Progetto carcere e scuole: la giornata conclusiva di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 4 giugno 2020 Lo scrittore Gianrico Carofiglio ha chiuso il progetto di Ristretti Orizzonti parlando, a più di 400 studenti e insegnanti in videoconferenza, dell’importanza di “trovare le parole adeguate”, ma anche “della gentilezza e del coraggio” necessari per comunicare. “Carcere e scuole: educazione alla legalità” è un progetto complesso, che compie 18 anni e ha attraversato tempi difficili in cui nessuno avrebbe scommesso sulla sua sopravvivenza, perché un progetto con al centro le storie delle persone detenute non ha vita facile. Eppure, ce l’abbiamo fatta anche questa volta, nonostante la sofferenza dell’isolamento contro il virus, perché davvero nessuno vuole rinunciare a questo progetto. Per premiare i ragazzi vincitori del concorso di scrittura, sono intervenuti in videoconferenza l’assessora alle politiche sociali del Comune di Padova, Marta Nalin, e il direttore del carcere, Claudio Mazzeo. In giorni di scuola strani, quando le lezioni si fanno a distanza e può sembrare un modo meccanico e senza calore umano, è accaduto invece che siamo riusciti ad aprire tanti dialoghi altrettanto “strani”, che hanno messo insieme persone che dovrebbero essere “nemiche” e invece hanno scelto di parlarsi. Abbiamo fatto in questi due mesi 35 videoconferenze. Abbiamo ricevuto circa 250 testi di studenti per il concorso di scrittura. Hanno portato la loro testimonianza, oltre a persone detenute in misura alternativa (Chaolin) o che hanno finito di scontare la pena (Bruno, Pasquale, Lorenzo), famigliari di persone detenute (Francesca e Suela), volontari, insegnanti e studenti, un mediatore penale, Carlo Riccardi, la magistrata di Sorveglianza Lara Fortuna, molti famigliari di vittime di reato: Silvia Giralucci, Benedetta Tobagi, Giorgio Bazzega, Giovanni Bachelet, Fiammetta Borsellino, Deborah Cartisano, Claudia Francardi, Lucia Di Mauro Montanino, Agnese Moro. E molti di loro sono anche intervenuti alla Giornata conclusiva, intervistati da Silvia Giralucci. Un progetto così innovativo aveva anche bisogno di reinventare le parole della comunicazione: e per questo abbiamo deciso di chiudere con una videoconferenza in cui Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore, autore tra l’altro del romanzo “La misura del tempo” (candidato al premio Strega) ha dialogato sul valore delle parole: “Maggiore chiarezza e precisione delle parole significano più democrazia. Minore chiarezza e maggiore oscurità implicano meno democrazia. (…) Parole in cattiva salute mettono a rischio la democrazia”. E ha parlato anche del suo nuovo libro, che uscirà ad agosto, “Della gentilezza e del coraggio”. Parole che ci piace usare anche per un progetto come il nostro, che fa conoscere realtà difficili come quella delle pene e del carcere, con il coraggio di raccontare esperienze dure, e la gentilezza di farlo senza offendere nessuno. Quella che segue è la rimodulazione del progetto che abbiamo portato avanti in molte scuole: Alle classi che ancora non avevano fatto nessun incontro abbiamo proposto l’incontro “tradizionale”, gestito da volontari, con le testimonianze di persone che hanno finito di scontare la pena, un detenuto in affidamento, figlie di detenuti. Alle classi che hanno fatto l’incontro a scuola, o anche l’incontro in carcere: abbiamo proposto un altro tipo di incontro, in cui qualcuno che ha finito di scontare la pena si è confrontato con vittime di reato e famigliari di detenuti. Il tema è quindi il senso che dovrebbe avere la pena in una idea di giustizia “riparativa”. Hanno portato la loro testimonianza: Silvia Giralucci, a cui nel 1974 a Padova, quando lei aveva tre anni, le Brigate Rosse hanno ucciso il padre. Di sé dice “Credo che se negli anni sono riuscita a diventare una vittima non rancorosa e non arrabbiata questo lo devo agli incontri che ho fatto in carcere, alla forma di mediazione indiretta che è stato per me frequentare i convegni e la redazione di Ristretti”. Il suo primo libro, L’inferno sono gli altri, è un viaggio personale alla ricerca del padre nella memoria divisa degli anni Settanta. Lo stesso argomento è anche il tema del suo primo film, Sfiorando il muro, di cui è autrice e co-regista. Giovanni Bachelet, Ordinario di Fisica alla Sapienza, figlio del giurista Vittorio Bachelet, assassinato dalle Brigate Rosse nel 1980. Al funerale di suo padre disse: “Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”. Fiammetta Borsellino, figlia minore del magistrato Paolo Borsellino, ucciso dalla Mafia nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992, quando persero la vita anche i cinque agenti della scorta. Gli attentati a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino hanno rappresentato il punto più alto dell’emergenza criminalità nel nostro Paese. Dice Fiammetta che “nella lotta alla mafia non mi piacciono le passerelle, e diffido degli slogan. Piuttosto, ci vogliono gesti concreti. Li aspettiamo ancora. Qualsiasi impegno nei confronti della lotta alla criminalità organizzata può essere efficace solo se svolto con la massima sobrietà. Nei gesti e nelle parole”. Deborah Cartisano, figlia di Lollò Cartisano, il fotografo di Bovalino, in Calabria, sequestrato nel 1993 ed ucciso dalla ‘ndrangheta perché si era rifiutato di pagare il pizzo. Dieci anni ci sono voluti per ritrovare il suo cadavere. Dice Deborah: “Noi famigliari purtroppo a volte incontriamo l’altra parte soltanto nelle aule dei tribunali, e sono incontri a cui arriviamo impreparati, in cui arriviamo incattiviti da tutte e due le parti. Io penso che questo non sia giusto. Ho sempre desiderato che le persone che avevano ucciso mio padre avessero la possibilità di trasformare quello che era successo in un vero pentimento e in una trasformazione della loro vita”. Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega, ucciso nel 1976 in un conflitto a fuoco con un giovanissimo brigatista negli anni tragici della lotta armata in Italia, quando lui di anni ne aveva poco più di due. “La vittima, in generale, sente di avere il monopolio del dolore”: sono parole di Giorgio Bazzega, che ha per anni convissuto con la rabbia, il rancore, la droga usata come “anestetico”, ma poi ha incontrato sulla sua strada esperienze importanti che lo hanno portato a fare la conoscenza con una idea diversa della giustizia, quella che al male sceglie di non rispondere con altro male. Benedetta Tobagi, giornalista e scrittrice, figlia di Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera assassinato dai terroristi il 28 maggio 1980 a Milano. “Quando ho incontrato i detenuti del carcere di Padova l’ho fatto con l’idea di fare qualcosa di utile. Quando un tuo familiare viene ucciso è come se qualcosa dentro te muoia per sempre ed è strano, ma quello che ti viene da fare è qualcosa di positivo. E così ho pensato che se quell’incontro poteva aiutare qualcuno era giusto che lo facessi”, ha detto agli studenti Benedetta. Claudia Francardi: nel 2011, una pattuglia di carabinieri ha fermato alcuni ragazzi che stavano andando a un rave party. Mentre controllavano i documenti, uno di loro, Matteo, ha preso un bastone, ha colpito i due carabinieri ed è scappato. Antonio, il marito di Claudia, è morto dopo un anno di coma. Nel frattempo Matteo è stato arrestato, processato e condannato. Un giorno Irene, la mamma di Matteo, ha scritto una lettera a Claudia, senza nessun intento di cercare vie di fuga per il figlio. Anzi Irene è partita proprio dal dire che per quello che aveva fatto suo figlio lei si sentiva responsabile. E da lì è nato un percorso che Irene e Claudia stanno facendo insieme dopo aver dato vita a un’associazione di volontariato. Lucia Annibali: è una giovane avvocatessa di Pesaro, sfigurata dall’acido che le è stato tirato in faccia il 16 aprile 2013. Per quel terribile atto sono stati condannati due uomini, ritenuti gli esecutori del gesto, e un terzo, ritenuto il mandante, che con Lucia aveva avuto una tormentata relazione. È autrice con Giusi Fasano del libro “Io ci sono. La mia storia di “non” amore”, in cui ripercorre la sua vicenda con quell’uomo, fino all’aggressione finale, e poi i mesi bui e dolorosissimi, segnati anche dal rischio di rimanere cieca. Lucia Di Mauro Montanino è la moglie di Gaetano Montanino, guardia giurata che a Napoli, nel corso di una rapina, nel 2009, è stata assassinata da Antonio, un ragazzo di neanche 17 anni, che dopo qualche mese è diventato padre. Lucia ora ha praticamente “adottato” la famiglia del “carnefice”. Francesca R., figlia di un detenuto, Tommaso, ex esponente di spicco della ‘Ndrangheta, che è in carcere a Padova, partecipa al progetto scuole/carcere e ha preso nettamente le distanze dalla criminalità organizzata. Francesca racconta la sua esperienza dei colloqui in carcere, in particolare nel regime di 41 bis con il vetro divisorio, e poi le difficoltà di inserirsi in una società, sempre pronta a giudicare e a far pagare ai famigliari le responsabilità del loro caro detenuto Suela M.: figlia di un detenuto che ha finito di scontare una lunghissima pena, racconta le difficoltà di una bambina albanese emigrata in Italia e costretta a vivere per anni la difficoltà di andare a trovare un padre detenuto e doversi anche sentire “colpevole” di questa condizione di “figlia di…”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti 4bis, le “correzioni” dell’Antimafia alla sentenza della Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 giugno 2020 Presentata ieri dal presidente Morra la relazione che sarà inviata al Parlamento. Due le proposte per rendere più difficile la concessione dei permessi agli ostativi: accentrare le decisioni a Roma o esautorare i magistrati di sorveglianza. Alla fine la relazione della Commissione Antimafia è stata presentata in video conferenza dalla sala polifunzionale di Palazzo Chigi. La relazione contenente le nuove e più stringenti regole per la concessione dei benefici penitenziari ai mafiosi, è scaturita dopo la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale quella parte del 4bis che impone il divieto assoluto del permesso premio nei confronti di chi non collabora con la giustizia. Ricordiamo che tale relazione era stata approvata dalla commissione antimafia il 21 maggio scorso e ieri hanno deciso di ufficializzarla per trasmetterla in parlamento. “Il rientro ai domiciliari di alcuni detenuti al 41 bis (durante l’emergenza coronavirus, ndr) ha avuto un forte impatto a livello simbolico: non posso dire se ci sono evidenze investigative dell’eventuale ripristino di collegamenti con l’organizzazione di appartenenza, anche se tenderei ad escluderlo vista la tempestività dei controlli e considerato che molti dei detenuti in questione sono tornati in carcere. Ma in alcuni territori il simbolo vale anche di più”, ha sottolineato Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia, nel corso della presentazione di ieri. “Le mafie si nutrono di simboli - ha ricordato Morra - e tale rientro può essere stato vissuto come un esempio di inefficienza da parte delle autorità e vulnus alla credibilità dello Stato, che pure ha reagito tempestivamente. Sicuramente, qualcosa di non perfetto c’è stato”. Ha continuato sempre Morra: “L’obiettivo è quello di contemperare le esigenze di tutela della sicurezza collettiva con il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti, anche di quelli condannati per mafia”, ma prosegue sempre il presidente della commissione Antimafia, “la forza della criminalità organizzata sta proprio nella capacità di relazione che il mafioso instaura con una pluralità di soggetti e nella capacità di mantenerli anche dalla detenzione: non è un caso che di regola abbia paura non tanto del carcere quanto della sottrazione dei beni”. Ecco perché, anche dopo le sentenze della Cedu e della Consulta, secondo Morra, i magistrati di sorveglianza “dovranno attenersi a criteri rigorosi” nella concessione dei permessi, “acquisendo elementi di prova tali da escludere collegamenti con l’organizzazione criminale di appartenenza ed anche il solo pericolo che tali collegamenti possano essere in qualche modo ripristinati”. Ha poi concluso auspicando che “il legislatore ora deve intervenire in modo tempestivo in tema di 4bis, ci aspettiamo che governo e Parlamento facciano tesoro del nostro documento e delle indicazioni in esso contenuti. Sottovalutare la minaccia mafiosa, ancora di più in una fase come quella che stiamo vivendo, sarebbe un errore gravissimo”. È intervenuto anche il senatore Piero Grasso (Misto/ Leu) nel corso della videoconferenza stampa sulla relazione sul 4bis, lui che assieme all’onorevole Antonella Ascari hanno scritto la relazione approvata: “Il 4bis si tratta di una norma nata ai primi anni 90, e che ha resistito negli anni a vari attacchi difendendo l’idea che solo la scelta di collaborare testimoniasse davvero la volontà di rompere definitivamente i ponti con l’organizzazione criminale di appartenenza. Ora le sentenze della Cedu e della Corte Costituzionale hanno fatto prevalere le finalità rieducative della pena, occupandosi però solo dei permessi premio: in autunno la Consulta tornerà a pronunciarsi sul complesso dei benefici per cui è necessario che il legislatore si occupi tempestivamente della materia”. Per Grasso, tra le “rigorose linee guida” che dovranno guidare i magistrati di sorveglianza nel riconoscimento dei permessi dovrebbero figurare “l’attualità dell’organizzazione criminale, la posizione del detenuto al suo interno, la capacità di mantenere o di ripristinare collegamenti, le disponibilità economiche del condannato e della sua famiglia, sequestri o confische, eventuali risarcimenti del danno arrecato”. Ricordiamo che l’Antimafia, nella relazione, ha ipotizzato due soluzioni. Una prevede una giurisdizione esclusiva in capo al Tribunale di sorveglianza di Roma in materia di valutazione dell’accesso ai benefici per i condannati su cui pesa l’ergastolo ostativo d la competenza sui reclami potrebbe andare a una sezione della Corte d’appello di Roma integrata dalla presenza di esperti, ma potrebbe anche escludersi il reclamo e prevedere esclusivamente il ricorso in Cassazione. L’altra ipotesi, considerata immediatamente praticabile, prevede invece un ‘doppio binario’, con una disciplina differenziata in ragione della tipologia di reati per cui il soggetto è stato condannato. E la competenza per il permesso premio presentate dai condannati e dagli internati per reati associativi, per delitti mafiosi e di criminalità organizzata, eversiva o terroristica e per traffico di stupefacenti andrebbe assegnata al tribunale di sorveglianza territoriale. Per gli altri reati la competenza resterebbe invece al magistrato di sorveglianza. Le raccomandazioni degli organismi internazionali, ecco chi c’è dietro la circolare del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 giugno 2020 In realtà ci sono i colpevoli della “famigerata” circolare del Dap del 21 marzo dove si invitavano le direzioni carcerarie a segnalare i detenuti over70enni e con patologie fatali se si venisse a contatto con il Covid-19. Tutta colpa degli organismi internazionali che si occupano dei diritti umani. Proprio il giorno prima, ovvero il 20 marzo, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) ha pubblicato un documento sui principi da rispettare relativi al trattamento delle persone private della libertà ai tempi del coronavirus. In sostanza ha raccomandato che le autorità degli Stati membri del Consiglio d’Europa (CoE) compiano tutti gli sforzi possibili affinché si ricorra ampiamente alle misure alternative alla detenzione e alla custodia cautelare tramite la libertà vigilata, la liberazione anticipata o altre misure alternative. Questo per permettere di adottare degli strumenti di prevenzione (quali il distanziamento sociale) che in una situazione di sovraffollamento non è possibile mettere in pratica. Una simile raccomandazione è arrivata anche dal Sottocomitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura (Spt) che aggiunge la necessità di identificare le persone detenute più vulnerabili al Covid e di adottare accorgimenti volti a prevenire il contagio rispettando pienamente i loro diritti fondamentali (come ad esempio il diritto di trascorrere parte del tempo all’aperto o assicurare la distribuzione gratuita di effetti di igiene personale). Il Cpt ha comunque individuato i gruppi vulnerabili: gli anziani e le persone con patologie preesistenti. Esatto, quella categoria ben evidenziata nella circolare tanto discussa e volta a far credere che sia “responsabile” della detenzione domiciliare (o arresti domiciliari se non definitivi) a circa 500 detenuti per reati di mafia. Eppure ci si dimentica che parliamo di una estrema minoranza di popolazione carceraria (500 su ben 9000 reclusi al 41bis o in alta sorveglianza) dove la maggioranza dei detenuti sono reclusi per reati minori. Ovviamente le misure alternative al carcere non sono dovute da un atto amministrativo (circolare del Dap), ma da un atto giudiziario (magistratura di sorveglianza o gip). Oltre agli organismi che si occupano dei diritti umani, anche l’Oms aveva detto la sua. Tra le misure proposte, l’Oms aveva avvertito che “il ricorso a misure non detentive dovrebbe essere considerato con maggiore attenzione in tutte le fasi dell’amministrazione della giustizia penale”. A questo punto la commissione Antimafia dovrebbe sentire anche loro. “Pugno di ferro con mafie e sorveglianza sui benefici penitenziari” di Raffaella Pessina Quotidiano di Sicilia, 4 giugno 2020 Lo afferma il presidente dell’Antimafia nazionale Nicola Morra. I contenuti della Relazione presentata ieri dalla Commissione parlamentare. Il documento contiene linee guida per i magistrati di sorveglianza. Arrivano i primi risultati dopo la bufera che si è scatenata a seguito del provvedimento che ha mandato centinaia di detenuti a casa agli arresti domiciliari a causa del Coronavirus, e che ha provocato anche diverse dimissioni, prima fra tutti quella del capo del Dap, Francesco Basentini. Proprio ieri si è svolta una conferenza stampa (on line) dal presidente dell’Antimafia, Nicola Morra per illustrare alla stampa i contenuti della Relazione dell’organismo parlamentare sul 41bis dopo i rilievi giunti sia a livello europeo (Cedu) che dalla Corte costituzionale. “Il legislatore deve intervenire in modo tempestivo per assicurare norme che contrastino il crimine organizzato con sempre maggiore efficacia - ha detto Morra. Ora ci aspettiamo che il Parlamento tramuti subito in norma le indicazioni contenute nella nostra Relazione, soprattutto in questo momento di emergenza dove la lotta alle mafie rimane una priorità sia del Parlamento che del Governo proprio perché le mafie si preparano a raccogliere i fattori di crisi attuali, così come sottolineato dalle diverse Procure”. Morra ha ricordato che la crisi seguita al diffondersi del Covid-19 “può essere l’occasione di crescita per chi fa della criminalità il suo stile di vita”. Da qui è stata spiegata l’importanza anche di una gestione degli istituti penitenziari e di quanti sono detenuti per reati quali l’appartenenza a organizzazioni mafiose. Morra ha sottolineato come siano necessari accertamenti rigorosi prima di concedere possibili “benefici penitenziari, come i permessi premio, per quanti stanno scontando in carcere reati gravi come l’appartenenza ad organizzazioni mafiose”. Pietro Grasso (Leu) ha detto che la Corte costituzionale cerca un equilibrio tra due esigenze: l’applicazione di regimi particolari di detenzione che non vadano in contrasto con le finalità rieducative della pena. “Oggi le sentenze della Cedu e della Corte costituzionale hanno fatto prevalere le esigenze educative solo per i permessi premio come benefici carcerari ma tutti gli auditi in Commissione - ha spiegato Grasso - ci hanno detto che occorrerà estendere i benefici oltre i permessi premio. Da qui la necessità, che segnaliamo, di accertamenti rigorosi che debbono essere forniti dal condannato”. A parlare di “più rigorosi accertamenti per la concessione dei benefici da parte del tribunale di sorveglianza per gli appartenenti a organizzazioni di mafia o terrorismo”, è stata anche la parlamentare Stefania Ascari che ha ricordato che da parte della Commissione antimafia viene indicata la strada della “richiesta della ‘prova positiva’ che grava sul condannato con specifiche prove sul suo mancato collegamento con le organizzazioni mafiose di provenienza, che non potrà limitarsi ad un percorso rieducativo o dissociativo ma che avrà bisogno di ulteriori elementi”. Children of Prisoneres Europe: “I colloqui online non soppiantino quelli di persona” agensir.it, 4 giugno 2020 “L’istituzione di visite online sostitutive delle visite di persona - la risposta più efficace a mantenere in contatto bambini e genitori durante la crisi Covid-19 - non deve soppiantare in alcun modo le visite di persona nel dopo Covid-19. Il diritto dei minori al contatto diretto con un genitore rimane un diritto sancito dalla Convenzione Onu dei diritti dell’infanzia”. Questa la conclusione principale del primo seminario on line di Cope (Children of Prisoneres Europe) con 390 partecipanti da 38 Paesi, dalla Nigeria all’Argentina, dai Paesi europei a quelli dell’America del nord e del Asia orientale. Il tema al centro dell’incontro - “Non interrompere il legame fra i figli e loro genitori detenuti, nella crisi di Covid-19 e oltre, la situazione in Europa” - è molto sentito in questo periodo di pandemia da coronavirus, con le carceri chiuse in quasi tutti i paesi del mondo e l’impossibilità per milioni di bambini di poter fare le periodiche visite ai genitori detenuti, per mantenere il proprio fondamentale legame parentale. Sono visite diventate “virtuali” che li tiene connessi con l’uso delle piattaforme di video-chat offerte dal web. Protagonisti del seminario sono stati Mirna Cacic di Parents in Action (Croazia), Edoardo Fleischner di Bambinisenzasbarre (Italia), Richard Garsite del Center for Crime and Justice Studies (Regno Unito). Ha moderato Nancy Loucks di Families Outside (Scozia). Bambinisenzasbarre ha descritto le nuove azioni che sono state create in questo critico periodo: potenziamento del Telefono Giallo, consulenza a distanza per le famiglie; lo Spazio neutro virtuale - incontri protetti genitori-figli on line; i laboratori artistici on line, in cui i bambini, coordinati da un arte-terapeuta disegnano insieme. La principale riflessione emersa nel webinar è che bisogna far sì che le azioni che vengono intraprese ora (come quelle di Bambinisenzasbarre) portino a cambiamenti positivi e duraturi per i bambini, per le persone detenute e le loro famiglie. Nel lungo dibattito del webinar si è ripetuto e sottolineato con forza che gli incontri on line dovrebbero aggiungersi alle visite di persona, sempre troppo poche, quando queste diventeranno nuovamente possibili. Quando la pena non realizza né giustizia né sicurezza di Riccardo Radi filodiritto.com, 4 giugno 2020 Il nostro legislatore ha impostato l’ordinamento penale in una modalità univoca, prevedendo per tutti i tipi di reato come unica pena possibile il carcere. Per riflettere sulla efficacia della sanzione carcere tout court, partirò da un caso pratico. Vi racconto la storia di un processo “normale”, uno dei tanti che affollano le nostre aule di giustizia. Oltre che del processo, parleremo della pena, diretta conseguenza del procedimento, ma soprattutto della storia di un uomo, per non dimenticare che dietro ogni fascicolo processuale c’è la vita di una persona. Nell’estate del 2003, un ragazzo tossicodipendente di 22 anni commette tre rapine armato di un taglierino. All’epoca dei fatti, vive per strada di espedienti e reati per procurarsi i soldi per la droga. Viene arrestato e dopo circa 5 mesi liberato in attesa di giudizio. Nel maggio del 2006, il Gup del tribunale di Roma lo rinvia a giudizio davanti alla sezione I del Tribunale penale collegiale di Roma, la prima udienza è fissata per il 19 settembre 2066. Il processo si snoda in numerose udienze e rinvii, per esaminare i molti testi e si arriva alla sentenza del 7 luglio 2014, sono trascorsi 8 anni dall’inizio del processo e 11 anni dai fatti. Viene interposto appello, la Corte di appello di Roma pronuncia la sentenza il 16 febbraio 2018, condanna ad anni 5 di reclusione per una delle rapine ed assoluzione per le altre due in contestazione. La sentenza diviene definitiva nel febbraio del 2020, a distanza di 17 anni dalla data di commissione del reato. Il ragazzo di allora è oramai un uomo maturo e viene arrestato e condotto in carcere per scontare la sua pena. Quest’uomo oggi è un’altra persona, ha risolto i suoi problemi di tossicodipendenza, lavora come fornaio, è sposato con due figli minori e conduce una vita regolare. Per usare un lessico sociologico-giuridico, si è perfettamente “integrato nella comunità sociale”. Ma tutto ciò verrà vanificato e spazzato via, dal nostro sistema punitivo-afflittivo che prevede la pena quale unico strumento di risposta al reato. L’interrogativo retorico che pongo, in questo caso, la pena carcere svolge una funzione rieducativa? Vieni chiamato a scontare una pena a distanza di 17 anni dalle condotte criminose, la tua vita si interrompe e devi rivivere una realtà criminogena (il carcere) che non ti appartiene più. Nel caso concreto, l’uomo ha perso il suo lavoro, il rapporto coniugale si è incrinato, le difficoltà economiche hanno travolto il suo nucleo familiare. Quando avrà scontato la sua pena, sarà rieducato o diseducato dalla esperienza carceraria vissuta come ingiusta, in considerazione del lasso temporale che intercorre dalla condotta al castigo. Riflettiamo su questo paradosso giudiziario e comprendiamo la situazione critica in cui versa il sistema sanzionatorio attuale. Purtroppo, l’opinione pubblica viene facilmente “conquistata” dal politicante e dal giornalista manettaro di turno che invocano i ferri e la galera come la panacea di tutti i mali. Ma un’altra via è possibile ed è magnificamente spiegata dal libro: “Partire dalla pena” edito da Liberilibri, scritto da tre magistrati (Silvia Cecchi, Giovanna Di Rosa e Tomaso Emilio Epidendio) che pur nelle loro diverse prospettive, avvertono la necessità di un mutamento radicale della filosofia della sanzione per elaborare strumenti più appropriati alla salvaguardia dei diritti del reo e della vittima. Tra la giustizia punitiva e la giustizia riparativa esiste un possibile compromesso, come auspica il Professore Giovanni Fiandaca nella sua prefazione del libro, “Sulla pena, al di là del carcere”, edito da Liberilibri, scritto da Silvia Cecchi, Giovanna Di Rosa, Paolo Bonetti e Mario Della Dora. L’insigne giurista indica la necessità: “di un approccio più pragmatico che teorico”, per sollecitare riforme urgenti tese a ridurre drasticamente lo spazio della pena detentiva a favore di un ventaglio di sanzioni extracarcerarie. I quattro autori di Sulla pena, ognuno partendo dalla propria formazione ed esperienza, prendono atto della costatata inefficacia della pena quale strumento di risposta al reato: “Se il carcere non restaura la giustizia violata e non riannoda il vincolo sociale che è stato spezzato, ma costituisce quasi sempre un ulteriore incentivo alla emarginazione e al conflitto che l’accompagna, si pone l’interrogativo difficile e inquietante su quali debbano essere le pene alternative al carcere”. Nel libro si indica il possibile e praticabile percorso alternativo, fatto di personalizzazione della pena, di sanzioni mirate al particolare profilo psico-sociologico di ciascun reato. Tutte novità da introdurre in maniera graduale nel nostro ordinamento, ma con la consapevolezza che sono già state sperimentate in altri Stati. Annamaria, Liz, Lucia: quando la pena è riscatto di Marco Ruotolo Il Riformista, 4 giugno 2020 Sono tra le protagoniste del “Viaggio nelle carceri” della Corte costituzionale. Le loro storie riflettono ciò che prevede la Carta quando parla di umanità e rieducazione. Lucia, Liz e Annamaria. Tre storie paradigmatiche, tre casi giurisprudenziali che si legano all’esperienza del Viaggio nelle carceri della Corte costituzionale. Sono storie di carcere, frammenti di umanità che si vanno ricomponendo. Sono il primo seguito ideale di quella straordinaria iniziativa della Corte costituzionale, di cui è data testimonianza nel docu-film di Fabio Cavalli. Lucia, nata con i caratteri sessuali maschili e all’anagrafe inizialmente iscritta con il nome di Luciano, si trova nel reparto “transgender” del carcere di Sollicciano. Nel 2017 ha ottenuto dal Tribunale di Firenze la rettificazione delle generalità e del sesso sugli atti di stato civile e autorizzazione ad adeguare i caratteri sessuali mediante trattamento medico chirurgico. In questa fase di transizione - ad oggi l’intervento chirurgico non è stato effettuato - Lucia vorrebbe essere assegnata al reparto femminile. È una delle domande che rivolge nel film alla giudice costituzionale Silvana Sciarra e che si trasforma in istanza (tecnicamente reclamo) al magistrato di sorveglianza. In primo grado il reclamo è rigettato, ma Lucia non demorde e contesta questa decisione, finalmente ottenendo giustizia dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze che il 18 febbraio 2020 ordina all’amministrazione penitenziaria di disporne l’assegnazione al reparto detentivo femminile, tra l’altro con specifica indicazione circa l’inderogabile necessità di rivolgersi alla detenuta Lucia al femminile e “con le modalità dovute ad una donna”. Liz, giovane detenuta presso il carcere di Nisida, ha sulle spalle un provvedimento di espulsione da eseguire a fine pena. Chiede al giudice costituzionale Amato se sia giusto che dopo aver seguito un positivo percorso rieducativo debba tornare nella Repubblica Dominicana. La strada è in salita. Occorre ottenere la revoca del provvedimento di espulsione, trovare una comunità che sia disposta ad ospitarla a fine pena, assicurare continuità all’esperienza lavorativa già intrapresa. Con una comprensibile ansia per il futuro, Liz racconta la sua storia a Giuliano Amato in occasione del Viaggio, in un pranzo a Nisida al quale sono presente. Si attiva una straordinaria e virtuosa collaborazione, che vede il coinvolgimento di alcune associazioni e di Gennaro, un mio ex studente, oggi affermato avvocato. Gennaro “trova” nel testo unico sull’immigrazione la norma giusta, che consente l’attivazione di un programma di protezione e il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari a favore delle persone straniere che durante la minore età abbiano commesso un reato punito con pena detentiva e che abbiano intrapreso positivamente un “programma di assistenza e integrazione sociale” sostenuto dai servizi sociali competenti o da una associazione accreditata. Il 21 marzo 2019 Liz ottiene giustizia, è libera e la sua strada comincia ad essere in discesa. Grazie, anzitutto, a Gennaro, che ai tempi dell’Università si sosteneva gli studi lavorando in una pizzeria e nei cui occhi avevo visto allora un’ansia per il futuro non troppo diversa da quella oggi propria di Liz. Annamaria non è una detenuta. È la figlia ventunenne di una persona reclusa presso il carcere di Lecce. È affetta da idrocefalia, invalida al 100%. La mamma - il cui nome non viene detto nel film - racconta la sua storia alla giudice costituzionale Daria De Pretis, chiedendole se sia giusto che il nostro ordinamento le precluda di assistere sua figlia, che ha bisogno di lei almeno quanto un bambino in tenera età (“non si sa lavare nemmeno le manine da sola”). La legge stabilisce, infatti, limiti legati all’età del figlio (dieci anni) per la concessione della detenzione domiciliare “speciale”, condizionando la stessa alla durata della pena. Questa volta la risposta viene dalla Corte costituzionale, con una sentenza del 14 febbraio 2020, della quale è redattrice la Presidente Marta Cartabia e che trae origine da vicenda analoga a quella raccontata nel film. La Corte afferma, finalmente, che le madri di figli gravemente disabili possono scontare la pena in detenzione domiciliare, quale che sia l’età del figlio e la durata della pena, sempre che il giudice non riscontri in concreto un pericolo per la sicurezza pubblica. Per la mamma di Annamaria si apriranno probabilmente le porte del carcere. Ad avere giustizia, questa volta, è proprio Annamaria, figlia incolpevole, particolarmente bisognosa del rapporto quotidiano e delle cure della madre. Tre storie paradigmatiche, che contribuiscono a creare precedenti giurisprudenziali e che soprattutto ridanno alla pena la luce che la Costituzione vuole essa abbia. Una luce fatta di umanità e di rieducazione. Sul Csm muro contro muro con le opposizioni di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 giugno 2020 Bonafede presenta al centrodestra l’accordo (incompleto) di maggioranza. Ma ottiene solo critiche. La riforma rallenta. Intanto il Consiglio superiore è spaccato proprio da una richiesta del ministro che vuole con sé un magistrato di un ufficio con molti posti scoperti. Dialogo, collaborazione. Le nuove parole d’ordine di palazzo Chigi scendono per li rami del governo e si fermano in via Arenula, dove il ministro della giustizia malgrado sia stato messo sotto mozione di sfiducia individuale giusto un paio di settimane fa si offre dialogante alle opposizioni. Ne ricava poco, perché la giustizia resta tema incandescente e se la maggioranza ha messo tra parentesi le diversità di vedute, con i rappresentanti di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia Bonafede non fa passi in avanti. “Siamo tutti d’accordo che una riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario non sia più rinviabile”, dichiara ottimista il ministro. Ma sul come fare la destra è da un’altra parte. Il pacchetto di proposte avanzato dalle opposizioni comprende un’esca per i 5 Stelle, visto che ripropone il sorteggio come metodo di selezione della componente togata dal Consiglio superiore della magistratura che era la proposta originaria dei grillini. Ma non lo è più, l’accordo con il resto della maggioranza giallo-rossa prevede adesso un sistema elettorale maggioritario a due turni costruito su collegi molto piccoli. Sperando che serva a contenere le correnti della magistratura. Il centrodestra ha poi altre idee di riforma, come il rovesciamento dei rapporti di forza nel Csm tra consiglieri togati e consiglieri politici: i secondi raddoppierebbero in una sorta di cura omeopatica al male della politicizzazione. E poi la separazione delle carriere, proposta che tenta anche Italia viva. Così come, su un altro piano, il tentativo di cancellare la riforma Bonafede della prescrizione che tornerà a fare capolino in parlamento a fine mese. “Irricevibili” sono per il centrodestra le proposte di Bonafede, ancora da affinare nella maggioranza soprattutto per quanto riguarda la selezione della componente laica del Csm: i 5 Stelle vogliono escludere gli ex parlamentari. Intanto però proprio il ministro non dà il buon esempio, visto che il suo nuovo capo di gabinetto (il precedente ha lasciato perché coinvolto nelle intercettazioni di Palamara) divide il Csm che deve approvarne la messa fuori ruolo. Raffaele Piccirillo, il prescelto dal ministro, è in carico alla procura generale della Cassazione, ufficio che ha una scopertura superiore al 20% dei posti. Le regole del Csm prevedono che in questi casi il fuori ruolo debba essere negato. Salvo eccezioni “in ragione del rilievo costituzionale” dell’ufficio al quale il magistrato è destinato. Il plenum del Csm voterà oggi, probabile che il nulla osta a Piccirillo sia riconosciuto con il solo voto favorevole delle correnti che reggono l’Anm, Unicost e Area, e l’astensione di tutti gli altri. Giustizia, al Csm il centrodestra ostacola Bonafede sulla scelta del nuovo Capo di Gabinetto di Liana Milella La Repubblica, 4 giugno 2020 Il Csm, almeno per metà, quella di destra della politica e della magistratura, è in aperto dissenso con il Guardasigilli Alfonso Bonafede per via del suo nuovo capo di gabinetto. Proprio nelle stesse ore in cui il ministro della Giustizia, in via Arenula, sta mettendo a punto la riforma del Csm, ecco che nello stesso Csm cresce una fronda sulla toga che il ministro della Giustizia ha scelto come primo magistrato da mettere al suo fianco nel palazzo: Raffaele Piccirillo, toga solo molto vagamente riconducibile alla sinistra di Area. Il ministro opta per lui, già con un passato in via Arenula come capo degli Affari di giustizia quando era Guardasigilli Andrea Orlando, e una solida esperienza europea nel Greco, il gruppo degli stati contro la corruzione, in cui tuttora rappresenta l’Italia. Nomina urgente la sua dopo le dimissioni dell’ormai ex capo di gabinetto Fulvio Baldi di Unicost, per via delle sue conversazioni con l’ex pm Luca Palamara, in cui i due trattavano l’arrivo al ministero (poi non riuscito) di candidati segnalati proprio dallo stesso Palamara. Ma che succede al Csm, che deve autorizzare la cosiddetta “messa fuori ruolo” di Piccirillo? Parte una solida fronda dal centrodestra, che si manifesta già durante i lavori della terza commissione, quella che si occupa della mobilità delle toghe da un ufficio all’altro. La presidente è Maria Paola Braggion, giudice di Magistratura indipendente, vice presidente il forzista Alessio Lanzi, consiglieri Michele Ciambellini di Unicost, Ilaria Pepe di Autonomnia e indipendenza, la corrente di Davigo, Giuseppe Cascini di Area, Stefano Cavanna della Lega. L’ostilità monta subito, appena Bonafede ufficializza la sua scelta. Basta leggere i risultati del voto su Piccirillo usciti dalla commissione. Favorevoli a mandarlo in via Arenula solo Ciambellini e Cascini, quindi Unicost e Area. Nettamente contrario il leghista Cavanna che vota no. Mentre si astengono Braggion, Pepe e Lanzi. Insomma, la destra della politica (Lega e Forza Italia) è contraria. Centro e sinistra sono a favore. In commissione non c’è nessuno laico indicato da M5S. Perché? Cosa c’è che non va? Perché Piccirillo non potrebbe fare il capo di gabinetto? Perché, secondo chi vota no o si astiene, se lasciasse la sua attuale collocazione presso la procura generale della Cassazione come sostituto lì si creerebbe un vuoto. Il suo è un ufficio, come annota meticolosamente la stessa commissione nella proposta pur favorevole a Piccirillo inviata al plenum, che ha il 20,83% di scopertura, nel senso che mancano dei magistrati. Quindi perché levargliene un altro ancora? Ma, come fa osservare chi è favorevole, secondo la Costituzione, proprio il Guardasigilli riveste un ruolo per così dire costituzionalmente protetto, e questo può ben far superare il problema della scopertura, tenendo conto peraltro che il capo dell’ufficio, cioè il procuratore generale Giovanni Salvi, ha già dato il suo via libera a Piccirillo. A questo punto l’esito del voto è incerto. Perché Piccirillo dovrebbe contare su dieci voti sicuri, i 5 di Area, i 3 di Unicost, i 3 di M5S. E siamo a 11. Dovrebbe votare a favore anche il Pg Salvi. Siamo a 12. Sul fronte del no sicuramente i due consiglieri della Lega. Tutto dipende da come votano Magistratura indipendente (3 consiglieri) e Autonomia e indipendenza (5), se confermano l’astensione già data in commissione o la trasformano in voto contrario. Non è detto inoltre che Autonomia e indipendenza voti compatta perché molte volte Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita si sono espressi in modo difforme da Piercamillo Davigo, Ilaria Pepe e Giuseppe Marra. In bilico anche il voto del primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone di Mi. Resta la singolarità di una contrapposizione tra Csm e ministro della Giustizia, scatenata soprattutto dalla destra della politica e della magistratura, su una poltrona strategica come quella del capo di gabinetto, proprio mentre il ministro sta riformando lo stesso Csm, con una riforma che però non piace proprio alla destra. Tant’è che, a brutto muso, dopo un incontro in via Arenula, proprio il centrodestra ha definito “irricevibili” le proposte di Bonafede. Il ministro risponde e dice che la sua riforma “non ha pregiudizi ideologici”. Ma tant’è, intanto parte un’azione di disturbo sul capo di gabinetto. Giuseppe Ayala: “Csm verminaio, Falcone capì tutto 30 anni fa” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 4 giugno 2020 Giuseppe Ayala, Pm antimafia per anni affiancato al pool di Falcone e Borsellino, dall’alto dei 75 anni appena compiuti ha ancora tanta voce, quanta memoria. “The voice”, lo chiamava Falcone: “Tu sei la Voce, ma la canzone la scriviamo insieme”. E poi andavano a far cantare gli imputati, nelle aule di giustizia in cui Ayala teneva le requisitorie. “Nell’aula bunker del maxi processo rimasi chiuso dentro per otto giorni e otto notti: per sicurezza dovevo rimanere blindato”. Una storia di magistratura in prima linea, negli anni roventi dello scontro frontale con Cosa Nostra. “Ero un Pm competitivo, dicevano di me Borsellino e Caponnetto. E posso dire di non aver mai perso un processo”. In quegli anni, nessuna comparsata televisiva. Una passione civica mai sopita lo porterà invece a Roma, dove è stato parlamentare quattro volte: due alla Camera e due al Senato. Oggi è vicepresidente della Fondazione Giovanni Falcone e gira le scuole per portare la memoria della sua guerra alla mafia. Che cosa sta succedendo alla magistratura? Non conoscevo da vicino i modi di fare di certi personaggi rappresentativi del Csm. Ma sostengo da anni che il Csm è il peggior nemico dei magistrati. Il ministro della Giustizia Vassalli una volta disse: “Ogni Csm riesce ad essere peggiore del precedente”. E questi tempi non fanno eccezione. È emerso un verminaio. Non è sorpreso, quindi. Diceva Giovanni Falcone nel 1988: “Se i valori dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura sono in crisi, questo dipende in maniera non marginale dalla crisi che da tempo investe l’associazione dei giudici, rendendo l’Anm un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi. Le correnti dell’Anm si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm e quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata in seno all’organo di governo della magistratura con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica”. Io non ho l’autorevolezza di Falcone, ma penso la stessa cosa. Che cosa le ha insegnato la sua esperienza politica? I tre poteri di Montesquieu devono rimanere indipendenti, la confusione e la debolezza della politica implicano il rafforzamento del potere giudiziario, e non è mai un bene. Se le istituzioni fossero forti, autorevoli, indiscutibili, chi esercita altre funzioni tornerebbe nel suo alveo. E lei quando decise di passare dalle aule giudiziarie a quelle del Parlamento? Giorgio La Malfa mi telefonò e mi disse di andarlo a trovare. Ero con Falcone, che volle accompagnarmi. Mi chiese di candidarmi alla Camera, chiesi 24 ore di tempo per riflettere. Aspettavamo l’ascensore, Falcone mi disse: “Sai quali sono le scommesse che si perdono sicuramente? Quelle che non si accettano”. Il suo incoraggiamento fu decisivo: rientrai nell’ufficio di La Malfa, dicendogli: “Le 24 ore sono passate. Accetto”. Ma non ho mai preso la tessera di un partito, perché un magistrato non deve prendere tessere di partito. Anche perché i partiti dei magistrati sono le correnti, come insegna Palamara. Io non voglio difendere Palamara, me ne guardo bene. Ma in questa vicenda lui ci è incappato perché aveva il trojan nel telefono, ma penso che altri Palamara ce ne sono. E chissà quanti. Lo strapotere delle correnti è un problema strutturale. Ma tengo anche a dire che la magistratura è fatta da donne e uomini che ogni giorno vanno a svolgere il proprio lavoro con serietà e sobrietà. Ha notizia di altri casi Palamara? Non voglio fare nomi, ma anni fa sostenni che ci sono dei colleghi che facendo i magistrati, seguono una carriera parallela. Usano la carriera di magistrato per assumere ruoli di potere. Sto pensando a un nome che non farò, ho certamente in mente qualcun altro alla Palamara. E potrei mettere giù un elenco. Non c’era solo Palamara, ma diciamo che si era conformato bene a questa logica della carriera parallela. Lei ha letto la bozza di riforma? Ho letto questo discorso del sistema elettorale; con priorità di genere e ballottaggio. È una sperimentazione; la cosa peggiore nella vita è stare fermi, poi non è detto che sia la soluzione migliore. Io ho parlato con qualche collega, tutti si aspettano un intervento tempestivo e efficace. Lo auspicano a bassa voce. Non parlano perché in fondo hanno subìto. Ma tutti vogliono che cada questo sistema. La corruzione è fisiologica, quando troppo potere si cristallizza sempre nelle stesse mani. Esattamente. Quando gestisci troppo potere e troppo a lungo e diventi di fatto il referente di chi vuole condizionare la vita pubblica e le porte della corruzione si aprono. Che rapporto avevano Falcone e Borsellino con la magistratura associata? Paolo (Borsellino, ndr) era militante autorevole di Magistratura Indipendente, l’area più conservatrice. Ma di giochi di potere di questo genere non ne sognava neanche di notte. Era una persona trasparente e pulita che credeva molto nei valori altissimi del magistrato. Falcone era meno impegnato nelle aree associative, anche se per la verità insieme demmo vita a una corrente che chiamammo I Verdi. Non per attenzione all’ambiente, ma perché casualmente il foglio su cui avevamo scritto i principi fondamentali era verde. Era un impegno di rottura, che poi si trasformerà nel tempo nella corrente di Area. Non ci impegnammo però poi molto, anche perché eravamo sin troppo occupati con il lavoro quotidiano per dedicarci a queste attività. Come ogni anno, nell’anniversario di Falcone tutti si riscoprono suoi buoni amici. Anche la politica. Ma lui in realtà da che parte stava? A me e Falcone ci chiamavano Toghe Rosse. Avevamo una sensibilità di sinistra ma né Falcone né io abbiamo mai votato Pci. Avevamo votato tutti e due Pri. Quando io mi candidai nel 1992 alla Camera con i Repubblicani, fui spronato e sponsorizzato da Falcone. La famosa fotografia in cui Falcone e Borsellino sorridono insieme, spalla a spalla, è stata scattata dal fotografo Tony Gentile al comizio del Pri di Palermo che facemmo per lanciare la mia candidatura. Falcone aveva rapporti stretti con la politica? Nessuno in particolare, era un elettore repubblicano convinto, come dicevo: un ammiratore di Ugo La Malfa. Non intrattenne mai rapporti, e tantomeno chiese favori. Abbiamo convissuto per dieci anni, lo so con certezza. Con il ministro della Giustizia Claudio Martelli andava d’accordo, più per ragioni istituzionali che per simpatia politica. Sulle commistioni di affari tra mafia e politica avevate lavorato anni. Il mandato d’arresto per Ciancimino lo avevamo firmato io e Falcone. I cugini Salvo, che erano i due uomini più ricchi e potenti della Sicilia, legati a Salvo Lima, su mia richiesta sono stati arrestati con mandato emesso da Giovanni Falcone. Che poi fu addirittura accusato da esponenti dei movimenti antimafia, con un esposto firmato al Csm, di nascondere nel cassetto le prove del rapporto tra mafia e politica. Puttanata gigantesca che però gli provocò una grande amarezza. Nei cassetti di Giovanni non c’era nulla di nascosto: quando adottavamo una iniziativa, avevamo gli elementi che in dibattimento portavano alla sentenza di condanna. Non facevamo cose per finire sui giornali. E la storia parla per noi: i processi li abbiamo vinti tutti. I tempi sono cambiati, le luci della ribalta piacciono a tutti. Oggi c’è una sensibilità mediatica di alcuni magistrati. Comparire sui giornali e andare in tv piace a molti, con alcuni giornalisti tengono ad avere rapporti tali per garantirsi quel successo mediatico cui tengono. Falcone era l’opposto. Noi non abbiamo mai fatto un comunicato stampa. Lavoravamo con la riservatezza dovuta al nostro ruolo, al riparo dai giornalisti. A proposito: Saverio Lodato, L’Unità di Palermo, ha rivelato una confidenza di Falcone… Ho visto che dopo trentun anni ha ricordato che Falcone, con cui si davano del lei, gli avrebbe riferito un sospetto, una cosa così riservata, facendogli il nome di Contrada come mente dietro all’attentato dell’Addaura. Sarà vero ma non ci credo. Mi suona strano, per l’accortezza di Giovanni. Che idea si è fatto di Contrada? Anni prima del 1989, Contrada mi venne a trovare in ufficio. Giovanni mi mise in guardia: “Accura a Contrada”, mi disse in siciliano. Quando Contrada andò a processo venni ascoltato, e lo raccontai. Quindi le riserve di Falcone su Contrada c’erano. Sì. Da molto prima dell’Addaura. Andiamo a via D’Amelio. “Dopo Falcone e Borsellino, il terzo sarà Ayala”, si disse. Mi fu detto esplicitamente da livelli istituzionali molto alti, e infatti non le dico dall’attentato di via D’Amelio in poi quali misure di sicurezza furono prese. Mi fu sconsigliato di andare a Palermo. Le rare volte in cui andavo, con volo di Stato da Roma, trovavo ad attendermi due elicotteri: io dovevo scegliere all’ultimo su quale salire, senza dirlo prima a nessuno. In volo, gli elicotteri dovevano seguire sempre percorsi diversi, una volta sul mare, un’altra sull’interno. Cambiò tutto il protocollo di sicurezza, e funzionò. Con Falcone e Borsellino le misure non furono così attente. Ci furono dei buchi incredibili nella rete di sicurezza. Dentro Palermo per andare al Palazzo di giustizia ogni giorno ci facevano cambiare percorso, poi per prendere l’aereo si andava dritti a Punta Raisi con l’unica strada esistente. Una volta Falcone fu profetico, eravamo in macchina insieme e mi disse: “Ma se ci fanno un attentato qui, in autostrada?” - ed ebbe anche quella volta ragione. E per Borsellino, che aveva l’abitudine di andare a trovare spesso l’anziana madre, è assurdo che nessuno abbia pensato di mettere un presidio di protezione lì in via D’Amelio. Che successe quando lei arrivò, tra i primi, in via D’Amelio il giorno dell’attentato? Stavo a duecento metri, arrivai subito, con la scorta. Fu uno choc incredibile, tra fuoco e fiamme mi ritrovai tra le gambe un corpo carbonizzato: era Paolo Borsellino. Presi la sua borsa dalla macchina e la consegnai a un ufficiale dei Carabinieri. L’agenda rossa però da lì in poi è scomparsa. Io di una sua agenda rossa non sapevo neanche l’esistenza. È diventata un’icona. Un simbolo. Forse anche un mito. Se ne è parlato moltissimo, ma non ne sapevo niente. Paolo Borsellino nel 1986, tre anni prima di morire, diventò Procuratore della Repubblica di Marsala. Tornò a Palermo a fine 1991 o inizio 1992. Dunque fino a poco prima non ci eravamo frequentati, non conoscevo i suoi oggetti personali. Comunque ognuno di noi ha la sua agenda con i propri impegni, ma posso dire una cosa per certo: nessun grande magistrato affida tutti i suoi segreti a un’agendina. Esistono archivi, schedari, fascicoli. E Paolo era puntuale e meticoloso: appena appurava qualcosa lo andava a riferire a chi di competenza o aggiornava gli atti di indagine. Giovanni Falcone aveva una sua agenda riservata? Aveva un’agenda con gli appuntamenti, come la avevo io. Una volta doveva andare a New York, dove in aeroporto vendono a buon prezzo il profumo preferito di mia moglie, “Tatiana” di Diane Von Funstenberg. Un profumo che a Palermo non si trova facilmente. Gli chiesi di farmi la cortesia di comprarmi un paio di confezioni e Giovanni annotò “Tatiana” sulla pagina, alla data di New York. Pensai: se succede qualcosa, se smarrisce l’agenda, chi la trova immaginerà subito che c’era un’amante con questo nome ad aspettarlo. Le agende sono fatti privati. Oggi nell’agenda di certi magistrati ci sono invece gli studi televisivi. C’è una propensione alla notorietà, oggi, che noi non conoscevamo. Una bella intervista a Davigo, che spara cose forti, ci sta. Capisco che tiri su gli ascolti. Ma questo non giova alla magistratura. A noi insegnavano che la riservatezza è una dote fondamentale per chi vuole far bene questo mestiere. Piercamillo è un uomo molto intelligente che si è andato radicalizzando, negli anni. Questa sua frase per cui “non vanno aspettate le sentenze” è una frase che non devi dire, se fai il magistrato. Forse non la devi neanche pensare. Non la devi neanche pensare, ma men che mai dirla. Poi è vero che in Italia manca il controllo sociale, che il senso civico è spesso scarso. Il mio sogno è che l’amore per la giustizia sia tanto diffuso da portare all’autocontrollo, a un senso più alto di responsabilità e del pudore. Se la politica recupera dignità e riesce a selezionare meglio la classe dirigente, lo strapotere giudiziario si arresta. Giusto processo e presunzione di non colpevolezza, quante cose non tornano di Renato Luparini Il Dubbio, 4 giugno 2020 L’indipendenza della magistratura è diventato valore assoluto, e quella che indaga ha avuto il sopravvento su chi giudica. Il dottor Davigo ha il pregio con la sua recente affermazione pubblica sulla malattia italica dell’attesa delle sentenze prima di emettere un giudizio sui comportamenti delle persone, di rendere ancora più attuali due riforme attese da quaranta anni: la separazione delle carriere e la riforma del Csm. Erano temi sul tavolo della politica negli anni 80: il nuovo codice di procedura penale (l’unico partorito dalla Repubblica Italiana nel suo ormai lungo cammino) rendeva necessario distinguere con chiarezza il ruolo, degno di indipendenza e tutela, dell’ufficio di accusa (ancora anacronisticamente chiamato “Pubblico Ministero”, cioè in italiano corrente, servizio pubblico) e quello altrettanto degno del giudice ed istituire quindi non un unico organo di autogoverno dell’indistinta magistratura, ma due separate autorità di vigilanza. Il clima sembrava ideale: la stagione cupa del terrorismo era superata e il quadro internazionale stabile e sereno. C’era però un male oscuro che rodeva la credibilità della politica e venne fuori per la gestione di un ospizio milanese (Vico è sempre attuale). Da lì in poi è stato il diluvio. Il Csm è diventato il Palazzo dei Marescialli in ogni senso. Non più un organo di alta amministrazione, come il Cnel, quale era stato per alcuni anni e neppure più l’organo costituzionale di autotutela della magistratura, guardiana dello Stato Democratico contro il terrorismo e le mafie qual era diventato, ma una sorta di Camera dei Lord, di collegio degli Efori. Il Csm e la Magistratura hanno acquisito una funzione sempre più normativa. Le leggi approvate dal Parlamento sono interpretate dal Consiglio e applicate dalla magistratura in modo sempre più incisivo. La Legge da quadro è divenuta una cornice per l’interpretazione giurisprudenziale; una cornice sempre più esile, talora divenuta una graffetta applicata in margine a una sentenza. Il diritto è vivente in Piazza Indipendenza e Piazza Cavour, a Montecitorio e Palazzo Madama è solo un’immagine astratta. L’indipendenza della Magistratura da concetto relativo (autonomia dalla politica) è divenuto un valore assoluto, come per uno Stato che si proclama sovrano e che “superiorem non recognosces”. Ma le magistrature sono due: quella che indaga e quella che giudica. E la prima ha avuto ha il sopravvento perché arriva sul fatto con anticipo rispetto a quella che sentenzi. Il primo magistrato che inquadra il gran guazzabuglio della vita e del cuore umano è il Procuratore della Repubblica; poi un suo collega tira le fila di un ordito già sagomato e delineato. Interviene per correggere, integrare, smussare, ma sempre su un disegno già definito nei suoi tratti essenziali. Questa impostazione rende inevitabile, specie quando lo spirito di colleganza diventa una bandiera da sventolare con orgoglio, considerare la sentenza solo un aggiustamento delle indagini, la loro “bella copia”. Lo aveva capito, con singolare preveggenza, un grande statista del secolo scorso, Bettino Craxi, parlando alla Camera dei Deputati: “In quale Paese civile e libero si sono potuti celebrare in piazza tanti processi sommari, (…) si sono consacrate tante sentenze di condanna prima ancora che sia stato pronunciato un rinvio a giudizio?”. Mi si potrà obiettare che Craxi secondo sentenza passata in giudicato ha rubato alla nostra Repubblica argenteria preziosa e non merita la patente di statista. Mi permetto di considerare che, secondo sentenza legalmente emessa da Sua Maestà Francesco Giuseppe, Guglielmo Oberdan fu condannato come terrorista. È un paragone fragoroso, ma rende evidente che la verità giudiziaria e il giudizio storico hanno distinti parametri. Ma io vorrei riflettere su quale sia l’argenteria più preziosa. Certo conta quella che fa parte del Tesoro erariale, ma conta maggiormente quella che è custodita nella Costituzione, che consacra e rende inviolabili alcuni principi inderogabili, quali la presunzione di non colpevolezza e il giusto processo. Per questi principi, la necessità di un processo e la ricerca della verità, morì tanti anni fa un avvocato socialista emiliano: si chiamava Giacomo Matteotti. I giudici di pace alla Cedu per status e condizioni di lavoro di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 giugno 2020 Lo ha stabilito il Tar dell’Emilia Romagna. Lo status giuridico e le condizioni di lavoro dei giudici di pace finiscono davanti alla Corte di giustizia dell’Unione Europea. Lo ha stabilito il Tar dell’Emilia Romagna la scorsa settimana. Il ricorso era stato presentato nel 2017 da un magistrato onorario che evidenziava di aver svolto per anni attività equiparabili a quelle di un togato (gestione del ruolo, rispetto dell’orario di lavoro, inserimento nell’organizzazione del ministero della Giustizia quale datore di lavoro, ecc.) senza alcuna tutela assistenziale e previdenziale. Il Tar - sottolineano gli avvocati del ricorrente Giovanni Romano, Egidio Lizza e Luigi Serino - solleva dubbi sulle norme che, prevedendo solo una indennità in favore dei magistrati onorari, possono ledere autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale, che invece è garantita dalla Costituzione italiana, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalla Cedu”. “Giudici di pace e giudici onorari - proseguono - oltre a non essere assimilati al trattamento economico, assistenziale e previdenziale previsto per i giudici togati, sono completamente privi delle tutele garantite alla normalità dei lavoratori pubblici”. È stata inoltre rimessa alla Corte di giustizia la questione se l’incarico di giudice di pace possa essere prorogato senza la previsione della sua trasformazione in rapporto a tempo indeterminato. Il destino del futuro della magistratura onoraria è ora nelle mani della Corte di Lussemburgo la cui decisione vincolerà i giudici nazionali interessati dal contenzioso e le future scelte legislative al riguardo. Il Comitato europeo dei diritti sociali aveva già giudicato discriminatoria la legge italiana che disciplina il rapporto della magistratura onoraria. “I costi per i risarcimenti e le necessarie riforme dell’ordinamento giudiziario - concludono Romano, Lizza e Serino - potrebbero essere rilevanti ma necessari sia per il corretto funzionamento del sistema giustizia che per le adeguate garanzie a beneficio degli addetti ai lavori”. La storia dell’inquadramento della magistratura onoraria, e del rapporto con quella di ruolo, si trascina da decenni. L’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) approvò nel 2017 una riforma che però scontentò tutti, determinando, per protesta, mesi di astensione dalle udienze da parte dei magistrati onorari. Attualmente l’emolumento per il magistrato onorario è fissato in circa 98 euro lordi per cinque ore d’udienza. Le udienze sono solo due giorni alla settimana. I magistrati onorari, circa 4000, curano circa il 60% del contenzioso di primo grado e il Csm provvede alla loro gestione (assegnazione sede, disciplina, formazione). I paradossi della giustizia, pronti 800 cancellieri ma non li fanno lavorare di Viviana Lanza Il Riformista, 4 giugno 2020 Negli uffici giudiziari napoletani le scoperture di personale amministrativo si attestano in media tra il 25 e il 39 per cento. Ci sono uffici dove è previsto poco più di un dipendente amministrativo per ogni magistrato e per coprire i vuoti in organico è necessario ricorrere all’applicazione di personale degli uffici del distretto. Nell’ultimo anno le piante organiche dei magistrati hanno avuto un aumento di 600 unità in tutto il distretto di Napoli con l’obiettivo di rafforzare gli uffici giudiziari con maggiore difficoltà e in particolare quelli della Corte di appello e del Tribunale di Napoli Nord. Il 3 febbraio scorso si è avuto un ulteriore scorrimento nella graduatoria degli assistenti giudiziari risultati idonei al concorso indetto nel 2016 a distanza da venti anni dal precedente, una iniezione di forza lavoro attesa da tempo e che ancora servirebbe per risolvere il problema della carenza di personale, motivo delle maggiori criticità del sistema giustizia e acuito dal susseguirsi di pensionamenti con Quota 100. Negli uffici giudiziari della Procura di Napoli, ad esempio, si prevede entro l’anno una scopertura di 100 unità pari a circa il 25 per cento. Nei Tribunali di Roma e Napoli, con i pensionamenti previsti per i prossimi mesi, si calcolano invece scoperture del 39 per cento. Con questi numeri diventa difficile rimettere la giustizia al passo, soprattutto dopo lo stop imposto dal lockdown a causa della pandemia da coronavirus. A Napoli si pensa di far a accelerare i passi della giustizia e a giorni il presidente della Corte di appello, Giuseppe De Carolis, dovrà pronunciarsi sulle nuove linee-guida che il presidente del Tribunale di Napoli Elisabetta Garzo ha annunciato di voler adottare giovedì nel corso del question time con il presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli Antonio Tafuri. Ma il personale amministrativo sarà sufficiente a sostenere questi nuovi ritmi? “Siamo pronti a dare il nostro contributo. Vorremmo essere assunti quanto prima perché sappiamo che la situazione della giustizia era difficile già prima e con il Covid è ulteriormente peggiorata”, afferma Emanuela Coronica in rappresentanza degli 837 idonei al concorso per assistenti giudiziari. “Sono aumentati gli arretrati, molti tribunali stentano a ripartire. L’emergenza durerà ancora fino al 31 luglio e la maggior parte del personale lavora in smart working e in più c’è il problema del processo da remoto e quello della difficoltà ad accedere ai fascicoli se non dall’ufficio”, aggiunge Coronica descrivendo lo scenario della giustizia nella fase di ripresa dopo il blocco causato dalla pandemia. Gli assistenti giudiziari sono una forza lavoro immediatamente disponibile per i tribunali. Sono una soluzione all’esodo di dipendenti in pensione con quota 100 e a un personale la cui età media è sempre più alta, arrivando a superare i 50 anni. Al momento in graduatoria ci sono 837 idonei in attesa di essere chiamati in servizio, ma nei fatti dovrebbero essere di meno perché molti nel frattempo hanno vinto altri concorsi accettando altre opportunità di lavoro. Ottocento unità da introdurre nelle attuali scarne piante organiche degli uffici giudiziari sarebbero una risorsa da non mandare sprecata soprattutto in un momento come questo attuale in cui per recuperare i processi arretrati che si sono accumulati negli ultimi mesi occorre premere sull’acceleratore. In un recente seminario sull’organizzazione della ripresa, Barbara Fabbrini, capo dipartimento del ministero della Giustizia, ha annunciato l’assunzione entro l’anno degli idonei ancora in graduatoria. “Ci auguriamo che entro ottobre saremo chiamati a dare il nostro contributo come assistenti giudiziari”, conclude Coronica che aggiunge: “Non siamo la soluzione ai problemi della giustizia, ma sicuramente possiamo essere una soluzione”. Serve una giustizia a misura di cittadino di Rosaria Manconi La Nuova Sardegna, 4 giugno 2020 Solo pochi mesi fa, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il Ministro della Giustizia ha sottolineato l’importanza di guardare la giustizia attraverso gli occhi dei cittadini e ha rassicurato circa la solidità delle fondamenta su cui si stava realizzando un nuovo sistema per consegnare “un processo idoneo a rispondere alle istanze di giustizia, garantendo tempi certi”. Ecco questo per il Ministro sarebbe un buon momento per cambiare visuale e porsi nel punto di osservazione dell’utente e magari spiegare a che punto sia quel progetto di riforma ordinamentale con cui si vorrebbe rafforzare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, incidendo “sull’interruzione di ogni possibile commistione con la politica”, e snellire, modernizzare, rendere efficiente il processo. Crediamo, però, che potrebbe rimanere deluso da questa diversa prospettiva, che altro non offre se non un fermo immagine. Ombre nere che si stagliano su uno sfondo opaco. Giustizia bloccata in un momento in cui tutti i settori del paese riprendono a funzionare. Come se l’epidemia si fosse annidata dentro i Tribunali, nelle aule di udienza, desolatamente vuote, Mentre la società civile attende risposte alle istanze di giustizia e l’avvocatura chiede a gran voce di tornare a svolgere la propria funzione. Così si trova il nostro apparato giudiziario. In una condizione di fermo e oscurità, che non è nuova, né casuale. In cui si agita quell’irrisolto nodo della separazione dei poteri e il difficile equilibrio tra gli organi istituzionali, essenza del sistema democratico. Costantemente compromesso dal prevalere dell’uno rispetto all’altro o, peggio ancora, dalla loro commistione. Incomprensibile per i cittadini, abbandonati a sé stessi o, peggio, lasciati in balia di una informazione urlata e parziale. Come se il funzionamento della giustizia non avesse a che fare con la cura dei loro diritti. Viene in mente il mito della caverna, uno dei passi più interessanti dei dialoghi di Platone de “La Repubblica”: uomini chiusi nella oscurità, con lo sguardo sempre rivolto verso un muro e così strettamente incatenati da non potere vedere l’uscita. All’interno, con il favore di un fuoco acceso, qualcuno proietta immagini che i prigionieri credono reali. Una metafora poetica molto efficace per affermare che prima e fondamentale condizione per realizzare la giustizia è la conoscenza vera della giustizia. A cui si giunge solo liberandosi dalle catene per accedere alla reale consistenza delle cose del mondo. Pur con i necessari adattamenti, il mito risulta straordinariamente moderno ed attuale. I prigionieri siamo noi, i cittadini. Esclusi dalla conoscenza, vittime delle opinioni ed orfani di buoni governanti. Noi che attraversiamo un momento storico in cui una potente forma di sapere manipolatrice viene esercitata su frammenti della realtà ed in cui le suggestioni prevalgono sui fatti. Sui quali è doveroso fare luce, magari partendo da quelli più recenti. Chiarendo, ad esempio, ai cittadini sbigottiti, se la “questione morale” che non da oggi ha travolto la magistratura e il suo organo di autogoverno, il CSM, si risolva in una questione tutta interna, una volgare guerra di poltrone e interessi personali. O se piuttosto l’inquietante intreccio fra poteri politici, economici e mediatici emerso da quella parte di intercettazioni rese pubbliche non interferisca con la funzione giurisdizionale e con i principi della indipendenza, imparzialità e terzietà che la sorreggono. Se non sia a rischio la stessa democrazia del Paese. Per sgombrare il campo da ogni dubbio sarebbe anche utile chiarire se questa accertata commistione fra potere giudiziario/esecutivo/legislativo, abbia o meno prodotto strumentalizzazioni in danno degli ignari cittadini. A partire dalla legislazione di emergenza, sino al blocco della prescrizione, per arrivare allo svolgimento del processo fuori dalle aule di udienza ed ai recenti interventi legislativi in materia di ordinamento penitenziario. Ma soprattutto se il ciclone che ha travolto la giustizia abbia qualcosa a che fare con le lentezze, le distorsioni e le falle del sistema. Se, insomma, di questa giustizia ci si può davvero fidare. La domanda è pleonastica e noi non siamo ingenui. Non ci sarà alcuna risposta. Il non facile compito di raccontare i fatti così come sono se lo dovrà assumere, come sempre, l’avvocatura. Coinvolgendo, come costantemente ha fatto l’Unione Camere Penali Italiane, l’opinione pubblica in un dibattito schietto e coraggioso, che pone al centro quel conta davvero e di cui nessuno pare curarsi in questo marasma: la tutela dei diritti delle persone. Le toghe trattano con la politica la resa dello Stato di Iuri Maria Prado Libero, 4 giugno 2020 C’è una differenza tra la trattativa Stato-Mafia e la trattativa Stato- Magistratura: ed è che la prima non esiste ma tutti la indagano, mentre la seconda esiste ma non la indaga nessuno. La trattativa Stato-Magistratura si sviluppa quando l’ordinamento prova ad assumere discipline capaci in qualsiasi modo di compromettere il potere giudiziario, non importa che si tratti del mese e mezzo di ferie a suo tempo spacciato come garanzia di non si sa che cosa o della pretesa di processare i cittadini fin dentro alla tomba: in ogni caso, al potere legislativo dello Stato si oppone la macchina di quello giudiziario che fa valere le sue ragioni, magari con l’ausilio di un giornalismo che, significativamente, definisce “infame” la classe politica che si azzarda a proporre riforme sgradite alla corporazione. E si potrà obiettare che sono trattative per modo di dire, nel senso che il potere giudiziario non tratta ma ordina, e lo Stato ubbidisce: ma questo dice soltanto che il potere intimidatorio della magistratura è anche più efficace, con i pizzini sostituiti dai comizi nei mandamenti dell’informazione dove spadroneggiano i plenipotenziari delle bande togate. Dice: tu bestemmi! Quelli di cui parli sono servitori dello Stato che rischiano la vita! Ma questo è l’argomento classicamente adoperato da qualsiasi retorica di potere che si pretende indiscutibile qualunque cosa faccia. Nessuno contesta che i magistrati siano in maggioranza ottime persone che fanno benissimo il loro lavoro, e nessuno contesta che si tratti spesso di un lavoro difficile e pericoloso. Il che tuttavia non toglie un briciolo di verità al fatto che la magistratura, per mano di quelli che ne reggono la corporazione e con la complicità di un sistema politico intimorito, si è costituita in un potere che non compone il quadro istituzionale ma vi si oppone. E nel farlo, appunto, “tratta” i termini della resa altrui, cioè dello Stato, i cui rappresentanti sono perennemente esposti al dispositivo sostanzialmente ricattatorio di una legalità arbitraria, vale a dire il sistema dell’azione penale obbligatoria con l’accusa che tiene in mano il timer delle indagini orientandole verso il processo a orologeria deciso dal collega in carriera. E in questo bel sistema la giustizia, cosa che dovrebbe essere di tutti, diventa cosa loro. Per il Garante Cesare Battisti non deve restare a Oristano, ma al ministero fanno finta di niente di Alfredo Simone beccodiferro.noblogs.org, 4 giugno 2020 Il 25 e 26 giugno 2019 il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, ha visitato il carcere “Salvatore Soro” di Oristano-Massama. Scritto in perfetto burocratese, nel rapporto si legge che: “Il primo accesso della delegazione, intorno alle 17.00 del 25 giugno, si è rivelato particolarmente difficile per l’atteggiamento ostativo e non collaborativo del personale di Polizia penitenziaria presente all’ingresso e dello stesso Comandante, che hanno manifestato di non conoscere l’istituzione del Garante, la sua composizione, i suoi poteri e le sue funzioni, nonostante si trattasse della terza visita in tale Istituto dopo quelle del 2 aprile 2016 e del novembre 2017. Chissà come mai?? Superato l’incidente istituzionale (solo con l’intervento delle più alte autorità dell’Amministrazione penitenziaria), la delegazione ha incontrato una buona cooperazione da parte di tutto il personale”. Venendo alla parte che più ci interessa leggiamo che: … una infine era una persona classificata come “Alta sicurezza 2” ed era collocata in questa sezione d’isolamento poiché l’Istituto di Oristano non ospitava in generale detenuti con tale classificazione. Proprio per la specificità della collocazione di quest’ultima persona - che aveva concluso un precedente periodo d’isolamento ex articolo 72 c.p. - particolare attenzione è stata riservata alla valutazione delle complessive condizioni della sua detenzione. Condizioni che saranno riportate nel seguente paragrafo….”. 2.1.3. Situazione detentiva di una persona specifica - Nel periodo della prima visita (fine luglio 2019) il signor C.B. (Cesare Battisti, ndr) era collocato nella sezione isolamento in esecuzione della misura dell’isolamento diurno ai sensi dell’articolo 72 c.p. In tale occasione la delegazione in visita ha riscontrato l’adozione nei suoi confronti di misure di controllo di particolare rigore, incidenti sulla regolarità della vita detentiva: la perquisizione quotidiana personale e della stanza, la chiusura della porta blindata dalle 18.00 fino alle 7.00, fortemente limitante il passaggio dell’aria, il continuo spostamento in altra camera di pernottamento, attuato peraltro con frequenza non prestabilita, la mancanza di comunicazione formale dei provvedimenti dispositivi di tali misure, comunicate a voce o applicate senza alcuna informazione, la mancata consegna del Regolamento interno e della Carta dei diritti della persona detenuta. Nel colloquio con la delegazione, la persona detenuta ha lamentato inoltre il continuo disordine dei propri appunti realizzato dal personale nel corso delle perquisizioni nonché l’impossibilità di utilizzare un computer: tutto ciò determinava l’impossibilità di mantenere la propria attività di scrittura e studio. Le misure restrittive adottate sono state riscontrate tutte negli ordini di servizio emanati dal Direttore dell’istituto dal momento dell’accesso di C. B. nell’Istituto, messi a completa conoscenza del Garante nazionale in visita, tutti motivati dalle particolari ragioni di sicurezza dettate dalla valutazione di “spiccata pericolosità” attribuita a tale persona. Una cella del carcere di Oristano - Il Garante nazionale, pur considerando le ragioni di particolare sicurezza che interessano alcune persone detenute, rileva che alcune misure di controllo, come il periodico spostamento di stanza di pernottamento, alcune modalità di applicazione di queste, come il quotidiano disordine operato tra gli effetti personali della persona detenuta e la mancata informazione degli ordini dispositivi di misure ulteriormente restrittive, non abbiano concreto fondamento nelle particolari esigenze cautelari cui sono formalmente indirizzate, ma rischino di rappresentare, invece, mere manifestazioni di un rigore vessatorio. In occasione della successiva visita del Garante nazionale all’Istituto di Oristano (8 novembre), il Garante nazionale ha riscontrato che la situazione di C.B. era modificata, con l’interruzione delle modalità sopra descritte. Essendo ormai concluso il periodo di isolamento ex articolo 72 c.p., la persona detenuta era ristretta in tale sezione soltanto perché unica persona nell’Istituto classificata come “Alta sicurezza 2”. Come già detto, tale circuito non è presente nella Casa di reclusione di Oristano: pertanto la sua permanenza in tale Istituto nelle condizioni di isolamento ‘di fatto’ non trova giustificazione. Il Garante nazionale ricorda che considerazioni relative alla sicurezza della persona e alla rilevanza mediatica del suo caso non possono giustificare la riduzione della sua possibilità di realizzare una minima interazione con altri e tantomeno l’applicazione di regole restrittive che in linea generale sono adottate solo come provvedimento di natura disciplinare e per periodi di tempo molto limitati. Il Garante nazionale raccomanda all’Amministrazione penitenziaria di individuare una diversa sistemazione detentiva del signor C.B. coerente con la sua classificazione e al tempo in grado di consentirgli di continuare la propria attività di scrittura e studio. Raccomanda inoltre, di favorire la sua comunicazione con il figlio molto piccolo, residente in un Paese Oltreoceano, attraverso la previsione di colloqui via skype”. Prescrizione: stop ai termini per il rinvio chiesto dalle parti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 3 giugno 2020 n. 16636. Il rinvio del processo, disposto su accordo delle parti, comporta la sospensione del termine di prescrizione per tutta la sua durata. Anche quando la richiesta non sia imposta da una particolare norma di legge. La Corte di cassazione, con la sentenza 16636, bolla come inammissibile il ricorso con il quale si lamentava un errore di fatto sul calcolo dei termini di prescrizione, ritenuti ad avviso della difesa illegittimamente non ancora decorsi, essendo stato considerato un periodo di stop di 167 giorni anziché di 70. Per la Suprema corte però il verdetto è corretto. Nel corso del giudizio di primo grado gli orologi erano stati fermati per 70 giorni, in virtù di un rinvio chiesto dall’imputato senza opposizione delle parti civili. Uno slittamento che certamente aveva determinato la sospensione della prescrizione, esattamente per 67 giorni, essendo stato invocato dalla difesa ed essendo irrilevante l’accordo o l’opposizione del pubblico ministero e della parte civile. Ma dai verbali del processo di primo grado risultava che altri due rinvii erano stati precedentemente chiesti dall’imputato e dalle persone offese. Una domanda giustificata dalla pendenza di trattative per un’eventuale soluzione transattiva delle questioni civili, circostanza che aveva fatto lievitare i giorni ad un totale di 167. La Cassazione sottolinea che, in base alla giurisprudenza prevalente, “il rinvio del processo disposto sull’accordo delle parti comporta la sospensione del termine della prescrizione per tutta la durata del rinvio”. E questo anche nel caso in cui l’accoglimento della richiesta non sia imposto da una particolare disposizione di legge. La Suprema corte precisa che l’esistenza di un orientamento, opposto, minoritario, non seguito dal giudice, non può mai far scattare l’errore di fatto, come preteso dalla difesa. Patteggiamento, condizionale non subordinabile a statuizioni civili non concordate di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 3 giugno 2020 n. 16624. In caso di patteggiamento la decisione non può contenere statuizioni sull’azione civile di risarcimento. E non può prevedere il versamento di una provvisionale, a titolo di risarcimento a favore delle parti civili, se non è stata oggetto di specifico accordo nel patteggiamento. Ma soprattutto tale provvisionale non può essere il presupposto per godere delle condizioni stabilite con l’accordo sulla pena. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 16624 depositata ieri. Il perimetro della pena patteggiata - Il giudice non può escludere il beneficio della sospensione condizionale, concesso in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti, se condanna l’imputato per la continuazione del reato oggetto dell’accordo. Così la Corte di cassazione ha annullato la decisione con cui il Gip, nel condannare i due imputati per la continuazione del reato ambientale, aveva - in un caso - escluso il beneficio della condizionale che era già stata concessa, in quanto condizione cui la parte aveva subordinato l’applicazione della pena concordata e - nell’altro caso - subordinato la misura alternativa del lavoro di pubblica utilità già ottenuta al pagamento di una provvisionale. La Cassazione boccia la decisione anche per aver applicato ex novo la pena accessoria dell’incapacità a contrarre con la Pa per un dato periodo. Anche tale bocciatura deriva dal fatto che la decisione sulla continuazione del reato oggetto di patteggiamento costituisce una condanna “unica” in applicazione del comma 1 e non del comma 2 dell’articolo 165 del Codice penale. Dal che discende che non si determinava alcuna illegittima duplicazione del beneficio della sospensione della pena che invece andava esteso. La cassazione nel decidere ricorda due importanti precedenti: la sentenza 6580/2000, sull’impossibilità di far dipendere la condizionale dal pagamento di una provvisionale, e la n. 25349/2019 sull’illegittimità di porre la precondizione - che non è stata oggetto di accordo - della demolizione del fabbricato abusivo al fine della concessione del beneficio sull’esecuzione della pena. Biella. Una decina di detenuti usciranno dal carcere grazie al decreto “Cura Italia” di Paolo La Bua laprovinciadibiella.it, 4 giugno 2020 Una decina di detenuti del carcere biellese potranno scontare la loro pena usufruendo di misure domiciliari. Il primo detenuto a cui è stata concessa questa misura alternativa, ha varcato i cancelli di via dei Tigli, lunedì mattina. Nei prossimi giorni altre quattro persone dovrebbero poter beneficiare di questa concessione della Magistratura di Sorveglianza. E infine un altro gruppetto si dovrebbe aggiungere, al termine di una valutazione ad oggi ancora in corso. Una decina, non di più, quindi, le persone interessate a questo progetto voluto dal Governo Conte e sancito dal decreto “Cura Italia”, nel caso specifico, pensato per rendere meno complessa la situazione nelle carceri italiane durante l’emergenza sanitaria. Tra i detenuti biellesi coinvolti in questo provvedimento, nessuno ha condanne gravi né tanto meno legate a reati di mafia, come avvenuto altrove con non poche polemiche politiche. In questo caso si tratta di persone condannate per reati contro il patrimonio e pure di lieve entità. “Sono persone senza domicilio e senza fissa dimora - spiega Sonia Caronni, garante dei detenuti, davanti ai cancelli l’altro giorno durante il trasferimento del primo detenuto. Il 65% dei carcerati italiani è in questa situazione. Il progetto è nazionale e avrà una durata di sei mesi, con la possibilità di essere prorogato per altri sei. Il numero dei detenuti che beneficeranno di questo provvedimento è legato alle valutazioni della magistratura, quindi potrebbe variare in un senso o nell’altro. In queste settimane stiamo lavorando in sinergia con il territorio perché queste persone saranno, appunto, accolte. Nel caso specifico, in “strutture protette” messe a disposizione dalla “Caritas”, di fatto degli appartamenti, sulla cui ubicazione ovviamente c’è il massimo riserbo”. Sonia Caronni fa il punto della situazione del carcere biellese in tempo di emergenza sanitaria: “È confermata l’assenza di casi positivi al “Covid-19” sia tra la popolazione carceraria sia tra il personale, di polizia e pure quello amministrativo. Un dato sorprendente, visto l’alto numero di persone coinvolte, ma che viene confermato da molte fondi ufficiali, nazionali e regionali. Nella complessità del momento, mi pare proprio che la direzione del carcere stia lavorando al meglio per assicurare le necessarie misure di sicurezza senza però tralasciare importanti diritti dei detenuti. Sono state sospese le lezioni scolastiche, purtroppo, ma dal 18 di maggio sono stati riaperti i colloqui ai familiari. Prosegue il lavoro della produzione di mascherine certificate, progetto di grande valore sociale. Mi pare di poter dire, insomma, che a differenza di qualche anno fa, quando si verificarono proteste clamorose e tensioni, oggi, la struttura vive un momento senza criticità”. “Io non posso entrare in carcere - conclude Caronni - proprio per limitare al minimo i contatti tra chi vive in carcere e l’esterno. Ho avuto sono dei colloqui via Internet. L’altro giorno mi sono presentata davanti ai cancelli perché c’era il trasferimento del primo detenuto interessato a questi provvedimenti domiciliari. Gli era stato effettuato il tampone sanitario, con esito negativo”. Reggio Calabria. Il Garante: “Parte copertura infermieristica h24 presso il carcere di Arghillà” strill.it, 4 giugno 2020 “A far data dal 1° giugno 2020, parte per la prima volta da quando è stato inaugurato il carcere di Arghillà nel 2013, la copertura infermieristica H 24”. Lo rende noto il Garante regionale dei diritti delle persone detenute, avv. Agostino Siviglia, che per anni e, in particolare, in questi ultimi mesi di emergenza sanitaria, ha perorato in tutte le sedi di competenza, locali e regionali, affinché si ponesse rimedio a questa grave ed annosa carenza di tutela del diritto alla salute delle persone detenute. “Per vero, dal 1°giugno scorso - sottolinea Siviglia - sono entrati in servizio, seppur a tempo determinato, ben 6 unità di nuovi infermieri, giusta la previsione deliberata in tal senso dal Commissario alla Sanità della Regione Calabria, Gen. Dott. Saverio Cotticelli e, di conseguenza, finalmente concretizzata dall’ASP territoriale di Reggio Calabria”. Il Garante regionale, “nell’accogliere con apprezzamento il perfezionarsi dell’iter burocratico-amministrativo, ritiene doveroso rivolgere un giusto riconoscimento tanto al Commissario ad acta per la Sanità della Regione Calabria, quanto al Dipartimento Salute regionale, all’ASP di Reggio Calabria ed al coordinatore della Sanità penitenziaria calabrese, Dott. Luciano Lucania”. “Da ultimo, ma non per ultimo - prosegue Agostino Siviglia - va ringraziato tutto il personale sanitario e infermieristico dell’Istituto penitenziario di Arghillà che fino ad oggi si è visto costretto ad operare in condizioni di grave emergenza per far fronte alla doverosa assistenza sanitaria delle persone detenute che, di media, si aggira intorno alle trecento unità”. Siviglia, inoltre, rivolge “un plauso particolare al direttore dell’Istituto penitenziario di Reggio Calabria, dott. Calogero Tessitore ed a tutto il personale di polizia penitenziaria, amministrativo e giuridico-pedagogico, che quotidianamente opera in carcere”. “Èstata vinta una giusta battaglia- afferma ancora il Garante - sul fronte della tutela del diritto fondamentale alla salute anche e non marginalmente nei confronti di chi si trova detenuto. Spero, aggiunge, che queste unità di personale infermieristico possano essere nel tempo stabilizzate al fine di garantire un servizio strutturato di assistenza”. “Rimangono ancora però alcune vitali questioni che certamente dovranno essere affrontate e risolte nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, in specie, per quanto riguarda il servizio di osservazione psichiatrica presso l’istituto ‘San Pietro’ di Reggio Calabria, ma anche mediante un’auspicabile estensione dell’osservazione psichiatrica presso l’Istituto Siano di Catanzaro”. A tal fine, il Garante regionale ha sollecitato a chi di dovere “l’imminente convocazione dell’Osservatorio regionale per la sanità penitenziaria, di recente rinnovato nella sua composizione stabile, anche facendo seguito ad una identica richiesta in tal senso avanzata dal Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Dott. Liberato Guerriero”. “Va da sé che le questioni che attengono al fondamentale diritto alla salute delle persone detenute negli Istituti penitenziari calabresi costituiscono una tra le principali priorità poste a fondamento dell’attività istituzionale del Garante regionale come dallo stesso evidenziato sia nelle Linee guida della sua attività istituzionale sia in occasione degli Stati generali dell’esecuzione penale in Calabria tenutasi lo scorso 3 dicembre presso il Consiglio regionale”. “Solo attraverso una capacità di intervento sistemico, conclude il Garante Siviglia, sfide così complesse potranno essere affrontate e superate”. Palermo. Emergenza finita: è ripartito tutto, tranne la giustizia di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 4 giugno 2020 Nella trincea della lotta alla mafia aule deserte e diecimila processi in attesa di giudizio. Una mattina di fine maggio. Calma piatta in tribunale. Si amministra poca, pochissima giustizia ai tempi del coronavirus. All’ingresso giganteggiano le foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli altri morti ammazzati per mano mafiosa. Di Falcone pochi giorni fa si è commemorato il ventottesimo anniversario dell’eccidio con un richiamo collettivo al dovere che tutti sono chiamati a compiere. Impossibile farlo se l’avamposto della legalità è silente. Senza processi, senza il quotidiano confronto tra accusa e difesa, la giustizia non esiste. Esiste solo una finzione che si ostinano a chiamare giustizia. Il carabiniere anticipa i movimenti di chi si presenta all’ingresso del tribunale. È “armato” di termometro d’ordinanza per misurare la temperatura. L’ultimo rischio che corre è di scaricare le batterie per la troppa attività. Non c’è fila al metal detector. All’interno corridoi semivuoti, aule chiuse. Niente chiacchiere e carta bollata, niente avvocati che salgono e scendono per le scale, niente praticanti e segretarie che fanno l’impagabile lavoro di cancelleria Ha ragione il presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati palermitani Giovanni Immordino quando dice che la “giustizia è rinviata a data da destinarsi”. Tutto fermo o quasi fino al 31 luglio. Colpa del Covid-19 che, però, intorno al palazzo di giustizia non preoccupa più di tanto. Il silenzio della cittadella giudiziaria stride con la frenesia dell’ambiente che la circonda. A destra il corso intitolato a Camillo Finocchiaro Aprile, garibaldino, mazziniano, politico e giurista. Corso Olivuzza, lo chiamano i palermitani. Si dice che fosse il diminutivo di Oliva, la donna che gestiva un ricovero per i cacciatori di conigli in quella che un tempo era una zona verde e ora è una affollata strada commerciale. A sinistra c’è il Capo, uno dei mercati storici della città con la bancarelle di frutta, verdure e pesce, e le botteghe di generi alimentari. La città si è ripresa la sua caotica normalità che in parte non aveva abbandonato persino nei giorni di paura e lockdown. A Palermo si può lasciare la macchina parcheggiata in terza fila (l’abitudine della doppia fila ha alzato l’asticella della trasgressione), ci si può accalcare (assembrare, pardon) davanti alle bancarelle autorizzate e (molte) abusive, si può comprare il pane stipato dentro i furgoncini che rispettano un protocollo igienico-sanitario tanto autonomo quanto imperscrutabile, ci si può confondere tra la folla dei mercatini rionali. E ancora da qualche altra parte della città si può andare in palestra, passeggiare al parco, fare l’aperitivo e un tuffo al mare seguendo (quasi del tutto) il canovaccio di sempre. È ripartito tutto, tranne la giustizia. Negli uffici giudiziari lo stato mostra il volto rigido dei protocolli. Poco importa ciò che accade attorno alla fortezza che resiste al Covid, compreso il fatto che la situazione sanitaria in Sicilia non sia mai stata preoccupante. I livelli del contagio sono rimasti sempre sotto controllo. La giustizia non cede alla tentazione del ritorno frettoloso alla normalità. Predica calma e prudenza, e non solo a Palermo. Resta sospesa, ma così rischia di sprofondare sotto il peso dei numeri, tenuto conto che l’erosione della credibilità ne ha già minato le fondamenta. Si calcola che in questi mesi di stop, totale e parziale, siano stati rinviati diecimila processi. “Assisto degli impiegati della Regione siciliana imputati per corruzione e abuso d’ufficio - spiega l’avvocato Enrico Sanseverino, ex presidente dell’Ordine - e il processo è stato aggiornato a febbraio 2021. Un carico pendente in Italia è peggio di una sentenza. Qualcuno è stato trasferito in altro ufficio nell’attesa di conoscere le sorti processuali”. Un carico pendente sine die è un danno per l’imputato, ma anche per la pubblica amministrazione che deve sapere in fretta se può fidarsi ancora di un impiegato. Solo quando e se si ripartirà a pieno regime si capirà l’entità dei danni provocati dalla chiusura prima e della ripartenza a scartamento ridotto poi. Negli ultimi anni, seppure con percentuale ancora basse, si è riusciti a smaltire parte dei vecchi fascicoli. I rinvii di oggi ingrosseranno le statistiche sui processi pendenti. Prima del coronavirus in ciascuna sezione del Tribunale venivano fissati in media trenta processi al giorno con punte di sessanta (molti a onore del vero venivano chiamati per meri rinvii). Oggi al massimo si svolgono una decina di processi. A dettare le limitazioni è stato il presidente del Tribunale Salvatore Di Vitale, costretto a usare il metro. Gli spazi delle aule al secondo piano sono ristretti. Lo stesso Di Vitale, ormai prossimo alla pensione, spera di lasciare sul tavolo del suo successore un programma che inverta la tendenza. Nel frattempo si va avanti piano in attesa delle ferie estive quando, con o senza coronavirus, il tribunale andrà in regime feriale. Va decisamente meglio al primo piano, in Corte d’appello, dove il presidente Matteo Frasca ha scelto una linea più morbida. Può contare su aule più grandi, davanti alle quali si incontrano gli avvocati in attesa. Distanziati e con le mascherine. Insomma, basta fare una rampa di scale e le regole cambiano. Non c’è da meravigliarsi. L’organismo congressuale forense ha calcolato, infatti, che in giro per l’Italia sono stati applicati 200 protocolli diversi. Nei nuovi uffici giudiziari, alle spalle del vecchio palazzo di giustizia, che per le ampie vetrate ricordano l’architettura della Défense parigina, gli adesivi piazzati per terra indicano i percorsi separati per salire e per scendere. Il nastro isolante evita che qualcuno faccia confusione. Al pianterreno sono state tracciate delle aree di sosta che possono ospitare fino a nove persone per volta. Qualcuno le ha già soprannominate “i recinti”, tradendo la scarsissima voglia di finirci dentro. Vi devono stazionare gli avvocati in attesa di essere chiamati per i processi o per la consultazione degli atti. E qui la faccenda si fa ancora più complicata. In caso di misure cautelari o avvisi di conclusione delle indagini, ad esempio, bisogna chiamare in cancelleria e prenotarsi per leggere gli atti. Il giorno prestabilito il fascicolo si troverà sul tavolo della sala avvocati. Una sala piccola, il turno è inevitabile. Alcuni processi vengono celebrati da remoto. Giudice, pubblico ministero e avvocato si guardano negli occhi via computer. Almeno in questo a Palermo si è dato ascolto alla protesta dei penalisti che vedono nel video collegamento lo svilimento della professione e una lesione del diritto di difesa. Anche molti magistrati considerano il processo da remoto un metodo da archiviare il prima possibile. Al momento con questa modalità si svolgono per lo più le udienze di convalida degli arresti, in aggiunta a quelle con i detenuti collegati in video conferenza dal carcere. I processi con i detenuti vanno trattati con priorità, tenuto conto anche dei termini di scadenza di custodia cautelare, assieme a quelli dove c’è una parte civile costituita e quelli, come i cosiddetti codici rosi, dove fare presto significa tutelare le vittime di violenze e abusi. Stessa cosa nel settore civile per le cause legate a questioni familiari, dal divorzio agli alimenti, o di lavoro. Anche nel nuovo palazzo di giustizia l’ingresso nelle aule è contingentato. Più si sale e maggiori sono i problemi. Al terzo piano c’è l’aula delle udienze preliminari che in una terra segnate da blitz, più o meno grandi, è spesso affollata. Qualche giorno fa un gip ha preso atto dell’assembramento e delle proteste degli avvocati costretti a stare in corridoio. Meglio trasferire il processo nella vecchia ma molto più ampia aula bunker dell’Ucciardone. Quella del maxi processo per intenderci. Il clima si era surriscaldato, anche nel senso letterale della parola. Il terzo piano è vicino al tetto panoramico a vetri e il sole di maggio picchia forte. Fra pochi giorni sarà una fornace e il protocollo stabilisce che l’aria condizionata va tenuta rigorosamente spenta. E in Procura? Negli uffici del vecchio palazzo che ospita i pubblici ministeri e le cancellerie l’accesso è regolamentato. Chi ha bisogno di parlare con un pm o depositare un’istanza accede al portale e si prenota online. Facile a dirsi, meno a farsi. Il 30 per cento del lavoro di cancellieri e assistenti giudiziari viene svolto a rotazione da casa, in smart working, per evitare la presenza simultanea di troppe persone in una stessa stanza. Chi lavora da casa, però, non ha accesso al sistema informatico dell’ufficio (ci sono protocolli di sicurezza e riservatezza ancora prima che sanitari da rispettare). La digitalizzazione della giustizia è ancora troppo lontana. “I provvedimenti emanati - dice l’avvocato Michele Calantropo, del gruppo di minoranza dei penalisti dell’Ordine - a nulla servono se mancano personale e strumenti”. Non va meglio fuori dal palazzo. In carcere, ad esempio, sono ripresi i colloqui degli avvocati con i detenuti. Ma serve tanta pazienza. Si entra uno alla volta. L’attesa prima di parlare con gli assistiti può durare ore. E una volta dentro bisogna fare in fretta. La verità è che la pandemia ha mostrato tutti i limiti strutturali e organizzativi del paese e solo degli inguaribili ottimisti potevano pensare che il sistema giustizia potesse reggere la botta. Da decenni si annunciano roboanti riforme. La magistratura sceglie la sacralità dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando si indossano gli ermellini di porpora, per dire che “così non va”. Il rappresentante di turno del governo sta lì, annuisce e annuncia il massimo impegno. Alla fine arrivano scelte che incidono poco sui tempi dei processi. Per accelerali si è deciso per ultimo, prima ancora dell’emergenza sanitaria, che bisogna fermare il decorrere della prescrizione. Fermare per velocizzare (?), il blocco della prescrizione come rimedio contro la lentezza della giustizia. Il corso della prescrizione rimane sospeso per il tempo in cui il procedimento è stato rinviato a causa dell’emergenza sanitaria. Il coronavirus dovrebbe imporre l’obbligo, oltre all’utilizzo di guanti e mascherine, di affrontare seriamente il tema della giustizia. La giustizia vera, non quella che fa palcoscenico per l’esibizione delle figure dell’antimafia, cadute giù un dopo l’altra, delle trame oscure da svelare. Non dovrebbe essere, la giustizia, il terreno di scontro delle correnti che si manifestano in chat maleodoranti per piazzare gli uomini al comando degli uffici giudiziari. Si grida allo scandalo per le scarcerazioni facili dei boss che poi non sono né tutte facili, né tutti boss. Si esulta per il ritorno in cella di detenuti malati di tumore a cui restano da scontare pochi mesi di galera. Nel frattempo la gente nei tribunali mangia pane e ingiustizia perché un processo lungo è ingiusto per l’imputato e per la vittima. Passata la stagione degli scandali, e pure quella del coronavirus, ci si ritroverà di nuovo immersi in quella grande finzione che chiamano giustizia. Roma. Rebibbia, due detenuti evadono calandosi con la corda di Alessia Marani Il Messaggero, 4 giugno 2020 Due detenuti evasi da Rebibbia. “In attesa di comprendere le dinamiche che sono in fase di indagine, purtroppo questa mattina due detenuti di nazionalità croata e italiana ma etnia rom con pene fino al 2029, della Casa di Reclusione di Rebibbia hanno potuto evadere attraverso ad una corda facendo perdere le loro tracce e sulla quale comunque uno di loro potrebbe essere già stato individuato”. A comunicarlo è la segreteria regionale dell’Ussp, l’unione sindacale di polizia penitenziaria. I due si sono calati srotolando una manichetta dell’antincendio, dribblando una telecamera. Chi sono gli evasi. Secondo quanto si è appreso, si tratta di un detenuto di 46 anni nato in Croazia e di un 40enne di Olbia. Entrambi sarebbero di origini nomadi e in carcere per reati contro il patrimonio e la pubblica amministrazione. Sono in corso ricerche della polizia in particolare nei campi nomadi, nelle stazioni e negli aeroporti. L’evasione potrebbe essere avvenuta nella notte. “Proprio in questi giorni l’Uspp aveva avuto un incontro con la Direzione per affrontare temi organizzativi rispetto al periodo ferie per il personale di Polizia Penitenziaria dopo la fase Covid-19 che ha coinvolto uno degli istituti del polo penitenziario di Rebibbia - spieha il segretario regionale Uspp, Daniele Nicastrini - Ricordiamo si definisce Polo Penitenziari di Rebibbia per la presenza anche degli Istituti Femminile con 290 detenute, Circondariale Nuovo Complesso 1460 detenuti dove nel recente passato sono avvenuti 5 evasioni, Terza Casa Circondariale custodia attenuata con 67 detenuti e altre strutture logistiche per conto dell’Amministrazione Centrale DAP e Interregionale Provveditorato Roma. Il sempre è legato ad una poca attenzione dovuta al fatto che nei turni notte il personale è ridotto al minimo per politiche errate del Ministero della Giustizia che in questi anni ha curato poco l’aspetto sicurezza custodiale e troppo altri benefici che dimostrano poca efficacia nel rendimento generale del sistema carcere che continua a fare acqua da tutte le parti, ed un agente ogni 100 detenuti da vigilare senza poterli vedere quando sono chiusi di notte se non dallo spioncino significa mettere in difficoltà l’operato degli stessi agenti. Il Ministero sa perfettamente come stanno le cose ma sembra non fregarsene troppo e alla fine i delinquenti riescono ad uscire anche con i sistemi ortodossi... corde, lenzuola e la classica fuga anche durante le visite ambulatoriali, l’ultima proprio nell’agosto scorso dal Sandro Pertini di Roma”. In tutta Roma è caccia ai due evasi che hanno presumibilmente studiato da tempo e scelto appositamente la data del 3 giugno per potersi meglio confondere tra la gente e spostarsi anche fuori dalla regione per raggiungere nascondigli “sicuri”. Solo tra il 2014 e il 2016 si erano verificate altre cinque evasioni da film. calandosi con corde e lenzuola, un altro sfortunato periodo per la sicurezza del carcere. Siena. Il carcere ai tempi del Covid: i comici italiani e il cortometraggio per Santo Spirito sienanews.it, 4 giugno 2020 Natalino Balasso, Paolo Calabresi, Maria Amelia Monti, Tullio Solenghi, Massimo Lopez, Luigi Lo Cascio, Vittorio Lattanzi, Carlo Amato, i Tetes de Bois, Letizia Fuiochi, Filippo dr. Panico, Stefano Fresi: sono loro i protagonisti di un’iniziativa di solidarietà per il carcere senese di Santo Spirito. Volti noti del palcoscenico italiano, attori e comici che ci regalano sempre divertimento e che più volte sono stati protagonisti, a beneficio dei detenuti, sul palcoscenico del piccolo teatro della Casa Circondariale di Santo Spirito. che ritengo meriti adeguata visibilità e che ha visto come protagonisti numerosi attori e personaggi del mondo dello spettacolo che in passato si sono esibiti, a beneficio dei detenuti, sul palcoscenico del piccolo teatro della Casa Circondariale. Il carcere durante l’emergenza epidemiologica ha vissuto e sta ancora vivendo una situazione di isolamento, dettato dalle rigorose misure di prevenzione atte a prevenire il rischio di contagio. Purtroppo ad eccezione dei corsi scolastici che proseguono con la teledidattica a distanza sono state giocoforza sospese tutte le numerose attività di carattere rieducativo che contraddistinguevano la quotidiana vita detentiva. A porre fine a questa forzata inattività ci hanno così pensato loro, una decina di attori e comici che negli ultimi tempi hanno calcato il palcoscenico del piccolo teatro della casa circondariale di Siena e che in questi giorni, in occasione dello stato di emergenza legato all’epidemia Covid-19, hanno fatto pervenire ai detenuti un videomessaggio di saluto e di incoraggiamento. Ne è un nato un cortometraggio che raccoglie il contributo di ciascuno di essi e nel quale tra monologhi, sketch, momenti di intrattenimento e riflessioni emerge soprattutto la sensibilità di questi artisti che, nel ricordo delle loro passate esibizioni davanti a un’insolita platea di spettatori, hanno squarciato il muro di isolamento che, specie nell’attuale contingenza, separa il carcere dal contesto ambientale esterno. Il sipario telematico è calato dopo circa 45 minuti, un tempo contenuto, ma sufficiente ad arrecare conforto a quanti non sono attori, ma interpreti di una storia reale: il carcere al tempo del coronavirus. Torino. Un carcere senza sbarre per mamme detenute con bambini iltorinese.it, 4 giugno 2020 Anche il Piemonte, su ispirazione di quanto realizzato in Lombardia e nel Lazio, potrebbe ospitare una Casa famiglia protetta per mamme con bambini fino a 10 anni che stanno scontando una pena? È la domanda al centro del confronto che si svolgerà in teleconferenza giovedì 4 giugno a partire dalle 17 sulla piattaforma Webex dell’Università di Torino. All’incontro, coordinato dai garanti regionali dei detenuti e dell’infanzia Bruno Mellano e Ylenia Serra, intervengono l’assessore regionale alle Politiche della famiglia, dei figli e della casa Chiara Caucino, il sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Giorgis, la docente di Diritto penitenziario dell’Università di Torino Giulia Mantovani, Andrea Tollis della Casa famiglia protetta Ciao di Milano e Lillo Di Mauro della Casa famiglia protetta Colombini di Roma. La Legge 62/2011 ha introdotto nell’ordinamento penitenziario norme di maggior tutela per le detenute mamme, istituendo in carcere le “Custodie attenuate” (Icam) per le madri ristrette con i figli minori al seguito (per bimbi fino ai 6 anni), e prevedendo la nascita di una rete di Case famiglia protette (per bambini fino a 10 anni) per offrire un’accoglienza in ambiente senza sbarre. A oggi gli Icam in Italia sono cinque, tra cui quella dedicata alla memoria di Maria Grazia Casazza all’interno della Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, e le Case famiglia protette due, rispettivamente a Milano e a Roma. Per partecipare e ricevere il link cui collegarsi, occorre inviare richiesta, tramite mail, a garante.detenuti@cr.piemonte.it. Egitto. “Omicidio Regeni, no all’archiviazione” Il Gazzettino, 4 giugno 2020 “È tremenda la notizia per cui potrebbe essere archiviata l’indagine sul criminale omicidio di Giulio Regeni, perché non ci sarebbe risposta alla rogatoria internazionale. La reazione del Governo italiano dovrebbe essere l’opposto. Se non arriva l’autorizzazione dovrebbe richiamare l’ambasciatore”. A dirlo in una nota è Furio Honsell, esponente di Open Sinistra Fvg in Consiglio regionale. “Questa notizia è gravissima anche perché posteriore di pochi giorni a quella di una maxi-vendita di navi da guerra all’Egitto. Che l’interesse del nostro Paese stia nel non avere ostacoli nella vendita di armi piuttosto che nel promuovere i diritti umani è agghiacciante - aggiunge Honsell. Non si hanno nemmeno notizie dello studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki, che è ancora in carcere con accuse arbitrarie”. Nel giugno del 2018, nella sua prima mozione, su proposta del consigliere Honsell, il Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia espresse all’unanimità l’impegno a favore della giustizia per Giulio Regeni e le altre vittime delle dittature. “Chiediamo al presidente Fedriga - conclude l’esponente di Open Fvg - che si adoperi con rinnovata energia su questo fronte, essendo ormai passati ben 2 anni”. Egitto. Un decesso per Covid nel carcere di Tora, dove è detenuto Patrick Zaki di Alessandra Fabbretti dire.it, 4 giugno 2020 Le ong locali avvertono che il virus si starebbe diffondendo nelle sovraffollate prigioni. In Egitto, uno tra i Paesi piu’ colpiti dall’epidemia di Covid-19, le ong locali avvertono che il virus si starebbe diffondendo nelle sovraffollate carceri, come dimostrerebbe la morte di un secondino nel carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo. A darne notizia è la testata indipendente Mada Masr, che riporta la morte dell’agente di polizia carceraria Sayed Ahmed Hegazy. L’uomo è deceduto venerdì dopo aver manifestato i sintomi del coronavirus a partire dal 18 maggio. A denunciare la vicenda è stata sua figlia Zainab Hegazy in un post su Facebook, successivamente rimosso. Nei giorni scorsi, familiari del secondino che hanno scelto di rimanere anonimi hanno denunciato che la famiglia si è vista negare la consegna dei risultati degli esami clinici per il Covid-19, pur avendo saputo dal medico che Hegazy era risultato positivo. Dopo giorni in cui le condizioni dell’agente peggioravano, la famiglia non sarebbe riuscita a trovare un posto in ospedale per ricoverarlo. Alla fine - è stato denunciato - l’uomo è morto in macchina, nel tentativo di raggiungere l’ennesimo centro medico. La vicenda è circolata sul web e i social network, sollevando appelli da parte dei difensori dei diritti umani affinché’ sia fatta chiarezza sulla morte dell’agente e siano effettuati i test a tutto il personale e ai detenuti di Tora. Domenica, il ministero degli Interni è intervenuto smentendo che Hegazy sarebbe morto per coronavirus, quindi ha spiegato che l’uomo dal 17 maggio era in permesso per curare problemi di salute cronici. Nella nota è stato riferito che l’uomo aveva effettuato gli esami per il Covid-19 presso l’ospedale di Imbada, ma che è morto prima di ricevere i risultati. Il ministero ha assicurato che, una volta notificato il decesso, le autorità hanno preso “le precauzioni necessarie per igienizzare il luogo di lavoro, inoltre le persone che sono entrate in contatto con lui sono state monitorate per ragioni di sicurezza”. nfine, sono state annunciate “misure legali” contro chiunque diffonderà “notizie non corrette” sulla situazione sanitaria nelle carceri. La famiglia Hegazy invece ha riferito a Mada Masr che il test è stato effettuato nell’Abbasiya Fever Hospital, ma che pur avendo saputo telefonicamente che i risultati erano positivi nè la moglie nè le figlie sono riuscite ad ottenere i referti. Mentre le condizioni di salute dell’uomo peggioravano, il medico di base ha suggerito il ricovero in terapia intensiva, ma senza il referto che confermasse il coronavirus, ogni tentativo è stato inutile. Da tempo le ong denunciano l’inadeguatezza delle condizioni igienico-sanitarie nelle prigioni egiziane, e in particolare in quella di Tora, tra le piu’ grandi del Paese. L’alto numero di detenuti e l’assenza di mascherine, sapone e prodotti igienizzanti renderebbe impossibile rispettarne le norme anti-contagio. Stando a Middle East Monitor, ci sarebbero due casi sospetti di coronavirus in due dei quattro bracci di Tora, ma senza test clinici non è possibile ottenere conferme. In questo istituto penitenziario sono detenuti anche centinaia di prigionieri di coscienza, la maggior parte dei quali in detenzione preventiva in attesa del processo. Per loro da tempo si invocano i domiciliari per garantire che non contraggano il Covid. All’agenzia Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, ha dichiarato: “Il governo del Cairo nega ma i gruppi per i diritti umani segnalano la diffusione del Covid-19 nelle stazioni di polizia e soprattutto nella prigione di Tora, dove sono detenuti molti prigionieri di coscienza compreso il ricercatore Patrick Zaki”. Per Noury, “è certo che un impiegato della prigione è morto di coronavirus e vi è la possibilita’ che lo abbia contratto quando era al lavoro a Tora”. Il responsabile ha concluso: “È facile immaginare quali siano le implicazioni, per questo è ancor piu’ urgente il rilascio di Patrick Zaki e degli altri prigionieri di coscienza” Usa a ferro e fuoco, rabbia profonda che coinvolge tutti di David Romoli Il Riformista, 4 giugno 2020 Nel primo pomeriggio del 19 marzo 1935 Lino Rivera, un portoricano nero di 16 anni, tentò di rubare un coltellino a scatto nell’emporio di un negoziante bianco ad Harlem, proprio di fianco al famoso teatro Apollo. Fu scoperto e il proprietario tentò di portarlo in cantina per dargli una manesca lezione. Il ragazzo reagì mordendo la mano dell’uomo a sangue. Arrivò la polizia. Il sedicenne fu portato al distretto di polizia, ma liberato quasi immediatamente. Intanto però si era sparsa la voce che un bambino fosse stato ammazzato di botte per aver rubato delle caramelle. La falsa notizia fu la scintilla destinata a far esplodere la rabbia della popolazione di Harlem, quella più pesantemente colpita dalla Depressione. I neri attaccarono e saccheggiarono per tutta la notte i negozi che non esibivano il cartello “Colored Store”. Dimostrare che la notizia era falsa fu una faccenda lunga perché Rivera aveva dato un indirizzo falso. Quando la polizia rintracciò il ragazzo e distribuì la foto del portoricano vivo con un ufficiale e poi con lo stesso sindaco, Fiorello La Guardia, i disordini erano proseguiti per ore, tre persone erano morte, i danni ammontavano a due milioni di dollari. Non era il primo tumulto razziale nella storia degli Stati Uniti, ma fino a quel momento si era sempre trattato solo di scontri fra diversi gruppi etnici. La rivolta di Harlem nel 1935 fu la prima in cui venivano presi di mira, bruciati e saccheggiati negozi ed edifici. È passata alla storia come il primo riot moderno. Nell’estate dei grandi conflitti razziali, quella del 1943, i due modelli, quello tradizionale delle battaglie razziali e quello inaugurato otto anni prima ad Harlem, si sommarono e si intrecciarono. L’America era in guerra. Centinaia di migliaia di bianchi poveri e di neri affluivano nei pochi centri industriali del Sud e soprattutto nelle grandi fabbriche del Nord e in particolare di Detroit. In seguito all’Executive Order 8802 emanato nel marzo 1941 dal presidente Roosevelt, che vietava la discriminazione nelle fabbriche impegnate nella Difesa, per la prima volta bianchi e neri si trovavano fianco a fianco alle catene di montaggio. Al razzismo endemico si sommavano così le tensioni sul lavoro e quelle, fortissime, soprattutto a Detroit, dovute alla scarsità di alloggi per gli immigrati e alla protesta dei quartieri bianchi per la costruzione di case popolari per gli operai immigrati ai confini delle loro zone. In quell’estate scoppiarono decine di incidenti e in sei città sfociarono in veri e propri tumulti razziali. A Detroit centinaia di giovani bianchi attaccarono le case dei neri che si difesero e contrattaccarono. Entrambi i gruppi etnici bruciarono e saccheggiarono i negozi della comunità “nemica”. La polizia quasi sempre scese in campo non per sedare ma a fianco dei bianchi. In due giorni di violenze, tra il 20 e il 22 giugno, furono uccise 34 persone, 25 delle quali nere quasi tutte uccise dalla polizia. Le inchieste successive attribuirono la responsabilità delle violenze agli aggrediti. Ad accendere la miccia, all’inizio di giugno, non erano state le fabbriche e le case, ma gli abiti. Non si trattava, è vero, di vestiti qualsiasi: gli zoot-suits erano di gran moda nei ghetti di tutte le città, lo stile cool del momento. Abiti spesso sgargianti e sempre realizzati con gran spreco di stoffa, li portava anche il giovane Malcolm X: giacche lunghissime e larghe, spalle imbottite e pantaloni larghissimi. Avevano cominciato a indossarli i neri ma a Los Angeles erano stati subito adottati dalla folta popolazione messicana, i “pachucos”, e un po’ dai filippini e dagli italiani. All’America in guerra, che riteneva il risparmio di materie un obbligo patriottico, sembrava un affronto e forse un po’ lo era davvero. Gli zoot-suiters anticipavano di due decenni le controculture giovanili che avrebbero fatto dello stile un messaggio di rifiuto sociale dell’ordine costituito. Già dal marzo 1942, quando lo sforzo bellico era ancora indirizzato solo a rifornire il Regno Unito senza coinvolgimento diretto americano, la produzione di zoot-suits era stata vietata, ma i sarti continuavano di nascosto a tessere e smerciare gli abiti proibiti. In cinque giorni di violenza e follia, soldati e marinai di stanza a Los Angeles batterono le strade della città, armati di bastoni con incastrate lame di rasoio, attaccando e pestando chiunque indossasse uno zoot-suit. Le lame servivano a distruggere i vestiti. Gli abitanti di LA, animati dall’odio per l’ondata di immigrazione messicana, si aggiunsero a migliaia. La rivolta di Harlem, nei primi due giorni di agosto, fu però sostanzialmente diversa da quelle di LA, Detroit e dalle altre di quell’estate violenta, quasi sempre provocate dalle aggressioni soprattutto di operai bianchi. Cominciò con l’alterco tra un polizotto e una donna nera nell’atrio del Braddock Hotel, un tempo rinomato albergo di Harlem decaduto sino a diventare una sorta di albergo a ore. La donna protestava per il basso livello della camera. Il polizotto la arrestò per disturbo della quiete pubblica, un’altra nera e suo figlio, il soldato Robert Bandy, intervennero per difenderla, il poliziotto sparò e ferì lievemente Bandy. Proprio come 12 anni prima si sparse la voce che il soldato era morto, cominciarono a volare pietre e bottiglie e per 48 ore la gente di Harlem devastò metodicamente le proprietà dei bianchi nel quartiere. Alla fine si contarono sei vittime, centinaia di feriti, 600 arresti. I riots di Harlem del ‘43 segnarono profondamente un’intera generazione di militanti neri. Non a caso quello spartiacque torna nelle opere di tutti i principali autori dell’epoca da Ralph Ellison a James Baldwin a Langston Hughes. Non è casuale neppure che all’origine dell’esplosione di rabbia ci fosse un soldato. La grande tensione allora, oltre alla coesistenza nelle fabbriche, era il razzismo istituzionale ai danni dei soldati neri. La contraddizione tra i discorsi che incitavano a combattere per la libertà e la pratica della discriminazione nell’esercito era clamorosa e stridente. Ventuno anni dopo, il 16 luglio 1964, partì sempre da Harlem quel ciclo di insurrezioni urbane passato alla storia come “le estati calde”. Gli scoppi di furia e frustrazione della prima metà del Novecento erano stati episodici, provocati dal razzismo quotidiano, dalla disoccupazione che bersagliava i neri più di ogni altro, dall’altissimo costo degli affitti per stamberghe fatiscenti, dalla discriminazione nell’esercito, spesso a innescarli erano le aggressioni dei bianchi, senza un contesto generale e una continuità capaci di renderli incisivi sul lungo periodo, anche se ad Harlem La Guardia cercò di intervenire per alleviare la situazione dei neri. Nel ‘64, invece, il movimento per i diritti civili era attivo e combattivo da anni nel Sud, la predicazione dei Muslims e in particolare del pastore Malcolm X aveva reso molto più coscienti e consapevoli gli abitanti dei ghetti, i neri avevano preso le redini dello Sncc, l’associazione studentesca contro il razzismo, e la stavano trasformando nell’officina culturale del futuro Black Power. Ad Harlem la miccia fu l’uccisione di un ragazzo nero di 15 anni, James Powell, a opera di un poliziotto fuori servizio, Thomas Gilligan. Era cominciata con un portiere razzista che aveva aperto un idrante contro tre adolescenti troppo rumorosi. Powell lo aveva inseguito fin dentro l’appartamento. Il poliziotto sostenne di essere stato minacciato con un coltello. Se soccorso in tempo Powell avrebbe potuto salvarsi. La rivolta durò sei giorni, con epicentri ad Harlem e a Bedford-Stuyvesant, a Brooklyn e fu seguita nello stesso mese da altri tumulti a Rochester, nello Stato di New York, a Dixmoor, Illinois, a Philadelphia. Non si trattava più di esplosioni momentanee di violenza e di esasperazione ma di un movimento nazionale. La rabbia che covava e aspettava solo l’occasione per esplodere, quasi sempre accesa dalla brutalità della polizia, era uguale ovunque. Nel ghetto di Watts, a Los Angeles, nel ‘65, la scintilla non fu neppure un’uccisione o un ferimento, ma l’arresto per guida in stato di ubriachezza di un nero in libertà sulla parola e poi il rifiuto di restituire l’auto al fratello dell’arrestato. Bastò per portare oltre il livello di guardia la rabbia contro un dipartimento di polizia che brillava da sempre per brutalità e razzismo. Quelli di Watts non furono “semplici” riots: fu un’insurrezione che proseguì senza soluzione di continuità dall’11 al 16 agosto 1965. Per la prima volta a sparare furono sia la polizia che i dimostranti. Gli edifici distrutti o bruciati furono oltre mille. I danni ammontarono a 40 milioni di dollari. Si contarono 34 morti e migliaia di arresti. La rivolta di Watts cambiò tutto: senza quelle notti rischiarate dagli incendi non ci sarebbe stato il Black Panther Party e il movimento per i diritti civili del sud non avrebbe coinvolto l’intero nord dimostrando che il razzismo non si limitava alle Jim Crow Laws ancora in vigore nel sud. La protesta dei neri non si sarebbe configurata come minaccia di guerra civile, coinvolgendo e influenzando anche gli studenti radicali bianchi. Non finì a Watts. Nell’estate del 1967, la “Long Hot Summer”, le rivolte scoppiarono in 159 città, con epicentri a Newark, nel New Jersey, e a Detroit, città dove la tensione era tanto razziale quanto sociale, in seguito alla chiusura di numerose fabbriche e alla disoccupazione di massa tra i neri. L’anno dopo, tra aprile e maggio la sollevazione dopo l’assassinio di Martin Luther King il 4 aprile fu anche più vasta, si estese in quasi tutte le città americane ma fu meno costosa in termini di vite umane (40 vittime a fronte delle 82 della lunga estate calda), soprattutto perché alla polizia era stato ordinato di limitare il fuoco per non peggiorare la situazione. Era un segnale dell’allarme che si stava diffondendo nell’establishment, della consapevolezza di dover reprimere le esperienze più avanzate della militanza nera, a partire dal Black Panther Party, ma anche di dover cambiare almeno qualcosa. Le rivolte degli anni 60 pagarono. Almeno negli aspetti più vistosi, espliciti e sfrontati del razzismo e della discriminazione la situazione iniziò davvero a modificarsi. È stata sostituita, nei decenni seguenti, da una discriminazione sociale ed economica più sottile e più nascosta, basata sulla povertà più che sul colore anche se il colore è rimasto uno dei principali elementi a determinare la povertà. Nei ghetti la brutalità della polizia è rimasta la stessa. La rivolta di Los Angeles del 1992, dopo l’assoluzione dei quattro agenti filmati l’anno prima mentre bastonavano selvaggiamente e senza motivo Rodney King, fermato per eccesso di velocità e in libertà sulla parola, sono stato i più violenti della storia americana. I riots del 1992, improvvisi, violentissimi, segnati anche dagli attacchi dei neri e dei latini contro i negozi coreani, erano la spia di una situazione intollerabile, sulla quale nessuno, in 27 anni, è seriamente intervenuto. Come i tumulti del 1935 e del 1953, l’insurrezione di Southcentral LA, costata 63 morti e oltre 10mila arresti, è stata considerata una specie di parentesi, dimenticata con la ricostruzione degli edifici distrutti tra il 29 aprile e il 4 maggio di quell’anno. La protesta di questi giorni e queste notti seguita all’assassinio per soffocamento di George Floyd è molto diversa da quella di 27 anni fa. Non è uno scoppio improvviso ma l’emersione totale di una rabbia profonda e consapevole, preparata da anni di manifestazioni e da un movimento longevo come Black Lives Matter. Per la prima volta dall’uccisione di Luther King le manifestazioni si sono estese all’intero Paese con la partecipazione di moltissimi bianchi e persino molti poliziotti hanno espresso solidarietà. Parlare di riots è in questo caso riduttivo. Quella in corso è una rivolta. Usa, gli avvocati di strada: “Brutalità della polizia, difendiamo legalmente ogni arrestato” di Marina Catucci Il Manifesto, 4 giugno 2020 Le associazioni e gli studi legali che si occupano di difendere pro bono chi viene arrestato durante le proteste si stanno moltiplicando, così come aumenta il numero degli arresti di massa durante le manifestazioni, indipendentemente da quanto queste siano pacifiche. Bayonne Firm è uno studio legale situato nel centro di Harlem, a New York, specializzato in difesa penale, immigrazione e lesioni personali. “Pensiamo che questo sia un tema importante, e parlo della brutalità della polizia e del razzismo in America - dice Gulbert Bayonne - Questa è un’opportunità per dare qualcosa alla comunità. Vogliamo fornire un qualche tipo di assistenza, perché ci sono un gran numero di persone arrestate in questo momento, e le ragioni sono spesso vaghe e arbitrarie come condotta disordinata, o ostruzioni dell’amministrazione governativa, resistenza a pubblico ufficiale. Ciò di cui questi episodi parlano è delle tensioni e la frattura tra la comunità e le forze di polizia”. Chiedo che tipo di problemi ha chi deve affrontare queste accuse senza un avvocato: “Tonnellate di problemi risponde -. Ci sono grandi organizzazioni di difesa pubblica che stanno facendo un ottimo lavoro in tutta la città e in tutto il Paese, ma visto il numero di arresti non basta; c”è bisogno di più aiuto per chi viene arrestato. Adesso poi c’è anche più possibilità che i processi non vengano fatti subito a causa della pandemia, ma avere un processo è un diritto”. E, ci spiega, il problema maggiore al momento è “individuare dove sono gli arrestati. Spesso ci chiamano familiari o amici degli arrestati e non sanno dove sono. Come dicevo - continua - a causa della pandemia e del grande numero di arresti in corso è molto difficile localizzare dove si trova il cliente, ottenere informazioni in merito al fatto che abbiano avuto o meno l’opportunità di vedere il giudice. Il Covid-19 ha causato molti problemi con i tribunali” E conclude: “Quello che desidero è che le persone non si scoraggino e continuino a battersi per la parità di diritti, ogni cittadino in questo Paese dovrebbe avere questo diritto” Goodcall è un’associazione che si occupa di mettere in contatto le persone che hanno bisogno di un avvocato con i legali che offrono i loro servizi, “ti diranno cosa aspettarti e inizieranno a gestire il caso”, si legge sul loro sito. “Goodcall è nata dall’incontro fra me e Jelani Anglin - racconta Gabe Leader-Rose - io ho una formazione tecnologica, Jelani di lavoro con le comunità. Abbiamo cominciato 4 anni fa e non a seguito di un avvenimento specifico, ma perché quello della violenza della polizia su gli afroamericani è un problema strutturale ed endogeno della nostra società”. La domanda è d’obblico: che cosa è cambiato da Obama a Trump? “Da quando il presidente è Trump - risponde Anglin - è aumentato il razzismo, gli episodi di razzismo. Gli omicidi degli afroamericani non sono una novità, ma ora accadono quotidianamente. Il problema è che da qui non se ne esce se non si risolve il problema tramite una riforma legale. Bisogna che la polizia paghi legalmente per le proprie azioni, i poliziotti che uccidono gli afroamericani devono essere incriminati e condannati”. “Quello che vediamo - aggiunge Leader-Rose - è che si rivolgono a noi persone incriminate di reati davvero minori come multe, piccole infrazioni e sembra pretestuoso. È incoraggiante vedere così tante persone si stanno mobilitando in questo momento ma il vero test sarà vedere cosa accadrà nei prossimi mesi. Questo non è il tipo di problema che risolvi in poche settimane, con qualche post sui social e delle donazioni, è un problema antico che ha bisogno di un cambiamento strutturale. Bisogna che si rifletta a livello personale e globale sul concetto stesso di valore etico. Noi abbiamo fondato un gruppo che mette in contatto chi ne ha bisogno con degli avvocati, lavoriamo con decine di avvocati e ce ne sono altrettanti che hanno offerto il loro lavoro”. Eppure ci sono nuove tecnologie, aiutano? “In questi giorni riceviamo un fiume di telefonate. Ora non sarebbe possibile fare quello che facciamo senza l’aiuto della tecnologia, mettere in contatto chi ci chiama con gli avvocati, coordinarsi tra di noi, ma la tecnologia da sola non è la risposta. Può essere uno strumento utile, ma il vero cambiamento non si opera con la sola tecnologia senza una base di lavoro sulle comunità e sul modus operandi della polizia”. Il Vietnam interno di Trump che i militari Usa non vogliono di Guido Moltedo Il Manifesto, 4 giugno 2020 Del milione e 300.000 militari dell’esercito, il 43% è costituito da neri, latinos, più altre minoranze. E ai vertici, degli oltre 40 generali a quattro stelle, solo due sono neri. L’arcivescovo cattolico della capitale federale gli va contro. E anche un ex-presidente, pure del suo partito. E un ex capo delle forze armate. Con tanti altri - politici, religiosi, militari, imprenditori, sportivi, artisti - che esprimono inquietudine e deplorazione verso Donald Trump per la folle gestione delle conseguenze dell’assassinio di George Floyd. Le immagini forti di un Vietnam domestico che ancora aprono notiziari radio-tv e prime pagine, hanno lasciato in secondo piano un altro conflitto. Quello tra poteri, che sta diventando il terreno principale di scontro, su cui saranno decisi sia l’esito di questa grave crisi sociale e politica sia i suoi successivi sviluppi in termini elettorali. E su cui sarà decisa la sorte stessa di Trump, non solo nelle elezioni di novembre, ma quella sua personale, specie se non sarà rieletto, con l’eventualità nient’affatto astratta che capiti a lui quel che i suoi fan in adorazione auguravano a Hillary Clinton: finire in galera. Ormai si moltiplicano i tanti segnali che vanno nella direzione di un finale drammatico di questa presidenza. Nella sfida aperta nei confronti della comunità nera, Trump non arretra, rilancia la sfida, anche se ogni passo che compie nella sua permanente offensiva di propaganda si trasforma in boomerang. La visita, con Melania, al santuario di Giovanni Paolo II, martedì scorso, è uno degli ultimi passi falsi. Wilton Gregory, l’arcivescovo di colore di Washington, legato a papa Francesco, la commenta così: “Trovo sconcertante e deplorevole che un luogo cattolico si presti a essere così grossolanamente sfruttato e manipolato in un modo che viola i nostri principi, principi che ci chiamano a difendere i diritti di tutti, anche di coloro con cui non siamo d’accordo”. Parole più diplomatiche, quelle di George W. Bush, ma politicamente non meno pesanti, quando afferma che “c’è un modo migliore” per affrontare le conseguenze di una tragedia “angosciante” come quella di Minneapolis: “Empatia, impegno condiviso, azione coraggiosa e una pace radicata nella giustizia”. Il presidente delle guerre in Afghanistan e in Iraq, di Guantanamo e Abu Ghraib, non ha certo titoli per impartire lezioni morali e politiche, neppure a un successore come Trump. È stato tuttavia il primo presidente che abbia messo ai massimi livelli dell’amministrazione due neri, Condoleezza Rice e il generale Colin Powell, e anche per questo è tra i pochi repubblicani rispettati dalla comunità africano-americana. Ma soprattutto Bush, pur fuori dei giochi politici, ha una rete che conta ancora abbastanza nel Partito repubblicano, quel tanto che può essere decisivo per la rielezione o la sconfitta di Trump. Ma la vera spina nel fianco, per il presidente, è il pessimo umore che regna tra i vertici militari, tirati dentro una crisi in cui non intendono trovarsi e per gli effetti collaterali dirompenti di un coinvolgimento dentro un’organizzazione in cui sono già in atto dinamiche interne speculari a quelle in corso nella società civile. Nelle forze armate, del milione e 300.000 militari in attività, il 43 per cento è costituito da neri e latinos, più altre minoranze, con una presenza ai vertici risibile: solo due degli oltre 40 generali a quattro stelle sono neri. È evidente che l’eventualità di eseguire ordini diretti contro fratelli e sorelle decisi da un presidente in sintonia con il Ku Klux Klan non solo è da escludere ma avrebbe il solo effetto di esacerbare oltre misura una condizione che è già da tempo intollerabile, come testimoniano recenti inchieste giornalistiche sulla disparità e discriminazioni razziali ancora persistenti, per non dire delle tante caserme ancora intitolate a generali confederali e di navi con nomi di ammiragli razzisti. L’attesa diffusa tra i militari di colore è che proprio queste vicende che sconvolgono l’America siano l’occasione perché le forze armate facciano arrivare il messaggio chiaro che “non è questa l’America per la quale chiediamo di combattere e sostenere”, come dice al Washington Post, Eric Flowers, colonnello di colore a riposo. Di questo clima decisamente ostile verso Trump si fa interprete il rispettato generale Mike Mullen in un intervento su The Atlantic, dal titolo significativo “Non posso stare in silenzio”. “Anche nel mezzo della carneficina a cui assistiamo - scrive l’ex capo di stato maggiore delle forze armate - dobbiamo sforzarci di vedere le città americane come casa nostra e il nostro quartiere. Non sono ‘spazi di battaglia’ da dominare, e non devono mai diventarlo. (…) I nostri concittadini non sono il nemico, e non devono mai diventarlo”. Non stupisce che la forte contrarietà degli alti gradi a un “uso politico” delle forze armate arrivi nel centro di comando del Pentagono. Il segretario alla difesa Mark Esper è costretto a dichiarare che i soldati non saranno impiegati per ristabilire “legge e ordine”, come aveva proclamato il Commander-in-chief Donald Trump. Il quale, forse consapevole che non potrà contare sui militari, torna ad aizzare i bianchi armati. Ricordando loro, in un tweet, la priorità, nella sua azione, di “tutelare i diritti degli americani ligi alla legge, tra cui diritti previsti dal secondo emendamento”, che garantiscono detenzione e possesso di armi da fuoco. Un’esortazione subito raccolta: si registra nelle ultime ore un’ulteriore impennata nell’acquisto di armi, già altissima a maggio, con il 78 per cento in più rispetto allo stesso mese di un anno fa. “Giustizia per Uwa”. In Nigeria monta la protesta contro i femminicidi in lockdown di Bridget Ohabuche Il Manifesto, 4 giugno 2020 Escalation di violenza. Paese sotto shock dopo la brutale uccisione in poche ore di tre giovani (una giovanissima). Oltre al continuo aumento dei contagi da Covid-19 (oltre 10 mila casi, 314 decessi) e agli attacchi jihadisti nel nord del Paese, la Nigeria è alle prese con un numero crescente di casi di violenza di genere e di femminicidi legati al periodo di lockdown parziale imposto dal governo per l’emergenza sanitaria. Il 1° giugno un gruppo di manifestanti vestiti di nero, tra cui molti studenti, hanno marciato verso il quartier generale della polizia a Benin City chiedendo giustizia per Vera Uwaila Omozuma, 22 anni, studentessa di microbiologia uccisa dopo essere stata violentata da un gruppo di ragazzi. Successivamente, l’hashtag #JusticeforUwa# è stato lanciato sui social ottenendo immediata visibilità. L’Università del Benin, dove Uwa studiava, ha definito il crimine “scioccante”. Il brutale omicidio di Uwa è il terzo di una serie ravvicinata: il giorno prima un’altra ragazza, Tina Esekwe, 16 anni, veniva uccisa a Lagos e Jennifer, 12 anni, veniva a sua volta violentata e uccisa a Jigawa, sempre da un gruppo di ragazzi. Il governo federale ha promesso di fare giustizia e l’ispettore generale di polizia, Mohammed Adamu, assicurando di aver impegnato “investigatori specializzati e risorse aggiuntive” sui tre casi, ha pregato i nigeriani che dispongono di informazioni utili su questi e altri casi a fornirli alla polizia al fine di migliorare la capacità di rispondere all’escalation di aggressioni sessuali e violenza domestica connessa all’epidemia di Covidi-19 e ad altri problemi sociali. Una persona sarebbe stata arrestata in relazione all’omicidio di Vera Uwaila grazie alle impronte lasciate sull’estintore utilizzato per colpire la ragazza. Secondo Ufuoma Akpobi, dell’Associazione contro la violenza di genere nello stato di Edo, “quel giorno Uwa ha studiato in chiesa come fa da tre anni perché non ci sono biblioteche pubbliche nella sua zona”. La protesta intanto corre sui social, con molte celebrità nigeriane della cultura e del mondo dello spettacolo che si sono unite ai movimenti per i diritti delle donne. India. L’appello per il rilascio di quattro attivisti per i diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 giugno 2020 Venticinque organizzazioni per i diritti umani hanno rivolto un appello ad Amit Shah, il ministro dell’Interno dell’India, perché siano rilasciati quattro attivisti per i diritti umani che avevano preso parte a proteste pacifiche, nella capitale Delhi, contro le norme discriminatorie introdotte dal governo. Meeran Haider, Shifa Ur-Rehman, Sharjeel Imam e Safoora Zargar - quest’ultima, nella foto, al quarto mese di gravidanza - sono in carcere ai sensi della Legge sulla prevenzione delle attività illegali. Sharjeel Imam è stato arrestato a gennaio e accusato di sedizione. Gli altri tre sono stati arrestati ad aprile e accusati di disordini e riunione illegale. Al centro delle loro proteste, che in tutta l’India hanno coinvolto moltitudini di manifestanti, c’è l’Emendamento alla legge sulla cittadinanza, una norma contraria al diritto internazionale basata sulla discriminazione religiosa. Le organizzazioni firmatarie sollecitano il rilascio dei quattro attivisti anche perché le condizioni delle prigioni indiane favoriscono la diffusione della pandemia da Covid-19. Nella loro lettera si fa riferimento alla richiesta dell’Alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, di “rilasciare tutte le persone detenute senza valide basi giudiziarie, i prigionieri politici e tutti coloro che sono in carcere per aver espresso dissenso o critiche”. La gravidanza di Safoora Zargan rende il suo rilascio ancora più urgente. Lo prevedono tra l’altro le Regole delle Nazioni Unite sul trattamento delle detenute. Nelle prigioni indiane sono stati registrati almeno 200 casi di positività al Covid-19, tra detenuti e guardie penitenziarie.