accaduto è stato drammatico, gravissimo e doloroso. Ci tengo a ribadire che occorre fare chiarezza sulle cause e sulle responsabilità, ma senza speculazioni. Saranno le indagini e la magistratura competente a stabilire con certezza la verità e le diverse responsabilità penali e civili - ha proseguito - mentre la politica, di fronte a un episodio del genere, non deve limitarsi a commenti o giudizi, ma deve adoperarsi per analizzare le cause e trovare soluzioni, non ricordandosi della situazione delle carceri italiane solo quando si verificano tragedie”. Muzzarelli ha quindi ripercorso gli avvenimenti dell’8 marzo precisando di avere seguito personalmente le fasi più angosciose della vicenda: “In attesa che giungessero sul posto i rinforzi delle Forze dell’Ordine e per tutto il tempo ritenuto necessario - ha spiegato - due pattuglie della Polizia Locale sono rimaste all’interno dell’area della Casa circondariale, mentre ulteriore personale è stato impiegato per interdire al transito le strade di accesso. L’impegno ai posti di controllo sulla viabilità circostante è proseguito fino a notte inoltrata e anche i giorni seguenti al fine di agevolare il transito dei mezzi operativi e di polizia”. “A nome di tutta la città - ha continuato Muzzarelli - ho espresso solidarietà agli agenti, agli operatori e al personale sanitario impegnati nella vicenda, cordoglio per le vittime e per le loro famiglie, e condanna per gli atti vandalici dei giorni successivi compiuti da ignoti in diverse vie del centro storico. Ho poi rivolto un appello al Governo e alle autorità competenti per il rapido ripristino del carcere per la sicurezza della città e del territorio; su questo attendiamo risposte e impegni chiari. Nel decreto Cura Italia-marzo sono stati stanziati 20 milioni di euro per il ripristino delle carceri e gli interventi di sicurezza in materia di Covid e, in occasione della Festa della Repubblica, il Prefetto Faloni ha dichiarato pubblicamente che il carcere tornerà presto ad avere piena operatività, attraverso un percorso a step progressivi che è inevitabilmente legato anche al confronto tra operatori del settore e Governo”. Rispetto alle misure anti Covid prese all’interno del carcere, la Direzione del Sant’Anna ha comunicato all’Amministrazione che sin dalla primissima fase di emergenza sono stati sottoscritti con l’Ausl accordi per prevenire e contenere i contagi. Tutti i soggetti che entrano in carcere sono sottoposti a isolamento sanitario precauzionale per 14 giorni e a tampone. Per i detenuti già presenti, viene eseguito il tampone in caso di sintomi riconducibili al Covid-19 e i compagni di cella vengono tenuti in isolamento fino all’esito del tampone. Muzzarelli ha infine aggiunto che, dopo quanto accaduto, la Giunta ha incontrato le associazioni e la società civile storicamente impegnate in attività di recupero e inclusione nei confronti dei detenuti: “C’è la necessità di stare accanto a questi volontari provati da quanto accaduto e di affiancare il loro impegno e i loro sforzi, a partire dall’associazione Carcere Città e da Paola Cigarini, che ringrazio. L’Amministrazione, assieme al Terzo Settore e al Sociale - ha concluso - continuerà ad impegnarsi affinché l’articolo 27 della nostra Costituzione trovi piena applicazione quando dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Roma. Allarme in ritardo dopo la fuga, l’ipotesi della talpa a Rebibbia di Alessia Marani Il Messaggero, 5 giugno 2020 Continuano le ricerche dei due evasi da Rebibbia, Lil Ahmetovic, 46 anni, croato, e Davad Zukanovic, 40 anni, di Olbia. Ma è caccia anche alla “talpa” che potrebbe avere favorito la loro fuga all’interno della casa circondariale. Il Dap ha aperto una indagine interna, c’è da capire come mai nel carcere le fughe non siano un’eccezione, ma ormai una caratteristica. Solo tra il 2014 e il 2016 ce ne sono state ben cinque, tutte clamorose e degne di scene da film. Come, del resto, quella dei due rom con alle spalle vari precedenti per reati contro il patrimonio commessi in mezza Italia, che hanno segato le sbarre e sono saltati giù dal muro di cinta aiutandosi con una manichetta dell’antincendio usata a mo’ di corda agendo indisturbati, come fossero a casa loro. Non solo. L’allarme sarebbe stato diramato con estremo ritardo e le ricerche avviate nella tara mattinata dando ai due tutto il tempo di nascondersi e fuggire. Il Dap dovrà verificare anche il corretto funzionamento di tutte le telecamere esterne, su cui sono stati sollevati dubbi. La fuga era stata ben studiata e non a caso era stata fissata per il 3 giugno, il giorno della riapertura a tutti gli spostamenti, anche tra regioni diverse, dopo il lockdown imposto dal coronavirus: più facile muoversi e confondersi, mascherine in volto, sfuggendo ai controlli. Ad attenderli fuori forse c’era una terza persona. I buchi sulla sicurezza di Rebibbia preoccupano specialmente se si considera che l’ala da cui sono evasi Ahmetovic e Zukanovic ospita anche i collaboratori di giustizia, alcuni dei quali di rilievo importante. Che proprio lì non siano assicurate le giuste misure preventive è un fatto che inquieta. I sindacati avevano avuto recentemente un incontro con la Direzione proprio per affrontare temi organizzativi, perché a favorire i piani di evasione dei detenuti è soprattutto la carenza degli organici. C’è chi ha approfittato anche delle visite ambulatoriali per svignarsela, come il detenuto fuggito dall’ospedale Sandro Pertini nell’agosto scorso. “Non viene data la giusta attenzione al fatto che nei turni di notte il personale è ridotto al minimo per le politiche errate del Ministero della Giustizia che in questi anni ha curato poco l’aspetto della sicurezza custodiate, premendo piuttosto per altri benefici che non hanno dato i frutti sperati - afferma Daniele Nicastrini, segretario generale dell’Uspp, Unione dei sindacati di polizia penitenziaria - Di fatto ci troviamo di fronte a una media di un agente ogni 100 detenuti da vigilare, senza nemmeno poterli vedere quando sono chiusi di notte se non dallo spioncino. Tutto questo significa mettere complicare e rendere difficoltoso l’operato degli stessi poliziotti”. Ahmetovic e Zukanovic hanno un profilo criminale ritenuto comunque “basso”: a condurli in carcere, oltre a una lunga lista di precedenti, anche il tentativo di spacciarsi per pubblici ufficiali, con tanto di distintivo taroccato. Sarebbero dovuti rimanere dietro le sbarre fino al 2029, invece, ora si ritrovano uccel di bosco. Polizia e carabinieri stanno scandagliando campi nomadi, porti, aeroporti, le immagini delle telecamere ai caselli autostradali e lungo le principali consolari. Potrebbero avere le ore contate. Democrazia tra diritti e conflitti di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 5 giugno 2020 La generale osservanza delle tante disposizioni emanate dalle varie autorità pubbliche per combattere la diffusione del Covid-19 può essere apprezzata come un fatto di civismo e anche suscitare una certa sorpresa, datala diffusa tendenza ad ignorare obblighi e divieti. Ma non si tratta della semplice obbedienza agli ordini delle autorità. Vi è stata una adesione diffusa, anche quando ciò significava accettare importanti limitazioni a diritti e libertà che mai, in tempi normali, si ammetterebbero senza resistenza. È evidente che la paura per la propria salute ha giocato un ruolo importante, ma anche hanno pesato gli inviti a partecipare tutti insieme alla tutela della salute collettiva. È stato un esempio di corrispondenza di comportamenti concreti a quanto dice la Costituzione, che proclama la salute diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. Un esempio altresì di come non siano vuote parole quelle che si trovano nella Costituzione, quando dice che la Repubblica riconosce i diritti inviolabili delle persone e al tempo stesso richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale. La protezione della salute pubblica con il freno alla diffusione del virus ha richiesto limitazioni a diritti civili fondamentali, fin quasi a sospenderli del tutto. Sono state accettate restrizioni alle libertà di circolazione e di riunione, al diritto di iniziativa economica e al lavoro, l’impedimento di forme importanti della libertà religiosa e la sospensione di modalità essenziali dell’accesso alla istruzione. Vi sono state necessarie puntualizzazioni e critiche formulate dai giuristi, preoccupati del crearsi di precedenti che potrebbero in futuro rivelarsi pericolosi, ma tutto si è svolto pacificamente. La prevalenza del diritto individuale alla salute e del suo risvolto sociale, in un periodo di grave pericolo, è stata accettata rispetto a diritti e libertà civili normalmente inderogabili. A condizione che sia rispettata l’esigenza di necessità e proporzione e che le limitazioni siano stabilite dalla legge, tutto ciò corrisponde al sistema delineato dalla Costituzione e, se si vuole, persino a semplici considerazioni di buon senso. Sullo sfondo di ciò che è avvenuto si staglia una questione politica di grande rilievo, che ha visto contrapporsi ai diritti sociali i diritti e le libertà civili e politiche individuali. Nel dopoguerra, i diritti fondamentali delle persone divennero oggetto di attenzione internazionale. La Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata dalle Nazioni Unite nel 1948 ne è il primo frutto tra le nazioni, ma non unanime. Il diverso peso attribuito dagli Stati liberali occidentali e da quelli socialisti guidati dall’Unione sovietica ai diritti e alle libertà individuali rispetto ai diritti sociali, non solo ebbe un riflesso al momento del voto della Assemblea generale delle Nazioni Unite, ma anche costrinse a limitare la Dichiarazione ad una semplice proclamazione politica, priva di effetto vincolante per gli Stati. E successivamente, nel 1966, per rendere obbligatorio il rispetto di quei diritti e di quelle libertà, fu necessario spezzarne il contenuto, facendone due separati Trattati, quello dei diritti civili e politici e quello dei diritti economici, sociali e culturali. In tal modo fu possibile ai diversi governi ratificare l’uno o l’altro o prima l’uno e poi l’altro. Si trattava di tener conto di profonde divergenze politiche tra governi che poi per anni si sarebbero contrapposti sulla scena mondiale. Che il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale, alla salute e, in definitiva, alla eguaglianza richiedano limitazioni a sfrenate nozioni di libertà individuale (in primo luogo all’uso della proprietà) è un dato di cui espressamente si fa carico la Costituzione quando stabilisce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Ma, quando si tratta di affermare priorità tra diritti e libertà e di limitare gli uni per promuoverne altri, il conflitto sociale è pronto ad emergere, tanto più aspro quanto più le condizioni siano severe e non sia più praticabile la soluzione o la tentazione di accontentare un poco tutte le categorie. È rischioso sottovalutare le conseguenze sociali della crisi che è in corso e si annuncia per i mesi a venire. Non si tratta soltanto delle gravi difficoltà economiche che colpiscono gran parte della popolazione, aumentando ancora le diseguaglianze. Salute, istruzione, eguaglianza economico-sociale tra uomo e donna, speranza di futuro per i più giovani vanno oltre il solo dato economico. La facilità con cui la generalità dei cittadini ha accettato la sospensione di diritti civili è probabile non si riproduca quando si tratterà del protrarsi di gravi mancanze sul piano dei diritti sociali. Le regole della democrazia potrebbero sembrare ingombranti. Il governatore della Banca d’Italia ha motivato la sua grave preoccupazione, indicando la necessità di un nuovo contratto sociale. Per guidarne l’emergere occorrerebbe una adeguata, forte, autorevole visione del futuro della società da parte dei partiti, delle associazioni dei lavoratori e degli imprenditori e di tutti i corpi intermedi della società. Difficile ora prevederne il manifestarsi, ma, perdurandone la mancanza, “non andrà tutto bene”. L’Italia vista dalla lente di Amnesty dalsociale24.it, 5 giugno 2020 24mila persone si sono viste negate l’assistenza medica, l’accesso all’istruzione e al lavoro. Come ogni anno Amnesty International Italia fa il punto sui diritti umani nel mondo. Il Rapporto presentato oggi analizza la situazione di 15 Paesi su diversi piani: la violazione dei diritti umani, la valenza strategica, l’interesse giornalistico, i rapporti con l’Italia. Arabia Saudita, Brasile, Cina, Egitto, India, Iran, Italia, Libia, Myanmar, Polonia, Repubblica Centrafricana, Russia, Siria, Somalia, Stati Uniti, Sudan, Turchia, Ungheria e Venezuela. Questi i Paesi sui quali si focalizza il Rapporto. Nel corso della presentazione il presidente di Amnesty Italia, Emanuele Russo, ha fatto un parallelo tra i due governi Conte. “Nonostante alcuni iniziali e promettenti annunci, non ha prodotto una significativa discontinuità nelle politiche sui diritti umani in Italia, in particolare quelle relative a migranti, richiedenti asilo e rifugiati”, ha detto Russo. Amnesty evidenzia che ad un anno dall’entrata in vigore del decreto legge 113/2018 almeno 24 mila persone si sono viste negate l’assistenza medica, l’accesso ai servizi sociali, all’istruzione e al lavoro. Nel corso del suo intervento, il presidente di Amnesty Italia si è focalizzato anche su un altro punto: il rinnovo della cooperazione con la Libia per il controllo dei flussi migratori. E anche casi di maltrattamenti nelle carceri. Su tutti il caso di tortura di un detenuto del penitenziario di San Gimignano. Tra le buone notizie la sentenza del caso Cucchi e la causa civile Osman con la quale il tribunale di Roma ha dichiarato illegittimi i respingimenti. I poteri di uno stato di Claudio Marchisio Corriere della Sera, 5 giugno 2020 L’azione mortale degli agenti sull’americano George Floyd rimanda a un’idea di repressione che calpesta garanzie fondamentali. Il caso della morte di George Floyd a Minneapolis ha riacceso i riflettori sulla violenza della polizia nei confronti della popolazione di colore. Per aver pagato un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari falsa, Floyd è stato soffocato da un agente nonostante i suoi disperati lamenti e nonostante la scena venisse ripresa da diversi passanti sconcertati. “I can’t breathe”, non riesco a respirare, è diventato il manifesto di una protesta che è dilagata nelle piazze di tutta l’America approdando anche in Europa, dove i consolati Usa sono diventati il teatro di proteste e flash mob per chiedere che si ponga fine a episodi che si verificano troppo spesso (solo nel 2020 si piange la morte di altri due afroamericani uccisi dalla polizia americana per eccesso di violenza). Il 2 giugno, poi, in occasione della nostra festa della Repubblica, in tutto il mondo è andata in scena una protesta globale sui social network dal titolo #Blackouttuesday. Ognuno era invitato a postare e pubblicare foto nere in segno di lutto e di protesta nei confronti della violenza e del razzismo della polizia. In tutto questo il presidente Trump, invece di cercare di calmare gli animi di polizia e manifestanti, ha invitato i governatori degli stati interessati dalle proteste a usare il pugno di ferro e continua a fare affermazioni durissime e gravissime che altro non fanno che alimentare la rabbia, al punto che persino il capo della polizia di Houston lo ha invitato al silenzio. Mi ha colpito moltissimo, personalmente, ciò che ha dichiarato alla Cnn la leggenda del basket Nba Magic Johnson, ex stella dei Los Angeles Lakers, che esprimeva la sua preoccupazione che un fatto del genere potesse capitare a uno dei suoi tre figli, che non importa quanto ricchi o famosi siano ma che per il fatto di essere neri rischiano, come tutta la popolazione di colore, di essere discriminati o peggio aggrediti dalle forze dell’ordine. Per un padre, il pensiero che i propri figli possano essere in pericolo quando vengono fermati da coloro che hanno il compito di proteggerli deve essere qualcosa di devastante e dovrebbe farci riflettere su come il sistema di controllo e repressione della criminalità è impostato. Oltretutto, anche se il caso di George Floyd può apparirci lontano dall’esperienza italiana, non dobbiamo dimenticare che anche nel nostro Paese gli episodi di violenza da parte della polizia non sono purtroppo così rari. Lo abbiamo visto al G8 di Genova nel 2001, una delle pagine più buie e vergognose della nostra storia recente, ma dobbiamo ricordare la morte di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Aldo Bianzino, Niki Gatti, Stefano Brunetti, e l’elenco è ancora lungo. Tutti morti mentre erano sotto la degli agenti che avrebbero dovuto dare corso alla giustizia e tutti casi in cui solo la tenacia dei parenti e delle associazioni che difendono i diritti dei detenuti hanno consentito di portare alla luce perché la versione ufficiale parlava di “morti naturali”. Come possiamo pensare che alcuni cittadini possano essere uccisi da un’idea di repressione che calpesta i diritti basilari dell’essere umano con la copertura delle stesse istituzioni dello stato? In Italia il dibattito sollevato da questi casi ha portato all’introduzione, nel 2017, di una prima legge contro il reato di tortura, anche se da molte parti è stata segnalata l’insufficienza di questa norma che consente ampi spazi di discrezionalità. Non solo, ma ancora una vasta parte dello spettro politico sostiene che aumentando gli strumenti per monitorare le intemperanze della polizia si impedisca a quest’ultima di lavorare. È un concetto assurdo, come dire che le forze dell’ordine per poter fare bene il proprio lavoro devono essere libere di usare la violenza a piacimento. Questo pensiero distorto deve essere combattuto, dobbiamo insistere perché passi una volta per tutte l’idea che anche chi ha commesso reati non perde i propri diritti a un trattamento umano e soprattutto a non essere brutalizzato durante la custodia in carcere o nelle caserme. Come ha detto recentemente lo scrittore Carlo Lucarelli in un’intervista, “Quando tu sei nelle mani dello Stato, esso ha la responsabilità di quello che ti succede. Tu devi essere custodito dallo Stato, che significa che non solo non devi scappare, ma anche che non ti deve succedere niente di male. Quando una persona muore nelle mani dello Stato, vuol dire che c’è un problema”. Costruire una cultura della legalità significa non solo educare i cittadini alla giustizia e al rispetto della legge, ma anche soprattutto pretenderlo da chi ha il compito di esercitarla. Proteste negli Usa, oltre 10mila arresti. Scontro tra i militari e Trump di Marina Catucci Il Manifesto, 5 giugno 2020 In carcere per “complicità e favoreggiamento per omicidio” anche altri quattro poliziotti. Il Segretario alla difesa Mark Esper ha preso le distanze dalle posizioni di Trump, affermando che non è necessario ricorrere alle forze armate per reprimere le manifestazioni; la sua dichiarazione è arrivata poche ore prima che il suo predecessore, Jim Mattis, esortasse il presidente a non dividere il Paese. I commenti catturano la tensione che si sta accumulando tra le file degli attuali ed ex funzionari del Pentagono da quando Trump ha minacciato di invocare l’Insurrection Act del 1804 per utilizzare le truppe in servizio attivo nelle città degli Stati Uniti. Da quando ha lasciato l’amministrazione nel 2018 Mattis non ha mai criticato Trump, cosa che ora ha fatto senza mezzi termini: “È il primo presidente della mia vita che non cerca di unire il popolo americano, non finge nemmeno di provarci”. Trump ha contrattaccato come sempre su Twitter definendo Mattis “il generale più sopravvalutato del mondo”, ma Mattis è solo un uno dei tanti leader militari ad aver messo in guardia contro un uso interno della forza militare e la politicizzazione delle forze armate. Il generale dell’esercito in pensione Tony Thomas, ex comandante del comando delle operazioni speciali, ha dichiarato che il suolo americano dovrebbe essere descritto come un “campo di battaglia” solo se invaso da una potenza straniera. Se a livello nazionale la situazione è troppo complessa per dispiegare l’esercito, Trump si è sfogato militarizzato la città in cui vive, Washington, erigendo barricate su barricate intorno alla Casa Bianca. Le proteste intanto non si fermano e continuano notte e giorno in tutti gli Stati Usa. Gli atti di vandalismo sono diminuiti ma non le cariche della polizia. Il numero di arrestati è arrivato a 10.000 e in molte città gli arresti sono stati violenti. Il pugno di ferro più duro continua a mostrarlo la polizia di New York. Video postati sui social media mostrano la polizia manganellare manifestanti pacifici, fare cariche del tutto ingiustificate; ciò che stupisce è la passiva connivenza del sindaco De Blasio, che ha vinto le elezioni nel 2013 in gran parte con la promessa di riformare la Nypd e di eliminare la sua politica razzista. Durante una conferenza stampa, De Blasio ha sorpreso tutti i suoi sostenitori affermando che il video, diventato in breve famosissimo, di un’auto della polizia che attacca una folla di manifestanti è “sconvolgente” e che avrebbe voluto che i poliziotti non lo avessero fatto. La riforma della polizia è un elemento chiave per risolvere, in parte, il problema dei diritti civili degli afroamericani, come ha sottolineato Barack Obama nel suo primo intervento riguardo l’uccisione di George Floyd. L’ex presidente ha affermato che, nonostante sia “incoraggiato” nel vedere episodi di interazioni positive tra polizia e manifestanti, molti dipartimenti di polizia sono lenti nell’adottare le riforme e ha invitato le città ad attuare cambiamenti politici. La necessità di una riforma strutturale dei corpi di polizia per opera dei sindaci è sempre stata un caposaldo della teoria di Obama come dei militanti per i diritti civili, concetto ribadito dall’ex presidente insieme all’invito di andare a votare e di continuare a manifestare. Quest’ultima affermazione di Obama sembra essere confermata dalla notizia che tutti e quattro gli ex agenti accusati dell’omicidio di George Floyd sono stati arrestati. Uno di loro, Aleksander Kueng, si è consegnato spontaneamente, e con Thomas Lane e Tou Thao è stato incriminato per “complicità e favoreggiamento per omicidio”. Tutti e quattro sono stati condotti in carcere e il poliziotto killer, Derek Chauvin già incriminato per omicidio volontario e arrestato qualche giorno dopo l’uccisione di Floyd, ha visto la sua accusa passare a omicidio di secondo grado. Ben Crump, l’avvocato che rappresenta la famiglia Floyd, ha dichiarato: “Questo è un passo avanti importante sulla strada della giustizia e siamo lieti che questa azione significativa sia stata fatta prima che il corpo di George Floyd venisse messo a riposo È una fonte di pace per la famiglia di George in questo momento doloroso”. Brasile. Coronavirus: oltre mille casi nelle carceri ansa.it, 5 giugno 2020 Un comitato di esperti ha effettuato un’ispezione a Papuda, il carcere di massima sicurezza alla periferia di Brasilia, dove sono stati registrati 1.021 casi di coronavirus, con tre morti. La situazione all’interno della struttura è peggiorata negli ultimi giorni, in seguito al decesso di due detenuti e di un agente di custodia. A compiere il sopralluogo nel carcere è stata la giudice Leila Cury, della Camera di esecuzione penale, insieme a funzionari del ministero della Sanità, secondo il portale di notizie Metropolis. Con l’aumento dei contagi, è salito anche il clima di tensione a Papuda, dove si è verificato un tentativo di evasione e che ha tra i suoi reclusi eccellenti anche Marco Herbas Camacho, detto Marcola, leader della feroce gang di narcotrafficanti Primeiro comando da capital (Pcc). Egitto. Fine pena quando? Per Zaky altri 15 giorni di carcere. Udienza il 16 giugno huffingtonpost.it, 5 giugno 2020 Il rinnovo della custodia, scrivono su Fb gli attivisti che si battono per la liberazione dello studente egiziano dell’università di Bologna, è avvenuto senza la presenza né di Patrick né dei suoi avvocati. Altri 15 giorni di detenzione per Patrick George Zaky, lo studente egiziano dell’Università di Bologna in carcere in Egitto da inizio febbraio, e prossima udienza prevista per il 16 giugno. È l’esito dell’ultima udienza - che era fissata al primo giugno - appreso oggi dagli attivisti che si battono per la causa del ricercatore. Il rinnovo di custodia, scrivono su Facebook, è avvenuto senza la presenza né di Patrick né dei suoi avvocati. “L’ultima volta che Patrick si è presentato davanti a un pubblico ministero è stata il 7 marzo - scrivono gli attivisti del gruppo “Patrick Liber”‘ - il che significa che Patrick è stato in detenzione preventiva senza presentarsi davanti a un pubblico ministero già da quasi tre mesi”. Patrick, 28 anni, frequentava a Bologna il master europeo Gemma ed è un attivista per i diritti umani e civili, in particolare Lgbti. È in carcere da inizio febbraio con accuse che vanno dall’istigazione alla violenza al terrorismo basate su post su Facebook da un account che i suoi legali affermano sia falso. Nelle prime 24 ore del suo arresto avrebbe subito torture e minacce. La famiglia non lo vede dal 9 marzo. Di pochi giorni fa la denuncia di Amnesty International di casi di coronavirus nel complesso carcerario di Tora, dove Zaky è detenuto. Soggetto a rischio perché asmatico, gli attivisti ne chiedono la liberazione immediata anche per motivi di salute. Hong Kong ricorda piazza Tiennamen, Pechino vieta i cortei di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 5 giugno 2020 Un anniversario blindato e qualsiasi commemorazione proibita ad Hong Kong. L’ex colonia britannica non ha potuto così celebrare il ricordo del 4 giugno 1989 quando a piazza Tienanmen, a Pechino, si consumò nel sangue la ribellione studentesca al partito comunista cinese. I manifestanti, oltre un milione, occuparono lo snodo nevralgico della capitale per sei settimane. La notte del 3 giugno i carri armati e le truppe dell’esercito aprirono il fuoco, uccidendo e ferendo persone disarmate. Si parla di almeno 10mila morti anche se le autorità non hanno mai fornito una cifra ufficiale. Quest’anno qualsiasi ricordo pubblico è stato proibito, ufficialmente si tratta di misure anti-coronavirus ma a nessuno sfugge il fatto che l’anniversario cade proprio nel momento in cui la pressione cinese su Hong Kong è fortissima. Il timore che le commemorazioni si potessero trasformare in manifestazioni anti Pechino ha bloccato sul nascere qualsiasi tentativo. Nonostante ciò in migliaia i cittadini hanno tentato di raggiungere Victoria Park dove solitamente si tiene una veglia, il luogo è stato però sigillato da circa 3mila agenti di polizia che hanno eretto alte recinzioni per fermare anche la più piccola dimostrazione. L’Alleanza di Hong Kong, che organizza le iniziative celebrative aveva annunciato di voler inviare piccoli gruppi di rappresentanza rispettando le regole di allontanamento sociale. Ci si può radunare infatti in massimo 8 persone, ma fonti di polizia avevano fatto già sapere che neanche questa modalità sarebbe stata tollerata. La notte precedente però altre veglie con piccoli lumi di candela sono nate spontaneamente in altre parti di Hong Kong come nel caso del distretto di Mong Kok mentre alcuni attivisti per la democrazia hanno celebrato l’anniversario fuori da una prigione. Il timore è quello che d’ora in poi qualsiasi manifestazione in ricordo del massacro di Tiennamen sarà proibita, si tratta infatti di una data segnata fortemente dal sentimento anticinese che Pechino non fa nulla per affievolire. Ieri infatti nel Parlamento di Hong Kong è stata approvata la legge, con 41 voti a favore, che prevede sanzioni carcerarie e multe salate per chiunque mostri mancanza di rispetto all” inno nazionale cinese, la Marcia dei Volontari. Inoltre viene richiesto che agli studenti venga insegnato a memoria il canto e la sua storia. L’approvazione è arrivata non senza qualche protesta all’interno dell’aula, due deputati dell’opposizione, Eddie Chu e Ray Chan Police, hanno gettato tra i banchi dell’Assemblea legislativa un liquido maleodorante che ha provocato l’intervento della polizia e vigili del fuoco. Prima di essere portati via di peso i due hanno gridato di voler protestare contro la “repressione omicida” messa in atto da Pechino. “Uno Stato assassino puzza per sempre. Non perdoniamo al mondo quello che il partito comunista cinese ha fatto 31 anni fa” il grido prima di essere zittiti. In realtà negli ultimi anni, l’inno cinese è stato spesso fischiato prima delle partite della squadra di calcio dell’isola e di altre manifestazioni sportive. Molti spettatori cantano invece il motivo “Glory a Hong Kong”, che è diventato un grido di battaglia per gli attivisti democratici in ogni manifestazione di strada. Filippine. Nuova legge, ora Duterte può incarcerare chi vuole di Emanuele Giordana Il Manifesto, 5 giugno 2020 La nuova legge anti terrorismo - nome buono per tutte le stagioni - serve a rendere regolari l’arresto senza giustificazione e la detenzione per 14 giorni di sospetti “terroristi”. Ieri mattina le Filippine si sono svegliate sotto la pressione di una nuova legge dello Stato voluta dal presidente Rodrigo Duterte e che consente di schiaffare in galera sostanzialmente chi gli si oppone. La nuova legge passata a larga maggioranza alla Camera bassa, dopo il via libera del Senato in febbraio, è stata votata come “urgente” benché il Paese abbia ben altri problemi a cominciare dalla pandemia. La nuova legge anti terrorismo - nome buono per tutte le stagioni - serve a rendere regolari l’arresto senza giustificazione e la detenzione per 14 giorni di sospetti “terroristi”, attribuzione che sarà deputata a un nuovo Consiglio antiterrorismo che dovrà dire cosa si intende con questo termine e che potrebbe addirittura, bypassando la magistratura, ordinare gli arresti. Nel mirino chiunque proponga e partecipi - ma anche solo inciti - alla pianificazione o all’addestramento di un “attacco terroristico”. Formule vaghe ma con pene da 12 anni di reclusione fino all’ergastolo oltre all’eliminazione di un rimborso in caso di errore giudiziario. Insomma una legge liberticida varata proprio nel momento in cui l’Ufficio Onu per i diritti umani di Ginevra torna sulla controversa campagna di Duterte per sradicare le droghe illegali iniziata nel 2016 e che ha portato all’uccisione di almeno 8.600 persone. Un bilancio per difetto che potrebbe essere tre volte quella cifra, come ha reso chiaro ieri un rapporto dell’Ufficio Onu che cita la “quasi impunità” per gli omicidi, continuati insieme ad altri presunti abusi durante la pandemia Covid-19. Ma a Duterte le critiche dell’Onu interessano poco. Dopo aver ricevuto dal parlamento una sorta di mandato ai pieni poteri per via della pandemia, adesso mette a punto con la nuova legge un altro modo per proseguire impunemente con le sue campagne di pulizia a 360 gradi. Che la nuova sterzata non riguardi solo terroristi o tossici lo si evince del resto dalle parole del portavoce presidenziale Harry Roque che, in un comunicato stampa televisivo, ha detto che la libertà di parola non potrà mai essere soppressa nelle Filippine ma che non si tratta di un diritto “assoluto”, un chiarimento con distinguo rivolto proprio al rapporto dell’Onu. Le cose per altro sono già andate molto avanti: la prova che la libertà di espressione è in gioco eccome la racconta la vicenda di Abs-Cbn, colosso mediatico critico con Duterte e da Duterte messo a tacere. La Corte Suprema ha concesso alla rete di tornare a trasmettere ma pende sempre il rischio, agitato dal presidente, del rinnovo della concessione governativa che potrebbe slittare ancora e vedere alla fine una decisione negativa che farebbe saltare l’azienda che già accusa perdite secche da quando è stata oscurata il 5 maggio scorso. C’è anche un’altra novità: Duterte in febbraio aveva comunicato a Washington l’intenzione di abrogare il Visiting Forces Agreement con gli Stati Uniti, un accordo bilaterale che facilita i rapporti militari tra i due Paesi. Ma adesso, qualcuno dice per via delle tensioni marittime con la Cina, ha per ora sospeso l’iter che lo dovrebbe concludere. Fino al prossimo colpo di teatro.