Diritto allo studio in carcere: la nuova sfida del post pandemia di Giusy Santella linkabile.it, 3 giugno 2020 L’inviolabilità del diritto allo studio è sancita dall’art. 34 della Costituzione italiana, che stabilisce, appunto, che la scuola è aperta a tutti, senza alcun riferimento alle condizioni personali dello studente che può quindi anche essere privato della libertà. Gli studenti degli istituti penitenziari non sono solo stranieri che necessitano di alfabetizzazione (nel 2018 hanno rappresentato circa il 50% degli studenti), ma anche giovani e adulti che compongono la percentuale della cosiddetta evasione scolastica e che hanno la possibilità in carcere di recuperare quel percorso di studi mai affrontato. In 30 istituti penitenziari è inoltre possibile frequentare corsi di studio universitario e quindi conseguire una laurea. L’istruzione è essenziale perché la pena assolva alla sua funzione rieducativa: l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario sancisce infatti la necessità della partecipazione della comunità esterna, e di soggetti pubblici e privati, per portare a compimento l’azione rieducativa e risocializzante di detenuti e internati. Se in condizioni normali tali enunciazioni di principio si scontrano spesso con la triste realtà e il disinteresse di innumerevoli direzioni degli istituti penitenziari, la crisi sanitaria legata al covid-19 ha visto crollare molte delle conquiste che in tale ambito si erano raggiunte. Il Ministero dell’Istruzione, nell’ambito delle indicazioni fornite per l’istruzione degli adulti, ha sottolineato la necessità di favorire, in via straordinaria ed emergenziale, in tutte le situazioni ove ciò sia possibile, il diritto all’istruzione attraverso modalità di apprendimento a distanza anche per i frequentanti i percorsi di istruzione degli adulti presso gli istituti di prevenzione e pena, in accordo con le Direzioni degli istituti medesimi. Tuttavia, come segnalato dal Garante nazionale delle persone private della libertà, solo nel 20% degli istituti si è assicurata agli studenti la possibilità di non interrompere bruscamente l’anno scolastico attraverso la didattica a distanza. In molte carceri addirittura non è stato inviato neppure materiale cartaceo perché i reclusi potessero proseguire lo studio e laddove inviato, esso non è comunque in grado di sostituire le lezioni e il rapporto soprattutto umano che si crea con insegnanti e compagni di classe. La rete delle scuole ristrette, che riunisce tutti i docenti operanti nelle carceri italiane, ha richiesto con una lettera al Dap maggiore attenzione al tema, e un’implementazione delle risorse per rispondere a quest’emergenza. I numeri degli studenti coinvolti sono molto alti: secondo il rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione gli iscritti dell’anno scolastico 2018 sono stati più di 20000, con una cospicua crescita rispetto all’anno precedente, e tutti loro rischiano di subire le ripercussioni dovute alla brusca interruzione dell’anno scolastico. Anche i numeri degli iscritti all’Università sono aumentati nell’ultimo anno, arrivando a quasi 800 studenti. Tra le varie realtà sorte in questi anni va sicuramente segnalato il Polo universitario del carcere di Secondigliano dell’Università Federico II di Napoli, inaugurato due anni fa. Esso è secondo in Italia per numero di iscritti, con 67 studenti di cui 36 in regimi speciali, che si sommano agli 8 detenuti iscritti dell’Università Vanvitelli. Il polo universitario penitenziario campano si sta velocemente attivando perché il diritto allo studio torni ad essere garantito con nuove modalità e il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello ha deciso di effettuare con il suo ufficio una cospicua donazione per restituire ai detenuti l’opportunità formativa di cui hanno bisogno, ribadendo che la privazione della libertà non può in nessun caso implicare la compressione di altri diritti. Prima in classifica è invece l’Università di Bologna con 74 iscritti lo scorso anno, ma sono molte altre le realtà in cui l’incontro tra amministrazioni penitenziarie e istituti universitari hanno prodotto ottimi frutti: l’Università di Milano (61 detenuti iscritti); Padova (64 di cui 7 in esecuzione penale esterna); Roma (con 59 detenuti studenti universitari). Le modalità didattiche utilizzate durante quest’emergenza sono spesso risultate insufficienti: in molti istituti è stata assicurata solo una videochiamata settimanale con un rappresentante degli studenti o una saltuaria lezione che impediva quindi l’instaurazione di un percorso continuativo e fruttuoso. Il Ministero dell’Istruzione, in collaborazione con la Rai ha provveduto all’istituzione di una vera e propria aula multimediale per gli studenti iscritti ai Cpia - Centri provinciali per l’istruzione degli adulti- attraverso cui si potrà seguire un percorso didattico. Tuttavia è da segnalare che in quasi nessuno degli istituti penitenziari italiani si permette ai detenuti di utilizzare Internet e le nuove tecnologie, nonostante numerosi studi dimostrino la loro efficacia nel percorso di rieducazione. Con l’arrivo della seconda fase dell’emergenza sanitaria sarebbe bene rimodulare l’organizzazione riprendendo però le lezioni in presenza con il necessario contatto umano di cui gli studenti hanno bisogno. Si tratta di una sfida ambiziosa e sono ancora molti i passi in avanti da fare: le affermazioni normative sul tema non sono imperative e tali da configurare un’omissione in capo agli uffici dell’amministrazione penitenziaria in caso di mancata applicazione, dunque bisognerà innanzitutto sperare nelle buone pratiche delle direzioni e nella positiva influenza dei vari Garanti impegnati sul territorio. Il diritto allo studio va salvaguardato soprattutto per offrire un’opportunità di crescita e formazione a chi spesso quando era libero non l’ha avuta. Csm, Bonafede contro le correnti punta sul doppio turno a distanza di 24 ore di Liana Milella La Repubblica, 3 giugno 2020 L’ultima trovata del Guardasigilli con la seconda votazione avvenga a 24 ore dalla prima per impedire accordi sugli eletti. Oggi il centrodestra, venerdì incontro con Anm e avvocati. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede dice che la tesi “si fa la riforma del Csm solo per via di Palamara” è sbagliata, perché lui voleva farla già due anni fa. Ma inevitabilmente, fatte proprio in questo momento, la sua modifica del sistema elettorale per i togati e delle regole per scandire le promozioni, saranno valutate - politicamente e moralmente - con un solo metro. Il “metro” Palamara. Nel senso che ci si chiederà se il pacchetto Bonafede sarà efficace per stoppare il mercimonio delle nomine oggi in mano alle correnti svelato dal dossier depositato dalla procura di Perugia per dare il via al processo contro l’ex pm di Roma, tuttora imputato di corruzione per viaggi pagati dall’imprenditore e suo amico Centofanti e per la ristrutturazione di un appartamento di una sua amica. La riforma del Csm è pronta. Ma non andrà in consiglio dei ministri questa settimana. Forse la prossima. Perché dopo l’incontro con il centrodestra, Bonafede venerdì vedrà anche l’Anm e le Camere penali per un parere. Ma al momento solo il ministro ha in mano il testo. Compresa l’ultima chicca, elezioni con il doppio turno, in cui la seconda votazione deve avvenire a sole 24 ore dalla prima in modo da bloccare qualsiasi manipolazione delle correnti sui primi togati eletti nei 20 collegi. Niente bozza, dunque. Così Bonafede ha spiegato al centrodestra che, prima dell’incontro di oggi alle 13, avrebbe voluto documentarsi. “Ce l’ho solo io, non ce l’ha nessuno, quelle che girano sono soltanto delle versioni datate” ha assicurato, scusandosi, il ministro della Giustizia ai suoi interlocutori. Così conferma anche chi, per Pd, Leu, Italia Viva e M5s, ha partecipato all’ultimo vertice in via Arenula giovedì sera. Tutti i presenti sostengono che grosso modo l’accordo è stato chiuso, salvo un punto, quello delle categorie che saranno ammesse alla selezione per i consiglieri togati. Non è una querelle da poco. Da una parte Bonafede e M5S vogliono tagliar fuori completamente i politici di professione, siano essi parlamentari o consiglieri regionali o sindaci. Via tutti. Nessuna eccezione, tantomeno per gli esponenti del governo. Una norma che, se fosse stata in vigore nelle ultime due consigliature a palazzo dei Marescialli, avrebbe escluso sia l’ex vice presidente Giovanni Legnini (Dem che all’epoca era sottosegretario), sia l’attuale vice David Ermini che era deputato del Pd. La pensano all’opposto Pd e una metà di Leu. La delegazione Dem con Bonafede è stata netta, “non se ne parla, l’esclusione sarebbe incostituzionale”. Altrettanto sostiene Federico Conte di Leu, mentre da Piero Grasso, sempre di Leu, è venuto il dubbio che proprio un’esclusione così drastica rischierebbe di portare la nuova legge subito davanti alla Consulta facendola bocciare. Non è certo un caso se, due giorni fa, a trapelare dalla maggioranza è proprio una bozza che mette in luce il problema della scelta dei laici. Questione che invece chi ha partecipato al vertice di maggioranza vorrebbe accantonare, tant’è che la riunione finisce con l’accordo di tutti di non divulgare proprio quel nodo di dissenso. Ma tant’è, la notizia esce. Ed è singolare che, anziché accapigliarsi sulle nuove regole per bloccare qualsiasi inciucio o manuale Cencelli tra le correnti della magistratura, si litighi invece sul sistema migliore per tener fuori del tutto la politica dall’aula Bachelet. Proprio mentre un ex presidente della Consulta come Valerio Onida, a Repubblica, raccomanda la neutralità dei laici, paragonandoli a quelli eletti dal Parlamento alla Corte costituzionale, dove però, appena giunti, dismettono i panni dell’appartenenza politica. Oggi, inevitabilmente, anche questo nodo sarà sul tavolo del Guardasigilli che avrà di fronte gli esponenti del centrodestra, tra i quali è già chiaro che si sia creato un asse tra Forza Italia e Lega su tre punti: non c’è riforma a patto che la maggioranza non ceda su tre aspetti, il sorteggio dei togati del Csm come sistema elettorale, la separazione delle carriere, la riforma costituzionale del Csm che ne muti radicalmente la composizione (anziché 20 togati e 10 laici, l’opposto, con 15 laici eletti dalle Camere e 5 scelti dal presidente della Repubblica). Come ha detto il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa a Bonafede “pensate di accogliere almeno una delle nostre proposte? Perché altrimenti sarebbe solo una funzione e una inutile passerella”. Ma l’esito dell’incontro tra Bonafede, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, appare scontato, proprio perché Bonafede ha già messo da parte la soluzione elettorale tramite sorteggio (troppi dubbi di costituzionalità) e si è sempre opposto alla separazione delle carriere. Anche con un emendamento sulla separazione depositato da M5S nella commissione Affari costituzionali, che dovrà votare la legge di iniziativa popolare (leggi, Unione delle Camere penali), poi sottoscritta da un inter-gruppo trasversale a tutti i partiti Pd compreso, in calendario in aula alla Camera il 29 giugno. Ma il vero problema è un altro. La bozza Bonafede serve davvero per bloccare il metodo Palamara? Perché su questo punto sarà giudicata, come ripete sempre il ministro, “dai cittadini”, che in questo momento si aspettano un “no” netto alle correnti. Basta una legge elettorale con il doppio turno in 20 collegi e la trovata delle 24 ore? Davvero le correnti non faranno in tempo, via chat e via mail, a dare un’indicazione ai loro iscritti su chi scegliere? Basta il criterio dell’anzianità per individuare il capo di un ufficio? Basta il criterio cronologico o il no alle nomine a pacchetto? Serve la parità di genere? Serve il parere anche degli avvocati? Ma soprattutto è ancora tempo di mandare al Csm, come membro laico, chi viene dalla politica? Bonafede dice no, ma gli altri partiti dicono di sì. Sotto lo scudo della Costituzione in vigore. La riforma-lampo del Csm? Un miraggio che neppure Mattarella può avvicinare di Francesco Damato Il Dubbio, 3 giugno 2020 L’illusione di sostituire gli attuali consiglieri prima del sì alla legge. Non mi ero ancora ripreso dalla visione di Luca Palamara senza barba da Massimo Giletti in veste addirittura di benemerito “mediatore” e immeritato “capro espiatorio”, non di navigato tessitore correntizio di carriere giudiziarie o altro ancora, e mi è capitato di leggere l’altra mattina una intervista a dir poco disarmante di Claudio Martelli. Che pure è stato considerato ai suoi tempi di governo il migliore ministro della Giustizia da un uomo che non era certamente di gusti e attese facili: l’allora temutissimo capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli. Il quale fu davvero rammaricato di averlo visto costretto a dimettersi da guardasigilli per il coinvolgimento in quella Tangentopoli che lo stesso Borrelli e i suoi sostituti si erano proposti di demolire senza badare a mezzi, anche a costo di suicidi fuori e dentro le carceri. Furono considerati incidenti di percorso, come di auto agli incroci senza semaforo. Non parlo poi della stima, e infine anche dell’amicizia, di quel fior fiore di magistrato che era Giovanni Falcone, di cui Martelli formalizzò l’arrivo al ministero della Giustizia come direttore degli Affari penali pazientemente preparato dal suo predecessore in via Arenula Giuliano Vassalli e dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Il quale mi raccontò di avere “quasi incatenato” ad una sedia del Quirinale il suo amico magistrato quando, nel passaggio da Vassalli a Martelli, andò a esprimergli il timore di esporsi a qualche supplemento di critiche e attacchi nel mondo giudiziario per essersi occupato, sia pure di striscio, del nuovo ministro come magistrato inquirente quando i socialisti furono accusati di essersi guadagnati i voti della mafia in Sicilia. Dove proprio a Martelli il segretario del partito Bettino Craxi aveva conferito il ruolo di capolista. “Tu non ti muovi da qui sino a quando non ci ripensi e non ti lasci salvare dopo tutto quello che abbiano fatto per portarti via da Palermo”, mi raccontò Cossiga di avere detto a Falcone piegandone le resistenze. Non immaginava, il povero Cossiga, che non sarebbe riuscito a salvare l’amico neppure portandolo via dalla Sicilia, dove a minacciarlo non erano solo i mafiosi ma - ahimè, pur per altre vie- i colleghi magistrati invidiosi della sua bravura e i politici dell’isola, a cominciare dall’allora e ancora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Che lo immaginavano impegnato - pensate un po’- a nascondere fascicoli e a proteggere il cosiddetto “terzo livello” della criminalità mafiosa. Quel plurale usato da Cossiga per ricordare a Falcone quanti si erano spesi per cercare di aiutarlo era riferito non solo a Vassalli, nel frattempo andato alla Corte Costituzionale, e al suo successore, ma anche all’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti e a un amico di famiglia del magistrato, per via dei rapporti fra le mogli risalenti agli anni di scuola, che era il democristiano Calogero Mannino. Sì, proprio lui: l’uomo destinato a provare sulla sua pelle gli inconvenienti di una giustizia amministrata in modo a dir poco discutibile, che da vittima designata della mafia si trovò ad essere rappresentato come un complice, fra gli ispiratori, se non il maggiore, della famosa “trattativa” nella stagione delle stragi, più volte assolto ma non per questo lasciato finalmente in pace da chi ne è evidentemente ossessionato. Con queste storie alle spalle, che ho evocate anche perché addebitali in fondo ai criteri di lottizzazione correntizia e politica dei magistrati nei loro avanzamenti di carriera, inevitabilmente a scapito dei meriti, pur se Palamara ha disinvoltamente sostenuto nel salotto televisivo di Giletti che le scelte sono sempre state ugualmente di alto livello, che cosa mi fa l’ex guardasigilli e amico Claudio Martelli? Stecca nel giusto coro delle proteste di fronte allo scenario emerso dalle intercettazioni di Palamara sollecitando praticamente il presidente della Repubblica, in una intervista alla Verità di Maurizio Belpietro, a convincere i consiglieri superiori del Palazzo dei Marescialli “da lui nominati” a dimettersi per creare le condizioni necessarie allo scioglimento anticipato dell’organo di autogoverno della magistratura. Ma di consiglieri superiori di nomina presidenziale non me ne risultano, diversamente dai giudici costituzionali, cinque dei quali su 15 sono nominati appunto dal capo dello Stato. A meno che Martelli non intenda per consiglieri superiori nominati dal presidente della Repubblica quelli di diritto. Che sono, in base all’articolo 104 della Costituzione, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione: solo due, non certo sufficienti a paralizzare il Consiglio Superiore facendogli mancare il numero legale. Purtroppo il capo dello Stato non ha alternative all’attesa o dell’autodemolizione improbabile del Consiglio, per rinuncia della maggioranza dei suoi esponenti a reggere la pesante situazione obiettivamente creatasi con la palamarite, o della sua riforma in cantiere nel governo. Dove personalmente non mi faccio illusioni sulla fretta un po’ da tutti dichiarata a parole, visto lo strumento della delega legislativa che vedo affiorato dalle cronache. E che per prassi ormai consolidata significa, per i tempi, l’opposto di quello che sembra. Il ministro Alfonso Bonafede ha detto alla Stampa, che “tra una cosa e l’altra” occorrerà “un anno”, addirittura, con tutto quello che è venuto fuori e con lo sconcerto che ha provocato, a cominciare dal Quirinale. Tuttavia - ha aggiunto il guardasigilli - in attesa della riforma del funzionamento del Consiglio “le regole sull’elezione saranno subito in vigore”. È come pretendere di costruire una casa dal tetto, come si è d’altronde già cercato di fare in Italia tentando di aggirare una vera riforma costituzionale modificando continuamente la legge elettorale. Stiamo freschi. Magistratura potere fuori controllo. Tre idee per riformarla di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 3 giugno 2020 Quello disvelato dal trojan che ha spiato i magistrati è lo spettacolo di un potere divenuto incontrollabile, irresponsabile, onnivoro. Una Procura della Repubblica, si dice, vale un Ministero. Errore: molto ma molto di più! Una Procura può fare e disfare governi, giunte regionali, sindaci, partiti politici, pubbliche amministrazioni, aziende pubbliche e private, solo iscrivendo - o non iscrivendo - nel registro degli indagati le persone giuste. Nella cultura giustizialista di questo Paese la giurisdizione si esaurisce nella indagine, anzi nemmeno, nella ipotesi di indagine. La sentenza, quella del Giudice, quella che ci dirà infine se l’indagine fosse giusta o sbagliata, fondata o infondata, non interessa a nessuno, Il Ministro Bonafede pensa di risolvere la questione aperta dall’inchiesta di Perugia e dalla pubblicazione delle intercettazioni modificando il sistema elettorale del Csm. Ci dovrebbe spiegare allora cosa lo autorizzi a pensare che l’abolizione del collegio unico nazionale indebolisca il peso delle correnti, ma non lo rafforzi in modo decisivo il ballottaggio al secondo turno. Se si vuole affievolire il dominio correntizio, bisogna semmai rafforzare, non demagogicamente indebolire, la presenza della componente non togata del Consiglio, che per inciso risulta, e non a caso, totalmente assente ed ininfluente nelle dinamiche scoperchiate dal trojan. Parificare il numero dei togati e dei laici, eccola una soluzione sensata. La soluzione è una sola: separazione delle carriere di Pm e giudici, doppio Csm, fine dei distacchi presso l’esecutivo. Sono le cose che questo Governo non farà mai, e contro le quali la magistratura combatterà la partita della vita. La magistratura vuole l’autoriforma. Cioè una riforma dettata dai Pm e votata dal Parlamento. Vuole il Gattopardo. Parte malissimo, come d’altronde avevamo preventivato, la “riforma del Csm” che il Governo sta approntando sulla scia di quanto emerso, nell’ostentato stupore ipocrita dei più, dalla indagine della Procura di Perugia. Non poteva essere diversamente. Se ci si ostina a non voler vedere e comprendere ciò che emerge davvero dalla pesca a strascico del trojan installato nel telefono di uno dei magistrati più in vista e più influenti della governance associativa e istituzionale della Magistratura italiana, il risultato non potrà che essere il solito intervento gattopardesco, che nulla cambia ed anzi, in questo caso, addirittura cambia in peggio. Ha ben ragione Luca Palamara quando mette subito in chiaro, nella sua recente intervista televisiva, che quel “sistema delle correnti”, un sistema condiviso e praticato dalla intera magistratura italiana, ha insediato tutti, ma proprio tutti i vertici degli uffici giudiziari italiani. Non è che il sistema fa orrore se non nomina Di Matteo alla Procura anti-mafia, ed è virtuoso se nomina Gratteri alla Procura di Catanzaro: è lo stesso nell’un caso e nell’altro, prendere o lasciare. O dobbiamo immaginare che la nomina del dott. Davigo a Presidente di Sezione della Corte di Cassazione sia avvenuta in virtù di una epifania dello Spirito Santo? Se ad una carica concorrono più magistrati con profili di carriera grosso modo comparabili, la scelta esprimerà necessariamente una opzione “politica”; altrimenti si faccia un test attitudinale, e chi fa più punti vince. D’altronde, qualunque libera associazione di persone si articola in correnti (di pensiero o di interessi, non importa), una inerzia semplicemente ineliminabile. Ora si vuole tornare a valorizzare l’anzianità, ma non fu questa la ragione per la quale si gridò allo scandalo per la scelta di Meli anziché di Giovanni Falcone? Il Ministro Bonafede pensa di risolvere la questione modificando il sistema elettorale. Ci dovrebbe spiegare allora cosa lo autorizzi a pensare che l’abolizione del collegio unico nazionale indebolisca il peso delle correnti, ma non lo rafforzi in modo decisivo il ballottaggio al secondo turno. Se si vuole affievolire il dominio correntizio, bisogna semmai rafforzare, non demagogicamente indebolire, la presenza della componente non togata del Consiglio, che per inciso risulta, e non a caso, totalmente assente ed ininfluente nelle dinamiche scoperchiate dal trojan. Parificare il numero dei togati e dei laici, eccola una soluzione sensata. Ma la magistratura italiana la aborre, dando fiato alle trombe della immancabile, pretestuosa difesa della “indipendenza della Magistratura”, che in verità non ha dato di sé una prova commendevole, sciamando senza freni tra ristoranti notturni e cene organizzate con geometrica potenza politico-giudiziaria. Ma da questo punto di vista la magistratura italiana, certamente nei suoi vertici politici ed istituzionali, ma anche nel consenso elettorale che la sorregge, è irredimibile, e come se niente fosse invoca, sempre in nome della famosa sua indipendenza, “l’auto-riforma”, che significa una riforma scritta dal legislatore sotto sua dettatura. D’altronde, l’idea è quella: il Parlamento sarà pure democraticamente eletto, ma è popolato da attentatori della indipendenza della magistratura: giù le mani dagli “eletti” (nel senso questa volta mistico del termine). La soluzione del problema, caro Ministro, sta altrove. Quello disvelato dal trojan è lo spettacolo di un potere divenuto incontrollabile, irresponsabile, onnivoro. Una Procura della Repubblica, si dice, vale un Ministero. Errore, molto ma molto di più! Una Procura può fare e disfare Governi, Giunte regionali, Sindaci, partiti politici, Pubbliche Amministrazioni, aziende pubbliche e private, solo iscrivendo - o non iscrivendo - nel registro degli indagati le persone giuste. Nella cultura giustizialista di questo Paese la giurisdizione si esaurisce nella indagine, anzi nemmeno, nella ipotesi di indagine. La sentenza, quella del giudice, quella che ci dirà infine se l’indagine fosse giusta o sbagliata, fondata o infondata, non interessa a nessuno, ed anzi quando assolve induce al sospetto. Non conta nulla il giudice, in questo Paese. Conta il Pubblico ministero, ed infatti i magistrati italiani (contenti loro, verrebbe da dire) eleggono da sempre ai propri vertici i Pubblici Ministeri, che pure rappresentano il 20% scarso dell’elettorato togato, i quali in tal modo governano la giurisdizione, orientando le nomine ai vertici degli uffici, condizionando il potere disciplinare, decidendo i distacchi dei fuori ruolo presso l’esecutivo (ministero di Giustizia in primis). Perciò la soluzione è una sola: separazione delle carriere tra Pm e Giudici, doppio Csm, fine dei distacchi presso l’esecutivo. Esattamente le cose che questo Governo non farà mai, e contro le quali la magistratura italiana combatterà la partita della vita. In nome della propria indipendenza, naturalmente. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Cencelli di Via Arenula di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 giugno 2020 Un ministero a misura di corrente. L’ipocrisia di Bonafede sulle derive correntizie dei magistrati italiani. In un’intervista a La Stampa, due giorni fa, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è tornato a criticare il sistema delle correnti nella magistratura. “Stiamo intervenendo in modo radicale sulle degenerazioni malate del correntismo”, ha dichiarato il Guardasigilli. Insomma, “basta con il correntismo” e con la commistione tra toghe e politica denunciata anche dal presidente Mattarella: “Il presidente ha ragione. Mi sto muovendo per combattere le degenerazioni del correntismo da un lato, ma anche per alzare un muro tra politica e magistratura dall’altro”. La dura presa di posizione di Bonafede giunge in seguito al nuovo terremoto che ha travolto il mondo togato, con la nuova ondata di pubblicazione delle conversazioni intercettate con il trojan inoculato nel telefono del pm romano (indagato e sospeso) Luca Palamara, leader della corrente Unicost. La critica del Guardasigilli al sistema correntizio, però, sembra arrivare a scoppio ritardato. Bonafede, infatti, non sembrò preoccuparsi molto delle “degenerazioni correntizie”, né della necessità di “alzare un muro tra politica e magistratura”, quando nel giugno del 2018 venne nominato ministro della Giustizia. Anche Bonafede, come i suoi predecessori, decise infatti di realizzare una bella infornata di magistrati negli uffici del ministero, ovviamente sulla base del bilancino correntizio. La corrente di Palamara, Unicost, all’epoca non ancora travolta dallo scandalo, ottenne nomine pesanti, come quella di Fulvio Baldi (sostituto pg della Cassazione) a capo di gabinetto del ministero, e quella di Francesco Basentini (procuratore aggiunto a Potenza) alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Leonardo Pucci, giudice del lavoro ad Arezzo ed ex compagno di università di Bonafede, venne invece nominato vicecapo di gabinetto. Autonomia e Indipendenza, la corrente guidata da Piercamillo Davigo, non ottenne - come ormai noto - la guida del Dap con il pm Nino Di Matteo (che poi sarà eletto al Csm), ma conquistò comunque il vertice del Dipartimento per gli affari di giustizia, con Giuseppe Corasaniti, procuratore aggiunto in Cassazione, pochi mesi fa sostituito da Maria Casola, ex dg della Direzione generale magistrati e appartenente a Unicost. Il cartello di sinistra Area, che raggruppa le correnti Magistratura democratica e Movimento per la giustizia, ottenne le conferme di Barbara Fabbrini a capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, e di Donatella Donati a direttore generale degli Affari interni (recentemente sostituita da Giovanni Mimmo, di Unicost). Ad Area appartiene inoltre Mauro Vitiello, altro sostituto pg in Cassazione, nominato capo dell’Ufficio legislativo. Insomma, la girandola di nomine ministeriali compiute da Bonafede sembra aver visto trionfare proprio la corrente di Palamara Unicost. Incarichi importanti anche per esponenti della corrente di Davigo e di Area, mentre venne esclusa completamente dalle nomine Magistratura Indipendente, ritenuta troppo vicina all’ex magistrato ed ex sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. C’è da dire, tuttavia, che diverse nomine compiute da Bonafede non hanno avuto molta fortuna. Da quando l’esponente grillino si è insediato a Via Arenula, hanno infatti rassegnato le dimissioni il capo degli ispettori Andrea Nocera (indagato per corruzione), il capo di gabinetto Fulvio Baldi (intercettato con Palamara) e il direttore del Dap Francesco Basentini (per l’ormai famosa vicenda dei detenuti scarcerati durante l’emergenza Covid19). E le ripercussioni del “caso Palamara” non sembrano ancora essere finite. “Caro Mattarella, ma si può ancora presiedere questo Csm?” di Annalisa Chirico Il Foglio, 3 giugno 2020 Parla l’avv. Coppi: “Stiamo osservando il ripiegamento corporativo di una categoria che mira alla propria sopravvivenza”. “Si è superato ogni limite di decenza, il presidente della Repubblica dovrebbe rifiutarsi di presiedere questo Csm”, è tranchant il professore Franco Coppi. “Nel 1985 il presidente Cossiga ingaggiò un braccio di ferro istituzionale con l’allora vicepresidente del Csm Giovanni Galloni; all’apice dello scontro, fece affluire le camionette dei carabinieri in piazza Indipendenza. Lei s’immagini i carabinieri in assetto antisommossa, con gli elmetti calati in testa, pronti a sfondare il portone se solo Cossiga, in quanto capo dello Stato, lo avesse ordinato…”. L’avvocato evoca l’episodio con toni epici e divertiti. La carica, com’è noto, non avvenne, il portone restò integro. “Oggi, come allora, servirebbe un gesto forte. Il presidente Mattarella non ha il potere di sciogliere l’organo ma può dire: io non intendo presiedere questo Csm”. Le ultime rivelazioni sui mercanteggiamenti tra magistratura e politica lo hanno indignato, non scandalizzato (“Erano cose note e stranote”). “Il sistema giudiziario versa in uno stato di degrado, senza scampo. A leggere le trascrizioni di certe conversazioni tra magistrati, rabbrividisco. Un linguaggio osceno, turpe. Non esiste più autorevolezza, non si avverte più la gravità del ruolo. Io, quando indosso la toga, mi emoziono ancora”. Sulla graticola è finito, di nuovo, il correntismo. “È un discorso che non mi appassiona. La formazione delle correnti è inevitabile. Se tra ottomila persone nascono gruppi che si riconoscono in una certa visione e cercano perciò di eleggere i propri vertici negli organi di rappresentanza, mi sembra un fatto normale. L’elemento patologico invece si manifesta quando si offre il sostegno a questo o a quel candidato in cambio di una sentenza o altra utilità. E la cosa peggiore è che la politica, già minoritaria nella componente ‘laica’ in seno al Csm, sembra inseguire i magistrati lungo i sentieri più impervi. Ma i cittadini come possono fidarsi di ‘questa’ giustizia?”. Il piatto forte sono sempre le nomine. “Si parla da decenni di come riformare un sistema di selezione che non funziona. L’ordine giudiziario rappresenta l’unica professione alla quale accedi sapendo sin dal principio che, indipendentemente dalla tua futura condotta, arriverai a ricoprire l’incarico più alto per via dello scorrere del tempo. Le progressioni di carriera, legate all’età, sono praticamente automatiche. Le valutazioni di professionalità sono una mera formalità. Non può destare sorpresa, allora, il ripiegamento corporativo di una categoria che mira essenzialmente alla propria sopravvivenza”. Come se ne esce? “Non cambierà nulla neanche stavolta. Una soluzione ci sarebbe ma la politica appare paralizzata. Se al Csm venisse lasciata la sola funzione disciplinare e il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi fosse affidato a un organo diverso, non ci sarebbe più la corsa a farsi eleggere. Il compito di nominare procuratori capi, aggiunti e presidenti di sezione potrebbe essere assegnato a un collegio di giudizi costituzionali, integrati con il primo presidente della Cassazione e con il procuratore generale, insomma figure avanti nella carriera e perciò meno sensibili alle pressioni esterne”. La sezione disciplinare del Csm ha armi spuntate. “Le leggi le fa il Parlamento e, se il legislatore volesse, potrebbe assegnare all’organo di autogoverno strumenti più incisivi”. Siamo ormai abituati alle partecipazioni televisive di consiglieri che si atteggiano a opinionisti esperti. “Un magistrato ha il dovere della continenza. Lo imporrebbe anche il codice deontologico ma si è perso il codice, figurarsi la deontologia. Se fossi al posto dell’attuale vicepresidente del Csm, di fronte alle esternazioni pubbliche di taluni magistrati pretenderei dimissioni immediate. La presunzione di colpevolezza verso chicchessia fa a pugni con il dettato costituzionale, ancor più se tali illazioni provengono da un alto magistrato”. Le sue parole distillano un senso di rassegnazione. “Non sono rassegnato ma sfiduciato. Forse qualcosa cambierà quando io non ci sarò più. Mi guardo attorno nelle aule giudiziarie dove circolano magistrati armati di spray disinfettante e giudicesse munite di mascherine in pendant con l’abito, e provo nostalgia per giuristi del calibro di Giuliano Vassalli, Giovanni Conso, Francesco Carnelutti, Franco Cordero. I tribunali versano in uno stato penoso, a causa della crisi pandemica migliaia di udienze saranno celebrate forse a settembre, ottobre, o chissà quando. Ma una giustizia rinviata è una giustizia negata. Gli arretrati aumentano e manca una visione, manca una politica giudiziaria degna di questo nome. Vedo molta improvvisazione”. Tra rivolte in carcere, boss scarcerati e nomine contestate, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è finito nell’occhio del ciclone. “Essere avvocato o giurista non è garanzia di successo quando si va a ricoprire un incarico come quello del ministro della Giustizia. Rimpiango un guardasigilli come Guido Gonella, democristiano, di professione giornalista. Tra i più recenti, anche il leghista Roberto Castelli, ingegnere, non mi è dispiaciuto: lui almeno studiava, s’informava, sapeva di cosa parlava”. Questa classe dirigente un po’ ringiovanita l’ha deluso. “Carnelutti, scomparso quasi novantenne, è stato, fino alla fine, un pensatore brillante. Oggi osservo una schiera di giovani assai poco lucidi. Benedetto Croce diceva che il meglio che ha da fare la gioventù è invecchiare il più presto possibile. Bettino Craxi frequentava le parrocchie socialiste, la Dc poteva contare sulla Fuci e sull’Azione Cattolica, Giulio Andreotti fu scovato da Alcide De Gasperi mentre scriveva la tesi di laurea alla Biblioteca Vaticana. Quanto avrebbero giovato gli studi al nostro attuale ministro degli Esteri? Anche se va di moda promuovere in incarichi importanti persone prive di titoli, noi dobbiamo ricordare alle giovani generazioni il valore della conoscenza e del sacrificio”. Come giudica l’azione di governo? “Temo che ci sia una generale sottovalutazione dei rischi. Tassisti, camerieri, negozianti, dopo tre mesi di stallo, non hanno i soldi per la spesa. Il pericolo di disordini sociali a settembre, quando il blocco dei licenziamenti sarà terminato, è reale. Ci vorrebbe un esecutivo forte, pienamente legittimato, per guidare il paese fuori dal guado. Invece certe iniziative del governo mi sembrano scriteriate, quasi irrazionali. I miei nipoti seguono le lezioni da remoto perché le scuole sono rimaste chiuse ma poi apprendo che i ministri litigano e si accapigliano per aprire almeno l’ultimo giorno di scuola…mah. Alcune centinaia di condannati per criminalità organizzata sono stati ammessi ai domiciliari per paura del contagio. Un detenuto, le cui condizioni di salute siano incompatibili con la detenzione, ha il sacrosanto diritto di essere trasferito in una struttura apposita, com’è accaduto a Provenzano, tenuto per mesi in un letto d’ospedale seppur incapace di intendere e di volere. Ma che motivazione è la ‘paura del contagio’? Ho ragione di ritenere che pure i poveri cristi, finiti in carcere per un furterello, abbiano paura di contagiarsi…e che facciamo? Li mandiamo tutti a casa?”. Nei mesi di confinamento, abbiamo vissuto la negazione del contatto e la rivincita della tecnologia. “Le confesso che mi mancano i baci e gli abbracci dei miei nipoti, parlarsi a distanza non è la stessa cosa. Rifuggo la mitizzazione del tecnologico: s’illude chi ritiene che ogni attività umana possa essere trasferita in Rete. In ambito giudiziario, per esempio, il processo da remoto ha limiti insuperabili: l’oralità si avvale di espedienti retorici non replicabili attraverso un monitor. Nel corso di un esame incrociato, come puoi incalzare un teste o interrompere il collega fissando una webcam e alzando un ditino?”. Il virus può essere letale sulle persone anziane, eppure lei continua a condurre una vita normale, va in tribunale e incontra molte persone. “Sono fatalista, e continuo a pensare che si possano correre dei rischi per conservare la propria umanità. Una vita senza il contatto con gli altri che vita sarebbe? Cerco, ovviamente, di tenere le distanze, di proteggermi per quanto possibile, ma non sopporterei di vivere sigillato tra le mura domestiche. Non ho paura del virus, e neanche di morire. E poi mi incuriosisce provare a immaginare quel che ci attende nell’aldilà. Ammesso che qualcosa esista”. Il “virus” che ha infettato la nostra magistratura Di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 3 giugno 2020 Nel 2020, anno in cui il Coronavirus ha ucciso la gente comune, è circolato il Palamaravirus che ha infettato la magistratura italiana. I pubblici ministeri di Perugia hanno trascritto tutte le conversazioni del telefonino del dr. Palamara dal 2017 in poi e, senza alcun riguardo per il loro contenuto, hanno fatto in modo che fossero rese pubbliche. Fossero o non attinenti a fatti anche lontanamente somiglianti a reati e, che so?, ad illeciti disciplinari. Non c’è stato distanziamento né uso di guanti o mascherine. E il virus non ha solo colpito mortalmente alcuni magistrati (parlo della morte figurata di chi vede distrutta la propria immagine e la propria carriera), ma ha infettato l’intera magistratura. Provo ad immaginare che cosa sarebbe successo se la stessa tecnica fosse stata adoperata sequestrando i cellulari di tutti i componenti di questo e del precedente Csm e trascrivendo e rendendone pubbliche le conversazioni. Ne avremmo visto delle belle. Non conosco il dr. Sirignano (un magistrato delle nostre parti), che, già appartenente alla Direzione nazionale antimafia, è stato sottoposto alla procedura di trasferimento d’ufficio (che per il magistrato è in qualche modo infamante) ed è sottoposto a procedimento disciplinare. Mi fa molta simpatia perché, nel procedimento per il trasferimento d’ufficio, ha avuto il coraggio di “non difendersi”, sostanzialmente affermando che cose non diverse da quelle addebitategli sarebbero venute fuori se si fossero trascritte e rese pubbliche le conversazioni telefoniche degli attuali e dei precedenti consiglieri. Vivaddio! si è dissociato dal costume dell’ipocrisia istituzionale. Ha scandalizzato. Ed infatti un consigliere inquisitore (di quelli che hanno acquisito fama per essere talebani), citando La Rochefoucould, gli ha ricordato che talora l’ipocrisia è necessaria, perché “è un omaggio che il vizio rende alla virtù”. Ebbene, forse perché influenzato dalle letture del Vangelo, a me piacciono gli uomini che menano scandalo, anche se devo constatare che purtroppo sono quelli che pagano. Si vocifera che il Covid sia nato in laboratorio e che sia sfuggito al controllo. Qualcosa di simile è avvenuto per il Palamaravirus. È colpevolmente sfuggito al controllo dei pubblici ministeri, che intercettando senza freni e facendo in modo che fossero rese pubbliche intercettazioni assolutamente prive di rilevanza penali hanno consentito un’operazione di sciacallaggio che non ha eguali (nella mia scala di valori quei p.m. non sarebbero idonei all’esercizio delle funzioni). Il Palamaravirus rischia, così, di devastare il nostro sistema di giustizia, offrendo lo spunto ai giustizialisti della casa altrui, tra cui è da includere l’attuale Ministro della giustizia (che, non a caso, recentemente si è autoassolto), di progettare riforme decisamente peggiorative. Leggo che i magistrati recitano il “mea culpa” per avere malamente utilizzato i meccanismi della riforma del 2006. Lasciamo da parte se quella riforma fosse tecnicamente ben formulata. Oggi, essendo diventati un popolo di approssimativi, non siamo più capaci di scrivere leggi tecnicamente ben formulate. Sta di fatto che essa aveva per presupposto un magistrato che non esiste nella natura delle cose. Il magistrato non è un superuomo, ha i suoi difetti, le sue passioni (anche politiche), le sue ambizioni, è genitore, è coniuge o amante. La riforma del 2006, invece, ha come riferimento un magistrato senza anima, votato alla professione “senza speranze e senza timori”, quasi come il sacerdote di una religione a cui dedica tutto sé stesso. Sento parlare a destra e a manca di “merito” e della necessità che il Csm deliberi soltanto in base al merito. In disparte che il nostro è un Paese che, soprattutto per demerito di politici e di sindacati, ha dimenticato il merito (e oggi il “posto” nelle pubbliche amministrazioni di regola è assicurato con gli espedienti più vari che consentono di coltivare clientele), in disparte che non è chiaro che cosa si intenda per merito quando si parla di un magistrato, sta di fatto che la riforma del 2006 ha posto il definitivo suggello ad una carriera del magistrato nella quale non c’è alcuna attendibile valutazione di merito (quale che sia il significato del termine). Si avanza automaticamente per classi stipendiali, sulla base di valutazioni di “non demerito” che sarebbe meglio eliminare, perché si risolvono in montagne di inutili carte e in perdite di ore lavorative che potrebbero essere spese altrimenti e con maggiore profitto. Si parla delle nomine dei capi degli uffici giudiziari come di un problema riguardante i cittadini. Bisognerebbe fare sondaggi per sapere se ai cittadini importi che a presiedere un tribunale o una corte di appello sia Tizio piuttosto che Caio. Sono certo che i cittadini sarebbero straniti per la domanda. La verità è che le uniche nomine che interessano il mondo esterno sono quelle che riguardano i pubblici ministeri. Ciò in quanto questi ultimi hanno nelle mani un potere discrezionale immenso che possono esercitare senza controlli e senza incorrere in responsabilità. E non è un caso che per essi si richieda il requisito che, come mi è capitato di sottolineare anche per il passato, i politici ritengono indispensabile per tutte le nomine pubbliche: quello dell’adattabilità e dell’affidabilità (che va tradotto nella disponibilità ad essere a servizio, nella migliore delle ipotesi di un’ideologia). Volta e gira, di che cosa si parla? Di Berlusconi e dei suoi processi di ieri; o di Salvini e dei suoi processi di oggi: ossia non della giustizia per i cittadini, ma del rapporto tra politica e giustizia (che è cosa diversa). I politici, con l’ipocrisia che li contraddistingue, girano intorno a questo problema. Dalli all’untore, dove untore, ossia il falso obiettivo, sono le correnti. Mistificazione. In realtà, si cerca il modo per assicurarsi un controllo politico sulla magistratura, assicurando l’apoliticità dei membri togati del Csm. Si vogliono, con questo scopo non dichiarato, cambiare le regole per la nomina dei membri del Csm. Fatica vana. A Costituzione invariata. Ammesso che passi l’idea (scriteriata) di una nomina affidata alla sorte, il problema non sarebbe risolto. Non ci sarebbe alcuna garanzia che i procuratori della Repubblica e i loro sostituti (perché di loro si tratta) siano scelti tra i soggetti graditi. E poi, graditi a chi? Rimarrebbe intatto l’enorme potere delle Procure e lo squilibrio istituzionale che ne è derivato. Ricordiamo con terrore e ripugnanza l’Ovra. Siamo messi assai peggio. Cancellazione del carcere per i giornalisti: battaglia di sempre della Fnsi di Raffaele Lorusso articolo21.org, 3 giugno 2020 Non è ancora tempo di cantare vittoria. L’impegno del governo a cancellare il carcere per i giornalisti, ribadito dai sottosegretari all’editoria e alla giustizia, Andrea Martella e Vittorio Ferraresi, rappresenta un importante elemento di novità. Di qui ad affermare che il risultato è stato raggiunto, però, ce ne passa. Di certo, è a portata di mano. Anche perché, a incalzare il parlamento potrebbe essere la Corte Costituzionale. I giudici della Consulta, com’è noto, il prossimo 9 giugno si pronunceranno sull’eccezione di incostituzionalità dell’articolo 595 del codice penale e dell’articolo 13 della legge sulla stampa, la numero 47 del 48. Entrambe le norme prevedono la pena detentiva per il giornalista che commette il reato di diffamazione a mezzo stampa. Quale sarà la decisione della Corte Costituzionale - rigetto della questione o accoglimento oppure sentenza interlocutoria con rinvio alle Camere che se ne stanno occupando - diventerà fondamentale il lavoro del Parlamento. Nelle numerose interlocuzioni avviate dalla Fnsi, da sempre in prima linea per la cancellazione del carcere per i giornalisti, governo e forze politiche hanno ribadito la volontà di approvare la proposta di legge sulla cancellazione del carcere insieme con quella, distinta ma collegata, sul contrasto alle querele bavaglio. Quest’ultima, presentata dal senatore Primo Di Nicola, ha già ottenuto il via libera della commissione giustizia del Senato. Per quella sulla diffamazione, che introduce anche nuovi criteri sull’obbligo di rettifica, l’ok dovrebbe arrivare a breve. Restano da sciogliere alcuni nodi sostanziali. A cominciare dal rischio, tutt’altro che remoto, che la cancellazione del carcere si trasformi in una sorta di resa dei conti con i giornalisti. La voglia di sostituire la pena detentiva con pesanti sanzioni pecuniarie è diffusa trasversalmente fra le forze politiche. Non è una novità, visto che anche nelle passate legislature i disegni di legge di riforma si sono infranti proprio su questo scoglio. Se dovesse prevalere la linea dura, ossia multe salate al posto del carcere, si aprirà un altro caso Italia dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. I giudici di Strasburgo, infatti, considerano le pene pecuniarie di una certa entità alla stessa stregua del carcere. Ossia una forma di dissuasione per il giornalista. Il rischio di condanna a pagare una somma elevata in caso di diffamazione rappresenta di fatto una compressione della libertà di espressione e del diritto di cronaca. L’auspicio, allora, è che il legislatore italiano sia riformista fino in fondo e accolga le raccomandazioni della Corte europea. Il carcere può essere sicuramente sostituito da sanzioni pecuniarie. A condizione, però, che venga previsto un minimo e un massimo (comunque contenuti) e che, in caso di condanna, venga data al giudice la possibilità di tener conto delle condizioni economiche del giornalista, delle dimensioni dell’impresa e della diffusione del giornale. In caso contrario, sarà impossibile per l’Italia sottrarsi alle censure dei giudici europei. Il sindacato dei giornalisti ha portato questi elementi all’attenzione del governo e dei parlamentari che stanno discutendo la proposta di legge in commissione. Se fossero accolti, sarebbe una chiara inversione di tendenza. Un fatto di portata storica, considerato che la cancellazione del carcere per i giornalisti era nell’atto costitutivo della Fnsi. Che - va ricordato a beneficio di chi non conosce la storia o non vuole studiarla - risale al 1908. L’interesse a mantenere il vincolo affettivo con il figlio può ostare all’espulsione del padre quotidianogiuridico.it, 3 giugno 2020 Cassazione penale, sezione I, sentenza 6 maggio 2020, n. 13764. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva respinto l’opposizione alla espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione (art. 16, d.lgs. n.286 del 1998) proposta da un detenuto, cittadino extracomunitario, difettando la condizione di convivenza tra il detenuto, la moglie e la figlia minore avuta da quest’ultima, la Corte di Cassazione (sentenza 6 maggio 2020, n. 13764) - nell’accogliere la tesi difensiva, secondo cui nel caso in esame ben poteva riconoscersi la condizione ostativa alla espulsione, atteso che la nozione di convivenza va intesa come stabilita? del legame affettivo, e non necessariamente come coabitazione - ha infatti affermato che non appare essere decisivo l’aspetto della assenza di coabitazione tra il genitore detenuto, richiedente l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, e il figlio minore, dovendo essere oggetto di verifica e di apprezzamento in concreto, in termini di possibile causa ostativa alla espulsione, l’interesse del minore al mantenimento del vincolo familiare e affettivo con il genitore, in termini di potenziale pregiudizio alla integrità? del suo sviluppo psicofisico. Arresto Ue da rivedere, Polonia troppo autoritaria di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2020 La tentazione autoritaria di alcuni Governi europei nei rapporti con la magistratura si scarica anche su istituti chiave della cooperazione giudiziaria. È il caso del mandato d’arresto europeo e della Polonia. La Corte di cassazione, con la sentenza 15294 della Sesta sezione penale apre alla possibilità di rifiuto della consegna di un cittadino polacco accusato dalle autorità giudiziarie del suo Paese di associazione per delinquere finalizzata a reati fiscali e di riciclaggio. Detto che la Corte d’appello aveva dato il via libera all’esecuzione della richiesta, la Cassazione annulla però la sentenza e ne impone un ripensamento anche alla luce di recentissimi eventi. Già la difesa aveva sottolineato il rischio di un’assenza di terzietà del giudice, dopo le riforme che in Polonia hanno compromesso autonomia e indipendenza della magistratura. La difesa valorizzava tra l’altro le intercettazioni del difensore disposte in Polonia per ottenere informazioni sull’imputato. La Cassazione mette l’accento sul progressivo aggravarsi della situazione polacca per quanto riguarda i principi base dello Stato di diritto. Dove il riferimento è sia alla giurisprudenza della corte Ue sia ai provvedimenti di apertura di infrazione, con, da ultimo, l’ordinanza dell’8 aprile scorso, con la quale è stata disposta la sospensione in via cautelare della legislazione polacca sui procedimenti disciplinari a carico dei giudici e la nuova procedura di infrazione avviata il 29 aprile dopo che il 14 febbraio è entrata in vigore la nuova legge sulla magistratura. In particolare quest’ultimo provvedimento è stato considerato assai grave in chiave europea, visto che impedisce ai tribunali polacchi di applicare direttamente determinate disposizioni del diritto Ue e di presentare alla Corte europea domande pregiudiziali. Inoltre, è stato assai esteso il perimetro degli illeciti disciplinari di cui la magistratura può essere chiamata a rispondere, sino a configurare lo stesso sistema disciplinare come strumento di controllo politico. In discussione ci sarebbero poi anche violazioni alla privacy dei giudici chiamati a rivelare dati di natura personale. Fatti di estrema gravità, avvenuti dopo la sentenza della Corte d’appello oggetto di ricorso, e che ora spingono la Cassazione a rinviare la questione della consegna alla Corte d’appello per un nuovo esame che tenga conto di tutti gli elementi. Tenendo presente che il rifiuto alla consegna può scattare solo “in casi eccezionali”, quando in pericolo di effettiva violazione ci sono diritti fondamentali della persona. Alla difesa così è affidata la dimostrazione, allegando circostanze specifiche e dettagliate, dell’influenza delle riforme avvenute da ultimo in Polonia sul caso concreto. Bancarotta post fallimentare per distrazione, no alla condanna senza distinzione costi-ricavi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 21 maggio 2020 n. 15650. Per far scattare il reato di bancarotta post fallimentare per distrazione non basta che il fallito abbia utilizzato i proventi dell’attività lavorativa senza aver chiesto e ottenuto il via libera dal giudice delegato per le somme che aveva il diritto di trattenere. La materialità del fatto di bancarotta per distrazione richiede, infatti, la concreta sottrazione delle somme, che superino il limite massimo previsto dalla disciplina sul fallimento. Di conseguenza, in assenza di una determinazione da parte del giudice delegato del denaro che il fallito può trattenere, spetta al giudice penale, effettuare, incidentalmente, la valutazione tenendo presente le esigenze di mantenimento del fallito e della sua famiglia. Sul fallito resta comunque l’onere di dimostrare la natura e l’entità delle spese e le passività. La Cassazione, con la sentenza 15650, accoglie sul punto il ricorso contro la condanna per bancarotta fraudolenta post- fallimentare, scattata per aver distratto risorse alla procedura concorsuale. La Suprema corte, ricorda che, come noto, non esiste un divieto assoluto per il fallito di lavorare dopo la dichiarazione di fallimento, ma c’è l’obbligo di non depauperare il patrimonio sociale e di versare parte dei proventi dell’attività lavorativa svolta nella massa fallimentare, salvo quanto necessario per il mantenimento. Nel caso esaminato il ricorrente era stato considerato responsabile del reato in virtù delle risorse trattenute. Per La Suprema corte però la corte territoriale, pur sottolineando la carenza di accertamenti relativi ai costi, fa riferimento genericamente ad attività svolta in nero, reputata di per sé, utile a superare i limiti posti dall’articolo 46 della legge fallimentare, visto l’omesso versamento alla procedura fallimentare dei guadagni. Senza però distinguere tra guadagni e ricavi. La sentenza va dunque annullata e sarà il fallito provare anche in via induttiva i costi sostenuti per l’attività lavorativa. Torino. In carcere tra i detenuti nessuno ha la mascherina di Federica Cravero La Repubblica, 3 giugno 2020 La denuncia della Garante. Non hanno il dovere di indossare le mascherine dentro il carcere nonostante nel resto della regione in questi giorni siano obbligatorie anche all’aperto e d’altra parte nessuno gliele ha fornite: non l’amministrazione penitenziaria e nemmeno la Regione Piemonte, che pure le ha distribuite di casa in casa. Ma almeno nei prossimi giorni i detenuti della casa circondariale Lorusso e Cutugno troveranno le protezioni anti coronavirus nell’elenco del sopravvitto e potranno acquistarle a proprie spese. Il carcere che sorge nel quartiere Vallette, periferia di Torino, è in Italia uno di quelli in cui il virus si è diffuso maggiormente, con 78 contagi per una popolazione carceraria di 1280 persone, 200 più della capienza. Con buona pace del distanziamento sociale. La possibilità di comprare le mascherine è comunque un passo avanti rispetto ai primi tempi della pandemia, quando alcuni familiari le avevano portate ai carcerati ma erano state requisite “perché generavano apprensione”, ricorda la garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo. Ed erano finite tra le cose di cui è vietato l’ingresso, come le fette di salame troppo spesse o i cibi non confezionati secondo le regole. “Ora per fortuna gliele consegnano - continua la Garante. Tuttavia in un giro fatto pochi giorni fa in vari padiglioni ho avuto la conferma di come di mascherine sia ora fornita la polizia penitenziaria, ma quasi nessun detenuto. Ho visto persino il porta-vitto girare con il carrello senza guanti e senza mascherina di cella in cella, con il cibo scoperto e i detenuti che si avvicinavano... In realtà la direzione ha affermato di aver distribuito la mascherina ad alcune figure, come appunto il porta-vitto, ma evidentemente non si controlla che la indossino”. E lo stesso accade anche tra alcuni reclusi che hanno incarichi in infermeria e che nonostante la delicatezza del luogo non indossano alcuna protezione. Una situazione di cui sono testimoni anche diversi avvocati. Solo nelle udienze da remoto, infatti, gli arrestati compaiono davanti ai giudici ben coperti dalle mascherine, “ma non ai colloqui - spiega l’avvocato Alessandro Lamacchia - Anzi ho visto un detenuto particolarmente preoccupato, che mi ha detto di aver fatto più volte richiesta della mascherina ma invano”. Vero è che probabilmente non tutta la popolazione carceraria ha chiara la pericolosità del virus ed è per questo che assieme all’associazione Antigone è stato stretto un accordo con Medici senza frontiere, che hanno fatto tre giorni di formazione spiegando cosa fare e cosa non fare per evitare di prendersi e di trasmettere il Covid. Resta il fatto che in un luogo chiuso per definizione come il carcere, difficile da aerare, dove persino per avere a disposizione quantità maggiori di sapone sono state attivate campagne di solidarietà con i privati, in cui il distanziamento sociale è impossibile perché nella cella non si riesce a stare a più di un metro uno dall’altro, le mascherine diventano indispensabili. “Nel ricorso portato alla corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per tre detenuti che si sono ammalati a Torino abbiamo calcolato che in una sezione comune ogni detenuto ha contatti con 120 persone ogni giorno - sostiene l’avvocata Benedetta Perego, fondatrice dell’associazione Strali - Però le mascherine non sono obbligatorie e non si capisce quale sia la ragione di questa “extraterritorialità” del carcere rispetto a ordinanze sia governative che regionali che le impongono nei luoghi chiusi come uffici e supermercati”. Una circostanza che in altre regioni d’Italia ha già dato origine a class action di detenuti davanti al Tar e non si esclude che possa essere intrapresa la stessa strada anche in Piemonte. Napoli. Polo universitario per i detenuti di Poggioreale di Giacomo Di Gennaro* Il Riformista, 3 giugno 2020 L’attivazione di percorsi formativi a Secondigliano è una chance di riscatto che bisogna offrire anche ai reclusi negli altri istituti. La vicenda di A.A., il detenuto che nell’istituto penitenziario di Secondigliano ha dovuto fare ricorso allo sciopero della fame per ottenere un pc che gli consentisse di consultare i materiali di studio per prepararsi a sostenere l’esame previsto in quanto iscritto a un corso di laurea della nostra università, solleva non poche domande ma necessita anche di fornire alcuni chiarimenti. La prima riguarda la disponibilità dell’attuale Direzione amministrativa penitenziaria (Dap) di continuare a sostenere in misura ancora più forte quanto fatto negli ultimi anni dietro la spinta dell’allora presidente della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) e oggi ministro dell’Università Gaetano Manfredi. A partire dal 2018 presso la Crui fu costituita la Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (Cnupp), con lo scopo di dare seguito in maniera più ampia, stabile e coordinata alla promozione del diritto allo studio universitario agli studenti detenuti o in esecuzione penale esterna o persone sottoposte a misure di sicurezza detentive coincidenti con misure di privazione della libertà personale. In soli tre anni questa esperienza è cresciuta e la formazione universitaria in ambito penitenziario oggi annovera 36 atenei associati che complessivamente contano tra i propri iscritti - secondo i dati del più recente rilevamento - 926 studenti detenuti in 77 istituti penitenziari del Paese (53 case circondariali e 24 case di reclusione) e in alcune Rems. Per risolvere i vari problemi che si presentano e migliorare la collaborazione tra singoli istituti e atenei, a settembre 2019 si è siglato un protocollo d’intesa tra il Dap e la Cnupp in base al quale è stato avviato un confronto stabile sulle condizioni in cui si trovano sia le persone detenute che gli operatori cui sono affidati. Nonostante il lockdown, le varie università si sono impegnate a mantenere, per quanto possibile, i contatti con gli studenti detenuti, ritenendo che la situazione di emergenza non avrebbe dovuto compromettere i percorsi di studio intrapresi. Cercando strade diverse da quelle seguite in condizioni di contatto tra docenti e studenti, ma ugualmente efficaci, in molti casi la disponibilità delle direzioni ha permesso di garantire lo scambio formativo, l’offerta didattica, la garanzia della possibilità di assolvimento dei doveri di ogni studente universitario. Ed è su questa linea che si inserisce l’esperienza del Polo universitario di Secondigliano voluto dalla Federico II e al quale, si spera, quanto prima si vada ad aggiungere quello di Poggioreale e di altri istituti penitenziari della Campania. È una strada tutta in salita. Infatti, da un recente monitoraggio effettuato dai delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari che ha fotografato quanto accaduto durante la fase di isolamento nei diversi istituti penitenziari, emerge che “solamente in meno di un quarto (23%) degli istituti monitorati si è riusciti a garantire facilmente la continuità all’offerta formativa, mentre in circa il 50% degli istituti i contatti sono stati mantenuti con difficoltà e ben nel 25% dei casi i contatti con gli studenti sono stati del tutto interrotti, a volte senza che ai responsabili dell’università venissero fornite risposte alle richieste di mantenere una qualche forma di scambio con gli studenti detenuti”. Questi dati offrono elementi di riflessione su quanto sia difficile praticare tale esperienza e quanta poca disponibilità permanga ancora in molte strutture penitenziarie. E qui veniamo alla seconda domanda. Essa inerisce il modo in cui, al di là della retorica che può essere costruita sul dettato costituzionale e sulla finalità della pena e del trattamento umano delle persone detenute, vogliamo effettivamente dare seguito alla punitività nel nostro Paese. L’Italia ha una lunga tradizione a riguardo caratterizzata da una oscillazione tra repressione e clemenza. Non ci siamo quasi mai trovati di fronte ad uno scenario univoco. Basti osservare i tassi di incarcerazione che, già dopo la riforma del 1975, hanno avuto andamenti addentellati perché caratterizzati da amnistie e indulti con conseguenti deflazioni della popolazione carceraria, dando così al sistema italiano della penalità un volto moderato e pragmatico, ma poco attento alla reale riabilitazione della persona detenuta. È questa permanente tensione tra moderazione e repressione, alternanza tra punitività e clemenza che impedisce di costruire in maniera chiara e lineare percorsi efficaci di recupero e responsabilizzazione del detenuto, ancorché fare della detenzione un architrave - sebbene residuale - della deterrenza. Basti osservare quanta difficoltà ancora oggi ha la mediazione penale ad essere costantemente perseguita e quanto lontano ancora risultino la pratica e diffusione dell’esperienza della giustizia ripartiva, al di là delle buone prassi in qualche istituto penitenziario realizzate con il sostegno dei relativi tribunali. L’esperienza dei poli universitari non è la panacea, è ovvio, ma sicuramente rappresenta un tassello importante per l’accrescimento del capitale umano, è una risposta all’esigenza di autostima e di rispetto di sé che aiuta ad invertire la deriva del risentimento nei confronti dello Stato. Sarebbe davvero strano che in una nuova fase storica nella quale si sottolinea la rilevanza dell’economia della conoscenza, il ruolo determinante di quest’ultima nella creazione del valore economico, si perpetuasse a marginalizzare ulteriormente la popolazione carceraria non potendo garantire nemmeno l’accesso alla soglia divenuta minimale costituita da un livello superiore di istruzione. È importante allora che il confronto tra università e amministrazioni penitenziarie centrale e decentrate (Prap) e le direzioni dei singoli istituti penitenziari, come già spesso avviene, si promuovano e sostengano ancor di più nei vari contesti locali e che ad esse facciano seguito iniziative congiunte che abbiano al centro il significato culturale insito nell’incontro tra l’universo carcerario e le comunità universitarie, anche ai fini della sensibilizzazione delle comunità locali sul valore dei percorsi di studio per le persone private della libertà personale. Giacomo Di Gennaro *Delegato per la Cnupp per il Dipartimento di Scienze Politiche Bologna. Lo assolvono dopo 8 anni, ma non gli ridanno la semilibertà di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 giugno 2020 Mario Serpa, all’ergastolo dall’83, nel 2006 ottiene il beneficio, nel 2012 è rinviato a giudizio. In carcere fin dall’83 con tanto di condanna all’ergastolo, ma dopo un lungo percorso trattamentale è riuscito ad ottenere i primi benefici e infine nel 2006 la semilibertà per poter lavorare. Finalmente, dopo decenni, il suo percorso era proiettato verso il reinserimento graduale nella società come prevede la finalità della pena prevista dalla costituzione italiana. Nel 2012 però il tribunale di sorveglianza gli ha revocata la misura a seguito di un rinvio a giudizio perché accusato di aver ricostituito il clan calabrese. Parliamo di un processo che all’epoca fu abbastanza famoso. Era l’operazione “Tela del ragno” relativo all’indagine su dei clan della ‘ndrangheta attivi nella zona del tirreno cosentino e su decine di omicidi. Nel 2017 è stato assolto in appello e i Pm non hanno fatto ricorso. Assoluzione piena. Lui non aveva nulla a che fare con quella vicenda per la quale però altri sono stati condannati. A quel punto i legali hanno chiesto al Tribunale di Sorveglianza bolognese di ripristinare i benefici. Ma nulla da fare. Dal provvedimento che Il Dubbio ha potuto visionare si evince che il giudice, pur prendendo atto dell’assoluzione, ha respinto la richiesta perché, in sostanza, deve ricominciare da capo per riacquistare la fiducia. Vale la pena riportare questo passaggio della lettera dell’ergastolano 67enne Mario Serpa (questo è il suo nome) inviata all’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci. “Da quello che si desume dal ragionamento che ha fatto il Tribunale di Sorveglianza di Bologna nel concedermi o meno il beneficio che ho chiesto - scrive Mario Serpa - mi sembra di capire che io dovrei ricominciare da zero (come un detenuto che chiede per la prima volta questo beneficio) non tenendo conto né dell’errore che ha commesso la Procura, né del mio trascorso (prelevato e rinchiuso nella semilibertà senza aver commesso mai una sola infrazione). In altre parole, dovrei passare di nuovo nel crudele gioco delle “forche caudine”: ti sembra giusto?”. Ovviamente i suoi legali hanno fatto ricorso in Cassazione, ma ancora non è stata fissata l’udienza. Per un errore giudiziario, Mario Serpa si vede azzerato tutto il suo percorso. Eppure, durante l’arco temporale intercorrente dal 2006 al 2012 non si era registrata a carico di Serpa alcuna infrazione e il comportamento tenuto dallo stesso è stato più che retto. Non è stata colpa sua se, dopo 6 anni di semilibertà, è stato raggiunto da un ingiusto provvedimento di custodia cautelare, sfociato poi in una piena assoluzione. Mario Serpa fin dal 2012 è recluso in alta sorveglianza del carcere di Parma, senza che ce ne sia motivo. Vale la pena riportare l’ultima relazione di sintesi redatta proprio dal carcere parmense: “Comportamento assolutamente corretto, assenza di sanzioni, manifesta cortesia, disponibilità e interesse, relazioni rispettose, frequenza del laboratorio del riuso e svolgimento di attività a turnazione nella distribuzione dei pasti. I rapporti sono assidui con i tre figli, due dei quali affetti da handicap, La moglie del detenuto è morta di cancro nel 2001. Sulle vicende criminali, si evidenzia che, prima di esse, Serpa ha sempre lavorato, ma l’uccisione del padre per una vendetta trasversale nel 1979 ha segnato il punto di non ritorno e di inizio della caccia agli assassini del padre, poi sistematicamente uccisi”. Dalla relazione di sintesi si evince anche il motivo per il quale nel 1979, all’età di 26 anni, finì nel vortice della violenza e dell’odio diventando così un boss della ‘ndrangheta. Ma oggi è diverso. Nella lettera si rivolge a Carmelo Musumeci sottolineando che dai suoi buoni insegnamenti ne ha fatto tesoro e “seppur ancora oggi mi ritrovo a dover soffrire (per colpe non mie) non mi lascerò mai più guidare né dall’odio né dalla prepotenza, come quand’ero giovane”. Come detto, Mario Serpa si trova al carcere di Parma per un reato dal quale è stato assolto. “Io ora voglio sapere - scrive a Musumeci - con che capo d’imputazione e articolo mi tengono qui dentro, in una Sezione di Alta Sicurezza, dopo che sono stato assolto da ogni accusa. Accuse che sono state utilizzate pure per chiudermi dalla semilibertà. È mai possibile che una sentenza di assoluzione non riesca ad annullare una ingiusta decisione sentenziata senza prima sapere se il malcapitato fosse o no colpevole?”. Pordenone. San Vito, si sblocca la situazione del nuovo carcere ilpopolopordenone.it, 3 giugno 2020 I lavori potrebbero essere consegnati già quest’autunno. Buone notizie per quanto riguarda l’iter del nuovo istituto penitenziario del Friuli Occidentale. In occasione del sopralluogo di qualche giorno fa all’ex caserma Dall’Armi per la consistenza dei lavori del cantiere del futuro carcere da 300 posti nell’ex sito militare di via Divisione Garibaldi, il responsabile della pratica del Provveditorato alle opere pubbliche del Triveneto, ing. Francesco Sorrentino, ha comunicato importanti novità che preannunciano uno sblocco dell’iter realizzativo dell’opera. “Con oggi - ha spiegato Sorrentino - si è accertato lo stato di consistenza con l’impresa che aveva originariamente vinto l’appalto ovvero l’Associazione temporanea di imprese Kostruttiva-Riccesi”. Un passo che segue la sentenza della Corte di Cassazione del 20 gennaio 2020 che ha definitivamente chiarito che è l’Impresa Pizzarotti di Parma la realtà che subentrerà al contratto per la costruzione della struttura che sorgerà al posto dell’ex caserma. Con il Verbale di consistenza lavori, nel concreto si è verificato oggi, sul posto, quanto finora realizzato dall’Associazione temporanea di imprese inizialmente aggiudicataria dell’appalto così da quantificare il dovuto. Al contempo, il Provveditorato può rientrare in possesso del bene demaniale. Un passaggio necessario prima della futura stipula del contratto con la nuova impresa risultata subentrante, aggiudicataria dell’opera, ovvero la Pizzarotti, un colosso con un portafoglio ordini da 13 miliardi di euro, arrivata inizialmente seconda nella gara. Quali i prossimi step e quando si potrà riprendere il cantiere? L’ing. Sorrentino, ha spiegato che “si stanno facendo alcune verifiche dal punto di vista giuridico con l’Avvocatura di Stato per vedere la modalità di subentro di Pizzarotti perché le condizioni economiche sono completamente differenti. Pizzarotti aveva offerto in gara d’appalto un ribasso dell’1 per cento, mentre l’Ati Kostruttiva-Riccesi aveva presentato un ribasso di circa il 25 per cento. Si parla di un delta economico, compreso di Iva e altro, di circa 8 milioni di euro”. Pertanto, nel caso in cui l’Avvocatura di Stato confermasse l’applicazione del ribasso della gara d’appalto, si dovrà richiedere un’ulteriore tranche di fondi ad integrazione poiché l’importo complessivo dei lavori del nuovo istituto penitenziario passa da circa 22 milioni di euro a circa 30 milioni di euro. Il passaggio di verifica dei fondi dovrebbe richiedere tempi stretti e cioè un paio di mesi. L’ing. Sorrentino si è poi soffermato sulle tempistiche realizzative. “Sono in corso verifiche presso l’Ufficio centrale bilancio del Ministero dell’Economia e delle Finanze per la modalità di reiscrizione dei fondi attualmente a nome dell’Ati Kostruttiva-Riccesi per assegnarli all’Impresa Pizzarotti. Fino a che non abbiamo questa certezza, che contiamo di avere entro un paio di settimane, non possiamo procedere alla stipula del contratto che, se tutto andrà a buon fine e nei tempi previsti, in maniera ottimistica si può pensare di stipulare entro questa estate. La consegna dei lavori, in questo caso, potrebbe avvenire già quest’autunno”. Presente al sopralluogo nell’ex caserma Dall’Armi, anche il Sindaco Di Bisceglie, che ha dichiarato: “Con oggi ci si augura lo sblocco di una vicenda annosa che ha visto la conclusione di un contenzioso trascinato per quasi due anni e soprattutto questo significa cercare di definire un nuovo cronoprogramma e dunque la ripresa dei lavori del nuovo carcere. Una infrastruttura molto attesa che vale per tutta la Regione e, ancora di più, per la nostra cittadina”. Che disastro se il post Covid è post umano di Lea Melandri Il Riformista, 3 giugno 2020 Durante il lockdown il ruolo del digitale si è fatto sempre più pressante. La negazione della presenza reale ci ha dimostrato quanto essa sia indispensabile. Ma la cultura della cancellazione dei corpi non demorde, anzi rilancia. È difficile trovare accostati, sulla stessa pagina di un quotidiano, due orientamenti all’apparenza contrastanti come la politica che risponde ai limiti, alle imperfezioni e alle trasgressioni dei corpi sorvegliandoli e punendoli, e una tecnica sempre più orientata a sostituirli. Nell’articolo di Valerio Rossi Albertini, uscito giorni fa su Il Riformista (28 maggio), l’alternativa sembra volgere a favore delle intelligenze artificiali che in tempo di Coronavirus prendono nuovo impulso creativo. “Macché guardie civiche - si legge nel titolo - Hai visto come è fi go il cane robot?”. Il riferimento è a Singapore dove, ad aiutare le persone in strada perché mantengano la distanza, è un cane robot che le accompagna e le ammonisce con voce cordiale e suadente. Il commento non lascia dubbi su ciò che appare più desiderabile e prevedibile: “Le sfide, più sono impegnative, più richiedono avanzamenti nelle conoscenze (…) E siccome ogni frammento di conoscenza è un tassello nell’enorme mosaico del Sapere Universale, i progressi compiuti rimangono anche quando cessa la causa occasionale che li ha prodotti (…) La simbiosi con i robot sarà la soluzione di molti problemi. I tempi sono maturi e la pandemia potrebbe essere il punto di svolta per accettarli e diffonderli”. In sostanza, basta aspettare che l’emergenza sia conclusa per accorgersi che dalle macerie emergono “gioielli inaspettati”. Ciò che colpisce in questo ragionamento è la pervicacia di una cultura che riesce a cancellare i corpi anche quando, strappati violentemente dal privato, compaiono sulla scena pubblica con tutta la loro vulnerabilità, i loro limiti, le ferite e le devastazioni che la storia vi ha impresso sopra. Dono inaspettato, e si spera anche eredità della pandemia, dovrebbe essere al contrario la consapevolezza degli esiti distruttivi di un dominio che ha deciso, insieme al destino di uomini e donne, anche la sottomissione della natura, dei viventi non umani e di quel sesso che è parso troppo confinante con l’animalità per aspirare al governo del mondo. Dalla cancellazione del corpo femminile non poteva non prendere avvio un sapere che avrebbe mutilato l’uomo stesso, la sua civiltà, le sue costruzioni materiali e simboliche, del radicamento biologico e pulsionale, così come di tutte le esperienze che lo attraversano: la nascita, la morte, la sessualità, la maternità, ecc. Nella differenziazione tra il “principio paterno”, spirituale, immortale, e quello “materno”, identificato con la “componente carnale dell’uomo” (Bachofen), è come se fosse passata la guerra tra pensiero e corpo, e la necessità per il vincitore di tenere costantemente a bada la parte di sé che, rivoltandoglisi contro, potrebbe minarne la libertà e la potenza. Nell’idea del progresso indefinito delle sue mete tecnologiche, la cultura maschile tradisce l’incertezza di fondo di chi sa di muoversi in un terreno minato ed è costretto a Bobo Craxi rafforzare ininterrottamente le sue difese. Sotto questo aspetto non sono così lontane quanto possono apparire la biopolitica - controllo e disciplina dei corpi, dalla scuola al lavoro, repressione e punizione di chi non rispetta le regole - e la tentazione, sempre più evidente nello sviluppo delle tecno-scienze, di liberarsene, quasi fossero soltanto un peso. La presenza del digitale si è fatta con la pandemia, l’isolamento, il lavoro da casa, le lezioni online della scuola, sempre più pressante, tanto da essere considerata da molti la garanzia di una migliore gestione delle cose che ci riguardano, come già prevedevano i critici del “post-umano” e i teorici della “morte del reale”. A proposito della “inquietante passione di generare doppi artificiali di sé stesso”, Eric Sadin scrive: “creare qualcosa di più potente di noi, che supplisca la nostra condizione, sottoposta a dei limiti e ai rischi del mondo (…) le tecnologie cominciano ad assumere una funzione di consiglio e assistenza quotidiana (…) demandare all’intelligenza artificiale il compito di risolvere le nostre difficoltà. Più una società è ingovernabile, più aumenta il compito di guidare le nostre vite”. La pandemia, portando i corpi nel cuore della politica, ha scosso profondamente l’edificio di una economia già in crisi, aggravato disuguaglianze sociali in crescita, svelato le carenze della sanità pubblica e l’abbandono in cui è stata lasciata da anni la scuola. Ma, soprattutto, come era prevedibile, ha costretto a fermare lo sguardo su quel “rimosso” della storia in cui sono state confinate le esperienze più universali dell’umano, in cui è inscritta la nostra fragilità e la nostra finitezza, la nostra autonomia e il bisogno che abbiamo gli uni degli altri. La malattia, la morte e le cure necessarie che le accompagnano hanno rotto, se ancora ce n’era bisogno, la separazione tra vita privata e vita pubblica, tra individuo e collettivo, lasciando intravedere una comunità legata da rapporti più profondi di solidarietà e compassione. Tra aule scolastiche deserte e interni di famiglia troppo pieni, il lavoro e le relazioni online hanno coperto provvidenzialmente un vuoto altrimenti insuperabile per i rischi del contagio, ma hanno fatto sentire contemporaneamente, in modo doloroso e inquietante, quanto le presenze reali siano indispensabili per una socialità fatta di individui restituiti alla loro interezza, corpo e pensiero, sentimenti e ragione, libertà e dipendenza. Non è certo di robot da compagnia negli ospedali e nelle case di riposo che abbiamo bisogno per evitare la tragicità delle morti di medici, infermieri e pazienti, a cui stiamo assistendo per effetto del contagio. È sempre Eric Sadin a ricordarci che per questa strada si andrebbe solo verso la “vergognosa riduzione del personale e la disumanizzazione della cura” (E. Sadin, Critica della ragione artificiale. Una difesa dell’umanità, Luiss 2019). Significherebbe, in altre parole, riprodurre le cause che ci hanno portato al disastro attuale. Vattimo: “La società non è libera, il lockdown ha esaltato le diseguaglianze” di Giulio Laroni Il Riformista, 3 giugno 2020 Non è facile accostarsi dialetticamente all’emergenza Coronavirus e alle sue implicazioni filosofiche, sociali e politiche. Il dibattito si è infatti polarizzato, almeno nell’immaginario comune, in due schieramenti ugualmente ideologici: da una parte i sostenitori del governo senza se e senza ma, dall’altra sovranisti e no-vax. I pensatori più lucidi si sono sottratti a questa facile dicotomia e hanno scelto strade più audaci. Lo ha fatto, ad esempio, Gianni Vattimo: la sua analisi è complessa, all’insegna di quell’atteggiamento ermeneutico che contraddistingue tutta la sua filosofia. La prima domanda che gli pongo riguarda lo “stato di eccezione”. Giorgio Agamben ha affermato che lo stato di polizia sia stato una risposta inadatta a fronteggiare l’emergenza in atto. Altri, come Bruno Moroncini, si sono trovati d’accordo con le misure prese dal governo... Non condivido la posizione di Agamben, mi sembra un po’ radicale. Non sono tanto polemico nei confronti dei provvedimenti delle autorità sulla questione del Coronavirus perché sono convinto che il pericolo del contagio effettivamente sussista, che non sia, per così dire, l’invenzione di qualche cattivo che ci vuole imprigionare. Naturalmente posso non essere d’accordo su certe esagerazioni, per esempio la questione dei congiunti la trovo molto poco ragionevole. La sinistra libertaria e anarchica ha sostenuto che la radicalità dei provvedimenti del governo sia stata solo apparente: da una parte venivano perseguiti con inaudita severità i comportamenti privati, dai runner ai possessori di cani; dall’altra troppe attività continuavano a funzionare. Laddove gli spostamenti per motivi di lavoro venivano autorizzati, quelli legati al gioco e agli affetti venivano duramente repressi... Ho l’impressione che abbiano sofferto del Coronavirus soprattutto i poveri. Stare in casa è chiaramente diverso per chi vive in un appartamento di cinque stanze e chi ne ha uno di una stanza e mezza. E questo è sicuramente una disparità di classe. Si è fatto troppo poco per venire incontro ai problemi di coloro che non avevano una grande disponibilità economica o di spazio, il che è fondamentale. Quanto al problema della produzione, era comunque importante lasciare lavorare coloro che dovevano lavorare perché altrimenti “non mangiavamo” e tutto si paralizzava nel giro di poche ore. Personalmente non mi spostavo né per motivi di lavoro né per motivi di affetto, quindi non ho esperienza su questo piano, ma per quel che ho sentito e capito, la questione della repressione non mi è sembrata così terribile. Eppure sembra che l’ideale separazione tra esistenza biologica ed esistenza non necessaria si sia accompagnata a quella tra vite necessarie e vite superflue. Dai clochard sanzionati dalle Forze dell’ordine, ai carcerati costretti a contagiarsi, alla parziale chiusura dei porti per le navi di soccorso, fino alla vera e propria strage nelle case di riposo, l’impressione è che alcune vite siano considerate meno essenziali di altre... Questo mi pare molto visibile per esempio in Brasile, dove si lasciano morire troppe persone, non si fanno tamponi né indagini, non ci sono protezioni. Noi non siamo in una situazione brasiliana, ma quello dei carcerati è un problema, benché non sappia come risolverlo. È una cosa scandalosa che non si pensi a coloro che sono rinchiusi. E lo stesso dicasi per la questione dei porti, delle navi di soccorso. Sono questioni fisiologicamente legate a una società costruita in un certo modo, le cui diseguaglianze emergono anche nell’ambito del Coronavirus. Ha ragione Žižek quando dice che solo un nuovo comunismo solidale ci può salvare, anche se non sono sicuro che Žižek abbia la stessa mia idea di comunismo. È dunque d’accordo con la tesi di Žižek? Sì, il Coronavirus ha messo in maggiore evidenza le diseguaglianze terribili che imperano nella nostra società e l’ideale non può che essere quello di un’alternativa radicale. Avevo scritto che solo un comunismo ermeneutico - nel senso di un comunismo non scientifico - ci salverà. Non è accettabile un futuro in cui la società sia sempre più organizzata, controllata, rigidamente prevista, in cui tutti ci trasformiamo in degli automi. Lo so, il mio timore si deve anche al fatto che mi sono formato alla scuola di Heidegger, eppure non è tanto inverosimile. Anche la conversazione che stiamo avendo potrebbe essere registrata da qualcuno: se ora dicessimo “bomba” e poi facessimo il nome di qualche onorevole, magari domani mattina ci verrebbe a cercare la polizia. Non lo dico per esagerazione, ma tutto sommato è vero che siamo già molto controllati. Non mi sento, insomma, in una società del tutto libera, democratica, molteplice, anche se in questo momento non ritengo affatto di essere in un regime dittatoriale. Ma il fatto che io non lo senta non significa che sia davvero cosi… Durante il lockdown si è tornati a parlare della didattica a distanza. Non sono stati pochi coloro che hanno invocato l’insegnamento da remoto come strumento destinato a prendere il posto delle lezioni in presenza... L’idea di una scuola che funzioni solo attraverso il computer mi scandalizza molto. A parte la differenza tra chi ha una casa con il computer e chi non ce l’ha - cosa fondamentale che bisognerebbe risolvere - e a parte la necessità di fornire tutte le famiglie di un collegamento a internet, io non sarei tanto contento di una scuola del genere. Preferirei tentare delle situazioni ragionevolmente controllate ma che prevedano il rapporto tra maestro e allievo. Ormai non faccio più lezione da molti anni, ma il contatto diretto con gli studenti, le domande, anche la direzione delle tesi di laurea non sono facilmente praticabili senza la presenza. Per cui inciterei i poteri a studiare delle soluzioni che salvino l’essenza della scuola in questo senso. Si è parlato molto anche del lavoro a distanza. L’ad di Twitter Jack Dorsey ha recentemente affermato che d’ora in avanti consentirà ai suoi dipendenti di lavorare indefinitamente da remoto. Se tutti lavorano al computer nella loro casetta è molto difficile costruire una coscienza di classe o dare vita a un sindacato, senza contare che ci sono un sacco di occupazioni che non è possibile svolgere a distanza. Una conversione verso il lavoro da remoto vorrebbe dire porre in essere un rapporto diretto con un padrone invisibile, ma tutt’altro che inesistente. Tutto ciò non mi piace umanamente, e nel comunismo ideale di cui sarei sostenitore insieme a Žižek non sarebbe adeguato. Nel “remote working” il potere pervasivo del lavoro si fa più forte… Certo, perché non ci sono orari. Il lavoro a distanza implica una maggiore disciplina del lavoratore, una minore possibilità di contatto col prossimo e forse la fine di ogni organizzazione sindacale, il che è pericoloso. E c’è il rischio di erodere ulteriormente il confine tra pubblico e privato... Saremmo tutti arruolati giorno e notte, e questo non mi piace. La società totalmente amministrata, come la chiamava Adorno, ha tante espressioni e una di queste potrebbe essere appunto la riduzione del lavoro a lavoro a distanza e a lavoro on demand: ti telefono e tu ti metti al computer. E poi c’è il tempo libero. Come diventa il tempo libero quando tutto è virtuale? Sembra che il tempo libero sia considerato sempre meno importante, che tutto debba essere mosso da fini utilitaristici… Il tempo libero è considerato funzionale a consumare tutto il necessario per far andare avanti la macchina. Non credo che nessuno voglia l’abolizione del tempo libero, bensì l’utilizzazione del tempo libero secondo degli schemi. La televisione è accettabile, ma per chi desidera suonare l’arpa tutto è già più complicato. Non è che il tempo libero sia uno scandalo per il mondo capitalistico, ma lo diventa se viene utilizzato troppo liberamente, se non lo si sottomette alle regole previste. Migranti. Ancora in calo nei Cpr: ora sono 178 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 giugno 2020 L’emergenza Covid-19, ha fatto scendere in maniera vertiginosa la presenza dei migranti presso i Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr). Un risultato importante che dovrebbe far riflettere sul fatto che alcune risposte emergenziali possono essere anche positive se volte alla difesa della dignità di chi è di fatto privato della libertà. Soprattutto se di fascia debole come i migranti che vengono trattenuti per poi essere espulsi. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dalla garante nazionale delle persone private della libertà, con la chiusura lunedì scorso del Centro di Potenza-Palazzo San Gervasio, per lavori di ristrutturazione, le presenze complessive di persone straniere trattenute a fini di rimpatrio nei Cpr italiani sono ulteriormente scese, arrivando a quota 178, a fronte delle 195 persone presenti il 22 maggio scorso e delle 425 presenti il 12 marzo. I Cpr attualmente operativi sul territorio nazionale sono, quindi, sei (Bari, Brindisi-Restinco, Roma- Ponte Galeria, Torino, Gradisca d’Isonzo e Macomer) con 525 posti disponibili di cui solo il 30% attualmente occupato. Oltre che a Palazzo San Gervasio, dai primi di maggio sono in corso lavori di ristrutturazione anche nel Cpr di Caltanissetta. Per quanto concerne i locali di quarantena e gli ambienti per l’isolamento sanitario, il Garante conferma che questi sono stati allestiti nella maggior parte dei Centri, ma non in tutti, e che vi sono persone in quarantena solo a Gradisca e a Roma, ma nessuna in isolamento. L’attenzione alla prevenzione tramite attività di sanificazione straordinaria e igienizzazione, la fornitura di dispositivi di protezione, il rafforzamento dei kit per l’igiene personale, la rilevazione della temperatura corporea, l’effettuazione di tamponi e la distribuzione di materiale informativo multilingue, sembra ormai essere entrata in maniera permanente nel modus operandi della maggior parte dei Centri. Per il Garante nazionale tale circostanza trova conferma nella bassissima diffusione del virus nei Centri stessi dall’inizio dell’emergenza sanitaria. “Come negli altri luoghi caratterizzati dalla chiusura e dalla convivenza in ambienti comuni dove si svolge l’intera giornata- spiega il Garante nazionale -, la presenza di un focolaio anche iniziale può produrre uno sviluppo incontrollato. Per questo è bene che le Autorità continuino con la stessa attenzione mostrata sinora, ben tenendo presente che l’andamento complessivo del virus non ha ancora raggiunto una fase di equilibrio stabile e può manifestare oscillazioni nei prossimi mesi”. Nel frattempo, presso il ministero dell’Interno, è in fase di stesura il nuovo Regolamento unico per i Cpr. Il Garante nazionale si dichiara disponibile ad arricchire il dibattito con tutti quegli elementi che, osservati nel corso delle ripetute visite, costituiscono la base delle proprie raccomandazioni per la costruzione di un sistema di regole che sappia tenere insieme l’attenzione alla sicurezza e quella altrettanto rilevante della scrupolosa tutela dei diritti delle persone ristrette. Due anni fa l’omicidio di Soumaila Sacko, il bracciante “invisibile”. “Oggi peggio di allora” di Alessia Candito La Repubblica, 3 giugno 2020 “Porteremo a Roma i nostri stivali infangati”, promettono i colleghi durante il ricordo nella piana di Gioia Tauro, dove il lavoratore sindacalista fu ucciso a colpi di fucile in una vecchia fabbrica abbandonata. Per la maggior parte dei braccianti le cose non sembrano destinate a cambiare neanche con la regolarizzazione prevista nel decreto Rilancio e che proprio in questi giorni diventa operativa. “Per la promessa che abbiamo fatto alla madre di Soumaila Sacko quando abbiamo riportato il suo corpo in Mali. Per il giuramento che abbiamo fatto di non abbandonare la lotta iniziata da suo figlio. Perché non accada ad altri quello che è successo a lui. Per Soumaila e tutti gli altri invisibili noi presto porteremo i nostri stivali a Roma, per far vedere al governo il fango della nostra miseria”. È con le ginocchia sporche della terra contaminata della fabbrica abbandonata di San Calogero, lì dove il bracciante e sindacalista Soumaila Sacko due anni fa è stato ucciso a colpi di fucile, che il dirigente dell’Usb Aboubakhar Soumahoro lancia la prossima mobilitazione contro i limiti del provvedimento di regolarizzazione inserito nel Decreto Rilancio. “Contrariamente ai medici che in questi mesi non hanno mai fatto distinzioni di sesso, razza o religione prima di curare qualcuno, il governo - tuona Soumahoro - ha scelto di negare agli invisibili delle campagne la possibilità di avere un documento, dunque una tessera sanitaria e un medico in periodo di pandemia”. E nel giorno della festa della Repubblica, il sindacalista ricorda che oggi, quello Stato che all’articolo 3 della sua Costituzione si impegna a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” sta fallendo. Perché gli invisibili ci sono ancora, i ghetti e le tendopoli senza acqua corrente anche, la Fornace dove Soumaila ha trovato la morte è ancora lì. Sequestrata, arrugginita, zeppa di veleni e abbandonata, ma ancora necessaria per chi non può sperare che in una baracca per trovare riparo la notte. Fofana, che il 2 giugno del 2018 era con Soumaila e lo ha visto volare giù dal tetto mentre il rosso del sangue gli invadeva il viso, si guarda attorno. Da allora, ha cambiato vita. Messo sotto protezione e allontanato dalla Piana dopo aver fornito tutti gli elementi necessari per arrivare all’assassino, adesso vive un’altra esistenza. Ha un lavoro regolare, una casa. Alla commemorazione di quell’omicidio si presenta in nero rigoroso, camicia inamidata e completamente abbottonata, nonostante il caldo quasi estivo. Cammina al fianco di Bakary, cugino di Soumaila e unico parente che abbia potuto partecipare alla commemorazione in tempi di Covid, e di Soumahoro, In tre portano fra rovi e sterpi un mazzo di fiori che poggiano lì, sotto lo scheletro della fabbrica dove il sindacalista è stato ucciso. Fofana ci prova a parlare, a ricordare quei momenti, ma la voce è rotta. I pensieri confusi inciampano nell’italiano. “Deve esserci giustizia per Soumaila” dice e ripete. Occhi asciutti, a stento. Solo dopo la commemorazione si ferma in cima alla scarpata che porta alla fabbrica, lontano da compagni, flash, gente. E piega la testa, quasi si accartoccia sul guard rail. Magari ricorda. Drame, l’altro bracciante lì con loro nel giorno dell’omicidio invece non ce l’ha fatta. Da tempo ormai si è allontanato dalla Calabria, dal ghetto, ha reciso tutti i contatti con chi condivideva la sua vita allora. “Non l’ha mai superata e si è sempre sentito in colpa” dice chi lo conosceva. Era stato lui a chiedere a Soumaila una mano per recuperare qualche pezzo di lamiera e costruire una nuova baracca nel ghetto. E lui, che sindacalista lo era prima per spirito che per tessera, sempre pronto ad aiutare tutti, non si era tirato indietro. Avevano approfittato di uno dei pochi giorni liberi dal lavoro nei campi e insieme si erano diretti alla “Fornace”. Doveva essere un lavoretto facile, al massimo di un paio d’ore. Poi sono arrivati gli spari, i colpi di fucile che hanno ucciso Soumaila, la paura, la corsa disperata per cercare aiuto, per tentare inutilmente di salvargli la vita. Il 2 giugno del 2018 è morto così Soumaila Sacko, mentre cercava qualche vecchio pezzo di lamiera in una vecchia fabbrica sequestrata e abbandonata per aiutare due connazionali a costruire una baracca. Ucciso da una fucilata, portato alla morte dalla marginalità sociale a cui sono condannati i braccianti. A sparargli Antonio Pontoriero, che di quella terra e quei rottami non era proprietario né custode, ma tale si sentiva e lo ha voluto provare a quei “niri” che considerava “invasori”. Con il suo fucile da caccia ha preso la mira e tirato quattro colpi. Due hanno colpito Soumaila alla testa, uno ha sfiorato uno dei sopravvissuti rimasto a vegliare il corpo senza vita dell’amico, mentre l’altro correva per chilometri per raggiungere la stazione dei carabinieri e denunciare l’accaduto. Una testimonianza tanto rara in terra di omertà, quanto preziosa perché subito ha messo gli investigatori sulla pista che nel giro di un mese ha portato all’arresto di Pontoriero, per quell’omicidio oggi a processo di fronte alla Corte d’Assise di Catanzaro. Ma nella Piana di Gioia Tauro, per i braccianti come Soumaila nulla è cambiato. Oggi come allora, sono costretti a trovare riparo in tende e baracche, dopo giornate a schiena curva nei campi. E le cose per la maggior parte di loro non sembrano destinate a cambiare neanche con la regolarizzazione prevista nel decreto Rilancio e che proprio in questi giorni diventa operativa. Un provvedimento contestato dall’Usb per le sue maglie troppo strette dunque destinato a tagliare fuori la maggior parte dei braccianti migranti. Soumaila era uno di loro, “uno dei tanti invisibili della filiera agricola che si spaccano la schiena dall’alba al tramonto per quattro spiccioli perché schiacciati dai giganti del cibo” dice Aboubakar Soumahoro. È stato lui a guidare la “marcia degli invisibili” che la scorsa settimana ha invaso le campagne del foggiano per mostrare chi davvero permette alla filiera agricola di funzionare. E nel giorno dell’anniversario dell’omicidio di Soumaila, ha deciso di essere in Calabria anche per testimoniare come nulla dal 2 giugno di due anni fa sia cambiato. “Anzi, nonostante le promesse arrivate da istituzioni locali e nazionali le cose sono peggiorate” spiega Ruggero Marra, dirigente territoriale dell’Usb. “Ai braccianti all’epoca confinati nel ghetto di San Ferdinando erano state promesse abitazioni degne, diritti, dignità, invece quella baraccopoli è stata distrutta senza prevedere alcuna soluzione alternativa se non nuove tende e la legge anti-caporalato ha cambiato poco o nulla la situazione di sfruttamento nei campi. Lo stesso farà questa presunta regolarizzazione”. a quando Soumaila ha pagato con la vita i due pezzi di lamiera necessari per costruire una baracca, il ghetto in cui viveva è stato sgomberato e distrutto per ordine dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ma solo per alcuni che ci abitavano è stato previsto un posto nell’ennesima tendopoli messa in piedi per risolvere “un’emergenza” - la presenza dei braccianti migranti che con il loro lavoro muovono l’economia della Piana - che dura uguale a sé stessa da dieci anni. Tutti gli altri hanno dovuto cercare soluzioni di fortuna nelle altre micro-baraccopoli della zona, come Testa dell’Acqua e Contrada Russo. Nel frattempo, nella Piana hanno sfilato esponenti della maggioranza giallo-verde come l’ex ministro dell’Interno Salvini e di quella giallo-rossa, come la ministra Bellanova. In visita si è presentato anche il presidente della Camera, Roberto Fico. Tutti hanno promesso soluzioni che mai sono arrivate. E anche nei mesi più duri del lockdown, i braccianti sono stati costretti a rimanere nei cosiddetti “insediamenti informali” senza acqua, né servizi. Quando le restrizioni anti-contagio hanno impedito ai più gli spostamenti non giustificati e a loro, senza uno straccio di contratto di lavorare, hanno potuto contare solo su sindacato e associazioni per cibo e beni di prima necessità. “Soumaila Sacko era un bracciante, un sindacalista - dice Soumahoro - costretto a vivere nelle baracche di lamiera della Piana di Gioia Tauro in Calabria perché non si poteva permettere un’abitazione decorosa alla luce del salario irrisorio che guadagnava”. E a due anni di distanza, la Piana di Gioia Tauro è ancora piena di Soumaila. Malati senza cannabis medica. E la salute? di Marco Perduca Il Manifesto, 3 giugno 2020 La fase 2 dell’emergenza sanitaria è stata lanciata affermando che i rischi sono stati calcolati. Speriamo. Quel che però non è stato ancora calcolato sono i danni. Oltre ai drammi e le tragedie di queste settimane, frutto dell’impreparazione a gestire un’epidemia, si aggiungono i malfunzionamenti strutturali di uno stato sociale spesso ancorato a ideologie e burocrazie d’altri tempi. L’altra parola d’ordine della propaganda istituzionale di questo avvio d’uscita dal confinamento è “semplificazione”. Vedremo. Secondo un’analisi di Marijuana Business Daily dell’aprile scorso, basata sugli ultimi dati pubblicati dal Ministero della Salute relativamente all’acquisto di cannabinoidi per fini medici, in Italia siamo passati dai 578 chili del 2018 agli 861 dell’anno scorso. Il maggior fornitore restano i Paesi Bassi grazie a un accordo di oltre 10 anni fa tra il Ministero della Salute italiano e il suo omologo olandese. Entrata a regime nel 2017, la produzione di infiorescenze presso lo Stabilimento Farmaceutico Militare di Firenze corrisponde sì e no a un sesto di quanto disponibile in Italia. Varie interrogazioni parlamentari hanno costretto gli ultimi due governi a dichiarare che il fabbisogno per il 2020 potrebbe superare “la soglia dei 1000 chilogrammi annui”. Per far fronte a questo aumento, già sotto la Ministra Grillo si era deciso di “avviare percorsi di collaborazione con aziende private con i requisiti [previsti dalla legge] per incrementare la coltivazione e la produzione farmaceutica di cannabis a uso medico”. L’ipotesi del governo Conte 1 era quella di individuare un partner privato a cui demandare parte della produzione. Esattamente un anno fa fu lanciata una gara d’appalto vinta dalla canadese Aurora, che produce in Germania, per un bando che riguardava tre lotti per un totale di 400 chili da garantire per i due anni successivi. Ben lontano quindi dal fabbisogno totale individuato dal Governo. Nel commentare quell’aggiudicazione, il sito Newsweed informava che grazie al prezzo di 1,73 euro al grammo Aurora aveva battuto Canopy Growth, Medicinal Organics, Cannabis Australia e Tilray. Nel 2018 Aurora aveva già vinto una gara per un totale di 100 chili a 3,20 euro al grammo. Il prezzo “calmierato”, come si usa dire oggi, fissato dal governo è di 10 euro al grammo al dettaglio Iva inclusa. A febbraio di quest’anno s’è scoperto che un parere, a quanto pare insindacabile, del Direttore dello Stabilimento Farmaceutico di Firenze “vista la sopravvenuta irrilevanza nel quadro del fabbisogno nazionale della tipologia “Cannabis ad alto contenuto di Cbd” aveva ritenuto non necessario l’approvvigionamento in questione. Altre interrogazioni al Ministero dell’Agricoltura hanno avuto risposte con l’indicazione di fabbisogni maggiori. Come previsto da queste colonne, siamo quindi di fronte a un aumento del 50% anno dopo anno della domanda di prodotti per piani terapeutici con cannabis, al permanere di un rapporto di favore con l’Olanda - che non partecipa a gare d’appalto - al fallimento del potenziamento dello Stabilimento di Firenze e, soprattutto, alla permanente, drammatica - e illegale - mancanza di prodotti a base di cannabis in buona parte d’Italia. Agli Stati Generali (online) della Cannabis del 20 aprile scorso decine di malati hanno lamentato l’impossibilità di poter rispettare il proprio piano terapeutico fatto di più grammi alla settimana. In tempi in cui la salute, e il ruolo dello Stato, son tornati a esser centrali nel dibattito istituzionale occorre acquistare subito tutta la cannabis mancante necessaria al godimento del diritto alla salute di migliaia di persone. Dopotutto niente sarà più come prima, no? Il 26 giugno si terrà una Assemblea on line per presentare il Libro Bianco sulle droghe e di dibattito sulla riforma della politica delle droghe in Italia e nel mondo. Forum Droghe ha un quarto di secolo, e lo dimostra tutto di Sergio Segio Il Manifesto, 3 giugno 2020 La memoria, specie di questi tempi in cui la verità pare divenuta un’opinione tra le tante, è strumento fondamentale. Si può anzi considerare tra le armi principali a disposizione per chi non si rassegni alla dittatura del presente, all’immodificabilità delle cose e a quel brusio di sottofondo che ha sostituito la comunicazione sociale e lo sguardo critico sulla realtà. La storia di Forum Droghe e di “Fuoriluogo” sono strettamente avvinte e interdipendenti, oltre che coeve. Cercandone traccia nelle agenzie dell’epoca, la prima menzione riguarda quest’ultimo e in particolare il suo debutto, annunciato il 12 ottobre 1995. “Un giornale per parlare di droga ma non solo, prostituzione, carceri e Aids, immigrati e giovani “disobbedienti”, riduzione del danno e della illegalità”, recitava la presentazione. Propositi ambiziosi, a tratti rispettati, ad allargare giustamente il discorso dal solo aspetto evidenziato dal nome scelto per l’associazione. Delimitante eppur centrale, poiché, allora come oggi, rimane indiscutibile - poiché dimostrato dai dati e dai fatti - quanto affermava il documento che annunciava l’assemblea fondativa di Forum Droghe il 13 maggio 1995: “La questione droga diventa cruciale per interpretare l’ipertrofia del sistema penale”. Si era infatti nell’onda (che continua, persino con peggioramenti, a tutt’oggi) della legge sulle droghe varata definitivamente nel 1990, cosiddetta Iervolino-Vassalli, sorta e voluta nel solco e a imitazione della statunitense war on drugs di reaganiana memoria e temporalmente di poco precedente, alla cui linea si adeguarono presto i grandi media italiani, con una campagna ossessiva a sostegno: Guerra mondiale alla droga, titolava in quei mesi il “Corriere della Sera”; Droga, nuovo Vietnam era l’allarme del quotidiano dei vescovi “Avvenire”, per indirizzare a sua volta le comunità terapeutiche, spesso gestite da sacerdoti o gruppi di ispirazione cattolica, che, per fortuna, in molti casi non si allinearono, divenendo invece l’anima di una coalizione dal programmatico nome di “Educare, non punire”. Fare terra bruciata - La filosofia della nuova legge-manifesto era esattamente opposta: prima e in ogni caso punire. Si fondava sulla dichiarata necessità - anzi sul valore - della punizione al fine “pedagogico” di “fare raggiungere il fondo” ai tossicodipendenti, per costringerli poi a risalire. Incurante del fatto che, invece e nel frattempo, molti morivano, costretti sui marciapiedi e nelle celle o infettati dall’AIDS e tutti erano costretti a nascondersi, sfuggendo quindi alle possibilità di aggancio terapeutico e alla prevenzione. Persino i medici venivano costretti alla denuncia, alla faccia del rapporto fiduciario con il paziente. “L’unico modo per costringere il tossico a smettere è fare terra bruciata intorno a lui. Ai drogati deve essere proibito qualunque tipo di attività lavorativa”, ammonivano e incitavano i capi delle comunità embedded. Gli effetti si videro subito e furono drammatici. Nel luglio 1991, nel giro di pochi giorni, tre persone arrestate per droga si suicidarono in carcere. Tra di esse Stefano Ghirelli: 18 anni appena compiuti, incensurato, condotto nel carcere di Ivrea poiché trovato con 25 grammi di hashish, si impiccò dopo il rifiuto del giudice di concedergli la libertà provvisoria per “pericolosità sociale”. Nelle prigioni cominciò presto una tendenza ipertrofica che da allora non si è più arrestata. Il 31 dicembre 1990 i tossicodipendenti ufficialmente presenti in carcere erano 7.299, sei mesi dopo erano già saliti a 9.623 per arrivare a ben 14.818 il 31 dicembre 1992. In crescita anche le morti: nel 1990, per la prima volta, il numero dei decessi per overdose superò le mille unità, arrivando a 1.161; l’anno seguente giunse a 1.383 e, nel 1992, a 1.217. Ancora più appariscenti le cifre degli ingressi totali annuali in carcere: dopo la Iervolino-Vassalli vedono un’impennata, passando dai 56.076 del 1990 ai 75.786 del 1991, ai 93.328 del 1992, ai 98.119 del 1993, per poi scendere leggermente, anche grazie alla vittoria del referendum abrogativo nel 1993 di alcune parti di quella micidiale legge, agli 88.415 del 1995. In quell’anno, dopo un decremento nel 1993 e 1994, i decessi per droghe sono risaliti ai 1.195, per arrivare l’anno seguente al picco storico dei 1.566. La progressiva deriva securitaria della sinistra - Insomma, quello era il quadro precedente e motivante la nascita di Forum Droghe/Fuoriluogo. Così come l’associazione nasceva con lo scopo di essere luogo ospitale e aggregatore rispetto a realtà politico-organizzative già esistenti, così la testata intendeva programmaticamente indagare e approfondire i nessi, purtroppo non a tutti evidenti, tra differenti aspetti e problematiche del sociale (e del penale). Lavorando su binari paralleli, e spesso divaricantisi, nel tentativo di renderli invece maggiormente comunicativi, dialoganti e sinergici: quello dei movimenti e quello dei partiti della sinistra, allora ancora presente, anche in modo numericamente significativo, entro il parlamento, le istituzioni e per qualche periodo persino al governo. Meglio precisare: senza alcuno sconto o compiacenze non meritate. Basti qui citare un testo tra i mille possibili. Riguarda un tema in apparenza eccentrico rispetto alla dichiarata ragione sociale di Forum Droghe, forse rimasto troppo trascurato nella ormai lunga storia dell’associazione, quello dell’immigrazione. Scriveva “Maramaldo” nella sua rubrica Facce di bronzo: “È davvero singolare che il vice presidente Fini si congratuli con Cofferati per la sua fermezza sulla legalità, dimenticando che le norme severe sul contrasto dell’immigrazione clandestina le ha introdotte il centrosinistra”. Così Livia Turco rivendica il primato della tolleranza zero verso l’immigrazione. A differenza di Cofferati, rigorista tutto l’anno, a giorni alterni Turco professa invece la vocazione solidale: questo era un giorno dispari. Speriamo che il programma di governo del centrosinistra si faccia in un giorno pari”. Pur non essendo ancora i tempi dei Minniti, è ben vero che la questione dei migranti - di nuovo: allora come adesso - risultava tra le più spinose e laceranti anche all’interno del centrosinistra. Più suscettibile di consensi, anche trasversali, era senz’altro la proposta di legalizzazione della cannabis. Oggi può sembrare incredibile, ma una proposta legislativa in tal senso, con primo firmatario Franco Corleone, nel 1996 arrivò a essere sottoscritta da ben 118 deputati, di maggioranza e di opposizione, dai Michele Salvati e Fabio Mussi ai Vittorio Sgarbi e Roberto Maroni. Si era a cavallo del governo Dini, con alla guida del ministero della Famiglia e Solidarietà sociale un galantuomo, ex partigiano, come Adriano Ossicini, cui subentrarono rispettivamente Romano Prodi e, appunto, Livia Turco, mentre Corleone entrava come sottosegretario alla Giustizia. Seguì, a ottobre 1998, il primo governo D’Alema, con Sergio Mattarella alla vicepresidenza e Oliviero Diliberto alla Giustizia, mentre la Rosa Russo Iervolino della legge sulla droga assumeva il dicastero dell’Interno, prima donna arrivata a guidare il Viminale; la Turco veniva confermata alla Solidarietà sociale, così come Corleone sottosegretario a via Arenula. Per la prima volta arrivò al governo anche Domenico Minniti detto Marco, con la delega all’Informazione ed editoria. A posteriori, un piccolo indizio che qualcosa stava forse cambiando e che la sinistra securitaria aveva silenziosamente conquistato parecchie posizioni in poco tempo. Nelle aule parlamentari ma anche nel sociale, nelle stesse associazioni, in un progressivo slittamento di baricentro, di priorità, di riferimenti politici e culturali. E proprio questo è il tema di una lettera che il Forum scrisse al nuovo premier D’Alema all’indomani del suo insediamento, chiedendo in generale nuove politiche sulle droghe e anche sperimentazione dei trattamenti terapeutici con eroina sul modello di quanto avveniva in altri paesi europei, a cominciare dalla Svizzera con la sua strategia dei quattro pilastri. Le città, anche quelle italiane, potevano e dovevano cioè diventare territori di innovazione e integrazione, anziché ripiegarsi in scelte securitarie e di “tolleranza zero”, come in molti casi stava avvenendo. Non c’è qui modo di ripercorrere tappa per tappa, ma la storia ci racconta che, non solo in Italia, lo Stato penale ha travolto e svuotato quello sociale su tutti i piani e terreni sino ad arrivare al populismo e all’ipertrofia carceraria dei tempi nostri, alla legalità divenuta totem e feticcio, a un’antimafia divenuta in certe sue parti cavallo di troia del sostanzialismo giuridico e della pena ritorsiva. Fuoriluogo, come sempre - Ce le hanno dunque suonate, ma noi non ci siamo mai stancati almeno di dirgliele, con coerenza, costanza e determinazione lungo un faticoso ma anche a tratti entusiasmante quarto di secolo. Basti ricordare che, proprio in quegli anni, nell’aprile 1998, si arrivò al voto positivo per abrogare l’ergastolo al Senato, salvo poi bloccare la legge alla Camera. L’allora Guardasigilli Giovanni Maria Flick si dissociò da quel voto, salvo poi giungere oggi ad ammettere con sincerità di avere sbagliato nell’opinione di allora e pervenendo anzi, in generale, ad auspicare il superamento del carcere in quanto tale. Per un soffio mancammo l’abrogazione della pena perpetua. C’è da non crederci, nel momento in cui, nei giorni più acuti della pandemia del coronavirus e del rischio di trasformare le carceri in un esplosivo lazzaretto, una nuova classe politica e improbabili ministri di Giustizia sono arrivati a bloccare con decreto-legge la scarcerazione di qualche condannato per criminalità organizzata, pur se anziano, malato e a fine pena. Naturalmente, in ciò acclamati all’unisono da quasi tutti i media. E anche questo è cupo segno dei tempi, appena rischiarati da un altro fatto che ha dell’incredibile, vale a dire la permanenza e resistenza di quella fragile testata che è “Fuoriluogo”, piccola mosca bianca assediata dai cantori e fautori del populismo penale. Lasciatemi concludere con un pertinente esercizio di memoria, pur se autoriferito. Alzi la mano chi se lo ricorda: “Fuoriluogo” cominciò le pubblicazioni, con il mio coordinamento, in forma cartacea e di supplemento a “Narcomafie”, la prima rivista antimafia (categoria allora meno equivoca dell’attuale) di cui, da poco ammesso a uscire durante il giorno dal carcere, mi occupavo per il Gruppo Abele. Con forte scandalo in prima pagina del Travaglio, che cominciava la sua fortunata carriera ne “Il Giornale”, e con concrete reprimende da parte del presidente del tribunale di sorveglianza, che intentò la revoca del lavoro all’esterno del penitenziario e infine sentenziò non dovessi più scrivere, convenendo con l’esposto pervenutogli dall’associazione vittime del terrorismo: “Anziché restare in silenzio e godere della benevolenza loro concessa attraverso le garantiste leggi penitenziali, “sputano” nel piatto dove mangiano e finiscono per riaprire le “ferite” dei parenti delle vittime. È pure biasimevole che il Sergio Segio (privato dei diritti politici) sia stato nominato coordinatore del giornale Marcomafie [sic!] edito dal Gruppo Abele su proposta di don Ciotti. Su tale giornale scrivono sia Sergio Segio che Susanna Ronconi. Il contenuto è prevalentemente di scelta politica e dubito che possa diffondere scelte errate e forse nocive”. Tiravamo ventimila copie. Ben più del quotidiano che, qualche anno dopo, subentrò nel “cangurarci”. Evidentemente ciò poteva preoccupare, e lo faceva. Molto tempo è passato e molte cose sono cambiate. Quasi sempre non per il meglio. Abbiamo perso qualche compagno di viaggio e altri ne abbiamo trovati in questo cammino, che resta ancora lungo e impervio. Dissolvenza a nero sugli Usa e il suo presidente da fiction di Luca Celada Il Manifesto, 3 giugno 2020 Bibbia alla mano, Trump si dichiara “presidente di ordine e legge” contro la “feccia”. Nel settimo giorno della protesta, il presidente latitante degli Stati uniti in fiamme ha coreografato una bizzarra ricomparsa, dando vita alla più singolare diretta televisiva dai tempi dell’11 settembre. Dopo aver rifiutato per giorni di parlare alla nazione, lunedì pomeriggio Trump indice d’improvviso via Twitter - il canale preferenziale che di recente ha preso a segnalare i suoi messaggi come inattendibili - “un annuncio” imminente. “Fra dieci minuti parlo nel Rose Garden”, scrive, convocando in tutta fretta il press pool nel giardino all’esterno dello studio ovale spesso usato per le conferenze stampa all’aperto. Da tre giorni il presidentissimo è rinchiuso nel palazzo cinto di manifestanti, in almeno un paio di occasioni è stato condotto nel bunker di sicurezza dal secret service coi nervi a fior di pelle. Durante gli scontri di lunedì è stata perfino incendiata la garitta della residenza dell’uomo più potente del mondo. Sui canali news che Trump notoriamente divora, rimbalzano valutazioni non proprio lusinghiere: il lockdown smonta l’immagine spavalda che Trump si cura di proiettare nei suoi comizi. L’annuncio è fissato per le sei e mezza, mancano pochi minuti ma nel giardino fiorito dove è stato sistemato il podio ed i giornalisti distanziati, echeggiano gli slogan scanditi dalla folla che per il terzo giorno consecutivo ha cinto d’assedio la Casa bianca, assembrata rumorosamente ma pacificamente dietro le transenne di Lafayette park. D’improvviso come per un ordine perentorio ricevuto, le falangi di una mezza dozzina di agenzie di polizia federale muovono violentemente sulla folla, spintonano con gli scudi e manganelli sfoderati. Partono le salve di lacrimogeni e proiettili seguiti dalla linea dei park police a cavallo. Sotto i colpi degli agenti finiscono ragazzi, bianchi, neri e giornalisti (questi ultimi bersaglio sempre più frequente ed intenzionale della polizia in molte città). È il caos, una sommossa di polizia, ma entro dieci minuti la spianata immersa nei lacrimogeni è svuotata, nel Rose Garden il volume è accettabile, a parte i periodici botti delle granate stordenti in lontananza. Sistemati i dintorni, Trump sale su podio. “Sono il presidente dell’ordine e della legge” dice, adesso ci penso io. “Le proteste adesso finiranno. Ho mobilitato migliaia di soldati e invocato l’Insurrection act del 1807, adesso vediamo chi vince”. Ribadisce l’accusa lanciata il giorno prima ai governatori inefficaci e alle autorità (democratiche) delle grandi città. “Se gli stati e le città si rifiutano di prendere le misure necessarie per difendere la vita e la proprietà dei loro cittadini, allora invierò l’esercito a risolvere velocemente il problema”. Sembra una dichiarazione di guerra. Ai giornalisti sbigottiti infine annuncia: “ora vado a porgere i rispetti ad un luogo molto speciale” Inizia così una passeggiata dimostrativa dalla Casa bianca all’adiacente chiesetta di St.John, una sorta di cappella presidenziale da sempre frequentata dai leader americani. Stavolta il presidente vi si reca a piedi, attento a non inciampare sui detriti della battaglia campale appena terminata e circondato da un coro di sicurezza di agenti della protezione, militari, forze speciali e cecchini che hanno l’effetto di farlo sembrare ancora più solo e vulnerabile, la versione reality-TV di un tiranno. Una passeggiata “corazzata” mentre pochi isolati più là la polizia bastona ancora la gente. Arrivato a destinazione Trump prende in mano una bibbia e la mostra tronfio alle telecamere come fosse un’arma impropria, prima di rincasare con tutto il corteo. Dissolvenza a nero sugli Usa e il suo presidente da fiction. La prima reazione è quella della reverendo Mariann Budd, vescovo episcopaliano che si dice “indignata” di non aver ricevuto nemmeno un preavviso della visita alla chiesa di cui è “titolare” nonché della sostanza del messaggio inviato dal presidente. “Tutto ciò che ha fatto è stato per infiammare la violenza. Invece di essere guida morale del paese continua a dividerci”. La sceneggiata, con previa dispersione di una manifestazione pacifica viene criticata come rappresentazione plastica dell’abuso di potere. “Trump ha attaccato un assembramento pacifico per fare una photo-op” è il giudizio terso di Kamala Harris. Il siparietto tragicomico non cambia sostanzialmente l’America vera, quella in cui il sopruso razziale si è saldato con la pandemia ed il disastro economico nel crepuscolo liberista. “Come se la Spagnola del 1918, il crack del 1929 e le rivolte del 1968 stessero accadendo tutti assieme”, ha efficacemente sintetizzato il senatore Coons del Delaware. E come se su questo drammatico scenario presiedesse il leader più squilibrato dell’esperimento americano. Nel vuoto si è inserito ieri Joe Biden, recatosi a Philadelphia per fare quello che da giorni molti reclamavano: offrire una alternativa chiara allo sfacelo trumpista. “Il paese è disperato per vera leadership”, ha esordito l’ex vicepresidente-candidato. “Trump (lo) ha trasformato in un campo di battaglia dilaniato da vecchi rancori e nuove paure. È davvero questo che vogliamo tramettere ai nostri figli e ai nostri nipoti? Siamo una nazione addolorata. Non dobbiamo lasciare che il dolore ci distrugga. Siamo un paese infuriato ma non possiamo lasciare che la rabbia ci consumi”. Per una volta la retorica infervorata è parsa commisurata alla gravità della scelta elettorale che si profila sempre più cruciale. In Brasile a contare sono le Vidas Negras di Claudia Fanti Il Manifesto, 3 giugno 2020 Strage di giovani neri. Favelas sull’orlo della rivolta dopo l’ennesimo ragazzino ucciso dalla polizia. 65 i morti negli ultimi due mesi. A Rio la protesta pacifica viene repressa duramente dalla polizia militare. Dagli Stati uniti al Brasile, il grido è lo stesso: Black Lives Matter, Vidas Negras Importam. E se nel colosso latinoamericano non è ancora esplosa una rivolta come quella che sta infiammando gli Usa, non mancano però le proteste contro la politica di sterminio della popolazione nera nelle favelas. A scatenarle, in Brasile, è stato l’assassinio del 14enne João Pedro Mattos durante un’operazione di polizia avvenuta il 18 maggio nel Morro do Salgueiro, Rio de Janeiro, quando alcuni agenti hanno fatto irruzione nella casa degli zii in cui il giovane stava giocando, sparando e lanciando granate. Ma João Pedro, il ragazzo che sognava di fare l’avvocato, è solo l’ultimo di un lungo elenco di minorenni uccisi in brutali interventi di sicurezza pubblica nelle favelas di Rio, come Ágatha Felix, la bambina di 8 anni dal volto radioso morta durante una sparatoria lo scorso settembre, o, ancora prima, Jenifer Cilene Gomes, 11 anni, raggiunta da un colpo di arma da fuoco mentre sbucciava cipolle sulla porta del bar di famiglia, o Kauã Rozário, 11 anni anche lui, ucciso mentre se ne andava in giro in bici. E tanti altri giovani neri, di cui non si conosce neppure il nome, assassinati al ritmo di uno ogni 23 minuti, nell’indifferenza generale, “come se nulla stesse avvenendo”, secondo le parole di Ana Paula Oliveira, madre di un ragazzo ucciso nel 2014. È stato per tutti e tutte loro che domenica - mentre gruppi antifascisti contendevano per la prima volta gli spazi di diverse città ai simboli neonazisti dei sostenitori di Bolsonaro - si è svolta di fronte al Palazzo Guanabara, sede del governo dello stato di Rio de Janeiro, la protesta contro le violente operazioni di polizia legate a un schema repressivo che identifica gli abitanti delle favelas come il nuovo nemico interno da annientare. Operazioni che, durante la pandemia, si sono addirittura intensificate, spesso interrompendo le attività realizzate dai leader comunitari a favore della popolazione, come la distribuzione di cibo e di prodotti di igiene. Solo negli ultimi due mesi la polizia di Rio, seguendo alla lettera la celebre esortazione del governatore Wilson Witzel - “mirare alla testa e… fuoco!” per “evitare errori” - ha ucciso 65 persone, 30 ad aprile e 35 a maggio, rispettivamente il 58% e il 17% in più rispetto agli stessi mesi del 2019, l’anno record per gli omicidi da parte di agenti dello stato: 1.810, il 75% dei quali relativi a giovani neri tra i 15 e i 29 anni. Una manifestazione del tutto pacifica quella che, nel rispetto delle misure di distanziamento sociale, si è svolta domenica con lo slogan “Le vite dei neri contano”, eppure inspiegabilmente repressa da agenti della polizia militare, i quali sono arrivati persino a puntare un’arma contro la testa di un manifestante, il 27enne nero Jorge Hudson da Silva. “Ho pensato che mi avrebbero sparato”, ha riferito il giovane quando ha visto il fucile puntato contro di lui: “La polizia è arrivata con la stessa brutalità con cui opera sempre nelle favelas. La differenza è che stavolta tutto è avvenuto in pieno giorno, di fronte a tutti”. Ma la violenza della polizia è solo un aspetto dell’apartheid non ufficiale che si vive nel paese. Non è un caso che la prima vittima brasiliana del Covid-19 sia stata un’impiegata domestica nera, Dona Cleonice, contagiata dalla sua datrice di lavoro che, tornata da una vacanza in Italia, non l’aveva neppure avvisata di avere i sintomi del coronavirus. Iran. Il prezzo più alto di Shirin Ebadi Vanity Fair, 3 giugno 2020 Solo se la perdi, sai che cos’è: un premio Nobel per la Pace, costretta a vivere fuori dal suo Paese, l’Iran, racconta la sostanza della libertà. Un valore per cui c’è chi sceglie di lottare, e chi resta a guardare. Ora so che cosa vuol dire perdere la libertà. L’ho provato, sono nata e ho vissuto in Iran, un Paese dove c’è un sistema religioso dittatoriale. Ho perso la libertà di poter professare il mio lavoro: ero un giudice e non potevo esercitare perché sono una donna. Ho perso la libertà materiale, perché ho difeso gli studenti che erano stati attaccati dalla polizia e sono stata arrestata. Ho perso la libertà di espressione perché non ho avuto il permesso di pubblicare alcuni miei libri. Ho perso anche la libertà personale: la legge iraniana impone alle donne di indossare il velo e io, che pur sono musulmana, quel velo non volevo indossarlo. La libertà e la democrazia hanno il loro prezzo, poi ognuno decide quanto è disposto a pagare: dipende dall’importanza che ogni persona dà a quei valori. Io, pur di essere libera e pur di avvicinarmi alla democrazia, sono stata disposta a perdere tutti i miei averi, il mio lavoro, sono stata costretta ad allontanarmi anche dalla mia famiglia. Io ho due figlie ormai adulte e, con mio marito, le abbiamo sempre lasciate autonome nelle loro scelte di vita: hanno scelto da sole che cosa studiare, che cosa fare, dove vivere. Hanno scelto i loro mariti senza chiedere il parere di nessuno. Sono cresciute vedendomi difendere i diritti per la libertà e ho sempre insegnato loro che niente, né i soldi né le questioni sentimentali, possono intralciare le loro scelte. È importante capire e conoscere la libertà: vedo che alcune persone, che libere non sono, non si lamentano neppure della propria condizione, perché non immaginano nemmeno che cosa voglia dire essere liberi. Durante un viaggio nel Golfo Persico, ho incontrato un uomo, pure istruito, un professore delle scuole superiori, e gli ho chiesto che cosa pensava del fatto che nel suo Paese non ci fosse un parlamento, che non ci fosse la democrazia, gli ho chiesto se non gli sembrasse strano che la gente sopportasse tutto questo, senza nemmeno protestare. Lui mi ha guardato, anche un po’ stupito, e con tutta tranquillità mi ha detto: “Noi siamo abbastanza ricchi e non abbiamo bisogno della democrazia”. Per lui la democrazia era in un certo senso paragonabile alla ricchezza, era sinonimo dell’avere soldi e non si poneva assolutamente il problema di una libertà politica. La democrazia è cultura e deve essere insegnata fin dall’infanzia. Io ho studiato per diventare giudice e l’essere liberi è una condizione fondamentale per chi fa il mio mestiere: un giudice non deve aver paura di nessuno ed è importante che guadagni abbastanza per riuscire a essere libero anche da un punto di vista economico, così che non cada in tentazione qualora gli dovessero offrire dei soldi, per Una vita per gli altri - Shirin Ebadi (1947), prima donna giudice dell’Iran, è stata insignita del premio Nobel per la Pace nel 2003 per i suoi sforzi pionieristici nel promuovere i diritti di donne, bambini e prigionieri politici nel suo Paese. Dopo la Rivoluzione del 1979, ha istituito una pratica legale pro bono e ha fondato il Centro per i difensori dei diritti umani per combattere le ingiustizie nel sistema legale. Tra i suoi molti libri, Il mio Iran. Una vita di rivoluzione e speranza (2006, Sperling & Kupfer), La gabbia d’oro (2009, Bur) e Finché non saremo liberi (2016, Bompiani). corrompere le sue scelte. Io purtroppo quel mestiere non l’ho potuto fare nel mio Paese e me ne sono dovuta andare: se fossi rimasta lì mi avrebbero arrestata di nuovo. Non che la cosa mi spaventasse più di tanto, in fondo l’avevo già provato, ma in carcere non avrei potuto aiutare i miei connazionali come invece riesco a fare da fuori: per poter essere il loro megafono dovevo andarmene. Il mio cuore e la mia anima sono però ancora là e tutto quello che faccio è per aiutare il mio Iran, per cui, con la Onlus che ho fondato, il “Centro per i difensori dei diritti umani”, mi batto quotidianamente perché i miei concittadini ottengano il prima possibile la libertà politica sociale e personale che a oggi manca. L’esperienza di 41 anni di regime di Repubblica islamica ci fa vedere tutti i disastrosi limiti di un regime ideologico, che porta a crudeli atrocità. Egitto. Amnesty denuncia: “Casi di Covid nella prigione dove è detenuto Patrick Zaky” di Simone Pierini La Repubblica, 3 giugno 2020 Patrick Zaky, casi di Covid nella prigione dove è detenuto in Egitto: l’allarme di Amnesty Italia. Casi di Covid-19 nella prigione dove è detenuto Patrick George Zaky, lo studente egiziano dell’Università di Bologna in carcere di Tora al Cairo, recluso con l’accusa con l’accusa di propaganda sovversiva. “Nonostante le smentite ufficiali, i gruppi egiziani per i diritti umani denunciano la diffusione del Covid-19 nella prigione di Tora”, scrive su Twitter Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Intanto - aggiunge - per l’Eid sono stati scarcerati 3000 detenuti tra cui ladri e almeno un assassino ma non Patrick Zaky e gli altri”. “Si moltiplicano le voci secondo le quali in almeno due di quattro sezioni della prigione di Tora ci sono stati casi di contagio da Covid-19”, aggiunge all’Ansa Noury. “Le autorità negano che un dipendente di Tora sia morto per aver preso il Covid all’interno del carcere. Dicono che lo ha preso in un ospedale dove è ricoverato per questioni mediche non correlate, però la sensazione, al contrario, dei gruppi per i diritti umani è che questo impiegato il Covid lo abbia preso all’interno di Tora e quindi abbia possibilmente contagiato altri”. “Questo - sottolinea - non fa altro che sostenere la richiesta immediata di attivazione della Farnesina tramite l’ambasciatore italiano al Cairo di una rapidissima scarcerazione per motivi umanitari di Patrick Zaky che, come è noto, è soggetto particolarmente a rischio” perché asmatico. “Se è vero che dentro Tora c’è il Covid non deve passare un attimo di più e deve essere rilasciato immediatamente”, conclude.