Celle zeppe, ma 17mila detenuti hanno meno di 2 anni da scontare di Angela Stella Il Riformista, 29 giugno 2020 Le 408 pagine della Relazione al Parlamento 2020 da parte del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale sono un richiamo alla “urgenza di vedere, visitare” quei luoghi di solitudine, di marginalità, di confine tra i buoni e i cattivi, tra i fortunati e gli sfortunati, tra i sani e i vulnerabili. Era stato Piero Calamandrei, ricorda il presidente Mauro Palma, a dire “bisogna aver visto” per parlare di carcere ma anche per “affermare in concreto quell’altrettanto imperioso riconoscimento di tutti allo stesso corpo sociale che nessun muro mentale o materiale può far venire bene”. E allora addentriamoci nella relazione esposta dal collegio del Garante - Mauro Palma, Daniela De Robert, Emilia Rossi - alla presenza della presidente della Corte Costituzionale, della vice presidente del Senato, della ministra dell’interno e del ministro della Giustizia. Innanzitutto la relazione è stata illustrata nella giornata internazionale della lotta contro la tortura. A conoscenza del Garante nazionale, tre Procure di Italia - Napoli, Siena, Torino - hanno aperto ognuna un procedimento penale ravvisando il delitto di tortura in atti di violenza e di minaccia compiuti da operatori della polizia penitenziaria nei confronti di persone detenute. Il Garante nazionale ha ribadito che “il contrasto di ogni percezione di impunità che può maturare nelle comunità chiuse del carcere o negli altri luoghi in cui si eserciti il potere repressivo dello Stato e l’isolamento degli episodi illeciti, sono il corollario necessario, anche sul piano culturale, del riconoscimento del valore del servizio di vigilanza e di cura esercitato da tutte le forze di polizia del Paese”. Rimanendo sempre in ambito penale è da rilevare che “attualmente, vi sono 867 persone detenute che scontano una pena inferiore a un anno e 2.274 una pena compresa tra uno e due anni (parliamo di pena inflitta e non di un residuo di pena maggiore). Così come vi sono 13.661 persone detenute che hanno un residuo di pena inferiore a due anni. Situazioni che pongono interrogativi circa il loro mancato accesso a misure alternative e che fanno emergere una dimensione “classista” del sistema ordinamentale”. A questi numeri occorre purtroppo aggiungere quelli relativi ai suicidi: 25 dall’inizio dell’anno che, seppur in una visione parziale, sono superiori all’anno scorso. Un dato grave è che dei 55 detenuti che si sono suicidati nel 2019, ben 20 erano ancora in attesa di primo giudizio. In merito al sovraffollamento, grazie alle novità legislative introdotte, al 29 febbraio 2020 le persone detenute erano 61230 e sono scese al 23 giugno a 53.527. La capienza regolamentare è tuttavia di 50.472 posti. Per quanto concerne invece l’ambito della privazione della libertà delle persone migranti “nel 2019 il numero delle persone trattenute in un Cpr è aumentato di 2.080 unità rispetto all’anno precedente e, fatta eccezione per Trapani e Roma-Ponte Galeria, è cresciuto anche significativamente il tempo di permanenza media delle persone all’interno dei Cpr”. La giustizia ripopola i tribunali ma salva anche le udienze online di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2020 Da mercoledì 1° luglio la giustizia esce con un mese di anticipo dalla fase 2 dell’emergenza. Ma non torna ai ritmi e alle procedure pre-Covid, dato che è ancora necessario rispettare le prescrizioni sanitarie, a partire dal distanziamento. Da un lato, infatti, dovrebbero cessare i rinvii massicci delle udienze, ma, dall’altro, la riapertura dei tribunali sarà graduale e non scompariranno le modalità “digitali” di gestione della giurisdizione adottate durante la pandemia per evitare l’assembramento negli uffici. La fine anticipata della fase 2 è l’effetto della conversione del decreto legge 28/2020, approvato dalla Camera la scorsa settimana. Nel testo finale è infatti caduta la norma che protraeva fino al 31 luglio le misure emergenziali per la giustizia. È tornata così la scadenza originaria, fissata al 30 giugno dal decreto cura Italia (18/2020). Ma la stessa legge di conversione del Dl 28 ha precisato che restano validi gli atti adottati e gli effetti sorti nel frattempo. “Le udienze non in presenza fissate a luglio si terranno - assicura il presidente del Tribunale di Milano, Roberto Bichi: è l’unica modalità che ci consente di mantenere la produttività. Altrimenti, la fine della fase 2 rischierebbe di avere un effetto contrario a quello sperato di ripresa, dato che resta l’obbligo di garantire il distanziamento e gli spazi in tribunale sono ridotti”. Per le nuove attività, invece, si applicheranno le procedure “normali”. È il caso dei processi per direttissima degli arrestati, che durante l’emergenza si sono svolti in collegamento video ma che ora riprenderanno in tribunale. L’obiettivo, per Bichi, è gestire la ripartenza “con ordine e buon senso, aumentando le udienze in presenza, ma in sicurezza. A luglio, grazie alle modalità digitali di trattazione, si riuscirà a gestire il lavoro. I problemi potrebbero sorgere a settembre se non saranno confermate”. La chance sperimentazioni - Anche a Napoli, da mercoledì, “per i procedimenti civili continueremo a usare soprattutto la trattazione scritta - afferma la presidente del Tribunale, Elisabetta Garzo - ma cercheremo di aumentare anche le udienze in aula” quando lo svolgimento “cartolare” non è possibile, come per sentire i testimoni o le parti. Quanto ai processi penali, “quelli collegiali sono già ripartiti, mentre per quelli del tribunale monocratico, molto numerosi, occorre fissare un tetto. La ripresa sarà comunque sostanziale”. Un aiuto per i prossimi mesi dovrebbe venire da un emendamento al decreto legge Rilancio (34/2020), all’esame della commissione Bilancio della Camera per la conversione in legge e atteso in Aula nei prossimi giorni. La proposta di modifica mira a estendere la “sperimentazione” delle innovazioni introdotte dal decreto cura Italia fino al 31 dicembre 2021. Si tratta, tra l’altro, della possibilità di sostituire le udienze civili a cui devono partecipare solo i difensori con il deposito di note scritte; e della chance di svolgere tramite collegamenti audiovisivi a distanza le udienze civili aperte, oltre che ai legali, solo alle parti e agli ausiliari del giudice, e quelle penali. Sarà però necessario avere il consenso delle parti. A premere per la ripresa è soprattutto l’avvocatura, che viene da settimane di proteste e manifestazioni contro i tribunali chiusi. “La giustizia è un servizio essenziale e deve ripartire”, afferma il presidente dell’Unione delle camere civili, Antonio de Notaristefani, che aggiunge: “Per farlo in sicurezza, possono essere utili la proroga della trattazione scritta e della celebrazione da remoto e anche lo scaglionamento degli orari delle udienze”. Per rendere più efficiente la giustizia civile, afflitta da tempi lunghi e incerti, si sta rimettendo in moto anche la macchina della riforma, sulla spinta delle “raccomandazioni” del Recovery fund. È infatti in agenda per domani un incontro al ministero della Giustizia con magistrati e avvocati. Si ripartirà dal disegno di legge delega licenziato a dicembre dal Governo ma rimasto finora in attesa di iniziare l’esame al Senato. Giudici collegati dal tribunale ma non per forza dall’aula di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2020 Quando attiva il video collegamento per l’udienza da remoto, il giudice civile deve trovarsi in ufficio ma non necessariamente in aula. È questo l’effetto della modifica che, durante l’iter di conversione, è stata inserita nell’articolo 3 comma 2 lettera c) del decreto legge 28/2020, approvato definitivamente dalla Camera la scorsa settimana. Lo svolgimento delle udienze civili da remoto è stato oggetto di un complicato rincorrersi di norme, di cui questo emendamento è solo l’ultima tappa. Il decreto legge 11 dell’8 marzo 2020 ha introdotto misure per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria. L’articolo 2 comma 2 lettera f) di quel decreto ha previsto che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti potessero svolgersi mediante collegamenti da remoto. Il 10 marzo un provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia ha individuato i programmi da utilizzare: Skype for business e Teams, già a disposizione dell’amministrazione, che si avvalgono di infrastrutture o zone di data center riservate al ministero della Giustizia. L’articolo 2 del decreto legge 11/2020 è stato sostituito dall’articolo 83 comma 7 lettera f) del decreto legge 18/2020, convertito con modificazioni dalla legge 27 del 24 aprile 2020, che ha esteso la possibilità di utilizzare il video collegamento anche alle udienze cui debbano partecipare ausiliari del giudice e a quelle finalizzate ad assumere informazioni presso la pubblica amministrazione. Il quadro normativo composto tra l’8 marzo e il 24 aprile consentiva quindi al giudice e a tutti gli altri soggetti interessati di collegarsi da qualsiasi luogo, anche da casa. Ma appena approvata la legge di conversione, l’articolo 83 comma 7 lettera f) è stato modificato dall’articolo 3 comma 1 lettera c) del decreto legge 28 del 30 aprile 2020, che ha previsto l’obbligatoria presenza del giudice nell’ufficio giudiziario. Su questa disposizione è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dal Tribunale di Mantova che, con ordinanza del 19 maggio 2020, ha chiesto alla Consulta di valutare se l’inserimento dell’obbligo di presenza in ufficio del giudice dell’udienza civile costituisca una scelta legislativa manifestamente irragionevole. Inoltre, sono emerse le difficoltà operative: le dotazioni informatiche degli uffici giudiziari possono non essere in grado di sopportare il flusso di dati derivanti da tutte le udienze civili che si svolgono nelle stesse aule. E non sempre le aule di udienza sono servite da adeguata infrastruttura di rete e da idonea ricezione. La legge di conversione del Dl 28/2020 precisa ora che “il luogo posto nell’ufficio giudiziario da cui il magistrato si collega con gli avvocati, le parti e il personale addetto è considerato aula d’udienza a tutti gli effetti di legge”. La disposizione implicitamente ammette la possibilità per il giudice di organizzare il video-collegamento dal luogo più idoneo nell’ambito della struttura giudiziaria del suo ufficio; potrà trovarsi anche nella sua stanza, in cancelleria, in una sala server o in altro locale appositamente attrezzato. Qualsiasi di questi luoghi diventerà “di diritto” aula di udienza, purché il giudice sia nell’ufficio giudiziario. Il giudice quindi non potrà restare a casa, ma l’aula di udienza può considerarsi “smaterializzata” per legge. L’identità smarrita dei magistrati italiani di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 29 giugno 2020 Anche per la giustizia vale il principio che “tutto è politica”. Ma tale principio diventa di fatto in questo caso l’unico elemento di autoidentificazione dei singoli. Non credo proprio che a produrre il discredito che oggi colpisce l’attività giudiziaria e i suoi addetti siano state le intercettazioni dal cellulare del dottor Luca Palamara, che hanno fatto conoscere a tutti il clima di intrallazzo correntizio e di collusione con la politica in cui per anni si è svolta l’attività del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm). Da molto tempo, infatti, la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica quell’intrallazzo e quella collusione li intuiva benissimo, anche se preferiva non parlarne (in parte anche per paura). Le intercettazioni del cellulare di Palamara sono servite solo a confermare ciò di cui tutti o quasi erano già convinti: sulla base di un giudizio ingiustamente sommario, se si vuole, ma inevitabile, dal momento che la gravità dei fatti cancella fatalmente i pur necessari distinguo. Ho scritto che una gran parte dell’opinione pubblica ha preferito tacere il proprio ragionato giudizio negativo sulla magistratura per paura. È così: in sostanza per la paura da parte di molti di essere identificati con la destra berlusconiana. La quale, avendo impegnato una lunga battaglia senza esclusione di colpi contro le procure, e pur avendo talvolta delle ragioni dalla sua, ha tuttavia, in questo modo, avvelenato ogni discussione con il trasformarla inevitabilmente in un plebiscito a favore o contro il Cavaliere. Ma nel braccio di ferro con Berlusconi la magistratura, se ha guadagnato il silenzio complice di molti, ha tuttavia sempre più assistito ad una trasformazione che ha finito per perderne l’anima. Una trasformazione che non è partita dal suo interno ma che ha rispecchiato un cambiamento più generale del Paese. Le donne e gli uomini dell’apparato giudiziario, infatti, sono stati forse le maggiori vittime di quella duplice assenza di etica e di spirito di corpo comune a tutta la struttura socio-statale italiana nel periodo della Repubblica. Un breve salto nel passato farà capire meglio cosa voglio dire. Ricordo bene quando molti e molti anni fa i magistrati italiani erano dei conservatori. Lo erano innanzi tutto da un punto di vista culturale, in un modo che spesso appariva perfino patetico. E naturalmente lo erano in senso politico. Ma lo erano, dirò così “naturalmente”. Cioè non già perché coltivassero personali legami con la politica o con qualche partito di centro o di destra, o perché se ne attendessero qualche vantaggio o magari si sentissero impegnati in una qualche battaglia ideale a sfondo socio-politico. Erano politicamente conservatori soprattutto perché provenivano pressoché totalmente dalla borghesia, la quale allora era conservatrice, spesso e volentieri anche reazionaria. Sicché era normale, ad esempio, che nei processi a sfondo politico - penso a quelli allora frequentissimi riguardanti l’ordine pubblico - sugli imputati di sinistra grandinassero per un nonnulla anni di galera. Poi le cose cambiarono. Grazie alla mobilità favorita dalla crescente scolarizzazione, la provenienza sociale dei magistrati così come quella di ogni altro gruppo professionale fu in buona parte liberata dagli stretti vincoli classisti precedenti. Da un carattere dominante cetuale di tipo liberal-borghese con forti tratti reazionari la società italiana passò almeno tendenzialmente a una struttura democratico-interclassista. Sebbene con il vincolo in Italia sempre fortissimo della trasmissione ereditaria delle professioni, tutti poterono diventare giudici, medici o notai. Un fatto indubbiamente positivo ma con una conseguenza inevitabile: il venir meno all’interno delle varie corporazioni professionali di quell’omogeneità/ solidarietà di fondo che in precedenza erano assicurate dalla comune origine socio-culturale. In altri Paesi questo venir meno di valori di tipo classista nei ceti professionali e degli alti uffici pubblici, verificatosi in tutte le democrazie, è stato compensato da un insieme di altri caratteri risalenti: da una diffusa cultura civica, da un’orgogliosa deontologia delle identità professionali, da antiche tradizioni di servizio allo Stato e di spirito di corpo. Tutte cose che per ragioni storiche da noi erano invece introvabili o solo debolmente esistenti. Sulle quali quindi la Repubblica non ha potuto contare e alle quali tantomeno essa è riuscita a dare vita. Nata dai partiti, infatti, e rimasta sempre dei partiti (anche per effetto di uno sciagurato sistema di governo), la Repubblica ha potuto trovare solo nella politica, nella politica di partito, la sua vera ragion d’essere, in un certo senso la sua ideologia fondativa. Per ragioni storiche ormai consolidate ma abbastanza uniche nel panorama europeo, nel nostro Paese la stessa Costituzione non sfugge al destino di essere oggetto da sempre di continue dispute di segno politico. Non è dunque per caso se nella democrazia italiana anche l’ideologia strutturante della magistratura è diventata ben presto la politica. Non è per caso se una volta andata in soffitto l’antica unità classista, il ruolo e la funzione dei magistrati, ai loro stessi occhi, nei loro stessi discorsi, si sono andati caricando immediatamente di significato e contenuto politico. Se ben presto per l’identità della grande maggioranza di essi la dimensione della politica e delle relative ideologie è diventata la sola dimensione realmente significativa. Anche perché nel frattempo la politica dei partiti non lesinava certo seduzioni, minacce e allettamenti di ogni tipo avendo scoperto quale ruolo importante potesse avere (o non avere) un procuratore della Repubblica al posto giusto nel momento giusto. Sia chiaro: è evidente che anche per ciò che riguarda la giustizia vale il principio che “tutto è politica”. Ma un conto è che tale principio informi di sé la discussione sulle grandi linee generali, sulle opzioni di sistema, un conto ben diverso è che immediatamente, cioè senza alcuna mediazione, la politica diventi di fatto l’unico elemento di autoidentificazione dei singoli, del loro profilo, dei loro atti, del modo di esercitare le proprie funzioni. Secondo una deriva che rende impossibile - non bisogna stancarsi di ripeterlo - qualunque immagine d’imparzialità e che di conseguenza dissolve virtualmente ogni idea di giustizia. Perché questo è il danno terribile occorso alla magistratura italiana: la perdita dell’immagine dell’imparzialità. Una magistratura, per giunta, apparsa finora, tranne rarissime eccezioni, totalmente ignara del problema, accecata dal suo enorme potere, trincerata in un Consiglio superiore impegnato perennemente nella bassa cucina delle nomine o nella difesa della corporazione, incapace sempre di dire un’alta parola di verità e di autocritica. Occorre investire nella Giustizia e non a costo zero: basta guerre tra poveri di Antonio De Notaristefani* Il Dubbio, 29 giugno 2020 Il presidente dell’Unione delle Camere civili: “per ripartire dopo una pandemia ci vogliono programmi vasti e non ci si può limitare alla gestione dell’esistente”. I maxi emendamenti del governo alle leggi di conversione dei decreti sono sempre stati delle trappole: c’è un termine che scade, il tempo stringe, le trattative si fanno frenetiche, i lobbisti incalzano e, spesso, una manina (o una manona) fa un miracolo: un comma introdotto di soppiatto, e qualche amico riceve un auxilium. Questa volta, è stato dato in appalto al mondo della mediazione tutto il contenzioso post covid. Temo soprattutto quello bagatellare, purtroppo per loro: le imprese hanno tempi di reazione più rapidi, e spesso i loro problemi li avevano risolti già. Ma chi reputa di avere diritto ad un rimborso, piuttosto che ad un voucher, adesso dovrà pagare prima i costi della mediazione, quelli dell’avvocato che lo assiste in quella fase e poi, se non riesce, quelli necessari ad avere giustizia. Auguri. Non sono contrario alla mediazione; sono contrario alla imposizione di un costo aggiuntivo a carico dei cittadini. Pensate che la mediazione (chissà perché non anche la negoziazione assistita?) sia socialmente utile? Può darsi. Allora, incentivatela con la leva fiscale, come avete fatto con l’acquisto di biciclette o di monopattini elettrici, non ne imponete la obbligatorietà. Una condizione di procedibilità delle azioni giudiziarie può essere introdotta - sul punto, l’insegnamento della Corte costituzionale è fermissimo - solo se consente un più rapido soddisfacimento dell’interesse sostanziale dei cittadini. Provate a chiedere a loro quanto sono soddisfatti di questo costo aggiuntivo, imposto mentre la crisi svuotava i loro portafogli. Il settore delle conciliazioni assistite da tempo è ripartito in feudi cui si viene assegnati per obbligo di legge (che dire del diniego opposto alla negoziazione assistita in materia di lavoro? E l’Europa, troppo spesso invocata a sproposito da chi si autoproclama moderno, non definiva la mediazione come un procedimento che si svolge su base volontaria?). Pazienza, è sempre stato così. Ma quando si smette di cercare un accordo, e si chiede giustizia, allora privilegi e rendite di posizione devono scomparire. Giudici ed avvocati, insieme, hanno il dovere di renderla avendo come unico obiettivo l’interesse di quel popolo nel cui nome è amministrata: non sempre, in questa fase 2, ne ho visto la consapevolezza da parte di tutti, troppi rinvii. E se quella consapevolezza non sempre è racchiusa nel cuore degli uomini, occorre che quell’obbligo non resti più disarmato: è venuto il momento che, tra i giudici, venga premiato il merito, largamente diffuso tra chi è in prima linea, piuttosto che quella contiguità con il potere politico che troppo spesso ha fatto sì che fossero dei magistrati a delimitare i loro stessi obblighi all’interno dei processi civili. Non mi interessano, gli errori del passato: dobbiamo guardare avanti. Davanti a noi c’è, ci deve essere, la ripresa del nostro Paese e forse per la prima volta è possibile un intervento sulla giustizia che non sia a costo zero e non si traduca in una guerra dei poveri tra giustizia sanità e scuola, che dovrebbero essere i tre pilastri di una società moderna. Sembra che l’Europa abbia stanziato risorse imponenti ed abbia indicato che debbono essere investite anche nella giustizia: bisogna, per una volta, volare alto, ed investirle, non spartirle in proporzione alla capacità di pressione di ciascuno. È il momento di sopprimere privilegi e rendite di posizione. “Vaste programme”, rispose De Gaulle a chi proponeva la irrilevanza degli imbecilli. Aveva ragione. Ma per ripartire dopo una pandemia ci vogliono programmi vasti e non ci si può limitare alla gestione dell’esistente: per costruire una barca, bisogna insegnare agli uomini la nostalgia per il mare vasto ed infinito, non a trafficare con la pece o il legno, ci ha insegnato uno scrittore che è stato caro a tutti, quando eravamo ragazzi. *Presidente dell’Unione nazionale delle Camere civili “Voglia di giustizia”, storia di Emanuela. Che a Bonafede dice: “Fammi lavorare” di Liana Milella La Repubblica, 29 giugno 2020 Nel 2017 ha fatto il concorso per assistente giudiziario ed è entrata in graduatoria. Lei e 836 colleghi aspettano solo di essere chiamati. Da via Arenula la promessa: sceglieranno la sede la metà a luglio, l’altra metà entro ottobre. “Io ci sono. Noi ci siamo. Questo diciamo al Guardasigilli Bonafede. Siamo pronti a dare il nostro contributo alla voglia di giustizia che c’è, ed è grande, nel nostro Paese”. “Dateci, il prima possibile, la possibilità di esserci, di fare la nostra parte e il nostro lavoro per ricostruire il Paese dopo la pandemia”. La “voglia di giustizia” che irrompe nel racconto di Emanuela - norme autentico, cognome riservato - è grande. Com’è grandissima la sua voglia di avere, per la prima volta nella vita, adesso che compie 48 anni, un lavoro “vero”, “stabile”, un “lavoro fisso”, e non l’infinità di lavori precari che ha fatto finora. Lei, una laureata in lingue, che parla inglese e spagnolo, ma che adesso vuole fare una sola cosa: l’assistente giudiziario, posto che le spetta perché nel 2017 ha preso parte a un concorso lampo, è entrata nella graduatoria, e adesso spera solo che, il prima possibile, quel posto sia suo. Saranno 1.400 euro al mese, le prime certe della sua vita, ma non è solo una questione di soldi, è tutt’altra. È questione di impegno civile, di fare la propria, anche se piccola parte, per il Paese. Lei ci crede. E la racconta così: “Leggo sempre delle riforme sulla giustizia che si vorrebbero fare. Ma se non c’è il personale qualificato che le attua tutto resta fermo. Per riformare la giustizia bisogna partire dalle risorse umane, dalle fondamenta. Io e i miei colleghi siamo pronti a partire, anche subito. Il prima possibile. La nostra è l’unica graduatoria immediatamente fruibile. Non fateci aspettare ancora”. Bella storia questa di Emanuela. Fatta di motivazioni e di speranza. Lei scrive a Repubblica. Non cerca visibilità per sé stessa, ma parla a nome delle 837 persone, le ultime di una graduatoria di 4.915 idonee, che al Guardasigilli Alfonso Bonafede vogliono mandare un messaggio. Semplice. “Non aspettare. Noi ci siamo. Facci lavorare il prima possibile per rendere migliore la giustizia italiana”. Certo, c’è anche un coté personale, ed Emanuela non lo nasconde: “Ho 48 anni. Sì, non ho mai avuto un lavoro fisso. Mi sono laureata in lingue nel 2003, perché nel frattempo ho sempre lavorato”. Come, che hai fatto, le chiedo: “Di tutto. Contratti a tempo determinato, contratti di collaborazione, a progetto, lavoro interinale... mai un contratto vero, e quello che ne consegue, avere uno stipendio e non dover fare sempre rinunce, sapere che se ti ammali non hai una copertura, le ferie sono un sogno...”. E la pensione? “A quella non ci penso proprio...”. Una vita da precaria. Abitando con il padre. Poi l’idea di andarsene via. “Sì, ero sul punto di lasciare l’Italia, parlando due lingue potevo farlo. Volevo perfezionare il tedesco, andare in Germania, fare la solita trafila, poi ho letto di questo concorso. Non ho fiducia nei concorsi, ma mi sono detta ‘stavolta ci provo’. Per un anno intero ho studiato per 17 ore al giorno e ce l’ho fatta a superarlo. Adesso aspetto solo il momento di entrare in servizio e con me lo aspettano tutti gli altri colleghi della graduatoria, ragazzi, ragazze, uomini e donne che vogliono lasciarsi alle spalle la precarietà”. È solo questo che ti spinge? Il lavoro fisso? “No - risponde Emanuela - io nella giustizia ci credo. Si parla sempre di giustizia lumaca, di giustizia che stenta a ripartire, ma non si considerano mai abbastanza le gravi carenze di personale che affliggono gli uffici. Leggendo tutto questo io non riesco a nascondere la mia amarezza perché invece noi ci siamo e siamo pronti a dare il nostro contributo alla ricostruzione dell’intero sistema”. Emanuela, che è vissuta facendo traduzioni dalle lingue che conosce e battendo tesi di laurea, racconta le fasi del concorso. “Oltre 300mila domande, hanno effettivamente partecipato 79.322 persone. Era maggio del 2017. Ma è stato tutto veloce, in modalità telematica, solo l’orale in presenza. Molte materie, diritto pubblico e amministrativo, procedura civile e penale, organizzazione degli uffici. A ottobre era tutto finito, pronta la graduatoria con 4.915 nomi. E lì è cominciata l’ansia delle effettive assunzioni, a gennaio 2018 le prime 800, il mese dopo altre 600, poi via via altri scorrimenti, fino all’ultimo blocco di 489 persone il 3 febbraio. Adesso restiamo solo noi”. In quel “restiamo noi” c’è dentro tutta l’ansia e la speranza di Emanuela. E quella frase che ricorre come un mantra in tutta la nostra chiacchierata: “Sì, voglio cominciare a lavorare il prima possibile, spero che succeda entro il 2020, perché voglio contribuire anche io a far camminare bene la macchina della giustizia”. Come dirgli di no e rinviare ancora? La risposta adesso tocca a Bonafede. Post scriptum. Quando sono le 17 di domenica, da via Arenula, dicono a Repubblica, e quindi a Emanuela, che entro la fine di luglio, alla metà dei componenti la graduatoria, verrà chiesto di scegliere la sede. All’altra metà la stessa chance verrà data tra settembre e ottobre. Vedremo se questo timing ufficiale sarà rispettato. E soprattutto quanto tutti prenderanno servizio. Intercettazioni a strascico, falsa sicurezza che sacrifica i diritti di Domenico Ciruzzi Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2020 La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 51 del 2020 (più nota come sentenza Cavallo) costituisce - e non è un’iperbole retorica - uno spartiacque fondamentale nella vita democratica del nostro Paese. Istintivamente stavo scrivendo “rivoluzione”. Quel sostantivo sarebbe stato sbagliato perché non ci troviamo al cospetto di una rottura, ma del recupero di taluni principi di garanzia e di libertà di cui è intriso (o per molti versi era intriso) il nostro codice di procedura penale. Come è noto, l’articolo 270 del c.p.p. statuisce il divieto di utilizzazione delle intercettazioni disposte ed effettuate in un procedimento diverso rispetto a quello in cui le si intende utilizzare, salvo che le suddette intercettazioni risultino necessarie a provare un reato per il quale è previsto l’arresto obbligatorio (cioè una categoria ristretta di reati molto gravi). Una norma semplice, chiara, di agevole interpretazione e applicazione pratica. E, tuttavia, negli anni questa norma è stata progressivamente stravolta e svuotata di significato, anche a causa del “sostanzialismo” che caratterizza la parte maggioritaria della magistratura italiana che ha sempre visto anche come fumo negli occhi i divieti e gli sbarramenti probatori, intravedendo in essi un limite al principio del libero convincimento del giudice. Si è iniziato in passato, dunque, ad affermare che non poteva parlarsi di “diverso procedimento” se le due indagini (quella in cui erano state disposte le intercettazioni e quella in cui le si intendeva materialmente utilizzare) erano connesse. Ma ciò non era ancora sufficiente, perché i casi di connessione in senso proprio previsti dal codice di procedura all’articolo 12 sono limitati e predeterminati per legge. E allora, ecco il cavallo di Troia: il cosiddetto collegamento probatorio che, secondo una giurisprudenza andata per la maggiore dalla fine degli anni ‘90 sino alla recente sentenza delle Sezioni Unite, consentiva di ritenere che si fosse in presenza di un medesimo procedimento e dunque di utilizzare in maniera indiscriminata le intercettazioni, di fatto, in qualunque procedimento. In tal modo, per anni lo sbarramento probatorio di cui all’articolo 270 c.p.p. è stato - salvo casi clamorosi e rarissimi - di fatto azzerato atteso che un collegamento probatorio tra due procedimenti lo si trovava sempre. È nato e si è alimentato così quel fenomeno di “pesca a strascico” attraverso il quale lo strumento intercettazioni veniva gettato a casaccio in mare aperto come un’esca attendendo, sulla riva o sul motoscafo, di raccogliere ciò che rimaneva impigliato. Quasi tutte le inchieste più spettacolari degli ultimi anni sono nate così e sappiamo la gran parte di esse come sono finite proprio a causa del fatto che spesso un’intercettazione captata per puro caso, e quindi al di fuori di un’intelaiatura investigativa complessiva, si presta a tragici equivoci. Utilizzando l’idiota slogan secondo il quale “chi non commette reati non ha nulla da temere dalle intercettazioni”, si legittima il controllo senza limiti su tutti i cittadini. Che cosa significa in concreto la violazione dell’articolo 15 della Costituzione che tutela la libertà e la segretezza delle comunicazioni? La conoscenza da parte di chi è al potere della sfera privata e intima delle persone - con la concreta possibilità di utilizzare il privato di ognuno, pur non essendovi sovente ipotesi di reato - consente di “ricattare” potenzialmente ciascun sorvegliato con la minaccia di rendere pubblico il privato delle persone anche attraverso l’amplificazione dei media sempre protesi a ingurgitare e diffondere appetibili gossip che aumentano l’audience. Ma vi è un ulteriore aspetto che inquina la democrazia, anche prescindendo da un eventuale utilizzo “politicamente” ricattatorio e illegittimo delle intercettazioni. Chi è al potere in un dato momento storico, conoscendo in anticipo il pensiero riservato dei cittadini e delle opposizioni, “droga” il leale confronto democratico e acquisisce un vantaggio illegittimo che impedisce l’alternanza democratica al potere attraverso il controllo totale dei cittadini, trasformati via via sempre più in sudditi sorvegliati speciali. Le Sezioni Unite hanno posto un argine - si auspica in maniera definitiva anche se il nuovo decreto intercettazioni che andrà in vigore il primo settembre 2020 rimescolerà tragicamente ancora una volta le carte, salvo saggi e immediati ripensamenti - a questa prassi illiberale e antidemocratica, sancendo che il collegamento probatorio non è categoria idonea a dar luogo alla medesimezza dei procedimenti e dunque a consentire l’utilizzazione di intercettazioni disposte in altri procedimenti. Occorre con soddisfazione prendere atto che, negli ultimissimi anni, le alte Corti (Corte Costituzionale e Corte di Cassazione) - dopo aver anch’esse in passato contribuito con talune loro decisioni al depauperamento delle garanzie e dei diritti individuali - stanno progressivamente cercando di recuperare una serie di principi garantistici di cui si è fatto strame negli ultimi trent’anni. È plausibile che questo scatto di orgoglio della giurisdizione (in particolare ai suoi livelli più alti) costituisca il contraltare al populismo penale che, in modo sempre più rozzo e invadente, sta invadendo gran parte della politica e della società civile. Un tentativo, dunque, di saggio bilanciamento volto a riportare al centro l’individuo, i suoi diritti e le sue libertà. È il momento di abbandonare pregiudizi e preconcetti che inquinano il dibattito e che, di fatto, rendono inutile e fasullo il dialogo tra chi ha posizioni differenti. Occorre, nel discorso pubblico, utilizzare parole e ragionamenti intrisi di “onestà radicale”. Non ho alcuna difficoltà, per esempio, ad affermare che forse (e il forse dipende dal fatto che, per il mio specifico professionale, conosco bene il carattere scivoloso e ambiguo che sovente assume la prova intercettativa) se l’intera popolazione italiana fosse intercettata, se esistesse un enorme server in cui far confluire le conversazioni di ognuno di noi, sarebbe scoperto e perseguito un numero di reati maggiore di quello che si riesce a scoprire oggi. Del resto, non era forse sicura e priva di rischi di insurrezioni politiche la D.D.R. tragicamente descritta nel film del 2006 “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck, i cui protagonisti vivevano in un clima di reciproco sospetto immanente che può condurre finanche al suicidio? Qual è il tasso di libertà e di diritti che può essere sacrificato sull’altare della sicurezza, vero idolo della contemporaneità? È il momento di compiere delle scelte e quella delle Sezioni Unite è proprio una scelta volta a ri-bilanciare i vari valori e interessi che entrano talvolta in conflitto. E allora la legittima aspettativa di sicurezza - senz’altro importante, ma non suscettibile di fagocitare tutto il resto - deve cedere spazio ad altri importantissimi valori, quali in primis la libertà degli individui che negli ultimi anni sono stati compressi quasi sino al punto di non ritorno. Ne “La Conversazione” di Francis Ford Coppola del 1974, Gene Hackman da controllore che intercetta finisce per smontare ossessivamente pezzo per pezzo il proprio appartamento, convinto di essere a sua volta intercettato. È questo il futuro distopico alla “Blade Runner” che vogliamo? Il finto garantismo della destra di Iuri Maria Prado Il Riformista, 29 giugno 2020 Trent’anni di rissa sulla giustizia hanno disegnato una mappa piuttosto chiara del disinteresse per i diritti individuali: è diffuso a destra e a manca, ma le cause che lo determinano da una parte e dall’altra sono diverse e diverso è il modo in cui esso si manifesta in un caso e nell’altro. Il giustizialismo di sinistra, diciamo, è più equanime: reclama manette per tutti e il carcere, secondo quell’impostazione, è uno strumento di correzione delle ingiustizie sociali, un modo per rimettere in riga le aberrazioni della morale nella società libera. Fa abbastanza schifo, ma una specie di orrenda giustizia in quell’impostazione c’è innegabilmente. A destra, almeno da un quarto di secolo, non funziona così. A destra, pressappoco, il criterio è che in linea di principio bisogna buttare via la chiave, mentre l’esigenza garantista e il fervore che la invoca si regionalizzano senza spingersi oltre il confine di Arcore: con la giustizia che è buona, o in ogni caso poco allarmante, quando si occupa di negri e drogati, mentre è cattivissima e suscita la rivolta delle coscienze liberali quando si intrufola nei possedimenti berlusconiani o comunque nella vita della gente “perbene”, che solitamente sono gli amici stretti o quelli col portafoglio ricco e molto spesso le due cose insieme. Poi hai voglia di contestare il giudice forcaiolo o il giornalista che gli regge il microfono quando dicono che a destra il garantismo è farlocco: è spesso vero, purtroppo, e i pochi che seriamente lavorano per i diritti delle persone dovrebbero riconoscere che il degrado della giustizia italiana trova causa a destra non meno che a sinistra, con la destra forse anche più colpevole perché durante un trentennio ha razzolato molto male dietro lo schermo di una predicazione garantista parecchio improbabile. L’editorialismo fascistoide che scopre la prepotenza della magistratura perché pizzica il “galantuomo” può essere tollerato se traccia un corso nuovo che parte da quel caso per denunciare l’ingiustizia comune: non quando si biforca come abbiamo visto, contestando la giustizia che fa le pulci a quello là mentre lascia che si incattivisca contro chi non ha mezzo parlamento adunato a difesa d’ufficio. E così, per stare in tema, il voto parlamentare posto a certificazione dei rapporti di parentela di una figliola con un autocrate africano potrebbe anche essere un buon prezzo da pagare se si trattasse di un episodio magari imbarazzante ma comunque parte di una vicenda riformatrice nell’interesse della giustizia di tutti: non quando chiude una stagione politica in cui l’inciviltà del carcere coincideva con il pericolo che ci finisse il capo del centrodestra o al più qualche plenipotenziario, e altrimenti chissenefrega. La realtà è che la storia del populismo giudiziario italiano non è stata fatta dalle toghe rosse, e a spiegarne il trionfo non c’è solo il tiro mancino della parte politica che ha creduto, sbagliando, di avvantaggiarsene: c’è anche il maldestro e ipocrita comportamento della controparte che, sbagliando anche più gravemente, ha creduto di sottrarvisi. Nei due casi, con i diritti dei cittadini lasciati da parte. Scambio oggetti in 41bis. Divieto inumano e degradante per i detenuti di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 29 giugno 2020 Lo afferma la Consulta intervenendo sull’ordinamento penitenziario. Tra i detenuti in regime di 41bis possibile lo scambio di oggetti. Lo afferma la Corte costituzionale con la sentenza n.97/2020. La recente pronuncia della corte costituzionale ha ad oggetto l’art 41bis comma 2 quater, lett. f della legge n. 26 luglio 1975 n. 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale). Tale disposizione, prevedeva l’adozione di tutte le necessarie misure di sicurezza volte ad assicurare l’assoluta impossibilità di scambiare pacchi per i detenuti in regime differenziato anche se appartenenti al medesimo gruppo di socialità. Il giudice remittente, escludeva la conformità della predetta disposizione al dettato costituzionale, rinviando pertanto gli atti alla corte Costituzionale. Secondo i giudici della Corte di cassazione che avevano emesso l’ordinanza di rimessione la disposizione oggetto del rilevo d’incostituzionalità contrastava palesemente con due principi costituzionali. In particolare ad essere violati erano i principi del finalismo rieducativo della pena, del divieto di prevedere trattamenti inumani nonché quello dell’uguaglianza espressi rispettivamente dagli articoli 27 e 3 della Costituzione. Il ragionamento dei giudici della corte di Cassazione, viene ritenuto fondato da parte dei giudici della Corte costituzionale. Osservano, sul punto i giudici della Consulta, come il regime differenziato previsto dall’art. 41bis assolva nel disegno legislativo una precisa funzione, consistente nel rescindere tutti i contatti tra il detenuto in regime differenziato e gli altri appartenenti all’ associazione criminale del quale quest’ultimo abbia in precedenza fatto parte. Pertanto la norma prevista oggetto del giudizio costituzionale per il suo contenuto, consistente in un divieto riguardante ben precisi rapporti tra i detenuti, non pare sicuramente rispondente alla finalità assegnate al trattamento differenziato dato che non riguarda le relazioni tra il detenuto e soggetti esterni. Proprio per tale sua configurazione la disposizione con l’art. 3 della Costituzione viola il principio di uguaglianza in esso contenuto alla cui stregua, trattamenti normativi diversi di situazioni identiche, sono ammissibili nel solo caso di necessità oggettive che siano idonee a giustificarli. Un regime che preveda un divieto per i detenuti di scambiarsi tra loro pacchi e ben diverso da quello ordinario che consente tali scambi ma non è giustificato dall’esigenza, come osservato da parte del giudice remittente, di evitare rapporti tra il detenuto e soggetti esterni. Il trattamento previsto dal comma 2 quater, lett. f è privo di giustificazione e palesemente contrastante con l’art. 3 della Costituzione. Non solo ma ulteriori profili d’incostituzionalità della norma, possono essere rilevati anche in relazione alla funzione attribuita alla pena dal dettato costituzionale ed ai limiti comunque posti al suo contenuto. La sanzione penale infatti nel disegno del legislatore costituzionale ha il compito di svolgere una funzione diretta alla rieducazione al reinserimento sociale del reo e per quel che riguarda il suo contenuto non può a ogni modo consistere in trattamenti inumani e degradanti. Vietare pertanto, un rapporto come quello che si concretizza nello scambio di pacchi tra soggetti comunque detenuti, pare palesemente contrastante con i compiti attribuiti alla pena dalla Costituzione e con il divieto di istituire trattamenti ad ogni modo inumani e degradanti. La Consulta: libertà di stampa cruciale, ma i social amplificano il rischio di diffamazione Il Dubbio, 29 giugno 2020 La Corte costituzionale: serve un nuovo bilanciamento tra libertà di stampa e tutela della dignità, oggi maggiormente esposta a causa del potere dei social. Il bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione “non può (…) essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni”. Lo ha affermato la Corte costituzionale nell’ordinanza numero 132 depositata il 26 giugno (redattore Francesco Viganò), con cui ha rinviato all’udienza del 22 giugno 2021 la decisione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari sulla legittimità della pena detentiva prevista in caso di diffamazione a mezzo stampa, in modo da consentire al legislatore di approvare una nuova disciplina. Il bilanciamento espresso dalla normativa vigente è divenuto ormai inadeguato, e richiede di essere rimeditato dal legislatore “anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (…), che al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive (…) nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui”, e ciò anche in funzione dell’esigenza di non dissuadere i media dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri. Il nuovo bilanciamento dovrà “coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica (…) con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti; vittime che sono oggi esposte, dal canto loro, a rischi ancora maggiori che nel passato. Basti pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”. Un così delicato bilanciamento spetta primariamente al legislatore, che è il soggetto più idoneo a “disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso - nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito - a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come in primis l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico. In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, tra le quali si inscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”. Patrocinio a spese dello Stato, rischio discriminazione per gli stranieri di Simona Musco Il Dubbio, 29 giugno 2020 Dubbi di legittimità costituzionale sull’esclusione del cittadino extra Ue dal patrocinio a spese dello Stato in caso di mancata risposta, da parte del paese d’origine, sul possesso dei requisiti richiesti. Il diritto al gratuito patrocinio, per i cittadini extracomunitari, non può dipendere dall’inerzia del Paese di provenienza nel fornire la documentazione richiesta relativamente al possesso dei requisiti richiesti. È questo il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal Tar del Piemonte, che ha chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità della disciplina del Testo unico delle spese di giustizia, laddove, all’articolo 79, comma 2, richiede al cittadino straniero un’ulteriore prova del possesso dei requisiti previsti per ottenere il gratuito patrocinio, anche in presenza di specifiche difficoltà. “Norma in contrasto con la Costituzione”: ora deciderà la Consulta - Per i giudici, la norma è “in contrasto con la Carta fondamentale e irragionevole sotto diversi profili allorché non consente, per l’ipotesi di impossibilità di ottenere la certificazione consolare, di considerare tale impossibilità quale causa di esclusione dell’obbligo e comunque presupposto per avvalersi degli strumenti alternativi di decertificazione”. Il caso riguarda un cittadino indiano, al quale la Commissione di ammissione al gratuito patrocinio ha rigettato la richiesta, sostenendo la non validità dell’autodichiarazione “per quanto concerne i redditi prodotti all’estero, che devono essere certificati dal competente consolato”. Una certificazione che il soggetto in questione, però, non ha ottenuto per via del silenzio dell’amministrazione del Paese di provenienza, pur avendo inoltrato la domanda come richiesto dal Tusg. L’esclusione è, dunque, dipesa “dall’inerzia di un soggetto pubblico terzo, non sopperibile allo stato con gli istituti di semplificazione amministrativa e de- certificazione documentale previsti, invece, per i cittadini italiani e dell’Unione europea, con irragionevole vulnus del principio di eguaglianza formale nell’accesso alla tutela giurisdizionale, nella specie da esperirsi contro atti della pubblica amministrazione italiana”. “Tutela giurisidizionale valore di civiltà giuridica fondante il nostro ordinamento” - Per il collegio, le soluzioni in cui il legislatore sceglie di muoversi in questo ambito sono “tutte concordemente convergenti nell’espressione di un principio di assistenza e tutela della condizione degli stranieri, ancorché non in regola con le disposizioni in materia di ingresso e soggiorno, a riprova della preminenza della accessibilità sostanziale - a parità di condizioni - alla tutela giurisdizionale quale valore di civiltà giuridica fondante il nostro ordinamento”. E nel caso di specie, “l’effettività dell’accesso alla tutela giurisdizionale sarebbe svuotata della propria portata sostanziale in conseguenza dell’inerzia degli apparati amministrativi degli uffici consolari dei Paesi non appartenenti all’Unione europea”. Inerzia chiaramente non ascrivibile al richiedente, che si vedrebbe così inibito, “de facto, all’accesso alla predetta tutela”, con esiti che “si pongono diametralmente agli antipodi degli auspici e delle ambizioni perseguite dal Costituente, specialmente laddove si specifica a chiare lettere che l’approntamento degli appositi istituti deve assicurare l’accesso alla tutela davanti ad ogni giurisdizione”. A maggior ragione nel giudizio amministrativo, per il quale “è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi davanti agli atti della pubblica amministrazione”, con l’eguaglianza sostanziale per tutti, “cittadini italiani, comunitari e extracomunitari, non tollerando discriminazioni”. L’esclusione dal diritto al gratuito patrocinio, su tali basi, sarebbe dunque in contrasto con gli articoli 3, 24, 113 e 117, che sanciscono l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, il diritto alla difesa, il diritto alla tutela contro gli atti della pubblica amministrazione e l’esercizio della potestà dello Stato nel rispetto dei vincoli costituzionali, dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. Questione che ora toccherà alla Consulta dirimere e che potrebbe portare nuova linfa alle garanzie di tutela dei diritti. Maltrattamenti: per l’abitualità della condotta non serve un comportamento ininterrotto di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2020 Il reato di maltrattamenti è un reato abituale, essendo costituito da una pluralità di fatti commessi reiteratamente dall’agente con l’intenzione di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche e morali, per una serialità minima in cui ogni condotta successiva si riallaccia alla precedente dando vita a un illecito strutturalmente unitario. Lo ricorda la Cassazione con la sentenza 7966/2020. È pacifico che il reato di maltrattamenti è un reato abituale essendo costituito da una pluralità di fatti commessi reiteratamente dall’agente con l’intenzione di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche e morali, per una serialità minima in cui ogni condotta successiva si riallaccia alla precedente dando vita a un illecito strutturalmente unitario (tra le tante, Sezione VI, 15 ottobre 2019, X.). In questa prospettiva, quindi, il reato è escluso solo dalla episodicità e dalla occasionalità degli atti di maltrattamento. Mentre, peraltro, per la sua configurabilità non occorre che gli atti lesivi dell’integrità fisica e morale della persona offesa si protraggano per un periodo di tempo particolarmente prolungato, essendo sufficiente che essi siano reiterati e riconducibili a una volontà unitaria. L’abitualità della condotta vessatoria, quindi, non significa che per la configurabilità del reato occorra un comportamento vessatorio continuo e ininterrotto, giacché è ben possibile che gli atti lesivi si alternino con periodi di normalità nei rapporti poiché l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’illecito (Sezione VI, 18 settembre 2013, Q.). Proprio nell’ottica della irrilevanza per escludere il reato di momenti di serenità che intervallino le condotte vessatorie, si è ulteriormente precisato che deve senz’altro ravvisarsi il reato di maltrattamenti tutte le volte in cui sia dimostrata la sistematicità di condotte violente e sopraffattrici, ancorché queste non realizzino l’unico registro comunicativo con il familiare, ben potendo tali manifestazioni di mancanza di rispetto e di aggressività essere intervallate da condotte prive di tali connotazioni, o dallo svolgimento di attività familiari anche gratificanti per la parte lesa, senza perdere il loro connotato di disvalore, per la scarsa considerazione e rispetto della parte offesa che è sottesa alla loro sistematicità, di cui costituiscono la dimostrazione (Sezione VI, 19 marzo 2014, X.: nella specie, si è dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza di condanna in una vicenda in cui risultava dimostrata la presenza di ripetuti episodi violenti commessi dall’imputato nei confronti della moglie, essendo stato considerato che non potevano assumere alcun effetto “compensativo” né l’acquisto di regali, né la presenza di momenti di serenità nella vita familiare, con la condivisione di attività di svago). L’effetto estensivo dell’impugnazione agli altri coimputati. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2020 Impugnazioni - Effetto estensivo - Motivi di impugnazione aventi natura soggettiva - Estensione al coimputato - Esclusione - Fattispecie. Il principio previsto dall’art. 587 cod. proc. pen., riguarda l’estensione, all’imputato non impugnante sul punto, degli effetti favorevoli derivanti dall’accoglimento del motivo di natura oggettiva dedotto dal coimputato, ma non implica l’estensione da un coimputato all’altro dell’accoglimento di motivi fondati su ragioni soggettive. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 17 giugno 2020 n. 18447. Esecuzione - In genere - Esecuzione nei confronti di imputato non impugnante - Legittimità - Impugnazione di altro coimputato - Sospensione dell’esecuzione - Esclusione - Ragioni. La proposizione dell’impugnazione contro la sentenza di condanna da parte di uno degli imputati non determina la sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti dei coimputati condannati e non impugnanti per i quali la sentenza sia divenuta irrevocabile, poiché l’effetto estensivo dell’impugnazione opera solo, come rimedio straordinario, quando è riconosciuta la fondatezza del motivo non esclusivamente personale di censura dedotto dall’imputato diligente. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 12 marzo 2020 n. 9929. Impugnazioni - Effetto estensivo - Limiti - Operatività anche per la condanna risarcitoria civile - Esclusione. L’accoglimento dell’impugnazione proposta da uno dei coimputati con riguardo alla sola condanna al risarcimento dei danni non giova ai coobbligati in solido, atteso che l’effetto estensivo dell’impugnazione concerne i soli casi in cui questa investa, sia pure con eventuali ricadute civilistiche, il profilo della responsabilità penale e non anche quelli in cui attenga ad aspetti esclusivamente risarcitori. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 26 luglio 2019 n. 34116. Impugnazioni - Effetto estensivo - Ricorso per cassazione - Motivo non esclusivamente personale - Accoglimento - Reato commesso in concorso - Estensione dell’impugnazione - Beneficiari - Individuazione - Fattispecie. L’effetto estensivo dell’impugnazione, in caso di accoglimento di un motivo di ricorso per cassazione non esclusivamente personale, giova anche agli altri imputati che non hanno proposto ricorso, ivi compresi coloro che hanno concordato la pena in appello, che hanno proposto un ricorso originariamente inammissibile o che al ricorso hanno successivamente rinunciato. (In applicazione di tale principio, la Corte ha escluso l’effetto estensivo con riferimento alla sentenza di assoluzione di un concorrente in un reato associativo, il cui contributo partecipativo era risultato cronologicamente distonico rispetto all’epoca in cui aveva operato l’organizzazione, alla quale il ricorrente era stato ritenuto affiliato). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 10 dicembre 2018 n. 55001. Giustizia ai tempi del Covid-19 di Carlo Alberto Zaina* dolcevitaonline.it, 29 giugno 2020 Tra qualche anno si parlerà di “giustizia ai tempi del Covid-19” per indicare quella situazione di sospensione delle garanzie costituzionali che è stata adottata e, che, seppure in modo meno plateale, continua, però, a persistere, sulla scorta dell’apparente ragione data dall’emergenza sanitaria. Il giro di vite, assai gradito da molti ambienti vicini all’attuale Ministro di Giustizia, soprattutto, quelli che si riconoscono sia in un’ala della magistratura che non ha mai fatto mistero (anche in modo tracotante) di ambire a una deriva giustizialista, sia in alcuni media che da sempre fungono da megafono per l’ablazione del diritto di difesa e della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., ha investito in particolar modo, sia il pianeta carceri, che più complessivamente il sistema giurisdizionale. Il Ministero non solo si è trovato del tutto impreparato (anche se l’impreparazione pare il tratto distintivo dell’attuale inquilino di Via Arenula e dei suoi consiglieri) a fronteggiare la difficile situazione dei penitenziari italiani, ma, soprattutto, ha manifestato un soave disinteresse al destino dei detenuti, esposti a potenziali forme di contagio, con conseguenze devastanti. L’ottica del Ministro, per la quale chi è detenuto in carcere deve subire la sola funzione retributiva della pena, è tanto semplice, quanto sconvolgente al contempo. In questa (il)logica, quindi, nessun serio intervento è stato adottato, mettendo a repentaglio non solo la vita dei detenuti, ma anche quella di tutti gli operatori carcerari, uniti su di una nave - quella del sistema carcerario - che, novello Titanic, veniva sballottata dai marosi della paura della pandemia. Nel mentre il Ministro - come il pianista della nave - continuava a suonare l’unico pezzo che conosce e cioè rivendicava non meglio precisati titoli di lotta alla mafia, che - a suo dire - avrebbero fatto impallidire chiunque l’abbia preceduto. Neppure di fronte a iniziali gravi disordini (che hanno provocato addirittura vari morti) il Ministro si è scomposto. Una situazione che in qualsiasi altro paese del mondo avrebbe comportato le dimissioni di chi pretende di governare la giustizia, e che in Italia dopo qualche giorno è stata dimenticata vergognosamente, non solo da tutte le forze politiche, ma soprattutto dai cittadini, che questa situazione ha parzialmente lobotomizzato, atrofizzando la loro coscienza critica. Non frequento più da tempo con continuità le Case Circondariali, ma ritengo che la pandemia non abbia assunto livelli e conseguenze drammatiche, solo per il grande senso di responsabilità di tutti i protagonisti di questo segmento giudiziario. Non voglio, poi, sollevare polemiche sulla generale sospensione delle garanzie costituzionali, adottata con procedure che più volte si sono rivelate illegittime, ma che nessuno (a livello politico o di magistratura e neppure il Presidente della Repubblica che è un costituzionalista) con forza ha mai contestato e che appaiono una inquietante forma di strisciante, quanto incruento golpe. La sempre più ampia delega di poteri alle forze dell’ordine o a sindaci sceriffi, sottratti a controlli preventivi o successivi di legittimità, ne è inquietante indizio. Non posso, però, non richiamare l’attenzione del paziente lettore sulla circostanza che le garanzie che ho citato sono state pesantemente violentate in materia di procedimenti penali. La ingiustificata sospensione dei termini processuali per quasi due mesi, il regime transitorio successivo, una sorta di Babele giurisdizionale, per il quale vi è una selezione dei processi da celebrare, attraverso forme tecnologicamente avanzate, ma discutibili, sono sotto gli occhi di tutti, ma pochi ne hanno compreso l’effetto destabilizzante. Pensate alla circostanza che oggi si celebrano pochissimi processi - soprattutto quelli con imputati detenuti (con buona pace di chi attende da anni di essere giudicato e diviene imputato a vita). Pensate che si cerca di tenere udienze in video conferenza sempre e comunque, anche in situazioni che, sul piano logico, dimostrano, invece, la necessità della presenza fisica delle parti nel medesimo ambito. La ipocrita tesi del cd. “distanziamento sociale” (anticamera dell’azzeramento dei rapporti interpersonali diretti) fondata su di una campagna di assoluta paura del virus, calata nel mondo della giustizia, mira solo a creare una generale situazione di robotizzazione del processo. Io non sono contrario aprioristicamente all’evoluzione tecnologica nel processo penale, anzi. Penso, però, che le cd. udienze da remoto possano avere una funzione positiva, se circoscritta e limitata ad alcune fasi procedimentali. Giammai esse potranno essere svolte per quelle fasi essenziali del processo penale, come ad esempio esaminare testimoni o dare corso alla discussione finale e noi avvocati dobbiamo esercitare il potere di rifiutare nell’interesse dei nostri assistiti. È, quindi, certamente importante che la macchina della giustizia si aggiorni, ma se si vogliono utilizzare nuovi ed efficaci strumenti, il primo adeguamento deve investire la mentalità e deve spazzare via la burocrazia. Ad esempio, i processi relativi alla cannabis dovranno connotarsi per una maggiore apertura alla difesa e ad attività di indagine peritale scientifica, che ancor oggi non sempre viene svolta e che, invece, appare sempre più decisiva. Lo smart working nel settore giustizia presuppone che anche a casa del lavoratore vi sia una rete intranet che oggi i pubblici dipendenti non hanno e, soprattutto, impone una produttività che deve espletarsi anche senza controlli gerarchici. Le udienze da remoto non devono divenire un comodo alibi per ridurre la produttività dei magistrati (che già di per sé non è all’apice), quanto piuttosto devono costituire un’occasione per creare nuove forme di esercizio dell’attività giurisdizionale, senza compressione dei diritti dei protagonisti del processo. Gli avvocati, da loro canto, non devono rimanere su posizioni conservatrici, rifiutando la evoluzione dei mezzi processuali. Tutto questo percorso evolutivo, però, non potrà soppiantare l’uomo e il suo patrimonio ideale ed emotivo. Se non torneremo al rispetto delle tutele costituzionali come potremo dire che “è andato tutto bene”? *Avvocato Salvini ignora il ruolo del Garante dei detenuti di Federico Ferraro* Corriere della Calabria, 29 giugno 2020 Lettera aperta al senatore Matteo Salvini dopo le sue esternazioni sul Garante dei detenuti. Preg.mo Senatore, in merito alle Sue esternazioni “i Garanti dei detenuti, per quello che mi riguarda, potrebbero trovarsi un altro mestiere e occuparsi di altro” di cui hanno dato conto i giornali nazionali in questi giorni, e di cui è visibile il video del suo intervento in una pubblica manifestazione, è opportuno effettuare alcune necessarie considerazioni. Innanzitutto il ruolo di Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, per atto motivato dell’autorità giudiziaria o per motivi sanitari, come gli altri Garanti della privacy, dell’infanzia, della concorrenza e del mercato, costituiscono autorità amministrative terze, in settori sensibili quali l’amministrazione della giustizia, la tutela dei diritti fondamentali della persona umana, la privacy, la concorrenza nel mercato, le comunicazioni. Come è noto, da sempre tali settori sensibili e rilevanti hanno necessitato di figure istituzioni terze che garantissero e tutt’ora garantiscono diritti che vanno al di là del singolo, a tutela della collettività nel suo insieme. Per questo motivo nell’ordinamento italiano, sono stati istituiti con legge, quei soggetti o enti pubblici, che esercitano in prevalenza funzioni amministrative in ambiti considerati anche di alto contenuto tecnico tali da esigere una peculiare posizione di autonomia e di indipendenza nei confronti del governo politico, allo scopo di garantire una maggiore imparzialità (cd. neutralità) rispetto agli interessi coinvolti. In base a tali premesse le sue considerazioni sulla inutilità delle figure di garanti dei detenuti sono da considerarsi fortemente lesive della dignità e professionalità della istituzione comunale che rappresento e dei colleghi che svolgono come me con impegno, dedizione e molte volte anche gratuitamente (come nel mio caso) un ruolo pubblico istituzionale delicato. Giudizi di valore così lapidari possono indurre un errato e distorto messaggio al pubblico, poiché tendono a trasformare la complessità delle situazioni “sistema giustizia e carceri” in una mera contrapposizione tra buoni e cattivi, guelfi e ghibellini che è ben lontana dall’id quod plerumque accidit. Nel nostro ordinamento, dunque, vi è la necessità di figure tecniche indipendenti e non legate, nel caso di specie né ai detenuti direttamente né all’amministrazione penitenziaria, e che pertanto possano esprimere pareri del tutto slegati da contesti di appartenenza, in modo assolutamente imparziale, sulle situazioni di detenzione carceraria e sul rispetto dei diritti fondamentali. Occorre precisare che i garanti dei detenuti e dei soggetti privati della libertà personale non si occupano solo delle carceri, ma di tutti quei luoghi in cui è in essere una restrizione motivata della libertà personale, C.A.R.A., Tso solo per citarne alcuni. Pertanto, il ruolo di Garante non implica, assolutamente, una scarsa fiducia nell’egregio lavoro svolto dall’amministrazione penitenziaria e dal personale di polizia penitenziaria che collaborano sinergicamente, a qualsiasi livello territoriale nell’interesse esclusivo della tutela della legalità. Come più volte ho avuto modo di sottolineare, il garante dei detenuti e delle persone private della libertà personale non costituisce l’avvocato dei detenuti, o il nemico dell’amministrazione penitenziaria, questa sarebbe una conclusione distorta non veritiera: i garanti rappresentano, invece, un controllo sul rispetto della legge e dei diritti costituzionalmente garantiti all’interno di tutti i luoghi della libertà personale. In diverse relazioni sullo stato della detenzione carceraria io stesso come Garante Comunale ho più volte sollecitato anche per iscritto la necessità di incrementare le dotazioni al personale di Polizia Penitenziaria e le giuste tutele professionali. Per cui non è possibile assolutamente considerare i Garanti antagonisti della Polizia Penitenziaria o dell’Amministrazione Penitenziaria, o tantomeno difensori dei detenuti “senza se e senza ma”, sic et simpliciter. Il ruolo dei Garanti non potrebbe essere sostituito dall’Amministrazione Penitenziaria che diventerebbe altrimenti controllata e controllore al medesimo tempo. Giova ricordare peraltro che, anche in sede processuale, da sempre come impostazione di “Sistema giustizia” è stato pensato ad un apposito organo inquirente, che rappresenti la pubblica accusa nel processo penale e dunque l’interesse dello Stato a realizzare la pretesa punitiva, ben distinto dall’organo giudicante che poi sentenzia e definisce il giudizio nel merito, in sede penale o civile. Anche in questo caso, tale impostazione sistematica garantisce la terzietà del giudicante, altrimenti farebbe tutto il pubblico ministero accusa e definizione del giudizio! Addirittura verginità del giudizio in sede penale viene preservata proprio con la previsione di persone fisiche giudicanti distinte nell’ambito delle varie fasi del procedimento penale: il Giudice per le indagini preliminari ed il Giudice dell’Udienza preliminare ad esempio. Anche nell’ambito delle Società la presenza del Collegio dei probiviri assume il compito terzo e indipendente, di risolvere eventuali controversie tra i soci o fra soci e società, riguardanti il rapporto sociale. Desidero concludere questa breve precisazione auspicando che la Politica nazionale, non si faccia, anche inconsapevolmente, portavoce di visioni semplificatrici che possano diffondere messaggi non rispettosi dei ruoli e delle funzioni sensibili e previste dalla legge. È importante piuttosto creare unità e sinergia, tra le varie Istituzioni per risolvere problemi annosi ed insoluti da tempo! *Garante cittadino dei diritti dei detenuti di Crotone Modena. Io, medico, salvato dai detenuti di Stefano Petrella settimananews.it, 29 giugno 2020 Mi chiamo Stefano, ho 60 anni e sono un medico. Ho sempre lavorato in Ospedale e da qualche anno sono il responsabile della Medicina Penitenziaria dell’Ausl di Modena. Il mondo del carcere è davvero molto particolare. Chi è detenuto è già stato condannato dalla società civile e paradossalmente, più che altrove, questo è proprio l’ambiente dove è importante non “giudicare” nessuno. Senz’altro per il medico è un dovere “curare i malati”. Tutti i malati. Addirittura, in guerra i medici curano anche i nemici; così, almeno in questo aspetto, nonostante il “buio” del carcere, il precetto evangelico di “amare i nemici” è davvero vivo nel mestiere del medico. Almeno curarli. In realtà, ancora una volta forse più che in altri luoghi, il carcere è proprio il posto dove puoi imparare quotidianamente la profondità della parola “grazie”; proprio perché i detenuti sono privi di tutto, libertà compresa, capita che anche per le più piccole cose ti ringrazino di cuore. A loro non sfugge. Ci tocca quindi di essere evangelizzati dai detenuti (i pubblicani e le prostitute vi passeranno davanti…). La rivolta - Recentemente sono stato coinvolto nella rivolta che c’è stata in carcere a Modena. Tralascio le considerazioni sociologiche sulle condizioni di vita dell’ambiente carcerario e sulle paure che il “Coronavirus” ha suscitato negli animi dei detenuti. Forse proprio la paura di fare la morte del topo in gabbia, le restrizioni dovute alle necessarie indicazioni di prevenzione sanitaria per il rischio di epidemia all’interno degli istituti, e la strumentalizzazione sempre presente per il desiderio costante di uscire dal carcere, hanno innestato la miccia della rivolta. Non solo a Modena. Così mi sono trovato, insieme ad un’infermiera, un agente di polizia e a un detenuto che stavo visitando, all’interno di un piccolo ambulatorio mentre l’istituto era in mano ai detenuti rivoltosi. L’agente di polizia teneva chiuso a chiave l’ambulatorio serrando con forza la maniglia di ferro nel tentativo di difenderci, l’infermiera piangeva per la sorte che le era capitata e la paura e l’ansia per un figlio piccolo a casa, e il detenuto, all’interno con noi, che era il più tranquillo di tutti e ci dava consigli per non peggiorare la situazione. Come se fosse possibile peggiorarla: fuori il fuoco e dentro il fumo. Io avevo il telefono cellulare, utilissimo per chiamare aiuto all’esterno, ma non per chiamare mia moglie per un “ultimo saluto”: non me la sono sentita, si sarebbe giustamente preoccupata e così ho pensato che la mia famiglia avrebbe capito che non l’avevo chiamata solo per un gesto di affetto e non di lontananza. In mezzo a questa “guerra mondiale” (come ha detto un mio amico) per un attimo ho chiuso gli occhi e ho pregato: è stato l’unico momento di pace e ho potuto estraniarmi dall’inferno che ci circondava affidandomi al Signore. La sorpresa - Tra tutte queste considerazioni, la principale è questa: alcuni detenuti, in accordo con il Comandante che si trovava all’esterno, sono saliti a prenderci per portarci in salvo. Abbiamo così dovuto aprire la porta che rappresentava la nostra unica difesa, fidandoci di loro. Ci hanno scortato fino all’uscita con due cordoni di persone che gridavano “la sanità, la sanità” come forma di rispetto nei nostri confronti. Commovente. Quando siamo usciti è stata una festa. Sono riuscito ad avvisare mia moglie, e di conseguenza i nostri figli, che ero in salvo senza che imparassero le notizie della rivolta che intanto la televisione già mandava in onda. Siamo stati accolti dalle forze di polizia penitenziaria, Comandante, agenti e Direttrice, sollevati per il buon esito almeno per noi operatori. Nei giorni successivi ho potuto salutare l’agente che era con noi durante la rivolta: fratello! Non c’era altro da dire. Qualche giorno dopo ho seguito in televisione la Via Crucis solitaria in Piazza S. Pietro del papa centrata sul mondo delle carceri: ho pensato che fosse stata fatta anche per me. Mi è stato chiesto di scrivere queste brevi considerazioni su questa vicenda dolorosa che ha portato comunque il peso di nove morti tra i detenuti. Tutti per “overdose” e tutti giovani. Adesso in molti criticheranno con durezza questi fatti peraltro realmente criminali. Ancora di più troveranno le giustificazioni per invocare misure ancora più repressive. Ma è anche il momento per ricostruire, visto che è stata fatta “tabula rasa” e si possono porre fondamenta nuove. Approfitto di questa occasione per chiedere di pregare per le carceri, tutte le sue componenti, perché diventino un luogo di redenzione e di rinascita. Ce n’è bisogno e si può fare. E la preghiera può più di ogni altra attività, peraltro necessaria. Concludo con le parole di papa Francesco: pregate per me! Grazie. Torino. Passò 210 giorni in una cella piccola e senza acqua calda, il giudice: risarcitelo di Ottavia Giustetti La Repubblica, 29 giugno 2020 Meno di tre metri quadrati per muoversi all’interno di una cella che veniva aperta appena quattro ore al giorno. L’impossibilità assoluta di privacy. Un lavandino per lavarsi, da cui sgorgava solamente acqua fredda. Così, per 210 giorni consecutivi nel carcere delle Vallette di Torino, detenuto in virtù della misura cautelare dell’operazione “Big Bang” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. Il detenuto, scontata la sua pena tra Torino e San Gimignano, si è guadagnato il 23 giugno un risarcimento da 1.680 euro, come ristoro per il periodo in cui è stato detenuto nel penitenziario Lorusso e Cutugno. La decisione è del tribunale di Sorveglianza di Siena che gli ha riconosciuto di aver subito un “trattamento inumano e degradante”. A sette anni ormai dalla sentenza Torreggiani, quella con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato all’unanimità l’Italia per le condizioni dei detenuti nelle sue carceri, il problema degli spazi e del trattamento delle persone in cella non è ancora risolto. Tanto che i giudici, di fronte alle istanze dei detenuti, sono costretti ancora adesso a riconoscere il risarcimento economico ai condannati che non hanno ricevuto una reale opportunità di riabilitazione scontando la pena. Sono decine i ricorsi, e in gran parte vengono accolti: o con lo sconto di un giorno di pena per ogni giorno trascorso in una cella troppo piccola, o troppo affollata, o in una condizione di ristrettezza eccessiva. In alternativa, per chi non ha una pena da portare a termine, con un risarcimento economico che allo Stato costa 8 euro al giorno. “Abbiamo dimostrato facilmente che il mio assistito ha vissuto in cella in condizioni degradanti - dice la sua avvocata Caterina Biafora - lo spazio vitale era assolutamente insufficiente per condurre un’esistenza accettabile. Non c’era l’acqua calda e il tempo trascorso segregato nel piccolo spazio tra un letto a castello e un lavandino era di 18 ore al giorno “. Inoltre, i mesi passati alle Vallette erano quelli della custodia cautelare, quindi neppure conseguenti a una condanna. Taranto. Inaugurata la sala incontri nella Casa circondariale “Carmelo Magli” Corriere di Taranto, 29 giugno 2020 Inaugurata all’interno della casa circondariale “Carmelo Magli” di Taranto una sala dedicata agli incontri dei genitori detenuti con i propri figli. Un ambiente colorato ed accogliente è stato allestito per volontà del Rotary Club Massafra. Il sodalizio presieduto dalla professoressa Rosanna Rossi ha provveduto all’acquisto di arredi, giocattoli e alle vernici per ridipingere le pareti. Grande soddisfazione ha espresso nel corso del suo indirizzo di saluto il governatore del distretto Rotary 2120 Sergio Sernia complimentandosi per l’iniziativa di grande rilievo messa in campo dal Club. Parole di gratitudine dalla dottoressa Stefania Baldassari, direttrice della casa circondariale, che ha sottolineato l’importanza della sala per il recupero della genitorialità: “Avendo a disposizione un ambiente confortevole e protetto, i detenuti potranno parlare con serenità con i propri figli. Le visite diventeranno, grazie all’aiuto del Rotary Club Massafra, un momento piacevole e meno doloroso in particolare per i minori”. A proposito di minori, presente all’evento anche la dottoressa Bombina Santella, presidente del Tribunale per i Minorenni di Taranto. Dalla dottoressa Santella un cenno alla sua esperienza quotidiana: “Per alcuni minori è difficile accettare la lontananza del genitore detenuto, altri addirittura rifiutano di incontrare il genitore in carcere perché troppo doloroso. Ecco che la sala incontri allestita dal Rotary Club rappresenta un contributo concreto ed essenziale al recupero della genitorialità in particolare nel caso in cui entrambi i genitori siano detenuti.” Palpabile l’emozione della presidente Rossi nel vedere realizzato un progetto da lei ideato e fortemente voluto: il service “Essere genitori in carcere” divenuto una splendida realtà. Inaugurata la sala, c’è stata occasione per visitare anche la sala d’attesa dove arrivano in visita i figli dei detenuti, anch’essa splendidamente allestita con una parte degli arredi donati dal Club e decorata con coloratissimi murales realizzati da un’associazione di volontariato che opera all’interno del carcere. Ultima tappa della visita post inaugurazione lo spazio esterno allestito come fosse un piccolo parco con tanto di scivolo, altalena, tavolo da ping pong e persino un calcio balilla anche questi donati dal Rotary. Insomma tre ambienti a misura di bambino offrono l’opportunità al genitore detenuto di continuare ad essere presente nella vita del figlio attraverso piacevoli momenti di incontro. Il webinar di Diritti in Movimento di Gemma Brandi* quotidianosanità.it, 29 giugno 2020 All’interno del webinar sulla pandemia alla prova della responsabilità, che Diritti in Movimento Toscana ha fortemente voluto e ideato, organizzandola poi con Diritti in Movimento Sicilia all’interno di Diritti in Movimento, il 30 giugno alle 17 sarà possibile ascoltare il parere della giovane eppur nota penalista Susanna Arcieri che non solo svolge la professione di avvocato, ma ha un ruolo di primo piano nella rivista online Diritto Penale Uomo, una pubblicazione libera e avveduta, aperta ai contributi innovativi e ai pareri di esperti delle varie discipline. La sua relazione, dal titolo “Sicurezza sul lavoro e pandemia: profili di rilevanza penale dei fatti occorsi durante l’emergenza Covid in ambito sanitario”, aprirà una prospettiva assai interessante su quanto accaduto ai sanitari durante questa dolorosa fase della pandemia. Sarebbe lesivo del dolore che una ferita ancora aperta procura ai superstiti e agli attori di questa vicenda, ignorare aspetti che chiamano in causa la necessità di rispondere dell’accaduto con coraggio e piena trasparenza, con generosità e fraternità. Seguirà un intervento della Dottoressa Antonella Tuoni, direttore della Casa Circondariale Gozzini di Firenze, che affronterà il tema “Il carcere ai tempi del coronavirus”. La relatrice è stata scelta per la capacità dimostrata nell’affrontare situazioni estreme all’interno del mondo della pena. Fu lei a dare un volto decisamente diverso all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino negli ultimi anni di apertura di quell’istituto. Lo fece da dirigente amministrativo, intervenendo sui modi e sui mezzi di contenzione che vigevano prima del suo arrivo, dando avvio a un piano di umanizzazione strutturale e di messa in sicurezza di spazi che difficilmente si sarebbero potuti definire sanitari, intervenendo cioè sospinta da una pietas civile e da un rispetto per il diritto e per i diritti dei più fragili. In tal modo capovolse in poche stagioni il volto di un luogo che era stato definito, con altri, dall’allora Presidente della Repubblica “indegno di un Paese appena civile”. Il passaggio di Antonella Tuoni fu un momento di rivoluzione trattamentale al punto che, quando mi ritrovai, per una di quelle straordinarie carambole del caso, a chiudere l’Opg di Montelupo Fiorentino che avevo lasciato nel 1991, trovandolo troppo distante da quello che ritenevo il minimo rispetto dovuto a un portatore di sofferenza psichica, mi spiacque che tanto lavoro e tanta bellezza fossero liquidate, anziché riutilizzate per nuovi obiettivi che le leggi ponevano al responsabile della salute in ambito penitenziario. Vedremo come anche l’emergenza Covid-19 in carcere sia stata affrontata con brillante semplicità da una dirigente accorta. Susanna Arcieri e Antonella Tuoni sono state indicate da chi scrive, quale Coordinatrice di Diritti in Movimento Toscana, trovandole esponenti di una capacità, che ritengo non estranea al loro essere donne, di tenere insieme pratica e teoria. Non alla maniera di quei laureati in Giurisprudenza che mirano a un posto universitario e frattanto usano la professione per sbarcare il lunario, ma come persone consapevoli del fatto che solo la pratica in continuo divenire sia in grado di produrre una teoria interessante e utile, mentre la teoria sganciata dalla propria pratica, non dalla pratica altrui, è destinata ad avere pochissima vela. Sono persone che non hanno smesso di studiare e di produrre un pensiero a partire dalle sempre nuove richieste di una attività che cambia giorno per giorno, che da tale attività non si sono lasciate annichilire. A concludere l’incontro sarà una teorica di Diritto Civile, la Professoressa Daniela Fisichella, della Università di Catania, con relazione dal titolo “Organizzazione Mondiale della Sanità e la reazione alla pandemia Covid-19, tra approccio integrato e politiche sanitarie nazionali”. A indicare questa presenza è stata l’Avvocato Mariagrazia Caruso, Coordinatrice di Diritti in Movimento Sicilia. Sempre alla stessa ora, il 7 luglio sarà possibile seguire tre civilisti siciliani e, a conclusione dell’incontro, la Presidente della Corte d’Appello di Firenze, Margherita Cassano, e il 10 luglio i Presidenti del Tribunale di Firenze, Dottoressa Marilena Rizzo, e di Prato, Dottor Francesco Gratteri, mentre il Professor Gianni Baldini concluderà quel meeting con disamina degli aspetti bioetici della vicenda. Chiunque potrà collegarsi, utilizzando i seguenti ID e password: ID 964 2040 8787 e Password 6W9iFe, e il seguente link: Join Zoom Meeting https://zoom.us/j/96420408787?pwd=WVhpY3FMbEM3UVJ3NEdWdlhWa1lBZz09 *Psichiatra psicoanalista, Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto Le donne in prigione si raccontano di Nicoletta Martelletto Giornale di Vicenza, 29 giugno 2020 Sole. Doppiamente sole nei mesi della pandemia. Sono le donne che non hanno potuto chiedere aiuto mentre in casa si consumava la violenza. Ma sono anche le donne in carcere, che per settimane non hanno potuto comunicare con l’esterno, ai margini di un evento epocale. Raccogliendo una doppia sfida, la giornalista televisiva Francesca Carollo, thienese, ha trasformato in un libro la loro sofferenza. Lo ha prodotto in proprio la onlus “Wall of Dolls”, di cui Francesca è presidente, che combatte la violenza sulle donne con interventi, documentari e l’installazione del muro delle bambole. Dopo aver girato per 4 mesi nel carcere di San Vittore a Milano, lo scorso anno il documentario “Donne in prigione”, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia con Jo Squillo e Giusy Versace, le storie che non sono entrare nel film si sono riversate sulla carta. Il libro viene inviato gratuitamente scrivendo a wallofdollsonlus@gmail.com e sostiene il lavoro della onlus. Francesca, quante storie ci sono dietro quelle sbarre? Tantissime, avevo raccolto 80 ore di girato e ne ho usato davvero poco. Ho deciso nel periodo del lockdown di farne un testo perché ci sono vicende incredibili: la figlia del malavitoso; la nigeriana schiava per 3 anni in Libia, poi a Lampedusa, quindi finita a Milano nel giro della prostituzione; la ragazza che ha ucciso la sorella e tentato di ammazzare anche la madre; una bellissima spacciatrice internazionale che faceva imbottire i tronchi di legno di cocaina... vicende molto forti, che riconducono al perché queste donne commettono reati. Scavando nel loro passato, tutte sono state vittime di qualche violenza verbale, psicologica o fisica. Padri, fratelli o compagni le hanno picchiate. Questo non giustifica in nessun modo i loro reati, ma mette a nudo il limbo in cui si sono trovate. Ciascuna ha chiaro dove ha sbagliato, perché ha sbagliato, dovunque c’è l’assenza di famiglia o di aiuto. Il libro doveva uscire per l’8 marzo con una casa editrice, la pandemia ha bloccato tutto ma queste stesse donne hanno cominciato a scriverle... Dal carcere le loro lettere parlavano di isolamento totale. Il Covid-19 ha tagliato ogni legame, ogni incontro, zero telefonate. Nessuna sapeva cosa accadeva fuori, se i familiari stavano bene. In più il distanziamento in un carcere come San Vittore è impossibile, quindi si sommava la preoccupazione sulla salute, pochissimi i dispositivi di protezione. In fondo anche la mia vita, la nostra vita, era diventata un carcere in questi due mesi e mezzo, tutti abbiamo sperimentato cosa significa per davvero la privazione della libertà. Lei scrive che il virus è stato un po’ come un cecchino che colpisce senza pietà. Una metafora per dire è stato un blocco violento quella della nostra vita in questi mesi e mi pareva giusto parlare del libro anche di questo. Quindi alle testimonianze si sono aggiunte le lettere e abbiamo deciso di far uscire il testo con la onlus come iniziativa culturale, per cambiare questa cultura terribile di sopraffazione. Durante il lockdown il 1522 (l’Help Line Violenza e Stalking numero voluto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri, ndr) ha smesso di suonare. Noi stesse abbiamo cercato di portare via da casa una donna che ha chiesto aiuto ma non ci siamo riuscite. Una battaglia perduta. Il lavoro da fare è tantissimo. Qualche battaglia l’avete vinta, Pinky è una delle vostre testimonial. La sua storia? Parvinder Pinky Aoulakh di Brescia, data in sposa per accordi familiari ad un indiano che la picchiava anche incinta, dopo aver partorito l’atteso secondogenito maschio e ascoltato i genitori che le dicevano di sopportare, ha subito nel 2015 una aggressione col fuoco: lui non tollerava i suoi modi occidentali. È stata salvata dai vicini e fa conferenze con noi. La aiutiamo, così come altre donne sfregiate o aggredite in Calabria, facciamo rete con la Only The Brave Foundation di Rosso, piccole cose che i nostri donatori ci consentono. Amnesty: “Egitto grazia 530 detenuti, Governo prema per Zaky” ansa.it, 29 giugno 2020 “Il presidente egiziano al-Sisi ha annunciato il rilascio di 530 detenuti come misura di contrasto al Covid-19”, con un provvedimento di grazia che punta a decongestionare le carceri, il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio hanno “un’opportunità unica di chiedere che ne beneficino Patrick Zaky, Alaa Abdel Fattah, Sanaa Seif e tutti gli altri prigionieri di coscienza”. Così in un tweet Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Questa - sottolinea Noury - è un’opportunità unica per chiedere che in questo provvedimento rientrino persone che in carcere mai avrebbero dovuto entrarci. Penso ad Alaa Abdel Fattah, icona della rivoluzione del 2011, penso all’avvocata Mahienour el-Masry, a Sanaa Seif, la sorella minore di Alaa Abdel Fattah. Naturalmente penso a Patrick Zaky che di un provvedimento del genere sarebbe il primo a dover beneficiare proprio in ragione delle sue condizioni di salute. E quindi l’appello di Amnesty International Italia al presidente del Consiglio Conte, al ministro degli Esteri Di Maio è che esercitino i loro buoni rapporti più volte dichiarati e ostentati col presidente egiziano Al Sisi per far sì che Patrick e gli altri prigionieri di coscienza beneficino di questo provvedimento”. L’appello di UniBo - “Faccio appello al Governo italiano, alla Commissione europea, alle numerosissime istituzioni che hanno aderito alla nostra mozione e a tutte le università del mondo che come noi hanno sottoscritto i principi della Magna Charta affinché si uniscano all’Alma Mater e facciano sentire la propria voce. È l’occasione per mettere fine a questa assurda vicenda e poter restituire Patrick alla sua vita e ai suoi studi”. Così il rettore dell’ateneo bolognese Francesco Ubertini sull’annuncio di Al-Sisi di concedere la grazia a 530 detenuti. Patrick George Zaky, studente egiziano di 29 anni dell’Università di Bologna, è stato arrestato all’arrivo al Cairo per una breve vacanza tra il 7 e l’8 febbraio con accuse che annoverano anche la propaganda sovversiva su Facebook. Da allora è stato trasferito tre volte da una struttura detentiva all’altra dopo innumerevoli rinnovi della sua custodia cautelare, di 15 giorni in 15 giorni. Al momento è nel maxi-complesso carcerario di Tora al Cairo dove sarebbero stati accertati, secondo attivisti, casi di Covid-19 e Patrick è un soggetto asmatico. La famiglia non lo vede da inizio marzo. Molte udienze (l’ultima il 17 giugno) si sono svolte senza la presenza né del ricercatore, né dei suoi legali. Bahrein. Lanciata campagna online contro tortura nelle carceri iqna.ir, 29 giugno 2020 Attivisti per i diritti umani e utenti dei social media hanno lanciato una campagna online per chiedere la fine immediata dell’uso della tortura contro i dissidenti politici nelle carceri e nei centri di detenzione del Bahrein. Gli attivisti hanno lanciato l’hashtag arabo “Stop Torture in Bahrain” su Twitter, esortando le persone a riversarsi su Internet alle 20:00. ora locale (17:00 GMT) di venerdì e chiamata per la cessazione della pratica disumana. L’iniziativa mira a commemorare la Giornata internazionale delle Nazioni Unite a sostegno delle vittime della tortura, che si tiene ogni anno il 26 giugno per denunciare il crimine di tortura e onorare e sostenere le vittime e i sopravvissuti in tutto il mondo, ha riferito Press TV. Il Bahrein ha visto proteste anti-regime negli ultimi nove anni. La richiesta maggiore è stata l’eliminazione del regime di Al Khalifa e l’istituzione di un sistema giusto e conclusivo che rappresenti tutti i cittadini del Bahrein. Il regime di Manama, in cambio, ha ignorato le chiamate e sta proseguendo con la sua pesante repressione e la persecuzione di attivisti per i diritti umani e dissidenti politici. Il parlamento del Bahrein ha approvato il processo contro civili in tribunali militari il 5 marzo 2017. La mossa ha suscitato una condanna diffusa da parte di organismi e attivisti per i diritti umani ed è stata descritta come l’imposizione di una legge marziale non dichiarata in tutto il paese. Il re del Bahrein Hamad bin Isa Al Khalifa ha timbrato l’emendamento costituzionale il 3 aprile dello stesso anno. Egitto. 3 anni di carcere a celebre danzatrice del ventre per “incitazione alla dissolutezza” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 29 giugno 2020 Veli e doppi veli. Cimbalini e tamburelli. Corpetti e cavigliere. Se c’è un segreto che ancora si nasconde nell’Egitto profondo, e da sempre spaventa quello ufficiale, non è il terrorismo. Da Napoleone a Mubarak, dai Fratelli musulmani ad Al Sisi, ogni padrone del Cairo prima o poi deve vedersela con le mascherate imperlinate della danza del ventre. Con quel che significa nell’allusione sessuale. Con quel che libera nei momenti di repressione. Tutti a digitare raqs al-sharqi, le parole chiave del ballo orientale, e vai con gli ombelichi al vento. L’ultimo caso esplode su Tiktok, la piattaforma cinese, e riguarda una delle ballerine più famose ed esperte: Samia Ahmed Attia Abdel Raman, in arte Sama al-masry, 44 anni, arrestata il 23 aprile e condannata ieri a tre anni di carcere, più altri tre con l’obbligo di firma e 16 mila euro di multa, per un video “che incita alla dissolutezza e all’immoralità”. Tutta galera che si farà: Al Sisi è sulla linea dell’amministrazione Trump e dell’Europa e ha deciso che questo Tiktok è una minaccia, una subdola forma di penetrazione, e una punizione alla danzatrice farà d’esempio. E’ il social prediletto del movimento antirazzista Usa, con i video danzanti di “Black Lives Matter”. Ed è partito da lì il sabotaggio del comizio di Trump, biglietti prenotati online e i posti vuoti. Ha lanciato l’idea una donna di 50 anni, firmandosi “nonna Tiktok”. bene la lingua e il mouse: sette anni fa, quando governavano gli islamisti di Morsi, finì nei guai per un video che irrideva il velo musulmano. E l’anno dopo, finì in prigione per un altro sketch sul presidente dello Zamalek, la sacra squadra di calcio cairota che nessuno può nominare invano. Stavolta, la faccenda è più seria e Sama si difende dicendo che qualcuno le ha rubato l’account e ha diffuso quei video privati. Le accuse vanno dagli atti osceni all’incitamento alla prostituzione, ma c’entra la stretta di vite che il regime sta imponendo a chi va troppo sul social cinese: pochi giorni prima di lei è finito dentro uno studente universitario, Hanin Hossam, che sempre su Tiktok avrebbe pagato le sue compagne di corso perché si filmassero con una certa libertà. “C’è una bella differenza fra libertà e dissolutezza”, la denuncia d’un deputato tradizionalista, John Talaat: “Coi video postati, i ragazzi stanno distruggendo i valori della famiglia e violando la nostra Costituzione”. La guerra di Al Sisi a Tiktok ha sponde robuste. Perché il suo miliardo di video scaricati - voluto dai cinesi nel 2018 per raggiungere la generazione X dai 13 anni in su, usato al 60% dai teenager, ormai diffuso in 150 Paesi e in 75 lingue - più di Instagram e Whatsapp sta diventando il mezzo ultrarapido per veicolare balli & canti apparentemente innocenti e, insieme, agitare le censure dei regimi e i sospetti dei governi democratici. La Cina per prima è riuscita a cancellare argomenti sensibili come Tienanmen, il Tibet o la setta religiosa Falun Gong. Ma solo qualche giorno fa in Georgia, Usa, s’è dovuto intervenire su ragazzini che inviavano video razzisti. E in Germania s’è trovata una rete di pedofili. Anche le questioni dei furti d’identità (la stessa che denuncia Sama) o dell’esproprio di dati personali sono ormai un tema sensibile. “Società tradizionali come quella egiziana faticano ad accettare i cambiamenti di questa tecnologia”, dice Enessar Al-said, storica avvocata dei diritti umani al Cairo. Chiusa nel carcere dei più temuti oppositori, la danza macabra di Sama è solo cominciata. E il suo account Tiktok è stato subito disattivato.