Amnistia e indulto, una proposta per rinnovare l’articolo 79 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 giugno 2020 Da 30 anni non è stata concessa nessuna amnistia nonostante servisse per ripristinare la legalità. Tranne la parentesi dell’indulto del 2006, se fino agli anni novanta sono stati frequenti i provvedimenti di amnistia e indulto, dal 1992 ad oggi si sono bruscamente interrotti. Nel frattempo però è aumentata la bulimia carcerocentrica e l’uso populistico della giustizia penale alimentata con i vari pacchetti sicurezza, l’introduzione di nuovi reati, gli inasprimenti della pena e le recenti riforme dettate dalla volontà popolare fuorviata da varie propagande giornalistiche. Sono questi e tanti altri fattori annessi che hanno ingolfato le procure, tanto che - gli stessi magistrati - di fatto si trovano a valutare chi perseguire e chi no. L’amnistia, tra l’altro, non è stata nemmeno concessa nonostante la sentenza della Corte Costituzionale del 2014 sulla legge delle droghe, che ha reso illegittime migliaia di condanne erogate sulla base delle norme abrogate. Sì, perché l’amnistia serve anche per ripristinare la legalità. Ma se l’amnistia e l’indulto non vengono concesse, il motivo è da ritrovarsi alla revisione dell’articolo 79 della Costituzione approvata nel 1992, anno ben preciso quando sono scoppiate le bombe a Capaci e Via D’Amelio e la “bomba” di tangentopoli. Tale revisione ha previsto un quorum deliberativo elevatissimo, ovvero la maggioranza dei 2/ 3 dei componenti di ciascuna Camera, articolo per articolo e nella votazione finale. Questo è il principale motivo dell’astinenza da provvedimenti di clemenza. Nel 2018 questo tema è stato affrontato durante un seminario promosso da “La Società della Ragione”, una delle realtà associative impegnate nella riflessione culturale e nell’azione politica riformatrice in materia di giustizia, diritti, pene. Da qui è scaturito il libro “Costituzione e clemenza. Per un rinnovato statuto di amnistia e indulto” curato dai professori Andrea Pugiotto, Stefano Anastasia e Franco Corleone. Questo volume si è posto l’obiettivo di restituire agibilità, politica e giuridica, agli strumenti di clemenza collettiva coerentemente con il disegno costituzionale del diritto punitivo. Qui si sono confrontati costituzionalisti, penalisti, studiosi del processo penale, magistrati e avvocati. L’appendice del volume contiene il testo di un disegno di revisione costituzionale che disciplina gli istituti dell’amnistia e dell’indulto, facendoli rientrare in un recinto ben preciso: il divieto di pene inumane e il loro finalismo rieducativo. Utopia? Forse no, visto che tale proposta è stata recentemente raccolta trasversalmente dai deputati Riccardo Magi (+ Europa), Enza Bruno Bossio (Partito Democratico), Roberto Giachetti e Gennaro Migliore (entrambi di Italia Viva). Hanno depositato la proposta di legge costituzionale n. 2456 che già da un mese risulta assegnata alla I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati. La proposta di legge prefigura un’inedita architettura degli istituti di amnistia e indulto, ripensati nei presupposti, nella procedura, nei controlli di legalità, e orientati al disegno costituzionale del finalismo penale. Vale la pena riportare un passaggio interessante della proposta di legge che cristallizza il fulcro del problema. I deputati sottolineano il fatto che, contrariamente alle previsioni, con il congelamento degli istituti di clemenza collettiva sono crollate anche le grazie individuali, anche a causa dei vincoli stabiliti dalla sentenza n. 200 del 2006 della Corte costituzionale che, nel momento in cui riconosceva al Capo dello Stato la titolarità effettiva del potere di grazia, lo limitava a “eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria”, fino a rendere anch’essa “una improbabile meteora nella realtà della giustizia e dell’esecuzione penale in Italia”. I deputati osservano che la sparizione della clemenza ha dunque causato un problema di equilibrio nel sistema. “La questione degli abusi passati è certamente un problema ed è auspicabile che non si ripetano”, chiariscono i deputati, ma “se tutti i sistemi di giustizia ammettono l’esistenza di poteri (inevitabilmente politici) di clemenza, una ragione ci sarà ed è davvero troppo facile riferirla esclusivamente alla tradizione arbitraria del principio di sovranità pre-democratico”. Ma ciò che si sottolinea con forza è “che in qualsiasi sistema giudiziario il principio di clemenza costituisce l’elemento destinato a bilanciare gli eccessi possibili del principio di legalità penale”. La onlus “La società della Ragione” ha deciso di sostenerne il cammino parlamentare di questa proposta di legge costituzionale. Per questo ha indetto una riunione venerdì prossimo con l’intento di promuovere un seminario quest’estate coinvolgendo parlamentari, rappresentanti della magistratura e dell’avvocatura associata, giornalisti, rappresentanti di realtà associative impegnate nel campo dei diritti umani e della giustizia. Il bando per 95 educatori a tempo indeterminato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 giugno 2020 La domanda va presentata entro il 29 giugno 2020. Novantacinque nuovi educatori a tempo indeterminato per gli istituti di pena. È quanto prevede il bando di concorso indetto dal Dap (Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria) per incrementare la presenza di professionisti di area giuridico- pedagogica nelle carceri per adulti. “Da oltre dieci anni non veniva indetto un concorso per questa figura professionale, che riveste un ruolo chiave nel processo rieducativo delle persone detenute”, dice Vittorio Ferraresi, Sottosegretario alla Giustizia. “Questo bando rappresenta un significativo segnale d’investimento di risorse umane sul versante del trattamento e di fatto ci consente di ripianare quasi tutto l’attuale deficit di organico”. Le domande di partecipazione devono essere inviate esclusivamente attraverso la piattaforma online gestita dalla Direzione Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati e il termine di presentazione scade il 29 giugno 2020. Entrando nel dettaglio la domanda di partecipazione al concorso deve essere redatta ed inviata esclusivamente con modalità telematiche, compilando l’apposito modulo (Form) entro il termine perentorio di 30 giorni decorrenti dal giorno successivo a quello della pubblicazione del presente bando nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica – IV Serie Speciale, “Concorsi ed Esami”. La Commissione esaminatrice, alla prima riunione, stabilisce i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali da formalizzare nei relativi verbali, al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove. Essa, immediatamente prima dell’inizio di ciascuna prova orale, determina i quesiti da porre ai singoli candidati per ciascuna delle materie di esame. Tali quesiti sono proposti a ciascun candidato previa estrazione a sorte. Le prove scritte verteranno sull’ordinamento penitenziario con particolare riferimento alla organizzazione degli istituti e dei servizi penitenziari, pedagogia con particolare riferimento agli interventi relativi all’osservazione e al trattamento dei detenuti e degli internati. Saranno ammessi alla prova orale i candidati che avranno riportato il punteggio di almeno 21/ 30 in ciascuna delle prove scritte. La prova orale verterà sulle materie oggetto delle prove scritte e inoltre sugli elementi di diritto costituzionale e amministrativo con particolare riferimento al rapporto di pubblico impiego, elementi di psicologia e sociologia del disadattamento, elementi di criminologia e scienza dell’organizzazione. Il piano di Bonafede: per riformare il Csm si deve partire dai laici di Giulia Merlo Il Dubbio, 2 giugno 2020 L’ipotesi: Rendere Ineleggibili I Parlamentari. Il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ostenta sicurezza sulla riforma del Csm: “Tra una cosa e l’altra servirà circa un anno, ma le regole sull’elezione saranno subito in vigore” e comunque la quadra in maggioranza sarebbe a un passo. Se sulle principali questioni - nuovo regolamento elettorale, divisione tra chi si occupa del disciplinare e chi delle nomine, blocco alle “porte girevoli” tra politica e magistratura - la convergenza è effettivamente stata trovata, il diavolo come sempre si nasconde nei dettagli. In particolare, nei parametri per la nomina dei nove componenti laici del Csm, tra i quali si elegge il vicepresidente. Nella bozza di riforma licenziata dall’ultimo tavolo di confronto di maggioranza non ve n’è traccia, ma i primi testi contenevano la previsione che i laici di Palazzo dei Marescialli non potessero essere nominati né tra i parlamentari né tra i membri del governo. Tradotto, una sorta di sfiducia ex post ai due ultimi vicepresidenti, David Ermini e Giovanni Legnini. La norma è stata espunta solo dopo l’ultima riunione, finita con un secco 3 a 1 contro i grillini, ma il ministro (e anche la presidente della commissione Giustizia alla Camera, Francesca Businarolo) ha fatto capire di non aver affatto archiviato la questione e di essere pronto a ritornare sul punto, magari in Parlamento. Che l’impuntatura dei 5 Stelle suoni quantomeno singolare, è facile intuirlo. Il paradosso, infatti, sta nel fatto che il cosiddetto caos Procure con la conseguente crisi di credibilità del Csm è maturato tutto all’interno della componente togata di Palazzo dei Marescialli. Come ha ripetuto anche il ministro, ad essere sotto processo sono “le degenerazioni del correntismo”, dunque le correnti politiche della magistratura di cui uno dei perni nel “mercato delle nomine” era Luca Palamara. La componente laica, invece, è rimasta di fatto spettatrice della vicenda esplosa sulla stampa con la pubblicazione delle chat dell’ex presidente dell’Anm. Che ragione avrebbero, dunque, i 5 Stelle per voler modificare i parametri di elezione proprio della minoranza “politica” all’interno del Csm? La domanda è sorta anche al tavolo di confronto di maggioranza, dove Pd, Italia Viva e Leu si sono trovati sullo stesso fronte di opposizione all’iniziativa del ministro. Anche perché, è stato rilevato, i requisiti elettorali dei membri laici sono disciplinati in modo espresso dalla Costituzione all’articolo 104, che prevede che il Parlamento in seduta comune possa eleggere solo chi possiede la qualifica di professore ordinario di università in materie giuridiche oppure avvocati con quindici anni di esercizio della professione. Inoltre, poiché la nomina dei laici è prerogativa del Parlamento e dunque è di fatto una nomina politica prevista come tale dalla Carta, non si intuisce la ratio di una previsione - per di più di rango ordinario - che esclude proprio chi della politica è massima espressione ed è stato eletto nell’organo legislativo. Se sul divieto di nomina dei membri del governo potrebbero esserci margini di convincimento, il ministro ha dovuto dunque ingoiare il no secco sui parlamentari. Secondo una componente della maggioranza, a spingere Bonafede in questa direzione sarebbe una sorta di riflesso del grillismo delle origini: la diffidenza profonda che il Movimento nutre nei confronti della rappresentanza parlamentare. Culturalmente, nonostante quasi un decennio di politica elettiva, i grillini continuerebbero a vivere nella convinzione che la figura del parlamentare sia comunque da guardare con sospetto, in quanto prodotto di un professionismo della politica. Dunque, per andare nella direzione di “separare magistratura e politica”, il Guardasigilli avrebbe ritenuto di proporre la fisica rimozione dall’Organo di autogoverno della magistratura dell’unica componente esplicitamente politica, ovvero quella dei laici che per prassi vengono scelti in modo consistente tra le fila del Parlamento. Ora, l’incognita sta in chi la spunterà alla fine: il ministro, per ora, ha dovuto cedere al niet. La riforma del Csm, però, passerà per il Parlamento e le sue commissioni e lì si svolgerà il secondo round. Insomma, quel “circa un anno” di tempo per approvare la riforma potrebbe avere già davanti un ostacolo per nulla secondario da appianare. Quel “carrierismo” che ha inquinato la magistratura di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 2 giugno 2020 Se un magistrato quale Luca Palamara ha potuto per anni svolgere indisturbato il ruolo di manovratore di una occulta consorteria capace di influire sulle sorti dei suoi colleghi in tema di trasferimenti, assegnazione di funzioni e incarichi direttivi significa che molti lo cercavano e non avevano problemi a usufruire dei suoi servizi. Per ora solo nei suoi confronti sono in corso processo penale e procedimento disciplinare. Il dottor Palamara non è una “pecora nera” occasionalmente presente all’interno di una magistratura dura e pura, ma esprime un clima diffuso di scorrettezze e favoritismi nel funzionamento degli organi di (auto) governo della “carriera” dei giudici. Se un magistrato quale Luca Palamara ha potuto per anni svolgere indisturbato il ruolo di manovratore di una occulta consorteria capace di influire sulle sorti dei suoi colleghi in tema di trasferimenti, assegnazione di funzioni e incarichi direttivi significa che molti lo cercavano e non avevano problemi a usufruire dei suoi servizi. Per ora solo nei suoi confronti sono in corso processo penale e procedimento disciplinare. Il dottor Palamara non è una “pecora nera” occasionalmente presente all’interno di una magistratura dura e pura, ma esprime un clima diffuso di scorrettezze e favoritismi nel funzionamento degli organi di (auto) governo della “carriera” dei giudici. Non si dimentichi che ben cinque erano i componenti togati del Consiglio superiore della Magistratura (Csm) che si erano dimessi a seguito delle intercettazioni che avevano rivelato l’illecito ruolo svolto da Palamara. Non desta quindi stupore che alcuni magistrati siano ricorsi a un centro di potere illegale per sollecitare il trasferimento o la nomina a cui avevano probabilmente pieno diritto. Ma non è solo la sfiducia nei confronti dei canali istituzionali che ha spinto alcuni magistrati (non sappiamo quanti) a rivolgersi ai servizi del dottor Palamara. L’attuale magistratura non è formata solo da un gregge di “bianchi agnellini”. Tra loro dilaga quella che è stata definita da Luca Poniz, presidente dimissionario dell’Associazione nazionale magistrati, “una bulimica aspettativa di carriera”. E cioè troppi magistrati sono prevalentemente interessati, più che a svolgere bene il proprio mestiere, a ottenere sedi e funzioni particolarmente appetibili e gratificanti. Parlo di sedi e di funzioni, e non di carriera, perché - come è noto, ma troppo spesso dimenticato - la Costituzione stabilisce che “i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni”, così abolendo la nozione stessa di “carriera”. Ma tant’è che è più gratificante svolgere le funzioni giudiziarie a Roma piuttosto che a Canicattì, e non credo che appelli rivolti ai magistrati perché siano loro stessi a tutelare il prestigio delle funzioni giudiziarie possano sortire utili effetti. Non rimane quindi che sollecitare gli organi di (auto) governo della magistratura - i Consigli giudiziari a livello locale e il Csm a livello nazionale - a esercitare i doverosi controlli sulla correttezza dei comportamenti dei singoli magistrati. Logico quindi che sia immediatamente ritornato in discussione il sistema elettorale dei componenti togati del Consiglio, ora strettamente legato all’esistenza delle “correnti” nella magistratura e alle degenerazioni clientelari che ne derivano. Lo stesso Presidente della Repubblica ha segnalato con forza l’urgenza di una riforma del Csm e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha anticipato in un’intervista i due nodi di fondo del disegno di legge di riforma che il governo si appresta a presentare al Parlamento, relativi appunto alla “degenerazione del correntismo” e alla commistione tra “toghe e politica”. Quanto al primo, l’esigenza più immediata è di prevedere un sistema elettorale che tagli fuori le correnti, cioè un sistema che preveda uno o più collegi uninominali in ciascun distretto di Corte di appello, ove i candidati si presentino senza alcuna etichetta di appartenenza all’una o all’altra corrente, ma semplicemente sulla base del prestigio e della credibilità acquistati grazie alla attività professionale e ai comportamenti personali. Quindi nessun intento punitivo nei confronti della magistratura, quale sarebbe la proposta, che pure è stata avanzata, di ricorrere direttamente o indirettamente al sorteggio per l’elezione dei componenti togati del Csm. L’altro nodo di fondo attiene ai magistrati che, in tale loro qualità, hanno ricoperto cariche politiche o si apprestano a candidarsi per ricoprirle. Per chi ha ricoperto incarichi di governo, nel Parlamento nazionale o europeo, di presidente, assessore o consigliere regionale, sindaco in città con oltre 100mila abitanti, è precluso in senso assoluto il ritorno in magistratura, come a dire che chi è stato sedotto dalla politica ha perduto per sempre l’indipendenza e la terzietà necessarie per fare il giudice. Per chi si candida a una carica politica senza poi essere eletto è previsto il divieto di ricoprire incarichi giudiziari per tre anni nel territorio del collegio elettorale, periodo ritenuto sufficiente per distaccarsi dal mondo e dal costume della politica. Entrambi i deterrenti paiono sufficienti a ostacolare l’eccessiva frequenza che ha sinora caratterizzato i reciproci scambi tra giustizia e politica e le negative ricadute sull’immagine di indipendenza della magistratura. Il “pugno duro” su noi giudici avrà effetti gattopardeschi di Pasquale Grasso* Il Dubbio, 2 giugno 2020 L’aspirazione alla carriera, a dimostrare a sé stessi e al prossimo che “si vale”, è connaturata all’essere umano. Anche dove non ci siano benefici economici (e in magistratura non ve ne sono) ma solo “sociali”, si tratta di una tensione connaturata all’uomo e, a mio avviso, pure positiva. Con il termine carrierismo, invece, intendiamo la distorsione di quella fisiologica tensione, con ogni possibile, più o meno esteso, cedimento rispetto all’amor proprio e alla dignità, se non alle regole. In magistratura il carrierismo, opinione personale, è “andato a braccetto” con la gerarchizzazione. La gerarchizzazione è quella “cosa” che, in aperta distorsione della nostra Costituzione (che prevede che i magistrati si distinguano solo per funzioni), è giunta a farci chiamare “capi” i dirigenti degli Uffici Giudiziari. È molto più forte nelle Procure, che sono per legge molto gerarchizzate; ma è presente anche nei Tribunali, in forma strisciante. In gran parte deriva dal sistema dei pareri che i direttivi e semi-direttivi redigono sui colleghi in occasione delle valutazioni di professionalità, che i magistrati affrontano ogni 4 anni. Se è vero che un parere negativo non può essere inventato di sana pianta, e che quasi tutti i magistrati ottengono il positivo superamento della valutazione di professionalità, è noto a tutti che un parere un po’ “tirato via” o “dubbioso” può pregiudicare le aspirazioni di carriera di un magistrato... e di qui il conformismo negli uffici, l’attenzione all’approvazione del “capo”, la corsa a incarichi piccoli e grandi che “facciano punteggio” (nel gergo ormai sono chiamate medagliette), la ricerca di “protezione” in una corrente e, di nuovo come in una ruota, l’atteggiamento gerarchizzante. Per converso, i “capi” hanno capito bene come esercitare le conseguenti prerogative di influenza sui “sottoposti”. Per capirlo, un esempio. Proprio per la necessità di porre termine alla possibilità di creare “carriere” negli uffici di Procura con l’assegnazione - di fatto completamente discrezionale - di incarichi a singoli pubblici ministeri da parte del Procuratore, appena un paio di mesi fa il Csm ha dovuto chiarire ciò che in un sistema lineare avrebbe dovuto essere evidente, e cioè che tali incarichi vanno conferiti con specifica aderenza alle capacità e professionalità effettivamente riscontrate, e non - come accaduto finora - in modo sostanzialmente incontrollato e acritico, nella migliore delle occasioni. Peraltro, occorre ricordare che la gerarchizzazione nasce dalla, non troppo nascosta, aspirazione politica al controllo dei magistrati (più facile controllarli attraverso i capi, che cercare di controllarli tutti, specialmente nelle Procure). A me pare evidente che proprio il possibile aumento della rilevanza pratica e sistemica dell’essere “capo”, abbia accresciuto la corsa a diventare tale e, per contro, alla ricerca di forme di integrazione di costoro - i “capi” - da parte della politica. Attenzione, non sto affermando che ci siano trame oscure, ma semplicemente evidenziando alcune delle fisiologiche conseguenze dell’impostazione generale. Infine, sul Csm. Ammettiamo che l’ampliamento della discrezionalità nella scelta dei direttivi nasca dalla necessità (illusione?) di non far “attendere troppo” i primi della classe (ma quanti Falcone pensavamo di avere…), a fronte di “anziani” forse meno capaci. Ma è stato un sistema che, per la reale impossibilità di valutare davvero il merito di un magistrato (ma come si fa? ci sono variabili indefinite e imponderabili; e poi, nessuno ha mai spiegato credibilmente come la bravura di un magistrato possa incidere sulle sue capacità di “capo”... vabbè, discorso lungo) … dicevo, si è rivelato un sistema che, per la reale impossibilità di valutare davvero il merito, ha finito per valutare troppe volte le idee, la vicinanza a quel gruppo piuttosto che all’altro (ancora una volta in modo del tutto fisiologicamente umano, evitiamo ipocrisie), innescando una spirale che, questa sì, ha condotto alle degenerazioni del correntismo. Ma, posta la lunga premessa, è semplicemente ridicolo pensare che tutto il male sia stato da una sola parte. Affermare che la colpa sarebbe solo della Politica (per opere od omissioni) o solo delle correnti. Oppure, sostenere che i magistrati “progressisti” (da oltre un ventennio saldamente al governo dell’Anm e del Csm) ne siano stati estranei, come ha fatto qualche mese fa un importante ex Presidente dell’Anm, dimenticando opportunamente di verificare ad esempio - l’appartenenza correntizia dei magistrati nei ministeri, quelli nei “posti”, se non di maggior potere, di sensibile vicinanza ai gangli decisionali della Politica. Personalmente racconto spesso agli amici di quando, diventato dirigente Anm, iniziai a muovere primi passi, un po’ incerti e molto spaesati, nel Ministero della Giustizia, dove ero chiamato per impegni ufficiali. Mi accompagnavano colleghi diventati dirigenti Anm insieme a me, che non dovevano avere molta più esperienza di me, eppure costoro - e tra essi tanti sono coloro che hanno tuonato contro le commistioni tra magistratura e la Politica - costoro percorrevano i corridoi del Ministero come quelli di casa propria, salutando come vecchi amici i presenti, magistrati e non, che lavoravano lì costituendo l’ossatura organizzativa del Ministero. Perciò, forse, una maggiore attenzione pubblica alla realtà delle cose potrebbe essere opportuna. Ad ogni modo temo che questi discorsi ora lascino il tempo che trovano. La Politica farà le sue riforme approfittando del discredito calato sui magistrati e, ci scommetto un caffè, ancora una volta si determinerà quella eterogenesi dei fini che finirà per rafforzare questa o quella parte - i più adatti? i più adattabili? operandosi un mero cambio di etichette e senza cambiare nulla. In questa situazione, solo un cruccio mi rimane. Quello di “vedere” tanti magistrati attendere di giorno in giorno - con un pizzico di sadismo e un goccio di masochismo - di leggere sui giornali chi di loro sarà colpito dalla gogna. Nell’illusione di assistere alla distruzione di un sistema, percepito come unica possibilità di costruirne uno migliore. A me sembrano, absit iniuria verbis, degli amici febbricitanti che danzano sulle spoglie dei loro simili. Senza rendersi conto che, tra quelle spoglie, ci sono non solo anche le loro, ma pure quelle di tanti cittadini perbene e di buona volontà. *Già Presidente dell’Anm Il Csm si è sostituito allo Stato, nessun pm risponde alla legge di Alberto Cisterna Il Riformista, 2 giugno 2020 Come spiegato dal professor Serio, il testo unico sulla dirigenza è così vario e contraddittorio che è stato utilizzato per giustificare qualunque incarico assegnato per interessi di bottega. Alla faccia della Costituzione e del “giudice naturale”. Pochi giorni or sono il prof Serio, docente universitario stimato e già componente del Csm ha censito tra imati che affliggono la magistratura italiana anche una elefantiaca autoproduzione di regole che il Consiglio ha approntato e affinato negli anni munendosi di poteri pressoché illimitati sulla carriera dei magistrati. Gli strali del professore si sono concentrati sul Testo unico della dirigenza giudiziaria, la Magna Charta per l’attribuzione degli incarichi su cui si esercitano spesso il Tar e il Consiglio di Stato annullando delibere consiliari di varia indole ed estro. Si legge nel suo intervento: “Attualmente, è in vigore per gli incarichi più ambiti un immodestamente denominato, testo unico sulla dirigenza, espressione alquanto pomposa che tradisce il desiderio di equiparazione del Consiglio al legislatore. Ebbene, quella che avrebbe dovuto essere una miniera di regole oggettive capaci di risolvere in modo netto e indiscutibile il conflitto tra più aspiranti, si è rivelata un’autentica trappola a causa della compresenza di decine di disposizioni minute che, isolatamente considerate, spesso vengono contraddittoriamente utilizzate per favorire l’uno o l’altro dei concorrenti, a seconda spesso dell’orientamento correntizio del consigliere o del candidato o di entrambi”. Insomma, nulla per cui stare tranquilli. La scelta dei capi degli uffici è fondamentale per l’assetto del servizio-giustizia e manipolarne il corso in vista di interessi privati in qualunque altra amministrazione porterebbe alle manette, anche se - paradossalmente - fossero scelti i migliori: è il metodo a inquinare. Molti dei miasmi velenosi che emergono dalle ultime chat - purtroppo tardivamente cadute nella disponibilità dei giornali rispetto ad altre più tempestivamente propalate in piena indagine perugina a vantaggio di taluno - mostrano come siano proprio queste regole elastiche e plasmabili a consentire vendette, segnalazioni malevoli, sgambetti e, a volte, quelle vere e proprie esortazioni alla persecuzione che animano in taluni casi la lotta per il potere all’interno della magistratura Indimenticabile l’incitazione di una (ex) toga altolocata al componente del Csm che si doleva di essere incappato in qualche intercettazione di un processo per corruzione: “Certo. Dillo ai tuoi colleghi del Csm” avrebbe sibilato il grand commis aizzando contro il reprobo giudice che non aveva subito censurato l’impiccio. Un “dillo ai tuoi colleghi” che sta a metà strada tra il callido mandato e la viscida sollecitazione, in quella fangosa terra di mezzo in cui allignano le vigliaccate e non solo Puzzi e Carminati. Tolta la pietruzza che, come sempre, nella scarpa duole, ma che un interesse generale deve pur sempre avere se la conversazione è stata pubblicata con tanto di nomi e cognomi, torniamo al discorso molto più elevato che il prof Serio ha intrapreso. L’articolo 108 della Costituzione dispone che “le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge” (v anche art.102), questo comporta che i poteri del Csm sulla carriera dei magistrati non potrebbero prevedere - come attualmente accade in molti settori - una delega in bianco in favore dell’organo di autogoverno e in fondo a discapito anche dei cittadini. Si pensi a esempio, al principio di precostituzione del giudice naturale, fissato nella Carta e canone fondamentale della giustizia in tutti gli ordinamenti La designazione del giudice deve precedere il reato e non seguirlo, sono vietati giudici ad personam. Oggi il suo rispetto è, processualmente parlando, carta straccia in quanto alla fine rimesso alle disposizioni amministrative del Csm che, a propria discrezione, può scegliere un giudice per un solo processo e, se occorre, anche per un solo imputato senza che sia possibile per l’imputato obiettare alcunché. La mancanza di criteri e regole precisi - come ricorda Serio - ha comportato l’espansione a dismisura dei poteri cosiddetti para-normativi del Csm che interviene con propri statuti in qualunque ganglio della vita dei magistrati (dai rapporti parentali all’interno degli uffici ai trasferimenti dagli incarichi extragiudiziari alle valutazioni di professionalità, dalle nomine all’organizzazione del lavoro, dalle commissioni dei concorsi alle ferie) a prescindere e, troppe volte, a dispetto anche dei radi e lacunosi interventi legislativi il Parlamento, con un costante self-refrain ai limiti della colpevole sottovalutazione, ha concesso al Csm una vera e propria delega in bianco sui magistrati che, a quel punto, sono stati sospinti dalla stessa politica a soggiacere al potere delle correnti e dei loro rappresentanti. Sono state ristrette le toghe in tre recinto anomico e illegale in cui poi la stessa politica torna a negoziare con gli emissari più smaliziati della corporazione, così dilatando il proprio controllo sulla giurisdizione oltre i limiti costituzionali. 11 tutto con buona pace anche dell’articolo 101 della Costituzione che, come noto, pretende che i giudici siano “soggetti soltanto alla legge”. Se le norme di legge sull’ordinamento giudiziario sono soppiantate da elastiche delibere, circolari, risoluzioni e testi unici di valenza amministrativa, è evidente che la soggezione dei giudici alla legge risulta filtrata e mediata da quella, ben più temuta, al Csm con ogni inevitabile ricaduta. Comprese quelle che tanto rumore stanno facendo in questi giorni a proposito di politici illustri. Il punto vero è che non si tratta solo di degenerazioni individuali da contenere e reprimere - come taluno ancora si illude che sia - ma della deriva sistemica di un’organizzazione (un ordinamento) che, abbandonata a sé stessa, ha creato una doppia soggezione, alla legge e alle disposizioni dell’autogoverno, con una conseguente doppia morale fodera delle peggiori distorsioni e che ha, oggi, quale contrappeso solo l’enorme patrimonio etico di quasi tutti i magistrati italiani. Lo aveva detto la Corte costituzionale in una memorabile pronuncia (n. 497/2000): “l’applicazione imparziale e indipendente della legge... sono beni i quali, affidati alle cure del Consiglio superiore della magistratura, non riguardano soltanto l’ordine giudiziario, riduttivamente inteso come corporazione professionale, ma appartengono alla generalità dei soggetti e, come del resto la stessa indipendenza della magistratura, costituiscono presidio dei diritti dei cittadini” per poi affermare in modo esemplare da scolpire in ogni aula di giustizia “nel patrimonio di beni compresi nello status professionale (dei magistrati) vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura”. L’orgoglio dell’indipendenza e dell’autonomia da tutelare e da esercitare anche nei confronti del Csm e degli altri magistrati. Un orgoglio che sarebbe ingiusto non riconoscere a tantissime toghe italiane, ma che in troppi hanno dismesso partecipando al saccheggio delle clientele. Un patrimonio troppo importante perché la politica pensi di sbrigare la pratica giustizia con una frettolosa legge elettorale. Se non si ripristina il primato della legge voluto dalla Costituzione, liberando le spalle ricurve della magistratura dal peso asfissiante dei poteri impliciti del Csm e del rischio di un loro uso distorto, ogni cambio di passo sarà insufficiente e destinato a fallire. Né la giustizia amministrativa può essere rimedio a questo vulnus, alla fine, eversivo della Costituzione. Franco Coppi: “Il sistema giustizia non tiene più, cambiare il processo penale” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 2 giugno 2020 Il penalista: “Sì a un tavolo tra persone ricche di esperienza. Il carcere? Non è come vorrebbe la Costituzione. Depenalizzare? Sì, ma prima riformare il dibattimento”. Si definisce “un vecchio operaio della giustizia”. Uno che, quando entra in aula davanti al giudice - e lo fa da tanti decenni - pensa solo alla causa. Pensa a difendere l’assistito, utilizzando tutti gli strumenti che il diritto mette a disposizione. Al resto, alle discussioni generali e astratte, Franco Coppi lascia che ci pensino gli altri. La riforma del Csm di cui si dibatte in questi giorni? Neanche la commenta: “Si parla tanto di questi interventi, ma fino a quando non vengono fatti non ha senso discuterne”, dice ad HuffPost. Per il professore, 82 anni, avvocato penalista di lunghissimo corso - ha difeso, per citarne due, Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti - ci sono cose più urgenti su cui intervenire. Perché sa bene il sistema della giustizia in Italia va cambiato. Che così non tiene più. Da dove cominciare, quindi? Coppi sul punto non ha dubbi: non dalla depenalizzazione, che pure ritiene importante. Non dalle carceri, che pure pensa non rispondano ai principi della Costituzione, che prescrive il divieto di pene inumane e la funzione rieducativa della prigione. Ma dal processo penale. Immagina un tavolo di discussione per fare una riforma. Non basta la politica a lavorare a un nuovo sistema, perché “il codice riguarda tutti noi”. Poi il piglio dell’avvocato esperto lo porta a prediligere il pragmatismo: “Per una modifica organica ci vuole tempo - dice ad HuffPost - ma ci sono cose che possono essere cambiate in meglio in tempi più brevi. Sarebbe il caso che si facessero il prima possibile”. Professore, complici gli ultimi fatti di cronaca, in questi giorni si torna a parlare di riforma della giustizia. Cosa pensa degli interventi che si vorrebbero fare sul Csm? Se ne fa un gran parlare. Ma fin quando non sarà approvata non ha neanche senso discuterne. Vede, io credo che ci siano cose su cui bisognerebbe avere più fretta. Che non necessiterebbero neanche di molto tempo per essere cambiate. Lei da dove partirebbe, quindi, per riformare la giustizia? Dal processo. Il codice del 1989 (con il quale sono state riscritte le norme del procedimento penale, ndr) ha fallito negli obiettivi principali che voleva perseguire. Si voleva velocizzare il meccanismo? In base alla mia esperienza posso dire che non è successo. I processi oggi sono di una lentezza esasperante. Sono ancora meno veloci di prima. Come fare per cambiare le cose? Ci sarebbe bisogno di un tavolo tra persone capaci e ricche di esperienza che, insieme, cercassero di capire perché il codice non ha raggiunto gli obiettivi che chi l’ha scritto si era prefissato. Quali sono i suoi difetti. Certo, una riforma non si improvvisa. E resta poi il problema dell’accordo politico per cambiare una legge. Però la riforma della giustizia non è una questione solo politica... Certo, il codice riguarda tutti noi. Per questo bisogna ragionare tra persone esperte. Due o tre cose che modificherebbe subito? Premesso che so di non avere la verità in mano e parlo solo in base alla mia esperienza, rivaluterei il meccanismo per cui in dibattimento l’istruttoria deve partire da zero. Nel nostro sistema il giudice arriva vergine al processo. Non dico sia sbagliato, capisco benissimo le ragioni che ci sono alla base di questa scelta. Comprendo la battaglia fatta contro la preformazione del giudizio. Ma stiamo pagando un prezzo molto alto per questa decisione. Un esempio concreto? Nel processo bisogna partire da capo anche, non so, per accertare se il cadavere era riverso a destra o a sinistra. Per cose come queste, forse, potrebbero essere utilizzati gli atti di indagine, i rilievi già fatti. Ma già prima del dibattimento c’è qualcosa che non funziona. Mi riferisco all’udienza preliminare. Che problemi ci sono in quella fase? Era nata come un’udienza filtro, si è risolta per lo più in un momento inutile per il processo. Forse sarebbe il caso di sopprimerla. C’è poi da dire che i riti alternativi non hanno dato i frutti sperati. Un esempio: proprio di recente mi sono trovato di fronte a un rifiuto di un patteggiamento per un motivo assolutamente incomprensibile. Certamente tutto ciò aggrava la lentezza del processo. Ma non c’è anche un problema di eccessiva penalizzazione? Lo ha spiegato anche Giovanni Maria Flick in un’intervista ad HuffPost. In Italia per ogni fatto che suscita un, più o meno giustificato, allarme sociale si crea un reato... Direi di sì. C’è la tendenza a far diventare reati anche fatti di gravità non elevata. E, se non si ha il coraggio di eliminare dal codice penale, o dalle leggi che sono sorte dopo, queste fattispecie, inevitabilmente il sistema ne risente. E così torniamo al discorso precedente: il codice che disciplina il processo penale era stato scritto per un numero più basso di processi rispetto a quanti effettivamente non se ne celebrino oggi. Guardi, le do una cifra per tutte: solo in Cassazione arrivano 50mila processi l’anno. Per questo dico: bisogna agire sulla procedura prima ancora che su una eventuale depenalizzazione. In una recente intervista al Giornale lei ha detto che “il problema della giustizia è un problema di uomini”. Cosa voleva intendere? Quando si pensa al giudice ideale, si immagina una persona imparziale, che in dibattimento ascolta le parti e pronuncia la sentenza con coscienza, seguendo la legge. Senza altre influenze. Ecco, chi corrisponde a questa immagine è un buon giudice. Chi agisce diversamente non lo è. Ma, appunto, è un problema di persone, non della categoria in sé, né della struttura generale. Il sistema, in questo caso penso a un codice malfatto, può influire sull’attività, ma non sulla qualità della persona. Dal processo all’esecuzione della pena. Cosa pensa del carcere oggi? Che quello che abbiamo in Italia non corrisponde al modello di umanità cui un istituto di pena dovrebbe ispirarsi, né, in molti casi, rispetta la Costituzione. Piange il cuore quando si pensa che si debbano costruire nuove carceri, quando il Paese ha bisogno di ospedali o di scuole, ma in Italia c’è una legislazione che prevede il carcere per molti reati. E le pene, una volta inflitte, vanno eseguite. Non si potrebbe risolvere incentivando le pene alternative? Luciano Violante spiegava ad HuffPost che oggi sono di più le persone che scontano la condanna fuori dal carcere rispetto a quelle che la trascorrono in cella. Un ulteriore balzo in avanti in questo senso potrebbe servire? Penso proprio di sì. Una pena alternativa, pensata in maniera molto personalizzata, è assolutamente più efficace rispetto alla detenzione in carcere. La società è pronta per questo salto? E se anche non lo fosse, bisogna fare in modo che lo diventi. In una recente intervista su HuffPost, Giuseppe Pignatone ha detto che la vedrebbe come interlocutore a un tavolo per riformare la giustizia. E ha sostenuto che spesso la politica scarica sulla giustizia questioni che le competono ma che non sa affrontare. Cosa pensa di quest’ultima affermazione? Vede, io sono un vecchio operaio del diritto. La mattina, quando vado in tribunale, penso solo alla causa che sto affrontando. Del resto, di temi così elevati, lascio che se ne occupino altri. “Egregio Ministro Bonafede”... i giovani aspiranti magistrati si appellano al ministro Vita, 2 giugno 2020 In una lettera al ministro della Giustizia, gli studenti che da mesi si preparano ai due concorsi segnalano come i calendari, “sospesi” a causa del Coronavirus, rischino di portare a sovrapposizioni ingestibili. Destinate a vanificare il sacrificio (di tempo ed economico) sostenuto da candidati e famiglie. Sono migliaia i ragazzi e le ragazze che aspettano notizie sullo scritto di magistratura 2020 dal Ministero. La data inizialmente prevista per la fissazione del calendario delle prove era il 27 marzo, è stata poi rimandata al successivo 24 aprile. Il 24 aprile la risposta è stata: “daremo la risposta il 24 luglio”, non una parola di meno non una di più. Aspettare fino al 24 di luglio per sapere, (ma visti i rimandi senza spiegazione, si dubita), quando sarà questo concorso, significa essere nell’impossibilità di capire come spendere il proprio tempo. In questa opacità e mancanza di trasparenza circa lo svolgimento del concorso, le uniche voci su cui fare affidamento sono quelle di alcune piattaforme social, secondo le quali il concorso di magistratura dovrebbe svolgersi a fine novembre 2020. Come migliaia di altri ragazzi e ragazze, e come di prassi, in tanti hanno fatto lo scritto di avvocato a Milano a dicembre 2019 ma anche su questo fronte non si sa nulla di certo, perché ufficialmente non ci è stato detto nulla. Tutto tace. L’unica notizia, arrivata solo qualche giorno fa, è paradossale: riprenderanno le correzioni in via telematica e gli orali cominceranno a partire da ottobre. Beh, era ora... la annunciata soluzione di effettuare le correzioni degli scritti dell’esame di avvocato tramite gli strumenti che la tecnologia ci offre, non ci era sembrata così fantascientifica e non immaginavamo che richiedesse un iter così lungo per formularla (da fine febbraio a metà maggio). Ed ecco il cuore del problema: la collisione tra gli orali di Avvocato e lo scritto di Magistratura. In questa prospettiva, tanti che hanno messo il loro impegno in entrambe le strade, si troverebbero a dover sostenere il concorso di magistratura a fine novembre e a metà dicembre sulla base della lettera alfabetica estratta - l’orale di avvocato che, tra le materie comuni al concorso, ne ha solo una su sei. Qualora, infatti, si decidesse di fissare il diario delle prove del concorso di magistratura entro la fine dell’anno corrente e l’inizio degli orali di avvocato realmente ad ottobre, numerosi giovani si troverebbero a dover affrontare una mole di studio definibile solo come folle. Con l’aggravante che la possibilità di capire come barcamenarsi tra questi due esami ci verrà rivelato a sorpresa solo il 24 di luglio. Anche al giudice alt a domande ai testi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2020 Corte di cassazione - Sentenza 15331/2020. Il divieto di domande suggestive e nocive vale anche per il giudice. In caso contrario la sentenza rischia l’annullamento. Lo stabilisce la Cassazione con la sentenza n. 15331 della Quarta sezione penale che, in un procedimento per reati sessuali, ha ritenuto priva di elementi di certezza la testimonianza resa attraverso risposte che, per gran parte dell’esame, non avevano fatto altro che assecondare l’interrogatorio del giudice. La Cassazione, nel giudicare la prova così assunta non genuina e inattendibile, ricorda innanzitutto che l’articolo 499 del Codice di procedura penale detta le regole per l’esame del testimone indicando i criteri cui il giudice si dive attenere nell’ammettere o evitare le domande delle parti. Il giudice, allora, deve evitare in maniera assoluta le domande che possono compromettere la sincerità delle risposte; deve vietare alla parte che ha prodotto il teste o che ha un interesse comune con lo stesso di formulare le domande in maniera da suggerirgli le risposte; deve assicurare durante l’esame la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni. Il divieto di formulare domande che possono danneggiare la sincerità delle risposte, sia nel senso delle domande suggestive (nel senso giudiziario, quelle domande che tendono a suggerire la risposta al teste oppure forniscono gli elementi per rispondere nella direzione desiderata dall’esaminatore, anche attraverso una semplice conferma), sia nel senso di quelle nocive, finalizzate a manipolare il teste fuorviandone memoria e ricordi, perché gli forniscono informazioni sbagliate, tali da minare la genuinità della risposta, è espressamente previsto con riferimento alla parte che ha chiesto la citazione del teste, visto che è proprio questa parte quella più interessata a suggerire al testimone risposte utili per la sua difesa. Tuttavia, avverte la sentenza, e anzi “a maggior ragione” il divieto deve essere esteso al giudice perché è a lui che spetta il compito di assicurare in ogni caso l’autenticità delle risposte. E nel caso in esame, il giudice di appello aveva effettivamente condotto l’”interrogatorio” della testimone con domande a tesi, altre con suggerimenti delle risposte, altre con fatti dati per scontati. Il genitore risponde penalmente se il figlio chiede l’elemosina di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2020 Tribunale di Frosinone - Sezione penale - Sentenza 4 ottobre 2019 n. 1109. Il genitore che consente ai figli minori di girovagare in luoghi pubblici tra i passanti, di mendicare o di chiedere l’elemosina al semaforo commette il reato di “impiego di minori nell’accattonaggio”, ovvero di “organizzazione dell’accattonaggio” se si avvale dei propri figli per ottenere in tal modo un profitto. A ribadirlo è il Tribunale di Frosinone nella sentenza n. 1109/2019. Il caso - Al centro della decisione vi era il comportamento tenuto da una donna rumena, identificata dalle forze dell’ordine quale genitore esercente la potestà genitoriale di un bambino di dieci anni intento a chiedere l’elemosina ai passanti ad un incrocio stradale. Gli agenti di polizia, su segnalazione di alcuni automobilisti, intervenivano sul luogo ove sopraggiungeva la madre del minore. Tratta a giudizio per rispondere del reato ex articolo 600-octies del codice penale, l’imputata viene inevitabilmente condannata dal Tribunale, non potendo sussistere alcun dubbio in ordine alla sua penale responsabilità. La configurabilità del reato - Il giudice sottolinea che il reato in questione può consistere sia “nel valersi per mendicare di un minore di anni quattordici o di altra persona non imputabile sottoposta all’autorità, alla custodia o alla vigilanza dell’agente”, sia anche “nel permettere che detta persona chieda l’elemosina”. La ratio di tali incriminazioni, sottolinea il Tribunale, è quella di impedire che i minori attraverso l’impiego in tale tipo di attività siano sottratti all’istruzione e all’educazione e abituati all’ozio e “al pericolo di cadere nel vizio e nella delinquenza”. Inoltre, tenuto conto che il genitore esercente la potestà genitoriale è investito di una posizione di garanzia in ordine al corretto comportamento dei figli, questi ha l’obbligo di impedire che costoro compiano atti di accattonaggio. Nella fattispecie, l’imputata è dunque pienamente responsabile dell’accaduto, in quanto, oltre a non aver impedito la condotta di accattonaggio, aveva addirittura il controllo della condotta del figlio, che poteva osservare a distanza. Proprio tale controllo a distanza dell’operato del minore, in tal modo esortato ad elemosinare, secondo il giudice è tale poi da impedire il riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Emilia Romagna. Le criticità secondo il garante: sovraffollamento e presenza di neonati Redattore Sociale, 2 giugno 2020 Negli istituti penitenziari emiliano-romagnoli ancora quasi 400 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Il garante: “Nel 2019 15 neonati sono rimasti diversi giorni nelle carceri regionali. Le rivolte? Una situazione incredibile. Bene il provvedimento inserito nel Cura Italia”. Le rivolte, il sovraffollamento e l’emergenza Covid dentro le carceri. Sono i punti affrontati dal garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna Marcello Marighelli durante la commissione Parità e diritti. Questione cruciale, il sovraffollamento, “che impedisce di dare dignità ai detenuti. C’è grande carenza di spazi per il pernottamento, ma anche per le attività lavorative e per quelle di rieducazione. C’è anche un ulteriore problema: nella nostra regione sono detenute molte persone che non hanno un legame con la regione, quindi diventa difficile il reinserimento sociale”. Per quanto riguarda i numeri, prima dell’emergenza si registravano quasi 4 mila detenuti rispetto a una capienza regolamentare inferiore a 3 mila posti, poi gradualmente questa presenza si è ridotta soprattutto a causa della necessità di provvedere a importanti trasferimenti (in totale 457) a causa dei disordini e delle rivolte provocate nelle carceri di Modena, Bologna e Reggio Emilia: “Ma se anche le persone detenute sono diminuite, i problemi ancora ci sono: ci sono 177 persone in più nel carcere di Bologna, 105 a Ferrara, 99 a Reggio Emilia e 79 a Piacenza”. Un’altra criticità espressa dal garante riguarda la detenzione femminile: “A Modena si registrava la presenza di 41 donne, poi la struttura è stata completamente evacuata, le donne sono state trasferite principalmente a Trento. Attualmente la situazione di Forlì è tornata alla normalità con 13 presenze, ma ce ne sono state anche 25, a Bologna adesso ci sono 68 donne ma ce sono state anche 80. Durante la fase emergenziale, per prima cosa abbiamo cercato di verificare che non fossero presenti nelle carceri donne con bambini. Lo voglio ribadire ancora una volta: nella nostra regione, la presenza di bambini negli istituti penitenziari è un problema molto serio. Nel 2019, in Emilia-Romagna, 15 neonati sono rimasti diversi giorni nelle carceri nonostante non siano dotati dell’istituto a custodia attenuata per madri detenute, di casa famiglia protetta o della sezione penitenziaria nido”. Poi c’è il capitolo rivolte. “L’11 marzo ho visitato la casa circondariale di Modena. La rivolta era appena terminata e ho trovato una situazione incredibile, gli edifici erano danneggiati dal fuoco, gli arredi e gli impianti elettrici erano distrutti, sia nel nuovo sia nel vecchio padiglione”. Marighelli promuove il provvedimento del governo inserito nel decreto Cura Italia, “che non ha consentito di fare uscire i colpevoli di gravi reati, ma è intervenuto sulla legge già esistente, che permette di far scontare nel proprio domicilio gli ultimi 18 mesi della pena, purché non siano condanne per gravi reati”. Per quanto riguarda la tecnologia ormai ‘entrata’ nel carcere, quella non uscirà più: “I colloqui via Skype tra detenuti e familiari proseguiranno, addio ai telefoni a gettoni”. Sempre in commissione, sul carcere di Piacenza la direttrice Maria Gabriella Lusi ha sottolineato che “da subito si è capito che la nostra zona era fra le più colpite, quindi abbiamo subito preso provvedimento e studiato un piano d’azione. Già dal 25 febbraio abbiamo interrotto i colloqui e gli accessi e tutto il personale è stato sottoposto a tampone. Tra i detenuti, solo 5 sono risultati positivi al Covid”. Le funzionarie della Regione Anna Cilento e Monica Raciti hanno spiegato che “le rivolte sono state tragiche e hanno colpito duramente anche il personale sanitario; sono state distrutte apparecchiature e presi d’assalto gli ambulatori. La rivolta di Bologna ha provocato una grossa promiscuità, ma tutto sommato il sistema ha retto bene”. Altro problema è che “in molti casi molte persone non hanno un domicilio dove svolgere la detenzione domiciliare, quindi abbiamo cercato di mettere le persone nella condizione di anticipare un percorso di reinserimento, anche in un’ottica di contrasto alla recidiva”. Campania. Mancano regole e attrezzature, studiare in carcere è un miraggio di Viviana Lanza Il Riformista, 2 giugno 2020 Il carcere e la sua funzione di rieducazione. Il mondo fuori e quello dentro. I detenuti e quelle opportunità di reinserimento nella società, espiata la pena, di cui si parla da anni. Quando non diventano slogan da usare all’occorrenza, le parole si traducono in realtà, ma ancora per pochi. “Troppo pochi” è l’allarme. “La detenzione non può consentire la soppressione del diritto allo studio, insieme ad altri diritti fondamentali. È un’opportunità che deve essere garantita, anche come momento di rieducazione e ri-socialità”, spiega Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. “Purtroppo - aggiunge - questa possibilità di esercitare il diritto allo studio universitario non è data a tutti coloro che sarebbero nelle condizioni di esercitarlo e avrebbero l’interesse a farlo”. Il nodo sta nell’assenza di un impegno normativamente regolato sul versante delle università e nell’assenza di un vero e proprio diritto riconosciuto ai detenuti ed esigibile in maniera incondizionata. “Diciamoci la verità - aggiunge il garante regionale - dipende dal carcere nel quale ci si trova, dalla capacità di attivazione presso le amministrazioni e le strutture didattiche universitarie di chi è in contatto con il detenuto interessato, dall’interesse e dalla sensibilità di alcuni docenti”. Insomma, se un detenuto chiede di poter seguire un corso universitario non è detto che possa farlo. Eppure chi lavora in carcere e si impegna per la tutela dei diritti dei detenuti crede fermamente che la strada della cultura sia una delle poche vere opportunità di recupero e riabilitazione per chi è in cella. “L’anagramma di carcere è cercare - dice Ciambriello - Chi è in carcere deve ritrovarsi per riabilitarsi, trovare una motivazione all’errore commesso e rispetto alla pena da espiare una risposta riparativa”. In tutta Italia, a fronte di una popolazione carceraria di circa 61mila persone, si contano solo 796 detenuti studenti, iscritti in 30 università, e per il 25 per cento dediti a discipline politico-sociologiche. A Napoli nell’istituto penitenziario di Secondigliano, c’è un polo universitario promosso dalla Federico II. Lì dove si pensava di realizzare nuove celle, da qualche anno ci sono aule attrezzate per ospitare studenti detenuti. Nei giorni scorsi Ciambriello, con il supporto dell’Assessorato alle Politiche sociali della Regione e il Polo universitario di Secondigliano della Federico II, hanno donato sedie, banchi, lim, libri, materiale di cancelleria, toner per stampanti, dizionari, cartine geografi che e tutto ciò che serve a garantire il diritto allo studio in carcere. Nell’anno accademico 2019- 2020 sono stati 92 gli iscritti ai vari corsi di laurea, nell’anno accademico precedente il numero dei detenuti studenti sfiorava i 50. E si scopre che in cella studiano camorristi e detenuti comuni, mentre quelli dell’alta sicurezza con maggiore profitto. Luigi, 40 anni e una condanna sulle spalle a 14 anni di reclusione per aver fatto parte per anni di un clan della camorra dell’area a nord di Napoli, ha scelto di studiare Giurisprudenza: è il detenuto studente modello della Facoltà, con tutti 30 e 30 e lode agli esami. Lello, invece, in carcere ci è finito per una di quelle storie che sono una tragedia per chi le procura e per chi le subisce: ha dipinto le pareti del padiglione Firenze di Poggioreale con i disegni e le tecniche apprese studiando Belle Arti e ora che è stato trasferito nel carcere di Secondigliano è tra gli iscritti al corso di laurea in Scienze erboristiche. Tra i corsi più seguiti c’è quello in Scienze nutraceutiche. E in tempo di Coronavirus le lezioni si fanno a distanza, utilizzando una piattaforma telematica ad hoc. Proprio per le problematiche legate a questo tipo di modalità e alla possibilità di usare il pc in cella, alcuni giorni fa era scoppiato il caso di A.A., un detenuto ergastolano, ex 41bis, che aveva iniziato lo sciopero della fame per ottenere un computer in modo da poter sostenere esami e consultare il materiale didattico per la laurea in Sociologia che vorrebbe conseguire. Un caso ora risolto, ma che mette in evidenza la necessità di investire ulteriormente su programmi formativi e attrezzature per consentire alla popolazione carceraria della Campania di intraprendere un percorso scolastico o accademico: la strada più breve verso la riabilitazione. Siracusa. Quando le mascherine le producono i detenuti, dal Cavadonna un aiuto al Paese di Wilma Greco* epale.ec.europa.eu, 2 giugno 2020 Pronte 15.000 mascherine, 5.000 con tessuto di cotone e 10.000 con TNT, alla Casa Circondariale Cavadonna di Siracusa. La tessitoria dell’Istituto penitenziario produce ordinariamente dall’anno 2014 federe e lenzuola per le scuole di formazione dell’amministrazione penitenziaria. Vi lavorano sei detenuti, che dopo un periodo di formazione vengono assunti per la produzione. Il ciclo produttivo è di circa 60 prodotti finiti al giorno; l’ultima commessa dal Ministero Giustizia ha richiesto 10.000 capi. I detenuti lavorano autonomamente tra macchinari vari e rumorosi per un prodotto finito ad opera d’arte, con etichetta per le istruzioni di lavaggio, impacchettato e pronto per l’uso. In una società “pre-covid” in cui tutto nel mondo del lavoro e della produzione veniva pianificato e regolamentato, cercando di prevedere in anticipo ogni eventualità, rischio, o imprevisto, la pandemia e l’emergenza sanitaria, portando con sé avvenimenti imprevisti e di elevata incertezza, hanno imposto la trasformazione degli scenari lavorativi, valorizzando la dimensione umana di apprendimento sul posto di lavoro. I detenuti hanno subito imparato e il “prototipo mascherina” è pronto già dopo una giornata di prove. Il direttore, dott. Aldo Tiralongo, assicura che il processo lavorativo ha seguito uno specifico protocollo a garanzia delle condizioni di igiene e sanità. Le mascherine, in confezioni sigillate, in parte sono state distribuite alla popolazione detenuta anche nella previsione del ripristino dei colloqui visivi con le famiglie, in parte sono state messe a disposizione del personale dipendente. Una boccata d’aria, se si pensa a quanto il Paese ha sofferto e anche pagato in vite umane per l’assenza di adeguati dispositivi di protezione. Dall’altro lato, una scommessa in termini di formazione dei detenuti, nell’ottica della rieducazione e del reinserimento in una società sempre più “liquida”, in cui il vecchio motto “impara l’arte e mettila da parte”, viene sostituito dal Workplace Learning: apprendere e produrre nuova conoscenza nei contesti di lavoro. *Ambasciatrice Epale Sicilia Rovigo. I detenuti donano 58 chili di cibo a chi è in difficoltà di Nicola Astolfi Il Gazzettino, 2 giugno 2020 Mentre con il coronavirus la vita non era più come prima, anche dal carcere la solidarietà ha mostrato che si può essere vicini sempre. L’emergenza sanitaria non si è fermata, infatti, ai dati su vittime e contagiati. Ha colpito pesantemente anche le dinamiche nel mondo del lavoro. Così, le cifre aggiornate allo scorso 17 maggio dall’ente strumentale regionale in questa materia, Veneto Lavoro, contano già 1.600 posti persi in Polesine: un conteggio che si ferma alle posizioni di lavoro dipendente. Sono aumentate, quindi, le famiglie in situazione di povertà, rimaste senza lavoro e quasi senza nulla Con intelligenza e cuore grande, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, stimolato dalla sensibilità di alcuni detenuti e in collaborazione con il Banco Alimentare nazionale, ha condiviso un’iniziativa che dalla casa di reclusione di Bollate e dalla casa circondariale di Taranto ha coinvolto successivamente tutte le carceri italiane e le sedi dei Banchi alimentari regionali. A Rovigo la condivisione della direttrice Romina Taiani, la collaborazione degli operatori penitenziari e la fattiva partecipazione dei detenuti, hanno permesso di raccogliere oltre 58 chilogrammi di derrate alimentari da destinare alle famiglie più bisognose, tramite il cosiddetto sopravvitto. L’Ordinamento penitenziario, infatti, consente ai detenuti di acquistare, a proprie spese, generi alimentari e di conforto (entro limiti stabiliti) attraverso l’amministrazione carceraria o da imprese che ne esercitano la vendita a prezzi controllati. Dunque, anche con il sopravvitto al quale i detenuti possono destinare una parte della loro spesa settimanale, a Rovigo si è organizzata una raccolta alimentare come era già stata promossa con le stesse modalità in altre realtà. Anche questa iniziativa sta mostrando una volta in più il cuore della solidarietà in Polesine. Un cuore che non smette di battere, perché fa fare del bene in qualsiasi situazione ci si trovi. Forse la raccolta nella casa circondariale rodigina potrà sembrare una goccia nel mare di solidarietà delle iniziative di raccolte straordinarie di generi alimentari fatte in questa fase di emergenza. Ma l’intervento dei detenuti a Rovigo a favore delle famiglie in difficoltà è anche un gesto che ribalta l’atteggiamento con il quale si guarda abitualmente al carcere e che fa apprezzare quanto è stato donato ancora più, perché è un invito a tutti a non far spegnere mai la speranza. Civitavecchia. Emergenza Covid, la Asl Roma 4 a supporto dei detenuti centumcellae.it, 2 giugno 2020 La prevenzione della diffusione del Covid-19 sul territorio nazionale è un impegno massivo che coinvolge cittadini ed istituzioni. Prevenire a tutti i costi la diffusione del Covid-19 in carcere è urgente e necessario. Motivo per cui il Sottocomitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura ed il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno invitato i governi ad adottare al più presto tutte le misure possibili di prevenzione, compresa la riduzione del numero dei detenuti. “L’emergenza Covid-19 ha reso necessario l’attivazione di misure straordinarie in ambito penitenziario al fine di ridurre la diffusione dell’infezione - si legge in una nota della Asl Roma 4 - e la maggior parte dei Paesi europei ha adottato misure che ledono, in parte, i diritti dei cittadini detenuti provocando qualche reazione di protesta, come la sospensione delle visite da parte di familiari e parenti e di altre attività esterne che possono favorire la contaminazione dell’ambiente detentivo. Per ridurre la distanza sociale dei cittadini detenuti, molti Paesi, fra cui l’Italia, ha cercato di favorire la comunicazione attraverso l’acquisto di dispositivi mobili (smartphone) e l’attivazione di canali di videoconferenza attraverso i quali i detenuti potranno contattare i propri familiari e i propri legali con modalità controllata”. Su indicazione del Direttore Generale, della Direttrice degli Istituti Penitenziari, della Direttrice del Distretto 1, della Direttrice del Dsm e del Direttore del Dapss, l’azienda sanitaria territoriale ha dato il via alla stesura del “Progetto formativo per emergenza Covid-19 negli Istituti Penitenziari della Asl Roma 4: Le buone prassi nell’emergenza Covid-19”. A partire dal 23 aprile 2020 è iniziata la prima fase del progetto formativo rivolto ai detenuti degli Istituti Penitenziari di Civitavecchia. Dal 26 maggio all’11 giugno 2020 si terrà la prosecuzione dell’azione formativa, questa volta destinata a tutto il personale della Polizia Penitenziaria, in modo da guidare complessivamente le azioni di prevenzione anche nella fase II dell’emergenza Covid-19. “Lo scopo prioritario di questo progetto è quello di delineare e realizzare un percorso formativo che nasca dalle esigenze della popolazione reclusa, andando a colmare eventuali vuoti di conoscenze - spiega la Asl Roma 4 - Quanto sopra al fine di ridurre la paura del contagio di persone che condividono uno stesso ambiente (aumentando la consapevolezza e le capacità di autogestione della propria salute), facilitare l’empowerment della popolazione detenuta anche in previsione del ritorno presso il proprio domicilio, al termine del periodo detentivo e di raccogliere idee e consigli dei detenuti e della Polizia Penitenziaria rispetto ad ulteriori azioni da mettere in campo. L’obiettivo primario è garantire alla popolazione detenuta che insiste sul territorio della Asl Roma 4, informazioni aggiornate sulla emergenza Covid 19, in base alle conoscenze attualmente disponibili, rispondendo ai quesiti posti durante gli incontri e alle domande direttamente pervenute dai detenuti attraverso i “peer supporters”: b) Favorire la responsabilizzazione della persona detenuta rispetto al proprio stato di salute, della salute degli altri e al proprio ruolo attivo all’interno del percorso di ‘rieducazione sociale e civilè durante il periodo detentivo; c) Garantire al personale degli Istituti Penitenziari un ambiente in cui, coloro che lo abitano, siano promotori della salute ed applichino comportamenti sociali finalizzati alla tutela comunitaria; d) Promuovere la responsabilizzazione rispetto al proprio stato di salute, a tutto il personale degli Istituti Penitenziari”. “Le attività formative - prosegue la nota della Asl - sono state garantire durante tutte le giornate previste, da un gruppo multidisciplinare dedicato, costituito da uno psicologo, personale del Dipartimento delle Professioni Sanitarie e Sociali e da un medico. Dopo aver effettuato una ricognizione insieme ai detenuti “peer supporters”, sono state raccolte delle domande per focalizzare la pianificazione della formazione. L’obiettivo è stato quello, secondo l’etimologia della parola educare (Dal lat. educare, intens. di educ?re ‘trar fuori, allevarè sec. XV), di tirar fuori dagli stessi detenuti, concetti e argomenti sul tema oggetto della formazione. Si è cercato di sensibilizzare i discenti a sviluppare/rafforzare dei comportamenti virtuosi, al fine di aumentare i livelli di attenzione e vigilanza per stimolare le risorse interne ed esterne, nella ricerca di strategie di maggiore protezione. Il team multidisciplinare della Asl Roma 4 ha rivolto gli incontri formativi a gruppi giornalieri, di 10 massimo 15 detenuti e successivamente al personale della Polizia Penitenziaria, di massimo 10 persone per volta, articolando i periodi formativi presso i due Istituti penitenziari la mattina e il pomeriggio. Al fine di monitorare lo stato di benessere della popolazione detenuta e del personale della Polizia Penitenziaria, in questo particolare stato di emergenza, si è pensato di somministrare in tempi diversi il Questionario dell’Oms sullo stato di benessere versione 1998 Who, per la popolazione detenuta in forma cartacea: in due tempi (T0- T1) dove T0 è prima della riapertura dei colloqui e delle attività intra-penitenziarie e T1 dopo 15 giorni dalla riapertura dei colloqui e delle attività intra-penitenziarie, invece per il Personale di Polizia Penitenziaria: in tre tempi (T0 - T1 -T2) dove T0 è prima del percorso formativo, T1 dopo 15 giorni dal termine del percorso formativo e T2 a distanza di un anno dalla formazione, utilizzando google form per avere la somministrazione in digitale”. Sono stati raggiunti 270 detenuti nei due Istituti così suddivisi: 202 detenuti presso il Nuovo Complesso e 68 detenuti della Casa di Reclusione. Mentre per il Nuovo Complesso è stato raggiunto lo standard del 60% prefissato nel progetto in oggetto, per la Casa di Reclusione è stato raggiunto quasi il 100% della popolazione detenuta. Si può ipotizzare, secondo la Asl Roma4, che tale differenza sia dettata dal diverso contesto detentivo. Al termine del progetto formativo, si analizzeranno i dati raccolti per valutare l’impatto del percorso effettuato e pensare a percorsi futuri, sempre nell’ottica della prevenzione di infezioni presso gli Istituti Penitenziari, magari da condividere anche con altre sedi regionali. E per spiegare la Costituzione la Consulta va in podcast di Liana Milella La Repubblica, 2 giugno 2020 Dopo l’esperienza del viaggio nelle scuole e nelle carceri, e soprattutto dopo il film sul viaggio in sette penitenziari, realizzato da altrettanti giudici, ecco che la Corte costituzionale presieduta per la prima volta da una donna, il giudice Marta Cartabia, utilizza un altro strumento mediatico, il podcast, per comunicare ai cittadini italiani il suo lavoro come giudice delle leggi. Parte da una giornata significativa, il 2 giugno, la festa della Repubblica. Come scrive la Corte, la nuova libreria dei Podcast, “si propone di promuovere la cultura costituzionale, un progetto volto a diffondere e consolidare il sentimento di appartenenza alla res publica, intesa come comunità di donne, uomini e istituzioni impegnati a dare attuazione ai valori costituzionali, posti alla radice della nostra vita comune”. Il primo podcast, che sarà diffuso anche sui canali social, in uscita si intitola “La Costituzione e la Repubblica”, e viene letto dalla voce della stessa Cartabia. La “libreria” sarà composta di vari “scaffali”, dedicati sia alla vita e all’attività della Corte, sia a temi e a momenti cruciali della nostra storia repubblicana, raccontati attraverso la lente della Costituzione e della giurisprudenza costituzionale. Come spiega la stessa Corte “i podcast, firmati dai giudici costituzionali, sono approfondimenti accessibili a chiunque, si prestano a essere utilizzati in ambito educativo e, destinati a durare nel tempo, intendono offrire a tutti uno strumento utile a capire meglio il passato, il presente e il futuro”. Con questo strumento “gli ascoltatori potranno conoscere e approfondire le ragioni che hanno portato alla nascita della Corte, ma anche quelle che ne hanno ritardato per otto anni il funzionamento”. Poi “potranno attraversare i cambiamenti nella vita delle donne, dei lavoratori, degli immigrati, dei detenuti, anche grazie agli interventi della Consulta; potranno meglio comprendere che i diritti fondamentali costano, che le risorse finanziarie ne condizionano il livello di tutela, ma che esistono diritti incomprimibili”. Infine l’obiettivo dei podcast è anche quello di dare la possibilità “di addentrarsi nei meccanismi di decisione e di votazione della Corte, di percepirne l’incidenza nella vita delle persone e delle istituzioni”. I podcast hanno una durata media di 20 minuti ciascuno, compresa la “punteggiatura” musicale, e per i primi 15 la periodicità è settimanale (ogni venerdì). Saranno pubblicati dalla Treccani sul suo portale, saranno trasmessi da Rai Radio1; un appuntamento la domenica anche con Radio Radicale. Lettera a Cartabia di Adriano Sofri Il Foglio, 2 giugno 2020 L’apertura alla società e l’uscita dei giudici dal palazzo rischia di esporre la Corte alla compromissione della vanità. Ieri, sul Corriere, Marta Cartabia ha spiegato la Festa della Repubblica. La nomina di Cartabia alla presidenza della Corte costituzionale, nel dicembre scorso, era stata una gran bella notizia - la prima volta di una donna in quella carica - che ne implicava una malinconica - mai una donna in quella carica, nei 63 anni dall’entrata in funzione della Corte, 1956. In totale, se non sbaglio, le giudici donne sono state 5 (4 vigenti), contro 106 uomini: un po’ meno del 5 per cento. Appena meglio che la percentuale femminile sulla popolazione detenuta: il 4,13 per cento. C’è ancora tanta strada da fare, prima della parità: o gli uomini riducono le loro carriere giuridiche o criminali, o le accrescono le donne. C’era dunque da rallegrarsi, tanto più che la presidente sottolineava il proposito di “apertura” della Corte ai cittadini, al centro della sua Relazione sull’attività nel 2019, e ricordava in particolare il “Viaggio in Italia” dei giudici: titolo simpatico, che insinuava che fino ad allora avessero vissuto altrove, in un loro estero psicologico e logistico - il palazzo della Consulta. Le due tappe del viaggio avevano riguardato carceri e scuole. Per le carceri avevo apprezzato l’impressione forte che alcuni visitatori sembravano averne riportato, caratteristica del resto di chiunque, non immune da un’umanità, faccia quella esperienza, anche a piede libero. Ignorante di diritto e di Costituzione, mi ero sentito autorizzato dall’invitante “apertura” dichiarata dalla Corte a farmene un’idea. Per esempio, avendo appreso che ciascuno dei 15 giudici della Corte godeva da sempre del diritto a visitare le carceri senza preavviso, mi ero chiesto se e quanti se ne fossero mai valsi: rarissimi, mi par di capire. (Trovo questa considerazione di Carmela Salazar: “Colpisce come, ben prima della istituzione dei garanti dei diritti dei detenuti, il garante dei diritti di tutti sia stato munito del potere di accesso ‘privilegiato’ agli istituti di pena: il fatto che la norma sia rimasta sostanzialmente inattuata, non può far dimenticare che si tratta dell’unico caso in cui ciascun giudice costituzionale è istituzionalmente chiamato a svolgere il ruolo di garante della Costituzione, peraltro in una forma peculiare, vale a dire constatando personalmente se e come, di fatto, la Carta repubblicana trovi attuazione negli istituti di detenzione”). Può darsi che la conoscenza diretta di che cos’è una galera non basti a rendere più premurosi verso “il volto costituzionale della pena” (Andrea Pugiotto); ma almeno farà passare dal “non sanno” al “sanno quello che fanno”. La “grande apertura” cui la relazione di Cartabia era improntata si riferiva del resto a un anno in cui la presidenza era di Giorgio Lattanzi, e lei era sua vice. Comunque, con una specie di ingenuità profana, ero stato attratto dall’”apertura” della Corte, come da ogni apertura, e dallo stile convincente della presidente Cartabia, tanto più in tempi di pandemia e di mal di mare costituzionale, e ne avevo scritto così giusto un mese fa. Dopo di allora ero stato assalito da una piccola tempesta del dubbio, specialmente fomentata dalla catastrofe della magistratura italiana organizzata e dissacrata da sé stessa. L’apertura alla società, l’uscita dei giudici dal palazzo e l’invito a palazzo dei cittadini, non avrebbero rischiato di esporre anche la Corte costituzionale alla compromissione quotidiana della vanità, della meschinità, degli intrighi cortigiani? Dovrei vergognarmi di un sospetto così reazionario, e tuttavia il maligno insinuava in me l’incubo di un portone spalancato alla trasparenza, su un corridoio via via più stretto in fondo al quale erano in agguato decine di migliaia di chat. Si sarebbe rimpianta la segretezza e la distanza “estera” della Corte, come si era dovuto rimpiangere, troppo spesso, che il bambino malizioso avesse additato il re nudo? Ero in questi pensieri quando una notte fonda di Radio Radicale ha trasmesso un web-seminar, un seminario in rete, cioè, dal titolo pertinente e a sua volta malizioso: “Invito a Corte… con juicio”. Per parecchie ore un certo numero di giuristi, su invito di Nicolò Zanon, giudice costituzionale, ha dibattuto sulle innovazioni portate al funzionamento della Corte, sempre in nome dell’apertura. Due in particolare: l’ammissione dell’”Amicus Curiae”, cioè “la possibilità concessa a qualsiasi “formazione sociale senza scopo di lucro” e a “soggetti istituzionali”, se portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione in discussione, di presentare opinioni scritte, non più di 25 mila battute spazi inclusi, per offrire alla Corte “elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso”. E la possibilità di invitare “esperti di chiara fama” qualora il giudice costituzionale ritenga necessario “acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline”. Ho ascoltato tutto con attenzione, per così dire, antropologica, non disponendo di un’attenzione disciplinare: come abbiamo un po’ tutti ascoltato, a bocca aperta e mascherina, il colossale seminario televisivo di virologi immunologhe intensivisti ed epidemiologhe; traendone la stessa frastornata sensazione, di ammirazione per la loro scienza, e di allarme per le loro rivalità e vanità umane-troppo-umane. Privilegio del profano benevolo è di trovare che “abbiano un po’ ragione tutti”, piuttosto che il contrario. Il relatore del seminario, Massimo Luciani, era decisamente ostile alle innovazioni, e gli intervenuti si muovevano lungo una gamma di atteggiamenti. L’entusiasmo per l’apertura - esempio: Valerio Onida (o, in altra sede, Carlassare: “La Corte… dichiarando di voler essere giudicata dai cittadini oltre che dalla comunità degli studiosi, chiarisce verso chi si sente responsabile riaffermando così la sua totale indipendenza dal potere politico. È la voce della società civile quella che conta, la voce che la Corte vuole sentire”). O la cautela - i più - o il rigetto pieno - esempio: Maria Cristina Grisolia o Michela Manetti, per le quali la trasformazione della Corte in palestra di “argomenti e valori” portati dagli Amici Curiae ne farebbe un doppione del Parlamento, rischio tanto più grave in tempi in cui il Parlamento non va tanto forte. Torna qui il tema della “supplenza”, ricorrente quanto è ricorrente l’idea della perenne emergenza. Avemmo il pansindacalismo in supplenza alla debolezza dei partiti, il pangiudiziarismo in supplenza della politica, ora magari l’esorbitanza della Corte costituzionale in supplenza di politica e magistratura ordinarie. È un fatto che la Corte, complementarmente e più profondamente che il presidente della Repubblica, se non altro per la durata, è diventata un contraltare all’inefficacia e all’insipienza delle istituzioni elettive e degli stessi governi. Sviluppo non scontato, se si ricordi il Marco Pannella che, specialmente in tema di ammissibilità dei referendum, la chiamava “suprema cupola della mafiosità partitocratica” (il che non gli impediva di digiunare perché il Parlamento nominasse i giudici che gli competevano). Qualcuno, come Roberto Romboli, costituzionalista pisano, ridimensiona l’enfasi con cui si presentano innovazioni e aperture, che gli paiono più di confezione che di sostanza. Riproponendo piuttosto questioni antiche e irrisolte, come l’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi non raggiunti all’unanimità. Spunto di battute piccanti: “Una riforma semplicissima potrebbe introdurre, in caso di approvazione a maggioranza, l’indicazione del numero dei voti favorevoli e contrari, a evitare che la notizia sia data dai giornali (con il nome dei giudici pro o contro) o addirittura dal telegiornale delle venti, con buona pace del segreto della camera di consiglio”. In sostanza, direi, delle due anime che si riconoscono alla Corte costituzionale, “politica” (in senso lato) e “giurisdizionale”, i critici paventano una prevalenza crescente e suggestiva della seconda. Mossa, dicono, da una ricerca del consenso popolare, che è propria della politica e mette invece a rischio l’autonomia del giudice, sia pure del giudice delle leggi che è il giudice costituzionale. Scrive altrove Romboli della “necessità di trovare un equilibrio tra un’apertura dalla quale certo non si tornerà indietro e la realizzazione delle condizioni perché la Corte costituzionale possa ancora definirsi ‘Giudice costituzionalè e non ‘terza camera’.” Il quale giudice costituzionale è infallibile, scherza Sabino Cassese, perché non c’è nessuno dopo di lui. Cito Cassese perché mi diverte l’idea di scrivere qui, dove il suo diario regna, al colmo dell’impertinenza. Del resto un po’ di cose sulla Corte com’è le avevo imparate dal suo libro piuttosto clamoroso, anche quello un diario, dopo la sua esperienza novennale di giudice costituzionale (“Dentro la Corte”, il Mulino, 2015). Pur senza svelare lagrime e sangue, Cassese vi sfrondava parecchi allori. Spiegava anche che la Consulta è l’unico organo del suo genere a non avere un archivio, anzi nemmeno una verbalizzazione delle sue udienze: a procedere secondo il principio di non lasciare traccia. Al nuovo eletto si dice: “La Corte parla solo attraverso le sue sentenze”, e per il resto sta zitta, ora e sempre, nei secoli dei secoli. In Francia, per fare il suo esempio, dopo 25 anni la Corte costituzionale pubblica tutti i suoi verbali in un volume in vendita al pubblico. Archivista di famiglia, Cassese pensava che bisognasse lasciare un’impronta dove si passa, e benediceva le mosse che attenuassero il mistero, come l’assunzione di un o una giornalista che aiutasse a trasmettere ai media, dunque al pubblico, una versione comprensibile delle decisioni della Corte. Vedo che anche il ricorso divenuto molto più frequente ai comunicati stampa della Corte è oggetto di dubbi, per una tendenza a forzare il senso di pronunciamenti di cui non sono ancora note le motivazioni, o a emulare uno stile giornalistico piccante: “La prostituzione al tempo delle escort: la Consulta ‘salva’ la legge Merlin”, 2019 (cit. in un Forum del “Gruppo di Pisa”). Cassese ricordava che i Costituenti avevano voluto sventare l’eventualità che la nuova Costituzione finisse in mano ai vecchi giudici, ereditati dal ventennio fascista, e dunque la affidarono alla Corte costituzionale. Che inevitabilmente, non solo in Italia, turba il potere legislativo, perché sta sopra e non sotto la legge. Cassese si domandava, cinque anni fa, se il bisogno di mettere il controllo costituzionale al riparo dalla magistratura ordinaria fosse ancora giustificato, e rispondeva di no, “probabilmente”. Ma aggiungeva che una verifica preventiva di costituzionalità affidata alle Procure, così da evitare l’intasamento della Consulta, era uno sviluppo insieme interessante e rischioso. La domanda, e soprattutto la risposta, andrebbe aggiornata: risultando meno interessante, e più arrischiata. Stati Uniti. Coprifuoco in 20 città, dopo sei giorni la rivolta non si placa di Marina Catucci Il Manifesto, 2 giugno 2020 A Camden, Ferguson e Minneapolis la polizia si unisce ai cortei ma nel resto degli Usa le proteste sono represse con la violenza. A New York De Blasio si schiera con gli agenti, la figlia viene arrestata per “adunata sediziosa” con un centinaio di altri manifestanti. Gli Stati uniti hanno visto la loro sesta notte consecutiva di proteste, nuovamente la rivolta si è accesa in decine di città e piccoli centri americani, anche dove non era mai accaduto, come Fort Lauderdale in Florida, cittadina di riviera abitata per lo più da pensionati bianchi della costa est, ma dove il personale di servizio è afroamericano o ispanico. Le manifestazioni durante il giorno sono state, in tutto il paese, per lo più pacifiche per diventare più violente con il passare delle ore. In diverse città si sono visti poliziotti unirsi alle proteste e marciare con i manifestanti: il luogo più simbolico è stato Camden, New Jersey, una delle città più problematiche, ma dove non ci sono stati scontri di alcun tipo. A Camden il capo della polizia Joseph Wysocki ha aperto la marcia reggendo lo striscione “Restando in solidarietà”, mentre gli altri agenti scandivano con i manifestanti lo slogan “Nessuna giustizia, nessuna pace”. Anche il sindaco di Camden Frank Moran si è unito alla manifestazione. A Minneapolis il capo della polizia Medaria Arradondo intervistato dalla Cnn ha condannato i suoi uomini sottolineando che vanno incriminati anche i tre poliziotti che non hanno fermato il collega mentre soffocava George Floyd: “Il signor Floyd è morto nelle nostre mani e quindi siamo complici. Silenzio e inazione, sei complice. Se ci fosse stata una sola voce a intervenire, è quello che avrei sperato accadesse”. L’importanza di questa affermazione di Arradondo non è solo simbolica, ma apre la strada a un’incriminazione per i tre agenti. Ma questi esempi virtuosi non sono stati i più comuni. La violenza della polizia sui manifestanti è stata registrata nella maggior parte delle piazze da migliaia di telefonini e condivisa online da manifestanti iperconnessi e consci di questo potere nelle loro mani. Il video di una pattuglia di agenti di Minneapolis che seguiva un blindato dell’esercito durante il coprifuoco, ripresi mentre usavano i canister (bombolette esplosive letali quanto i lacrimogeni) contro le persone ferme sotto il portico di casa loro, gridando “Dagli fuoco”, è stato visto da centinaia di migliaia di persone. Immagini come queste hanno provocato ulteriori denunce sul comportamento della polizia. Il coprifuoco a tempo indeterminato ora non è più prerogativa della sola Minneapolis ma è stato indetto in venti città tra cui la super liberal San Francisco che aveva appena cominciato a riallentarlo per entrare in una fase più aperta del lockdown. A New York, dove sono ripresi gli scontri e non più solo a Brooklyn ma a downtown Manhattan, nel Greenwich Village, il sindaco De Blasio ha deciso di non introdurre il coprifuoco perché poco efficace ed è stato molto criticato per il sostegno dato alle forze dell’ordine a cui, a suo dire, non è data altra scelta che usare la violenza contro i manifestanti. Non si era ancora spenta l’eco delle dichiarazioni di De Blasio che si è sparsa la notizia dell’arresto della figlia Chiara, che aveva preso parte alle proteste di Manhattan dove è stata fermata e accusata di “adunata sediziosa” insieme a un centinaio di altri manifestanti. Poche ore dopo il governatore Cuomo ha imposto il coprifuoco a New York City, dalle 23 alle 5 Il fuoco, letterale e simbolico, di questa rivolta nella notte si è riacceso anche a Washington, sempre più vicino alla Casa bianca, e la protesta è diventata talmente accesa che i servizi segreti hanno deciso di portare Trump nel bunker sotterraneo della Casa bianca, predisposto per proteggere il presidente ed essere usato durante le minacce terroristiche. L’esterno della Casa bianca, solitamente illuminato a giorno, è stato oscurato e l’immagine al buio mentre nel parco che la circonda venivano appiccati fuochi e si alzava il fumo dei lacrimogeni è diventata immediatamente la metafora iconica di questa presidenza. Dal bunker fisico e politico dove è blindato, Trump non mai parlato al paese, ma ha affidato a Twitter la sua strategia per uscire dal buco nero dove sono sprofondati gli Usa. Ha annunciato che considererà Antifa un’organizzazione terroristica e sarà trattata come tale. Il fatto che l’antifascismo non è un’organizzazione in sé che può essere considerata più o meno illegale non è stato affrontato. Questo principio è stato ripetuto dalla sua portavoce Kayleigh McEnany, che ha annunciato che negli Usa verranno impiegate più risorse dell’esercito perché “per dominare le strade ora controllate dai manifestanti ci sarà bisogno di più forza” e di voler mettere un generale al comando dell’operazione: “Ci sono anarchici e antifa nelle nostre strade”. Alla domanda su come identificare gli antifascisti in quanto tali McEnany ha risposto che a questo sta lavorando il Dipartimento di Giustizia. Trump non è apparso in pubblico nemmeno durante la conferenza stampa ma nel briefing con il suo team ha affermato che i governatori che non ordinano l’incarcerazione dei manifestanti “per lungo tempo” dovranno cambiare rotta o sembreranno dei “coglioni”. La death fast nelle carceri turche e gli ideali che sopravvivono alla morte di Giusy Santella mardeisargassi.it, 2 giugno 2020 Death fast: letteralmente, morte veloce. È l’espressione che abbiamo sentito utilizzare di recente con riferimento allo sciopero della fame di alcuni attivisti detenuti nelle carceri turche in segno di protesta per i processi ingiusti e gli arresti arbitrari cui sono stati sottoposti. È la morte veloce che molti di loro preferiscono a quella lunga e interiore che seguirebbe a una prigionia ingiusta e priva di fondamento. È quella cui vanno incontro Ebru Timtik e Aytac Unsal, che non toccano cibo da più di cento giorni e continueranno se il silenzio istituzionale e dei grandi media non si interromperà. Si tratta dei legali di Helin Bolek e Mustafa Koçak, anche essi morti nelle carceri turche rispettivamente dopo 288 e 297 giorni di digiuno. Il capo di imputazione per tutti loro è lo stesso: appartenenza ad associazioni terroristiche e in particolare al Dhkp-C, partito considerato illegale in Turchia. È un reato che dopo il fallimento del colpo di Stato del 15 giugno 2016 viene utilizzato moltissimo per reprimere qualsiasi forma di opposizione: le norme antiterroristiche esistevano già da tempo ma a partire da quel momento sono diventate lo strumento di un’accanita caccia alle streghe nei confronti di tutti gli eventuali simpatizzanti dei golpisti. Le persone maggiormente colpite sono giornalisti, avvocati e artisti che sposano ideali non allineati con l’idea di Turchia del Presidente Recep Tayyip Erdo?an. È quanto successo a tantissimi membri del Grup Yorum, una band fondata nel 1985 e diventata presto il simbolo della sinistra turca, sposando lotte per la giustizia e la libertà non solo nel proprio Paese ma in tutto il mondo. Tra questi c’era anche Helin, morta appena un mese fa, così come Ibrahim Gokçek, spentosi dopo 323 giorni di digiuno il 7 maggio scorso, in seguito alla notizia della revoca del divieto di esibirsi imposto dalla magistratura. In realtà, nonostante l’entusiasmo per questo flebile segnale di apertura, non è stata fissata alcuna data per un eventuale concerto e sono molte le richieste del gruppo ancora inevase, tra cui la scarcerazione di tutti i componenti della band, l’annullamento del mandato di cattura nei confronti degli altri musicisti e l’interruzione delle operazioni di polizia ai danni di Idil, il loro centro culturale colpito da molteplici attacchi - anche violenti - nel corso di questi anni. Addirittura, al funerale di Ibrahim non sono mancati scontri con le forze dell’ordine, che hanno sequestrato il corpo e lanciato lacrimogeni contro la folla, adducendo come giustificazione il rispetto delle misure anti-Covid. In quell’occasione, sono state arrestate anche le tre legali di Ibrahim e altri due membri del Grup Yorum, fatti che non promettono nulla di buono. A dimostrazione dell’accanimento repressivo messo in atto, prigionieri politici, giornalisti, attivisti e avvocati sono stati esclusi dalle misure varate per il contenimento del coronavirus: circa 100mila detenuti hanno infatti potuto godere della liberazione condizionale purché non appartenenti a nessuna di queste categorie, oramai individuate quali nemiche dell’ordine pubblico. Come denunciato da Murat Cinar, giornalista turco trapiantato a Torino, le carceri del Paese sono piene di persone detenute in maniera arbitraria utilizzando le norme antiterrorismo. Basti pensare che persino un membro di Amnesty International Turchia, Taner Kiliç, è stato arrestato: tra le sue colpe l’aver scaricato un’app che i golpisti utilizzavano per scambiarsi messaggi. Per tutti loro si svolgono processi sommari, con falsi testimoni e prove costruite ad hoc per decretarne la colpevolezza. Nel processo dei legali Ebru e Aytac, condannati complessivamente a 159 anni di carcere e attualmente detenuti nelle prigioni di Silviri - il più grande carcere d’Europa - e Balikesir, ha avuto molto peso il Ministro dell’Interno Soleyman Soylu, che li ha definiti pilastri dell’organizzazione terroristica Dhkp-C. A nulla sono valse le proteste dell’opposizione che considera l’udienza una farsa: i due resteranno in carcere, oltretutto in isolamento. Una sorte che non tocca soltanto a loro: secondo un rapporto dell’Ong The Arrested Lawyer Iniziative, risulta che solo a febbraio 2020 oltre 1500 avvocati sono stati messi sotto indagine e 605 arrestati. Il più grande carcere al mondo di giornalisti professionisti: così è stata definita la Turchia da Reporter Senza Frontiere, riferendosi all’accanimento perpetrato nei confronti dei redattori e di tutti i mezzi di comunicazione non allineati al regime. Chiusi 70 quotidiani, 20 riviste, 34 stazioni radio e 33 canali televisivi, 88 giornalisti condannati in via definitiva, 73 in attesa di giudizio e 167 in esilio. Numeri da brividi che, tuttavia, non riescono a scuotere le istituzioni europee, troppo impegnate a salvaguardare i propri interessi economici con la Turchia, a cui vendiamo le nostre armi contribuendo al rafforzamento di un regime autoritario. Non una parola sugli avvocati in sciopero della fame per i quali solo associazioni di categoria e realtà impegnate nel settore hanno fatto sentire la propria voce. Non una protesta né un grido d’allarme per tutti coloro che scelgono la strada della death fast per far valere i propri diritti, fino a morire una volta trasformatisi in un’ombra di 20 chili di se stessi. Aytac ed Ebru appartengono entrambi all’associazione turca degli avvocati progressisti, un gruppo di legali che sposa le cause delle fasce più deboli della popolazione, e hanno fatto sapere che porteranno avanti il loro sciopero fino alla morte, senza assumere neppure integratori. Fino a quando ne avranno le forze, dicono, si batteranno per processi equi e per difendere la libertà d’espressione. Non ho mai lasciato indietro le persone più vulnerabili. Ho vissuto i momenti più felici della mia vita mentre difendevo i più deboli nei tribunali. Grazie al mio lavoro di avvocato ho conosciuto il valore della vita e delle singole persone: ha scritto Aytac in una lettera nella quale ripercorre la sua vita e le ragioni che l’hanno portato a incamminarsi verso la morte. Io non rinuncerò mai alla mia gente, all’Anatolia, che mi ha insegnato la vita, che mi ha reso umano con il suo sforzo. Morirò ma non mi arrenderò. Questa è la storia del mio viaggio. Morirò come Mustafa Koçak e Ibrahim Gokçek. Morirò ma non smetterò mai di difenderli: la conclusione è chiara, esistono ideali che sono più forti dell’attaccamento alla vita capaci di rimanere oltre i corpi e la loro morte. Ci sono principi per cui vale la pena lottare e morire, perché nessuno subisca gli stessi abusi. È impossibile che queste grida rimangano inascoltate, è impossibile rimanere in silenzio. Medio Oriente. Arabe e israeliane in marcia: “Unite contro il femminicidio” di Francesca Paci La Stampa, 2 giugno 2020 A Tel Aviv migliaia di donne hanno sfilato insieme contro la violenza domestica che le accomuna: “Siamo le vittime ignote del Covid, è una guerra nella guerra, il governo non difende nessuna” Hanno raccontato la loro storia una dopo l’altra sul palco allestito a ridosso di Charles Clore Garden, tra la spiaggia e lo skyline di Tel Aviv. Shira Vishnyak, la sorella della ventunenne ammazzata dal marito due settimane fa a Ramat Gan. Yara abu Abla, sopravvissuta al suo congiunto assassino e allo stigma sociale nel villaggio arabo di Yalcka. Eli Fink, lo pseudonimo di una giovane ortodossa protetta dietro mascherina e occhiali scuri dal conformismo religioso. L’esule etiope Askadel Simansh, marchiata a lutto dal cognato. Donne. Tutte quelle che durante il lockdown hanno respirato il fetore della violenza domestica crescente nel Paese: e sono sature. Nei due mesi sigillati dal coronavirus Israele ha contato 7 femminicidi, 11 dall’inizio dell’anno, poco meno dei 13 totali del 2019. “È un’epidemia silenziosa, siamo le vittime ignote del coronavirus pur rappresentando il 51% della popolazione”, ci spiega Dror Sadot, una delle organizzatrici della marcia organizzata ieri a Tel Aviv, oltre diecimila persone distanziate ma compatte nel dire no all’indifferenza. Gila, 25 anni, ha partecipato con tre amiche di Gerusalemme: “Vogliamo sapere dove sono i 250 milioni di shekel, quasi 7 milioni di dollari, stanziati due anni fa dal governo per contrastare i crimini di genere e bloccati chissà dove, come se le nostre vite non fossero una priorità”. Mentre Israele naviga nel mare ignoto del Medioriente 2.0, tra le polemiche per il piano di annessione dei Territori e lo spettro del palestinese autistico ucciso sabato dalla polizia, l’altra metà del cielo lancia la sfida della “nuova emergenza sociale” alla sola vera ancorché complicata democrazia della regione. “È una guerra nella guerra e si consuma in silenzio, il femminicidio è percepito come un problema di genere sebbene sia una questione di civiltà”, sottolinea Anat Lev Adler, attivista e giornalista del quotidiano Yedioth Ahronot. Il problema è politico, insiste la Lev Adler, una delle organizzatrici dello sciopero delle donne del 2018, quando piazza Habima si riempì di scarpe rosse come il sangue versato all’ombra della famiglia, la trincea più oscura di una terra avvilita dalle armi: “Il premier Netanyahu tace, non si è mai esposto su questo: conosciamo la minaccia dell’Iran, quella del terrorismo, ma nulla sulla violenza dei nostri mariti. Il risultato è che, per quanto se ne parli, gli uomini non partecipano abbastanza. A due anni dallo sciopero del 2018 non è cambiato pressoché nulla”. Da almeno un mese a Tel Aviv come ad Haifa, a Gerusalemme e fin giù nelle città del Negev si accendono proteste spontanee dove donne israeliane alzano la voce accanto alle cosiddette “Sister in misery”, l’altra faccia della meglia, le sorelle come Soheir Asaad, leader del movimento Tal’at, a cui si deve l’agit prop di pentole percosse alla finestra con cui ad aprile centinaia di arabe-israeliane hanno messo il megafono alla violenza consumata in casa rifiutando la definizione di “delitto d’onore” perché non c’è onore nell’ammazzare tua figlia. La stessa violenza che a Gaza colpisce il 51% delle donne, che secondo la polizia israeliana è aumentata in pochi mesi del 16% e che in Italia ha fatto 11 vittime nei mesi in cui, secondo “Forbes”, la reazione più efficace alla pandemia è arrivata da Paesi guidati da donne. In Tunisia puoi rischiare il carcere (e la vita) per un post ironico di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2020 Emna Chargui continua a maledire il momento in cui ha schiacciato il tasto “Pubblica sul tuo profilo”. Il 2 maggio la 27enne blogger tunisina ha condiviso su Facebook la “Sura del Corona”, un post ironico in cui, nella forma che richiamava un verso del Corano, c’era scritto che il Covid-19 proveniva dalla Cina e che era necessario lavarsi le mani. Nei due giorni successivi è stata sottoposta a interrogatori. Il 6 maggio è comparsa in tribunale in assenza della sua avvocata. Le è stato chiesto di tutto, dalla sua fede alla recente comparsa di eventuali disturbi mentali fino a domandarle se avesse consultato uno psichiatra. Al termine dell’udienza è stata formalmente incriminata per “incitamento all’odio religioso attraverso mezzi ostili o violenza” e “offesa alle religioni autorizzate”, ai sensi degli articoli 52 e 53 del codice penale. Rischia fino a tre anni di carcere e una multa di 2000 dinari. Naturalmente, un attimo dopo la pubblicazione del post, è partita la campagna di odio online. Emna ha ricevuto minacce di morte e di stupro, ma le autorità non hanno preso alcuna misura protettiva nei suoi confronti. Dunque, nonostante i progressi democratici, in Tunisia si utilizzano ancora leggi repressive contro la libertà d’espressione. Già: perché Emna può aver agito con leggerezza, non calcolando le conseguenze del suo gesto e non tenendo conto della suscettibilità del pubblico di un paese da cui tra l’altro in tanti sono partiti per andare a combattere in Siria, ma ciò che ha fatto rientra in pieno nella libertà d’espressione. Il processo, fissato per il 28 maggio, è stato rinviato al 2 luglio. *Portavoce di Amnesty International Italia El Salvador. Un anno di presidenza Bukele tra repressione e promesse tradite di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 giugno 2020 Un anno fa, il 1° giugno 2019, Nayib Bukele entrò in carica come presidente di El Salvador al termine di una campagna elettorale segnata da molte promesse nel campo dei diritti umani. Trecentosessantacinque giorni dopo, quei diritti sono sempre più a rischio. Partiamo dalla fine. Durante la pandemia da Covid-19 oltre 2000 presunti violatori della quarantena domiciliare sono stati arrestati e trasferiti in “centri di confinamento” privi di condizioni igienico-sanitarie adeguate e in cui il distanziamento fisico non poteva essere in alcun modo garantito. Tra i violatori finiti nei “centri di confinamento” c’erano persone uscite di casa per comprare cibo e medicinali. Ad esempio, una difensora dei diritti umani che soffre di diabete è stata fermata di ritorno da un negozio di alimentari e da una farmacia. Suo figlio di tre anni l’ha attesa a casa per oltre un mese. Un ragazzo che, dopo aver finalmente ritirato il suo stipendio, era andato a comprare cibo e a fare benzina: un agente lo ha fermato e gli ha sparato due volte alle gambe. Un altro ragazzo è stato fermato di ritorno da una piantagione di zucchero, nonostante si trattasse di una “attività essenziale” ed è rimasto per tre giorni, sebbene fosse minorenne, in un centro di detenzione per adulti. Memorabile, ma in negativo, era stata a febbraio la minacciosa sfilata di militari all’interno dell’Assemblea legislativa, che era stata convocata in sessione straordinaria dal Consiglio dei ministri per approvare misure finanziarie. Il primo anno di presidenza di Bukele è stato inoltre caratterizzato da discorsi pubblici screditanti verso le organizzazioni dei diritti umani, inviti alle forze di sicurezza ad usare metodi violenti o proclami a non rispettare le sentenze della Corte suprema di giustizia. Le norme che impediscono l’interruzione di gravidanza, equiparandola all’omicidio aggravato, sono rimaste in vigore. E pensare che, in uno dei suoi primi incontri dopo l’insediamento alla presidenza, Bukele aveva incontrato una delegazione di Amnesty International promettendole che sarebbe stato “una voce diversa” nell’America centrale. L’unico atto parzialmente positivo di Bukele è stato il veto posto a febbraio alla Legge speciale sulla giustizia transizionale, sulla riparazione e sulla riconciliazione nazionale, che non garantiva in modo adeguato i diritti delle vittime del conflitto armato. Amnesty International si è congratulata pubblicamente per questo veto, esortando il presidente Bukele a rendere pubbliche le informazioni contenute negli archivi militari relative agli anni del conflitto, azione che avrebbe aiutato a garantire verità giustizia e riparazione alle vittime. La cosa non ha purtroppo avuto seguito.