Carcere: il Garante chiede più dignità e più pene alternative retisolidali.it, 28 giugno 2020 Presentato il Rapporto 2020 del Garante. Tornano a crescere le presenze in carcere in giugno. Chiesta l’introduzione del reato di tortura. Il 19 giugno 2020, il Garante Nazionale delle Persone Detenute o private della libertà personale, ha consegnato la Relazione al Parlamento 2020, che analizza la situazione del 2019 e dei primi mesi del 2020. La Relazione al Parlamento è poi stata presentata al pubblico il 26 giugno, da Mauro Palma, presidente del Gnpl, Daniela De Robert e Emilia Rossi, i quali nell’ultimo anno, hanno esaminato 70 luoghi di privazione della libertà in 15 Regioni tra cui carceri, istituti minorili, residenze sanitarie per anziani, Rems e Cpr, e hanno monitorato 46 voli di rimpatrio forzato. Nella sua presentazione, Mauro Palma ha sottolineato, che la Relazione 2020 ha posto l’attenzione sull’individuo e sulla necessità di “riconoscere la soggettività delle persone” private della libertà. “L’anonimia”, sostiene Palma, “è il rischio più grande di tutte le collettività ristrette, e rappresenta un’ulteriore vulnerabilità che, aggiunta ad altre vulnerabilità, richiede un’accentuazione della tutela dei diritti. Quest’anonimia riguarda tutti e in particolar modo le persone straniere nei Cpr che devono essere accolte o respinte”. Le misure alternative - I numeri riportati nella Relazione, indicano, secondo il Garante che “il carcere accoglie situazioni createsi anche per l’assenza di risposte del territorio in grado di intercettare il disagio e le difficoltà di vita capaci di diminuire l’esposizione al rischio di commettere reati”. Basti pensare “che, ancora oggi, vi sono in carcere 867 persone che scontano una pena (non un residuo di pena) inferiore ad un anno e 2.764 che hanno una pena compresa tra uno e due anni”; e vi sono altresì “13.661 persone detenute che hanno un residuo di pena inferiore ai due anni” e non si capisce il perché non abbiano accesso alle diverse misure alternative previste dal sistema giudiziario. Carcere e disagio psichico - Tra le richieste avanzate dal Garante vi è quella di intervenire legislativamente sul “permanere del disallineamento degli articoli 147 e 148 del Codice Penale, col fine di sanare la discrasia tra le risposte all’infermità fisica, per la quale è prevista la sospensione facoltativa della pena; e l’infermità psichica, per la quale non esiste tale possibilità”. Ciò emerge in relazione all’insufficiente impegno da parte delle Aziende Sanitarie di affrontare il disagio mentale, che comporta un’ulteriore ricaduta sul personale che opera nelle sezioni. “Il supporto psichiatrico è impostato solo in risposta a situazioni patologiche già evidenziate, e tale impostazione si traduce con psichiatri impiegati in un uso molto diffuso di interventi farmacologici di sedazione e nell’affidamento al personale di sicurezza della sorveglianza a vista della persona isolata”. Il Garante Nazionale ribadisce di non poter concordare con tale modalità di gestione dei disagi psichici che “delega, di fatto, la responsabilità a personale non formato per questa funzione, esponendolo anche a rischi di dovere rispondere ad eventuali conseguenze.” I riflettori sulle Rsa - L’epidemia Covid19 ha accesso i riflettori su alcune situazioni che fino a poco tempo fa erano note solo agli addetti ai lavori e a chi usufruiva di tali strutture. Oggi, invece, è impossibile non conoscere il significato di Rsa (Residenze sanitarie per anziani). Al di là delle vicende direttamente collegate all’epidemia, la permanenza in tali strutture rischia di diventare, per alcuni soggetti, una forma di istituzionalizzazione. Per tale motivo il Garante Nazionale ha stipulato un accordo con l’Istituto Superiore della Sanità per un monitoraggio continuo di tali strutture, non solo con finalità statistiche, ma ha inserito nello studio alcuni propri indicatori, significativi per comprendere la qualità dell’accesso ai diritti delle persone ospitate, soprattutto nei casi ove non vi siano legami famigliari che possano sostenere queste persone. Tornano a salire i numeri degli ingressi - Un anno fa, nel marzo 2019, il Garante aveva messo in evidenza la crescita costante della popolazione detenuta: al 20 marzo 2019 erano 60.420 le persone detenute, numero salito a 60.769 al 31 dicembre 2019. Tale numero ha segnato una crescita di 1.114 persone rispetto alla stessa data del 2018, e di otre 3000 rispetto a quella del 2017. “La popolazione detenuta aumenta perché dal carcere si esce di meno, non perché vi si entra di più,” ha sottolineato Emilia Rossi. La crescita della popolazione ha mantenuto livelli di crescita costanti fino ai primi di marzo di quest’anno: il 29 febbraio 2020 le presenze in carcere erano arrivate a 61.230, rischiando di andare in contro a quei limiti già sanzionati dalla Corte Europea dei diritti umani nel 2013. A metà marzo, erano 8.629 le persone detenute con un residuo di pena inferiore a un anno, e 3.785 erano coloro per i quali questo residuo non superava i 6 mesi. Nel 2019, inoltre, si è registrato un significativo aumento degli avvenimenti critici: 11.261 atti di autolesionismo; 827 atti di aggressione al personale penitenziario; 4.427 aggressione tra la popolazione detenuta, 1.507 tentativi di suicidio (nell’anno precedente sono stati 1.195) e 55 suicidi. L’emergenza sanitaria, e la conseguente diminuzione della popolazione detenuta, che a giugno è arrivata al minimo di 53.366 presenze, ha messo in evidenza due segnali di estrema rilevanza. Il primo è che l’operatività degli organi giudiziari è il fattore principale nella regolamentazione dell’affollamento nelle carceri. Delle circa 8.500 presenze in meno tra i mesi di marzo e giugno, 3.612, alla data del 23 giugno 2020, sono dovuti alla concessione della detenzione domiciliare, di cui solo 1077 in applicazione all’articolo 123 del decreto legge 18 del 2020, e 666 determinate dalle licenze prolungate in applicazione dell’articolo 124 del decreto legge 18. Tutte le altre dimissioni, sono state prodotte dall’adozione dalle misure alternative al carcere già previste dall’ordinamento giudiziario. Il secondo segnale connesso a questa operatività è che c’è un altro modo di concepire e trattare l’esecuzione penale, e che esiste un altro mondo, diverso dal carcere, in cui scontare la pena e che queste misure non sono solo giuste ma anche efficaci. Purtroppo però c’è da segnalare che dall’esperienza emergenziale, oltretutto ancora in corso, non si è fatto tesoro, infatti le presenze in carcere sono tornate a crescere, portando i detenuti al 23 giugno, a 53.526, cioè 150 in più in 15 giorni. Il reato di tortura - Mauro Palma ha ricordato anche la necessità di introdurre il reato di tortura nel nostro codice penale, perché “in nessuno Stato può ritenersi immune da episodi che possano essere così qualificati”. Introdurre questo reato, secondo Palma, “va salutato non solo come adempimento, quantunque tardivo, di un obbligo assunto sul piano internazionale, ma come atto di responsabilità, affinché comportamenti così gravi non corrano il rischio dell’impunità e al contempo si salvaguardi la dignità di tutti coloro che operano correttamente e dei loro Corpi di appartenenza”. Tortura, l’appello del Garante dei detenuti: “Basta trattamenti disumani” di Viviana Lanza Il Riformista, 28 giugno 2020 Ci sono date che servono a ricordare quel che dovrebbe essere ricordato sempre e sollecitare un impegno che andrebbe assunto quotidianamente. Una è quella del 26 giugno, giornata mondiale contro la tortura. Il termine non evoca solo prassi brutali di Paesi lontani, la tortura può avere mille sfumature. Tortura possono essere i trattamenti che mortificano la dignità di una persona o negano il rispetto di diritti fondamentali. Tortura sono i soprusi o le costrizioni. “Nessun individuo deve essere sottoposto a tortura o comunque a trattamenti degradanti e disumani”, hanno ricordato l’Osservatorio regionale delle carceri e il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, in occasione della giornata mondiale contro la tortura. “Pensiamo, per esempio, ai trattamenti sanitari obbligatori, a quanti li subiscono senza poter far valere i loro diritti. Pensiamo - ha aggiunto Ciambriello, calando il tema della tortura nella realtà del nostro territorio - ai detenuti del sistema carcerario campano caratterizzato da un fenomeno di sovraffollamento mai risolto che acuisce le tensioni nei penitenziari e il malessere di quanti ne condividono le criticità: carcerati e agenti. Pensiamo al logorio di chi è affetto da problemi psichiatrici e attende a lungo un trasferimento alla Rems (la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) che non arriva. Pensiamo agli immigrati fermati per strada, perché ebbri o considerati sospetti a prescindere, trattenuti in questura o, se nel primo caso, sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori per poi essere dimessi e abbandonati a sé stessi”. E sono già una ventina i casi di questo tipo registrati in Campania negli ultimi mesi. Di qui lo spunto per quella che Garante e Osservatorio carcere hanno definito “una riflessione collettiva sugli abusi ai danni di persone inermi” per sollecitare più impegno da parte delle istituzioni e maggiore sensibilità da parte dell’opinione pubblica. Ciambriello ha invocato “un maggior impegno istituzionale e una più profonda presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica contro la tortura in tutte le sue articolazioni”, perché “l’indifferenza è la migliore alleata di ogni ingiustizia”. La sfera sanitaria viene indicata tra quelle con le criticità maggiori. “La riforma ha saputo fare una sola cosa: cambiare il nome ai Centri Clinici e denominarli Sai (Strutture assistenziali intensive). Ma nella condizione in cui versano non sono più in grado di assicurare prestazioni adeguate”, denuncia Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria e già presidente dell’Associazione nazionale dei medici penitenziari. “Sono venuti meno in modo clamoroso i necessari investimenti sul personale e sulle apparecchiature medicali e si è portata avanti la politica del basso profilo che non delinea alcun progetto di riqualificazione professionale e strutturale. In queste condizioni - ha aggiunto - diventa quasi impossibile assicurare il diritto alla salute in carcere e di questo deve tener conto la magistratura in tutti i gradi di giudizio senza trincerarsi dietro posizioni retrive e pilatesche”. Giudici e pubblici ministeri, una cultura unitaria di Gustavo Ghidini* Corriere della Sera, 28 giugno 2020 La discussione deve svolgersi avendo al centro il concetto/valore della giustizia come servizio pubblico: servizio ai cittadini. In questa prospettiva, sono prevalenti gli argomenti a favore del mantenimento e del rafforzamento di una puntuale separazione di funzioni: non, invece, di carriere. Caro direttore, ritorna all’attenzione pubblica l’annosa questione della separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e requirenti (“Giudici e Pm” come comunemente si dice). La proposta di legge di iniziativa popolare a favore della separazione, patrocinata dagli avvocati penalisti rappresentati nelle “Camere penali”, è all’esame della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati. Una discussione basata su argomenti razionali e non viziata da aprioristiche suggestioni - eventualmente rafforzate da pur sconcertanti comportamenti di alcuni membri del Csm: comportamenti che nulla hanno a che vedere con la questione - deve svolgersi avendo al centro il concetto/valore della giustizia come servizio pubblico: servizio ai cittadini. In questa prospettiva, ritengo prevalenti gli argomenti a favore del mantenimento e del rafforzamento di una puntuale separazione di funzioni: non, invece, di carriere. Ogni magistrato, nei diversi ruoli, deve perseguire un unico ed unitario interesse generale: accertare la verità dei fatti nei modi processuali stabiliti, e decidere di conseguenza, secondo la legge. Il Pm deve cercare, con pari impegno, prove a carico e a discarico dell’indagato, e, se del caso, chiedere l’ archiviazione o l’assoluzione. Anch’egli è dunque, in senso proprio, “parte imparziale” del processo,a differenza del difensore, che fa l’interesse privato e personale dell’imputato. Al Giudice, poi, spetterà di valutare le prove e gli argomenti presentati dall’uno e dall’altro. Ora, ciò vale anche nell’ambito del processo “accusatorio”: ove il ruolo dialettico del Pm si rappresenta in termini di un più intenso e dinamico (e “organizzato”) confronto con il difensore, non certo in quelli di “parte contro” il cittadino indagato. Guai se questi fosse indotto a contare soltanto sull’abilità di un (solo-per-abbienti) “principe del foro”, e non anche sull’opera dello Stato, per veder riconosciute le proprie ragioni. Reputo inconcepibile che lo Stato operi, o anche solo appaia operare, attraverso un suo organo, orientato contro il cittadino indagato. Dovrebbe dunque promuoversi un sistema organizzativo che assieme alla distinzione dei ruoli valorizzi il principio della unitarietà della funzione giurisdizionale, cioè l’unitaria missione istituzionale del “dire giustizia” nel pubblico interesse. Potranno dunque eventualmente introdursi nuove regole, basate sull’esperienza, per rafforzare la distinzione effettiva delle specifiche funzioni dei magistrati. Regole da aggiungersi a quelle già esistenti (v.ad es. l’art 34 cod. proc. pen., interpolato da varie sentenze interpretative della Corte Costituzionale) che prevede varie incompatibilità fra Pm e Giudici - e anche fra Giudici, come quella per cui il Gip che ha adottato un provvedimento cautelare non può essere lo stesso magistrato che decide sul rinvio a giudizio). Ciò detto, insisto sull’esigenza che ogni magistrato, a partire dalla formazione sino all’esercizio delle funzioni, effettivamente condivida, pur quando investito di ruoli diversi, una unitaria “cultura della giurisdizione”: che è fatta anche di riflessione scrupolosa, confronto, capacità autocritica. E proprio ad evitare l’avversarsi o il ripetersi di manifestazioni di “protagonismo” e comunque di scarsa ponderazione nell’esercizio della funzione requirente, va garantita e rafforzata quella condivisione effettiva. E così - sviluppando la regola secondo cui i magistrati ordinari in tirocinio non possono essere immediatamente destinati agli uffici del Giudice delle indagini preliminari - si dovrebbe condizionare l’accesso al ruolo di Pm ad una precedente, pluriennale esperienza di componente di collegi giudicanti: ove appunto maturare quella cultura di ponderazione, confronto, critica ed autocritica. Per le stesse ragioni, in luogo di scelte irreversibili, dovrebbe mantenersi la possibilità di periodiche “conversioni di servizio” (di durata pluriennale e con tutte le specifiche garanzie di separazione funzionale) dalla attività giudicante a quella requirente, e viceversa *Professore emerito dell’Università degli Studi di Milano Non si fermano le violenze in famiglia ma il lockdown ha frenato le denunce di Elvira Serra Corriere della Sera, 28 giugno 2020 Le richieste di aiuto cresciute del 59%. A giorni la relazione in Parlamento della Commissione sul femminicidio. Grazia Cesaro (Unione nazionale camere minorili): “In famiglia violenza intrafamiliare e disagio psichico in aumento”. Sembrava fossero diminuiti durante il lockdown, in realtà maltrattamenti in famiglia e aggressioni fisiche hanno ricominciato a salire. E se è vero che gli omicidi delle donne sono diminuiti, lo hanno fatto meno di quelli degli uomini, e quasi sempre in un contesto familiare. I dati che la Commissione di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere presenterà in Parlamento la prossima settimana sono disomogenei e non potrebbe essere altrimenti. Sono diverse le fonti, diversi i tempi e diverse le modalità di raccolta. Arrivano da una delibera del Consiglio superiore della magistratura, con dati presi a campione nelle procure e nei tribunali, dal numero verde attivo giorno e notte 1522 voluto dal Dipartimento delle Pari opportunità e dalla ministra Elena Bonetti, dalla Rete Dire e dal ministero dell’Interno. La Commissione contro la violenza - Quello che però la senatrice del Pd Valeria Valente può già affermare, nel ruolo di presidente della commissione, è che “il lockdown ha rallentato le denunce fisiche e gli ingressi in ospedale dopo un maltrattamento, ma quando le donne sono state messe nelle condizioni di chiedere aiuto, attraverso la app del 1522, le segnalazioni sono arrivate più numerose di prima”. E dal suo osservatorio riesce a valutare una nuova criticità proprio nelle famiglie con figli, che in caso di separazione diventano oggetto di ricatto e straziante strumento per esercitare dominio e potere da parte del padre, come è successo a Margno, nel Lecchese. Spiega: “Stiamo provando a rafforzare la nostra attenzione più sul civile che sul penale, perché lì dove ci sono vicende di affido dei minori che si incrociano con violenze domestiche, le sopraffazioni sono moltissime, e il più delle volte ai danni della donna. La tanto discussa teoria della “alienazione parentale”, priva di qualsiasi valenza scientifica, è ormai tirata in ballo sempre più spesso contro le madri, soltanto per screditarne il ruolo genitoriale”. Il numero verde 1522 - L’Istat ha rielaborato gli ultimi dati messi a disposizione da Telefono Rosa, che gestisce le telefonate al 1522. Dal primo marzo al 16 aprile le chiamate giudicate “valide” sono aumentate del settantatré per cento: hanno chiesto aiuto 2.013 vittime, il 59 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2019. Il tasso di incidenza più alto è in Lazio, dove è passato dal 6,8 del 2019 al 12,4, e in Toscana, con un balzo dal 4,8 all’8,5 per centomila abitanti. Chiamate in aumento anche dalla Sardegna e dall’Umbria. L’allarme sui figli - Resta il problema dei figli, spettatori o vittime della violenza domestica. Su questo può fare una riflessione basata sulla sua esperienza l’avvocato Grazia Cesaro, presidente dell’Unione nazionale camere minorili. “In famiglia violenza intra-familiare e disagio psichico sono in aumento e noi esperti sappiamo che la separazione può avere l’effetto detonatore di una bomba atomica. Questo richiede più attenzione per ogni segnale e la necessità di rafforzare i presidi di tutela per i minori”. L’unica via “perché tragedie come quella del Lecchese non si ripetano”. “Difesa negata a Palamara”. Il difensore del magistrato replica all’Anm Il Dubbio, 28 giugno 2020 Di seguito la lettera inviata giovedì ai vertici dell’Anm da Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena e difensore di Luca Palamara nel procedimento dinanzi all’associazione. Carissimo Presidente e carissimi colleghi, ho letto con molta sorpresa ed altrettanta amarezza il Vostro comunicato in data 24.6.2020 tuttora presente sul sito dell’Anm. Non mi sarei aspettato che, in risposta ad una mia intervista al quotidiano il Dubbio che conteneva, tra l’altro, legittime critiche ad una decisione assunta dal C. d. c. con particolare riguardo alle procedure adottate, mi venisse replicato di avere reso affermazioni false. Al di là dei toni utilizzati nei miei confronti che mi sembrano un po’ sopra le righe e non in linea con l’abituale dialettica associativa alla quale da tanto tempo partecipo anche con molti di Voi, mi permetto di rilevare quanto segue. Al contrario di quanto da Voi affermato, nella mia intervista non si dice affatto che la proposta del Collegio dei Probiviri e la delibera del Comitato direttivo centrale si fonda su articoli di stampa; viceversa io ho affermato che il dott. Palamara si è potuto difendere davanti al Collegio dei Probiviri sulla base di una contestazione che faceva riferimento a notizie tratte da articoli di stampa (nota indirizzata al dott. Palamara a firma del presidente del Collegio del 22.7.2019 prot. 31/19/BDM/es); non a caso, in quella sede nel corso dell’audizione del dott. Palamara tenutasi in data 2.3.2020, ho eccepito il difetto della contestazione, per la mancata specificazione dei comportamenti attraverso i quali si sarebbero consumate le plurime violazioni del codice etico addebitate allo stesso dott. Palamara (verbale audizione del dott. Palamara dinanzi al Collegio dei Probiviri in data 2.3.2020). È vero, allora era già stata acquisita da parte del Collegio dei Probiviri l’ordinanza cautelare emessa dalla sezione disciplinare del Csm ed era conosciuta la motivazione della sentenza della Corte di Cassazione con la quale era stato respinto il ricorso proposto dal dott. Palamara; ma di detti atti non vi era alcuna menzione nella suddetta contestazione elevata dal Collegio dei Probiviri al dott. Palamara. Evidenziavo, quindi, che solo attraverso le conclusioni del Collegio (atto a firma del presidente del Collegio del 2.3.2020 comunicato mio tramite al dott. Palamara solo in data 12.6.2020), quelle contestazioni, inizialmente del tutto generiche e tali da non consentire un’adeguata difesa, si erano poi materializzate nella descrizione dei comportamenti contestati; proprio in ciò, a mio avviso, poteva giustificarsi la richiesta avanzata dal dott. Palamara di rendere dichiarazioni dinanzi al Cdc, richiesta, peraltro, già preannunciata dinanzi al Collegio dei Probiviri. In sostanza, pare evidente che al dott. Palamara è stato negato il diritto di difendersi rispetto a comportamenti questa volta ben dettagliati e circostanziati per come descritti nelle conclusioni dei Probiviri al Cdc. Ed è stata negata anche al sottoscritto la possibilità di intervenire al Cdc per illustrare le ragioni sottese alla richiesta del dott. Palamara; ciò ha determinato la necessità dell’intervista, resa peraltro, nonostante la forte attenzione mediatica alla vicenda, esclusivamente ad un quotidiano particolarmente attento alle problematiche attinenti al funzionamento della Giustizia ed alle attività delle componenti delle associazioni di categoria coinvolte. Mi sembra ancora necessario precisare che il procedimento disciplinare a carico del dott. Palamara dinanzi al Csm non è stato affatto definito, essendosi esaurita solo la fase cautelare ed i rinvii della trattazione del procedimento dinanzi al Collegio dei Probiviri sono stati determinati, come può evincersi dai verbali del Collegio, solo da impedimenti dello scrivente o dello stesso dott. Palamara; solo in data 12.12.2019 era stato chiesto, tra l’altro, di attendere il deposito della sentenza della Corte di Cassazione sul ricorso proposto dal dott. Palamara, la cui trattazione era avvenuta all’udienza del 3.12.2019. Nulla posso dire sulla strategia difensiva del dott. Palamara nel procedimento che lo riguarda pendente dinanzi alla Procura di Perugia e su eventuali acquisizioni di atti da parte dell’Anm; viceversa, come a Voi certamente noto, al dott. Palamara, da quell’Autorità giudiziaria, è stata negata, allo stato, la possibilità di acquisire elementi probatori, a suo dire utili, per chiarire i fatti oggetto di contestazione da parte del Collegio dei Probiviri. Alla luce di quanto fin qui esposto e risultante dagli atti in Vostro possesso e dal testo chiarissimo della mia intervista al quotidiano Il Dubbio, Vi invito a rettificare il contenuto del Vostro comunicato in data 24.6.2020, sicuramente frutto di un fraintendimento delle mie dichiarazioni. La fuga degli avvocati: “Costretti a cambiare lavoro per sopravvivere” di Amedeo Junod Il Riformista, 28 giugno 2020 C’è chi è diventato amministratore di condominio e scrittore umoristico o chi ha aperto un’attività commerciale. C’è chi poi, purtroppo, ha oramai un’età in cui fatica a ricollocarsi nel mercato del lavoro, ed è costretto alla precarietà di lavori più modesti, ben lontani dai grandi fasti che alimentano solitamente le ambizioni di chi intraprende la carriera legale. Parliamo di avvocati, o meglio, di ex avvocati, professionisti che dopo anni di studio, lavoro e sacrifici hanno rinunciato al nobile sogno di difendere i diritti dei cittadini di fronte al muro insormontabile della crisi della professione. Oramai da molti anni il numero di iscritti all’Albo decresce vertiginosamente, per non parlare di chi sceglie di rinunciare all’iscrizione pur di non far fronte agli oneri contributivi e a tutte le spese connesse ad un mestiere prestigioso ma attraversato da una crisi dalle radici profonde. “Già a partire dal 2006 - ricorda Antonio Tafuri, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli - le cosiddette liberalizzazioni di Bersani avrebbero dovuto essere uno stimolo per la concorrenza e un aiuto per i giovani, ma in realtà si tradussero soltanto in un ulteriore restringimento della concorrenza”. C’è poi il problema dell’obbligo di iscrizione alla cassa forense, legato all’imposizione di minimi contributivi molto alti, che ha portato moltissimi giovani avvocati a rinunciare al loro sogno, soffocato da proibitivi oneri previdenziali. La saturazione del mercato, la concorrenza sleale al ribasso e un sistema giudiziario dai tempi talmudici e da una burocrazia soffocante e kafkiana, hanno fatto il resto, lasciando affogare i “pesci piccoli”, a vantaggio di pochi navigati studi legali. Con la crisi legata al Covid poi, dalla tragedia si è passati alla farsa: “non è un mistero che tutti i settori della società hanno riaperto tranne le scuole e le udienze in tribunale. E questo oggi è una cosa che se non fosse drammatica sarebbe da definire ridicola”, sottolinea Armando Grassitelli, che tra una pratica e l’altra della sua attività di amministratore di condominio ha trovato anche il tempo di passare dal linguaggio tecnico dei testi legali a quello artistico della letteratura, fino a vincere il prestigioso Premio “Massimo Troisi” con la raccolta di racconti “Una Famiglia con la Emme Maiuscola”. Collabora con una piccola attività commerciale di famiglia invece Paolo Mariani, nei cui occhi si legge il vivo rancore per una scelta di vita gravida di aspettative e di promesse, che si è poi tristemente rivelata insufficiente per “tirare avanti e crescere una famiglia, con le relative spese e le incombenze”. Per lui, come per Manuela Turchiarelli e Vincenzo Barbato, l’avvocatura, prima di essere una professione, costituiva un grande sogno, nutrito dall’ambizione e dall’intraprendenza che da ragazzi ha portato tutti loro a investire tempo e fatica in studi complessi e in una lunga e tortuosa formazione. Passione e sudore che non hanno retto, a lungo termine, di fronte alla cruda realtà dei fatti. Manuela e Vincenzo si amano, e un velo di nostalgia li avvolge mentre ci parlano di quando si sono conosciuti, proprio in concomitanza della prova d’abilitazione alla professione. Dopo anni di tentativi, sono stati costretti ad abbandonare il loro studio a conduzione familiare, per ritrovarsi indebitati e senza un posto stabile, né giovani né vecchi, a dover accettare di intraprendere professioni precarie e lontane dalle loro ambizioni di partenza. “La crisi e la fine della nostra carriera ci ha impedito di sposarci e di avere bambini”, racconta Manuela, con legittima rabbia e delusione. “Ma bisogna smettere di non parlare della crisi della professione solo per non intaccarne il prestigio nominale e nasconderne la progressiva proletarizzazione”. Vincenzo le sorride, la guarda, e le promette che quando sarà possibile la sposerà, “non appena le loro vite lavorative avranno raggiunto nuovamente una maggiore stabilità e sicurezza economica”. Dura lex. Da eroi a capri espiatori: ora i medici chiedono tutele penali di Giacomo Puletti Il Dubbio, 28 giugno 2020 I camici bianchi a congresso: “Non chiediamo uno scudo penale ma norme che evitino ai medici di diventare imputati”. Da combattenti in prima linea contro il virus a imputati in tribunale. Il timore degli oltre 400mila medici italiani è che l’emergenza sanitaria possa presto trasformarsi in emergenza giudiziaria, visti i casi di operatori sanitari colpiti da richieste di risarcimento danni da pazienti malati di Covid-19 e non. A porre l’attenzione sul tema è Cristiano Cupelli, docente di Diritto penale all’università di Tor Vergata, intervenuto a una conferenza su Zoom proposta dal gruppo di lavoro guidato da Stefano Margaritora, direttore della Uoc Chirurgia toracica del policlinico Gemelli. “Durante l’emergenza coronavirus molti medici si sono prestati a svolgere compiti impropri - spiega Cupelli, il cui intervento si è riferito allo “Stato dell’arte sulla situazione giuridica in tema di responsabilità medica” - abbiamo letto di oculisti impiegati in mansioni diverse dalle consuete, fino agli specializzandi e ai neo-leaureati inviati “in trincea” per combattere il virus nato nei mercati del pesce di Wuhan. L’attuale norma che consente al personale medico di non rispondere penalmente in caso di lesioni colpose non è adeguata”. Lo scopo dunque è quello di portare in superficie le controversie sulla responsabilità penale dei medici, ma guai a parlare di “scudo penale” per gli operatori sanitari. “La volontà non è quella di creare una norma che estingua automaticamente le colpe - sottolinea infatti Cupelli - ma creare un regolamento razionale che consenta, anche quando l’emergenza sarà finita, di non trasformare irragionevolmente i medici-eroi in capri espiatori”. A questo proposito, secondo il docente universitario sono tre i principi a cui dovrebbe adeguarsi la nuova norma: innanzitutto creare un collegamento funzionale e cronologico con il periodo emergenziale; in secondo luogo, limitare la responsabilità penale dei medici al solo dolo o colpa grave tramite indici legati alla situazione attuale; infine estendere la non responsabilità penale anche al reato di epidemia colposa, non presente nella norma in vigore. Una piccola rivoluzione insomma, che tuttavia i medici propongono da tempo e sulla quale negli ultimi mesi pongono l’accento con sempre maggiore insistenza. Gli operatori sanitari colpiti da Covid-19 rappresentano infatti il 10% dei malati e sono 150 i medici che hanno perso la vita nella lotta al virus. E l’hanno fatto, soprattutto nella primissima fase dell’emergenza, senza adeguate strumentazioni, con mancanza di protocolli e carenza di dispositivi di protezione. Per questo, in una fase di rallentamento dell’epidemia in Italia, chiedono un nuovo regolamento che non integri ma sostituisca quello esistente. “Il nostro Paese è uno dei pochi in un cui la responsabilità dei medici è giudicata penalmente - commenta Margaritora - ci troviamo di fronte a una situazione già nota, che durante l’epidemia si è ulteriormente aggravata”. Tanto da portare alla decisione di riunire operatori sanitari, avvocati e magistrati per fissare dei paletti oltre i quali non è possibile andare. “Si è creato un meccanismo pericoloso - continua il medico - che potrebbe indurre i medici a una medicina “difensiva”. Reputo poco giusto e poco generoso che un medico si trovi ad affrontare denunce di questa gravità dopo i grandi sacrifici fisici e morali affrontati durante l’emergenza”. Già la Legge Gelli, norma attualmente in vigore, mirava ad arginare il ricorso alla medicina difensiva, cioè la condotta del medico che evita di eseguire interventi ritenuti ad alto rischio per non incorrere in azioni negativi nei confronti del paziente imputabili direttamente al medico. Ma l’epidemia di coronavirus ha stravolto le pratiche nei corridoi ospedalieri, tanto che gli operatori sanitari si sono trovati a lavorare in condizioni difficilmente ascrivibili ai parametri della normativa vigente. Da qui l’idea del webinar, che ha coinvolto anche personalità di spicco come Rocco Blaiotta, già magistrato di Cassazione, e Nunzia d’Elia, procuratore aggiunto a Roma ed esperta in materia sanitaria. La presentazione dei penalisti del foro di Brescia ha permesso inoltre di offrire il punto di vista di chi ha vissuto l’emergenza nei territori più colpiti, e la multidisciplinarità dei presenti, seppur “virtuali”, ha avuto lo scopo di tratteggiare un quadro completo da presentare ai legislatori, creando un movimento di opinione referenziata e trasversale. Il dibattito è aperto. Una lezione può cambiare una vita ed anche un incontro può farlo di Salvatore Giangravè diregiovani.it, 28 giugno 2020 La Casa circondariale di Noto superando le innumerevoli difficoltà oltre ad aver attivato le lezioni online attraverso una piattaforma e permettendo alla scuola di continuare le lezioni con la didattica a distanza ed interagire così meglio con i propri studenti, ha portato avanti il progetto “Dentro e fuori due realtà che si incontrano”. Il progetto sopra indicato con gli studenti frequentanti il corso Ipsia della Casa di Reclusione di Noto, ha fornito un percorso formativo didattico continuativo ed articolato agli studenti del Liceo Scientifico di Canicattini Bagni, circa i temi: devianza, legalità, sistema punitivo e realtà detentive, la società, la norma e i sistemi totalitari, pregiudizio e stereotipo. La complessità dei contenuti è stata affrontata sotto diverse prospettive. L’attività ha previsto di realizzare un confronto diretto tra alunni e detenuti relativo ai contenuti trattati e la quotidianità del vissuto di reclusione. È stata un’ora densa di domande quella che ha caratterizzato l’incontro del 6 giugno online con alcuni alunni-detenuti della casa di reclusione di Noto, che oltre a dimostrarsi disponibili si sono mostrati anche sensibili alle domande che gli ho posto. Abbiamo iniziato trattando i rapporti con i familiari e gli affetti dei detenuti, che come loro stessi affermano sono stati molto ridotti rispetto al periodo precedente al lockdown. Proprio questo, come si è discusso nell’incontro, ha condotto alla solitudine ed al pensiero, vissuti diversamente da chi è all’interno di una casa di reclusione e da chi è all’esterno. Altro argomento di domande è stata la scuola, che oltre ad occupare la giornata degli alunni, ha tenuto impegnati i detenuti in varie attività. A prova di ciò vi è la partecipazione nell’incontro online delle due insegnanti Rita Palermo e Maria Mondo, che hanno aiutato il confronto e che si sono inserite nella discussione favorendone il dialogo. Viene trattato anche il tema della libertà, intesa come possibilità ad uscire e, nella situazione vissuta durante il lockdown, ad avere contatti o incontrarsi personalmente con altra gente. A discussione finita, posso affermare di aver visto quello che speravo di vedere: le persone che sono all’interno di queste case di reclusione appare sensibile e disponibile al contatto con altre persone. Non si può sicuramente definire ignorante, lo posso affermare in seguito al confronto che abbiamo avuto, l’istruzione diventa necessaria, riabilita e propone un cambiamento. Al contrario, sono rimasto colpito da una frase detta da uno di questi detenuti: “ci sono innocenti in carcere e delinquenti fuori”. Sono in parte d’accordo con ciò, la frase delinea pienamente la società di oggi ed è proprio per questo che definisco questa gente “onesta socialmente” perché ha capito cosa significa sbagliare e quanto sia difficile avere una seconda possibilità nella vita, si sono resi conto che c’è una possibilità di recupero basta essere un più fiduciosi nelle istituzioni. *Classe 4°, Liceo Scientifico Canicattini Bagni Firenze. Pentito suicida in cella, sì all’autopsia: accusò il presidente della provincia di Caserta di Marilù Musto Il Mattino, 28 giugno 2020 Era stato il grande accusatore dell’ex sindaco di Pignataro Maggiore, Giorgio Magliocca - ora anche presidente della Provincia di Caserta - arrestato l’11 marzo 2011 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del collaboratore di giustizia Giuseppe Pettrone detto Uccello del clan Ligato. Ieri, si è ucciso nel carcere fiorentino di Sollicciano. Sulle sue dichiarazione era stato costruito il capo di accusa nei confronti del sindaco Magliocca. Stroria passata, condita da sofferenza e presunte menzogne poi finite nel nulla. Magliocca è stato definitivamente prosciolto dalle accuse lanciate dal pentito e ha ricevuto anche un cospicuo risarcimento da parte dello Stato per aver scontato, ingiustamente, 4 mesi di arresti. Il pentito, invece, da qualche tempo era uscito dal programma di protezione. Personalità difficile, la sua. A quanto pare, già da qualche tempo, la sua salute psichica pare si fosse deteriorata e aveva compiuto, probabilmente, altri reati e questo aveva determinato la sua uscita dal programma. Così, durante la notte scorsa, il collaboratore di giustizia di 54 anni del clan Ligato si è tolto la vita nella sua cella impiccandosi con una maglia. Lo ha spiegato ieri mattina il sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, per voce del segretario generale Donato Capece. “L’ennesimo suicidio di una persona detenuta in carcere dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari - dichiara Capace - negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 21mila tentati suicidi ed impedito che quasi 170mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Purtroppo, a Sollicciano, il pur tempestivo intervento degli Agenti di servizio non ha potuto impedire il decesso dell’uomo”. Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 21mila tentati suicidi ed impedito che quasi 170mila atti di autolesionismo. Ora, il ministero libererà la salma Pettrone dopo un attento esame autoptico sul cadavere. Si esclude che il suicidio sia stato indotto: il pentito non divideva la cella con nessuno. Livorno. Chiuso il mattatoio a Gorgona: “Ora i detenuti sono più felici” Il Tirreno, 28 giugno 2020 “Chiudere il mattatoio è stata una decisione saggia, soprattutto per i detenuti. Già in passato, qui a Gorgona, avevamo sperimentato un progetto simile e io avevo realizzato alcune interviste alle persone recluse, alcune delle quali grazie alla bellissima esperienza nato dalla cura degli animali mi hanno detto che “Gorgona era stato il periodo più bello della loro vita”. Questa frase, pronunciata da uomini che sull’isola stanno scontando una pena, rappresenta qualcosa di eccezionale”. A parlare è Stefano Perinotto, docente dell’università Bicocca di Milano che segue il progetto “Salvati con nome” insieme all’amministrazione penitenziaria, al Comune di Livorno, al Parco nazionale dell’Arcipelago toscano e alla Lav, la Lega anti vivisezione. Anche lui, in occasione dell’avvio dello studio, è stato invitato sull’isola dalla Lav e dal direttore del carcere labronico, Carlo Mazzerbo. “Il progetto che abbiamo avviato - spiega - è volto a verificare il beneficio di un ambiente non violento per il detenuto, senza la macellazione degli animali. Al primo posto, per tutti, c’è il rispetto della vita. Ci sono pochi dati scientifici sull’argomento, ma quanto realizzato già in passato qui a Gorgona ci dice che la relazione sana con gli animali rappresenta un grande beneficio per la rieducazione di chi è recluso. Alcuni detenuti - conclude Perinotto - raccontami della macellazione dei maiali mi dicevano che non volevano assolutamente ucciderli, preferendo anzi che crescessero e poi morissero naturalmente”. Roma. La falegnameria dei migranti dove nascono i mobili etici di Paola D’Amico Corriere della Sera, 28 giugno 2020 Da tre anni grazie a un progetto dell’associazione K_Alma nell’ex mattatoio al quartiere Testaccio di Roma artigiani volontari insegnano il mestiere a giovani stranieri e a italiani disoccupati. Inoccupati, disoccupati, giovani e non più giovani, italiani e migranti. Sono i protagonisti del progetto lanciato a Roma dalla associazione K_Alma con la Falegnameria ed Officina Sociale che riparte dopo il lockdown. Il progetto è stato avviato nel 2017 all’interno dell’ex mattatoio nel quartiere di Testaccio a Roma. “Il periodo del Covid-19 è stato per noi, ma in particolare per i nostri utenti ed aspiranti falegnami migranti, davvero difficile. Stiamo cercando di superarlo insieme, ben consapevoli - spiega Gabriella Guido, ideatrice e coordinatrice del progetto - che spesso non basta fare rete, avere competenze e diritti, avere forza e pazienza. Serve saper resistere avendo un progetto per il futuro, e poter avere gli strumenti per farlo. Ora riapriamo, tra l’altro freschissimi di un trasloco in uno spazio più ampio (e davvero bello) proprio per poter riuscire ad avere più utenti e poter fare più attività”. In tre anni qui si sono formati un’ottantina di artigiani. “Qualcuno ora ci ha lasciato, perché ha ottenuto un contratto di lavoro regolare per esempio per la raccolta della frutta in Piemonte - conclude - ed è comprensibile. Per avere il rinnovo del permesso di soggiorno serve innanzi tutto un contratto di lavoro”. I falegnami stanno portando a termine i lavori rimasti in sospeso, da settembre riaprirà anche la scuola di formazione che può contare su quattro falegnami volontari, due dei quali ancora in attività. Quella della Falegnameria sociale K_Alma è una sfida “ma soprattutto una visione umana, sociale, politica”. Il motto scelto è una citazione del grande designer milanese Enzo Mari: “Tutti dovrebbero progettare per evitare di essere progettati”. Tutto ciò che nasce nei laboratori di K_Alma è fatto con legno certificato, “proveniente dalla filiera etica - aggiunge Guida, da anni impegnata come attivista dei diritti umani che ha deciso di realizzare un progetto molto concreto - e siamo in attesa della certificazione. Non abbiamo intenzione di fare concorrenza ai grandi mobilifici, ma non manca chi apprezza un tavolo fatto interamente a mano da veri artigiani”. L’obiettivo dell’associazione ora è anche “disseminare” analoghi progetti in tutta Italia. La Falegnameria Sociale K_Alma è dedicata alla formazione formale e informale dei richiedenti asilo ma anche a chiunque voglia partecipare attivamente a corsi e laboratori, o autoproduzione. L’ Associazione K_Alma è nata nel 2016 da un piccolo gruppo di persone di cittadinanza italiana straniera, “con l’intento di perseguire, in un’ottica convintamente multiculturale, la promozione delle libertà e la difesa della tutela della dignità umana, la cui affermazione è alla base stessa della vita e della evoluzione di uno Stato moderno” aggiunge Guida. K_Alma sostiene il diritto a una vita dignitosa e alla legalità, “promuove la difesa della persona contro ogni forma di violazione dei diritti fondamentali, abuso del corpo o assoggettamento della persona a costrizioni, limitazioni o privazioni illegittime”. “Crediamo fortemente nella promozione di un modello di società - aggiunge Guida - basato sulla pace, sul rispetto reciproco, sull’eguaglianza tra le persone, anche nell’accesso ai beni e ai servizi pubblici, sulla legalità, sul diritto allo studio, alla salute e al lavoro, il diritto a costruire relazioni positive e solidali tra uomini e donne, il diritto a rinnegare ogni forma di violenza e di autoritarismo, di discriminazione e di esclusione sociale. Qui si colloca il tema della mobilità umana e dei diritti umani di coloro che arrivano da altri Paesi, spesso in fuga da situazioni di violenza e di conflitto, dall’asilo alla protezione, dalla accoglienza alle politiche volte al riconoscimento e alla piena espressione dei loro diritti, per la costruzione di una società nuova e capace di accogliere le sfide della contemporaneità”. Tra i soci dell’associazione ci sono persone da sempre attive nel settore dell’immigrazione e dei diritti umani, nella comunicazione, nella sensibilizzazione, nella progettazione e sviluppo di progetti e programmi a livello nazionale ed internazionale con l’obiettivo di mettere a sistema la rete di relazioni e competenze con le quali da anni lavoriamo in maniera informale. Il progetto di formazione e di factory è aperto anche ad altri soggetti. Sono molti gli inoccupati o i disoccupati, giovani e non, che in Italia stanno cercando un’alternativa ai “classici” lavori, oppure che si stanno riconvertendo dopo un licenziamento, o la chiusura di un’attività. “Anche in quell’ottica di inclusività che cerchiamo di operare verso soggetti migranti che si insediamo in Italia, pensiamo che noi tutti siamo, ovviamente in maniera concettualmente diversa, “migranti” o “transitanti” da uno status all’altro, da una condizione all’altra… Ed è per questo - dicono i promotori - che riteniamo questo progetto “aperto” anche a chiunque ne fosse interessato, a prescindere dalla nazionalità, cercando quindi di dare un’opportunità di formazione, di occupazione e di inclusione concreta per tutti noi “migranti” di e su questa terra”. Svolta della Corte Costituzionale: “Terzo settore, ruolo primario” Corriere della Sera, 28 giugno 2020 Intervenendo su una legge della Regione Umbria, l’organo di garanzia costituzionale dà ragione alle tesi sostenute dal Forum. La portavoce Claudia Fiaschi: “Una svolta importantissima”. La Corte Costituzionale si pronuncia sull’inquadramento costituzionale di co-programmazione, co-progettazione e accreditamento. E il Terzo settore esulta. “La sentenza 131 - commenta la portavoce del Forum del Terzo settore Claudia Fiaschi - segna una importante svolta. Si riafferma il valore costituzionale del Terzo settore”. La sentenza è del 20 maggio scorso ma è stata pubblicata venerdì 26 giugno e riguarda una legge della Regione Umbria. Stabilisce in estrema sintesi che il rapporto che si instaura tra i soggetti pubblici e gli Ets è alternativo a quello del profitto e del mercato: la “co-programmazione”, la “co-progettazione” e il “partenariato” si configurano dunque come “fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico”. La Corte Costituzionale fornisce un importante approfondimento e chiarimento su una delle norme più innovative e qualificanti del Codice del Terzo settore, cioè l’articolo 55. “Con questa sentenza la Corte Costituzionale dà finalmente ragione alle tesi sostenute dal Forum e cioè che attraverso gli strumenti della co-programmazione e co-progettazione viene definita una prassi collaborativa tra istituzioni pubbliche ed enti di Terzo settore, nel riconoscimento di una comune finalità volta al perseguimento dell’interesse generale della comunità e in piena attuazione al principio costituzionale di sussidiarietà. La Corte non solo smonta la linea sostenuta, in alcuni casi, dalla giustizia amministrativa ma, attraverso una accurata disamina di tutta la normativa riguardante il Terzo settore e le precedenti sentenze della stessa Suprema Corte, ne consolida definitivamente il valore costituzionale. Si tratta di una svolta importantissima” precisa Claudia Fiaschi. Il caso riguardava una legge della Regione Umbria (L.R. 2/2019) che, nel riconoscere e disciplinare le cooperative di comunità, prevedeva che la Regione, “riconoscendo il rilevante valore sociale e la finalità pubblica della cooperazione in generale e delle cooperative di comunità in particolare” disciplinasse “le modalità di attuazione della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento previste dall’articolo 55. Il Governo però aveva impugnato la legge sostenendo che una siffatta formulazione non rispettasse il Codice del Terzo settore, nella parte in cui finiva per ammettere a co-programmazione, co-progettazione e accreditamento anche cooperative di comunità non in possesso della qualifica di ente del Terzo settore. La Corte ha risolto la questione e la “svolta” è nella motivazione dove si individua la legittimazione degli Enti del Terzo settore nell’ordinamento costituzionale e, quindi, l’esigenza di un “nuovo” diritto del Terzo settore che esige, sul piano dei rapporti con la pubblica amministrazione, nuovi istituti e nuove regole. La sentenza parte dalla constatazione che l’art. 55 del Codice del Terzo settore (Cts) costituisce una possibile applicazione del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale (art. 118). E spiega che gli Ets sono meritevoli di essere “coinvolti attivamente” in queste forme, perché sono identificati dal Cts come un insieme limitato di soggetti giuridici dotati di caratteri specifici, rivolti a “perseguire il bene comune”, a svolgere “attività di interesse generale”, senza perseguire finalità lucrative soggettive, sottoposti a un sistema pubblicistico di registrazione e a rigorosi controlli. In quanto rappresentativi della “società solidale”, spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di “mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della “società del bisogno”. L’inganno dei social, il dovere dell’onestà di Roberto Saviano L’Espresso, 28 giugno 2020 Ognuno di noi ha un pubblico on line. E spesso si è tentati di assecondarlo, come se fosse un corpo unico. Ma non è così che si eleva il dibattito pubblico. Mi interrogo spesso su cosa significhi avere una community, rivolgersi alla propria community, parlare alla propria community, affidarsi alla propria community. Me lo chiedo perché so benissimo che avere un pubblico di riferimento (una community, appunto), fedele e appassionato, è una cosa bellissima. Ma cosa accade quando si ha paura di scontentare la propria community, quando l’obiettivo non è più raccontare ciò che si pensa, ma ciò che la community vuole sentirsi dire? Ormai ragioniamo tutti, chi in maniera manifesta e consapevole, chi del tutto inconsapevolmente, tenendo come punto di riferimento ciò che accade sulle piattaforme social. Le interazioni virtuali sono diventate ancora più presenti nelle nostre vite da quando la socialità in carne e ossa è stata interrotta per la pandemia; da quel momento la comunità di riferimento è diventata quasi unicamente quella presente sui social. Quando scrivi un post, registri un video, fai una diretta è fondamentale capire a chi ti rivolgi, chi legge quello che scrivi, chi guarda e ascolta i video che fai, ma è ugualmente importante capire cosa si aspetta da te? Forse no. Forse immaginare cosa chi legge e ascolta le tue parole si aspetta da te può essere un’arma a doppio taglio, può essere un modo per seppellire un sogno che appartiene a molti - sicuramente appartiene a me - che è quello di provare a parlare a tutti. Non blandire, non rassicurare, ma raccontare. La mia aspirazione più grande, quando ho iniziato a scrivere, quando ho ricevuto i primi inviti in tv e le prime richieste di intervista, era provare a far ascoltare quello che avevo da dire anche a persone che la pensavano in maniera diversa da me. Desideravo e desidero raggiungere persone che hanno gusti letterari e musicali diversi dai miei; persone che votano diversamente da me, persone che hanno una visione del mondo diversa dalla mia. E questo non per “convertire”, per provare a far cambiare idea, ma perché mi ha sempre interessato creare questa osmosi tra mondi che in genere non si parlano e che, nei casi più estremi, tendono a disprezzarsi. Ho sempre voluto avvicinarmi alla verità dell’altro. Col passare del tempo, però, mi sono accorto che se hai come aspirazione quella di riuscire a parlare a tutti, diventi un problema per molti. Perché tendi a uscire dal seminato, perché dimostri che esiste qualcosa di diverso dallo scontro; quando dicono “Saviano si sottrae al contraddittorio” in realtà stanno dicendo “Saviano si sottrae allo scontro verbale”, il che è vero. Diventi un problema perché sfuggi alle categorizzazioni - “Saviano è di sinistra perché parla di immigrazione e di destra perché ha letto Pound ed Evola” - e se sfuggi alle categorizzazioni ti può capitare di disorientare anche la tua community che pare avere un potere enorme, quello di legittimarti o non legittimarti nel racconto. Il potere di decidere se puoi o non puoi affrontare quel determinato argomento in quel determinato modo. E allora cosa accade al lavoro di uno scrittore e di un giornalista quando i social invadono ogni cosa, quando superano i loro stessi confini, quando la community dei social apprezzando, commentando, criticando, stroncando, insultando finisce per avere il potere di far vacillare il tuo metodo? Accade questo: bisogna sgretolare la community, smettere di considerarla come una massa informe ma senziente e quindi capace di avere delle richieste specifiche, tornare a pensare agli individui che la compongono, immaginarne nomi e volti, storie e percorsi di vita e ritrovare il desiderio di parlare come se stessi parlando a ciascuno, singolarmente. Nelle ultime settimane ho sentito spesso prendere posizione su ciò che sta accadendo qui negli Usa dopo l’omicidio di George Floyd; ho sentito racconti interessanti introdotti da premesse come questa: “So che non posso provare quella rabbia, ma ugualmente mi accingo al racconto”. Ci ho riflettuto a lungo. Ma davvero si può raccontare solo ciò che si vive in prima persona? Davvero dobbiamo giustificarci per avere un’idea su ciò che accade e volerla esprimere? Di cosa abbiamo paura? Che la nostra community che generalmente ci sostiene possa cessare di farlo? Non lo so, quello che so però è che quando le persone a cui parlo smetto di considerarle come un corpo unico, ho la sensazione di poter parlare di ogni cosa e tutto diventa la base per un dibattito che porterà a scoperte preziose. “Il 5 luglio scendiamo in piazza per gli Stati Popolari. Insieme contro i virus della politica” di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 28 giugno 2020 L’individualismo sfrenato, la debolezza del pensiero, la disarticolazione sociale, la gestione egoistica del potere: sono questi i mali che adesso dobbiamo affrontare. E serve mobilitarsi ora per combatterli. Per potersi proiettare nel futuro è necessario disporre di un minimo di sicurezza nel presente. Quindi trattare senza ingenuità e come un individuo una persona in difficoltà significa mettere a sua disposizione quei supporti che gli mancano per essere un individuo a pieno titolo e che garantiscano le condizioni della sua indipendenza”, scrisse Robert Castel parlando di disuguaglianza e insicurezza sociale. Una delle azioni prioritarie che dovremo collettivamente implementare, in questa fase di ricostruzione del post confinamento, è la ricostituzione delle difese immunitarie della nostra comunità umana. A questo riguardo, dovremo avere l’audacia di ideare nuove forme di solidarietà per combattere le crescenti disuguaglianze. Per fare ciò, occorrerà innanzitutto debellare alcuni virus nocivi che indeboliscono il nostro sistema sociale, come ad esempio: la burocrazia politica della gestione del potere, la disarticolazione sociale, la debolezza di pensiero, la labilità di convinzione e gli individualismi. Relativamente agli individualismi, la nostra odierna società sembra essere formata da una convivenza parallela degli “io” spesso incapaci di entrare in empatia con gli altri. In questa nuova fase di ricostruzione, occorrerà probabilmente creare una nuova cultura collettivistica in cui l’attenzione è rivolta alla comunità e alla convergenza degli “io” verso una prospettiva di una felicità collettiva. In questo spirito, l’io dovrà essere generosamente messo al servizio del bene comune. Circa la debolezza di pensiero e la labilità di convinzione, occorre sottolineare che l’avvento dei social media ha caricato gli “io” di un’ulteriore fragilità, ovvero li ha esposti a una continua necessità di consenso, di approvazione e di ammirazione misurabile istantaneamente attraverso lo strumento dei “like”. Purtroppo, la soddisfazione di questa necessità passa attraverso l’indefinitezza, la malleabilità e la plasmabilità del credo. A questo riguardo, la debolezza di pensiero e la labilità di convinzione diventano alleati importanti per intercettare i desiderata e il sentire comune. In questa nuova fase di ricostruzione, occorrerà molto probabilmente avere l’audacia di seguire tenacemente ideali alti per il bene di tutti invece di inseguire disordinatamente l’effimero consenso dell’io. Riguardo alla disarticolazione sociale, occorre rammentare che negli ultimi anni i piromani della politica hanno basato il loro consenso elettorale sulla contrapposizione sociale e sull’esaltazione di una parte della popolazione rispetto agli altri. La politica del “prima gli italiani” è sicuramente l’emblema di questo smembramento sociale. L’unica alternativa credibile a questa politica incendiaria è quella di sfuggire alla tentazione della contrapposizione, di creare coesione sociale attorno ai bisogni comuni e di unire le diverse forme di invisibilità in una lotta unitaria. Per questo, la sfida di questa nuova fase di ricostruzione è quella di assemblare ciò che è stato smembrato, di articolare ciò che è stato disarticolato e di unire ciò che è stato disunito. Per ciò che riguarda la burocrazia politica della gestione del potere, bisogna ricordare che la distanza fisica ed emotiva tra il palazzo e la piazza, tra la politica e il popolo è aumentata. La politica, sempre più svincolata dalla realtà ed asserragliata nel palazzo, ha perso la capacità di ascoltare con empatia umana immedesimandosi nei dolori, nelle sofferenze, nelle disperazioni, nelle aspirazioni, nelle speranze, nei desideri e nei sogni della massa popolare. In questa fase di ricostruzione, la politica dovrà avere l’audacia di ritornare nella realtà del popolo e di rendere il palazzo permeabile alle richieste delle persone per la tenuta della nostra democrazia e dell’intero edificio politico-sociale. A questo riguardo, la politica non perda l’occasione di ascoltare la voce inascoltata delle tante donne e dei tanti uomini (con diverse forme di invisibilità ed esclusi dagli Stati Generali) che si susseguiranno sul palco degli Stati Popolari che si terranno dalle ore 14 in Piazza San Giovanni, a Roma, il 5 luglio 2020. In questo appuntamento, i lavoratori della terra, i rider, i lavoratori manuali e cognitivi, i lavoratori della cultura e dell’informazione, i titolari di partita Iva, i pensionati, i disoccupati, i senza casa, gli studenti, i lavoratori della scuola e dell’università, i ricercatori, le nuove generazioni, i movimenti per la tutela e la salvaguardia dell’ambiente, i movimenti antirazzista ed anti-sessista, il movimento Lgbt e tante altre realtà diverse si uniranno per la prima volta, facendo convergere le loro lotte, al fine di portare un reale cambiamento e di trasformare i propri sogni in realtà. La politica non perda questa inedita opportunità per sintonizzarsi con il paese reale perché se vogliamo lottare contro le disuguaglianze e l’insicurezza, non bastano solo le risorse materiali, peraltro fondamentali, ma è altrettanto necessario la dimensione immateriale che consiste nella condivisione delle sofferenze e dei desideri. Bisognerà ripartire dalla lotta “alla disuguaglianza e all’insicurezza sociale” proprio come sosteneva Robert Castel. Migranti. Sei morti e 93 persone tra cui un neonato riportate nell’inferno libico di Alessandro Puglia vita.it, 28 giugno 2020 A confermare la notizia Safa Msehli, portavoce dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni. L’allerta del gommone a rischio di capovolgersi a largo della Libia era stata data sin da ieri da Alarm Phone e Mediterranea. L’attore Alessandro Gassmann su Twitter: “Un bambino nasce durante un naufragio, verrà portato nelle carceri Libiche. Buona notte”. Sei morti e 93 persone riportate nell’inferno delle carceri libiche, tra cui il neonato nato a bordo del gommone mentre rischiava di capovolgersi. È il tragico bilancio di un soccorso mancato, quello che sin da ieri mattina Alarm Phone e Mediterranea avevano segnalato invitando con forza tutte le nazioni europee a collaborare, segnalando la presenza di navi militari in zona, tra queste la fregata della Marina Militare Bergamini. La notizia è stata confermata da Safa Msehli, portavoce dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni: “Sono le persone che l’Italia e l’Europa hanno scelto di non salvare ieri”. Migranti. I nostri disumani segreti di stato sui respingimenti collettivi in Libia di Sarita Fratini Il Manifesto, 28 giugno 2020 Centinaia di migranti restituiti agli abusi dei campi di detenzione libici dopo l’intervento di navi private italiane nel 2018. Il ruolo e i silenzi dell’Italia. Quanto ha interessato l’Italia il respingimento in Libia di 101 persone operato il 30 luglio 2018 dalla nave italiana Asso Ventotto, uno dei cargo che lavora per la piattaforma della Mellitah Oil & Gas (società partecipata al 50% da Eni)? Circa 48 ore, il tempo di qualche articolo di giornale e di un esposto alla Procura di Napoli (sede della compagnia armatrice della nave). Poi più nulla. A me, invece, interessava la sorte delle vittime: dove fossero, chi fossero. Così, un anno fa, ho deciso di cercarle all’interno dei lager libici. Non le ho trovate, ma ho rintracciato altre persone, tante, che raccontavano di essere state respinte in Libia da una nave Asso. Ciò sarebbe avvenuto un mese prima del caso noto, precisamente la notte tra 1 e 2 luglio 2018. Un respingimento collettivo gigantesco (si parla di 276 persone) mai dichiarato dal governo italiano o dall’armatore Augusta Offshore, eppure presente in uno dei report in arabo che la Marina libica in quel periodo postava puntualmente online: “È stato inviato il rimorchiatore Asso per supportare la pattuglia e fornire assistenza”. Il giovane Ato Solomon (i nomi usati sono tutti di fantasia) racconta che a bordo della Asso erano diverse centinaia, in maggioranza eritrei e sudanesi. Moltissimi, lui compreso, i minorenni. Tante anche le donne, alcune incinte o con bambini piccoli. Chiesero subito protezione e il capitano li rassicurò: “Vi porteremo in Italia. Adesso dormite”. La mattina dopo furono sbarcati al porto di Tripoli alla presenza di Iom e rinchiusi in diversi lager. Non è stato facile ritrovarli tutti. Nel lager di Zintan, stremati dalla fame e dalle malattie, c’erano i minorenni. Bert racconta che le guardie portavano cibo solo ogni cinque giorni. Molti morivano sul pavimento brulicante di vermi. A Triq al Sikka c’erano parecchie donne. Kissa aveva vent’anni e sosteneva che le guardie depennassero apposta il suo nome dalle liste di evacuazione di Unhcr, che lo facevano anche con altre, soprattutto con una minorenne somala, chiusa nella cella femminile da due anni, incinta da cinque mesi. Nell’hangar maschile si stava ancora peggio: una cella completamente buia era usata per le torture. Nel lager di Sabaa, Eden e Jim, marito e moglie, separati da un muro, non si vedevano da un anno. Poi c’era Dahia, che aveva partorito il piccolo Loni un mese dopo il respingimento, il bimbo stava miracolosamente bene. Josi, invece, non c’era: era morto, sul pavimento di Zintan, il suo corpo finito chissà dove. Tante persone, tante storie. Oggi c’è un intero collettivo di attivisti ad occuparsi del caso (chi scrive ne fa parte): il Josi & Loni Project. Il gruppo raccoglie testimonianze e diffonde appelli per l’evacuazione delle tante vittime che, a distanza di due anni, sono ancora in Libia. Segue anche i pochi che sono riusciti ad arrivare in Europa, da soli o con corridoi umanitari. Queste persone, a cui nel 2018 è stato negato il diritto a chiedere asilo in Italia, ora hanno ottenuto lo status di rifugiato e nominato degli avvocati. La tragica storia dell’ingiustizia subita è diventata, finalmente, un caso legale. In questo fermento ci sono dei grandi assenti: le istituzioni. Unhcr ha finora ignorato una richiesta di informazioni presentata dai legati dei rifugiati. Il primo governo Conte non ha risposto all’interrogazione parlamentare, presentata alla Camera nel luglio 2019, che chiedeva ragguagli sui due respingimenti operati dalle navi Asso e il ministero dei Trasporti di Toninelli (M5S) ha rifiutato l’accesso civico alle richieste di soccorso ricevute e alle conseguenti azioni del Centro nazionale di coordinamento del soccorso in mare. Non è andata meglio con il secondo governo Conte: il ministero retto da De Micheli (Pd) ha reiterato il rifiuto all’accesso civico. La motivazione, da un governo all’altro, non cambia: devono essere esclusi dagli accessi civici sia le “attività operative-esercitazioni Nato e nazionali”, tra le quali rientrano anche le attività Sar, sia ciò che concerne la Difesa, sia tutto ciò che può ledere le relazioni internazionali con altri Stati (“in particolare con il Governo libico”, scrivono). Riassumendo: lo Stato da una parte invoca il segreto di stato per mantenere riservato un respingimento segreto effettuato da un privato, dall’altra fa rientrare tutte le attività Sar all’interno della materia militare. Il dubbio rimane: è stata davvero un’iniziativa autonoma delle navi private Asso o si tenta di nascondere un’altra regia? La Augusta Offshore, che abbiamo contattato, non ha voluto chiarire la catena di responsabilità o rilasciare dichiarazioni. Lucia Gennari, avvocato Asgi, ci conferma che il ministero dei Trasporti ormai rifiuta ogni accesso civico su casi riguardanti le attività Sar nel tratto di mare tra l’Italia e la Libia. Altro grande ostacolo, ci spiega, è la difficoltà a rappresentare le vittime che si trovano in Libia. Prendere la procura legale di un rifugiato chiuso a Trik al Sikka, a Zintan o in altri campi, è praticamente impossibile. Ci sono casi, come quello del respingimento collettivo illegale compiuto nel 2009 dalla nave Orione, arrivati in tribunale soltanto perché le vittime erano in Europa e in Israele. La sentenza, seconda pietra miliare dopo il caso Hirsi, a ottobre 2019 ha condannato il governo italiano a risarcire e riammettere in Italia i rifugiati deportati in Libia dalla nave militare Orione. Il fatto che le Asso siano navi private, complica qualcosa? No, spiega ancora Lucia Gennari, anche il privato è vincolato dall’obbligo di soccorso in mare, dall’obbligo di sbarcare naufraghi in un luogo sicuro e dal divieto di compiere respingimenti collettivi. Qui, poi, si tratta di trasportare persone in luoghi in cui la violazione dei diritti umani è così grave, così nota. Dopo il negato accesso del Governo alle informazioni, anche gli attivisti si sono rivolti a un privato, un sito di monitoraggio navi. In cambio di pochi euro, hanno ricevuto il tracciato di rotta delle navi Asso che tra l’1 e il 2 luglio 2018 effettuarono cambi di destinazioni dichiarate, virate e lunghe soste in mezzo al mare. Movimenti che coincidono con i racconti delle vittime. Tra l’ostracismo del governo italiano, l’indifferenza delle organizzazioni internazionali, il no-comment della Augusta Offshore, questa causa si farà e trascorreremo i prossimi anni a dissertare di diritti umani. Nel frattempo gli umani sono ancora in Libia. Anche Jan, dopo Josi, è morto, di stenti, sul pavimento di un lager. A Triq al Sikka, Kissa ha organizzato una protesta assieme ad altre donne, chiedevano a Unhcr di essere evacuate, ma non è andata bene. Il 15enne Cris guarda il mare tutti i giorni e aspetta di salire su un gommone che non sia troppo sgonfio. Il 16enne Sid si è ammalato gravemente e i 15enni Bert e Jack lo hanno assistito come un figlio, donandogli il poco cibo che avevano e restando notte e giorno al suo capezzale. Il ragazzo ha provato a uccidersi perché si sentiva un peso, ma gli amici lo hanno fermato. Non hanno diritti, ma sono umani. Stati Uniti. Dai giudici doppio schiaffo per Trump su migranti e muro di Marina Catucci Il Manifesto, 28 giugno 2020 Scarcerazione per i bambini “irregolari” e stop alle risorse per la barriera con il Messico. Un giudice federale ha ordinato il rilascio dei bambini migranti detenuti con i genitori nelle carceri Usa per l’immigrazione, e ha denunciato la detenzione prolungata delle famiglie durante la pandemia di coronavirus da parte dell’amministrazione Trump. L’ordine di liberare i bambini entro il 17 luglio è arrivato dopo la presentazione di un caso riguardante una lunga detenzione e dopo che alcuni migranti sono risultati positivi al test per il coronavirus; si applica ai minori che sono detenuti da più di 20 giorni in tre centri di prima accoglienza gestiti dall’Immigration and Customs Enforcement (Ice) due in Texas e uno in Pennsylvania. In queste strutture, secondo la sentenza, vivevano 128 bambini. Nel suo ordine, il giudice Dolly Gee della Corte distrettuale degli Stati Uniti per il distretto centrale della California, ha apertamente criticato l’amministrazione Trump per la sua scarsa osservanza delle raccomandazioni dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie per evitare che il virus si diffonda nelle strutture di detenzione dei migranti. L’agenzia aveva raccomandato di osservare le misure di distanziamento sociale, l’uso di mascherine e un intervento medico tempestivo per i soggetti che presentano sintomi virali. “I centri di accoglienza per le famiglie sono in fiamme e non c’è più tempo per le mezze misure”, si legge nella sentenza di Gee. Data la pandemia, ha scritto il giudice, l’Ice, deve lavorare per liberare i bambini insieme ai loro genitori o ai tutori che hanno il consenso dei genitori, e dovrà farlo con “la massima velocità ed entro il termine stabilito”. È la prima volta che un tribunale fissa una data precisa per liberare i bambini migranti, fino ad ora la scadenza era un generico “il prima possibile”. I giudici della nona Corte d’appello della California hanno deliberato anche un’altra brutta notizia per Trump, stabilendo che la Casa Bianca non poteva, come ha invece fatto, deviare i fondi della difesa per assegnarli alla costruzione del muro con il Messico, in quanto una mossa di questo tipo la può compiere solo il Congresso. Si tratta di 2,5 miliardi di dollari che Trump ha dirottato dal bilancio della difesa e dell’esercito verso quella che è l’opera simbolo della sua campagna elettorale del 2016, aggirando il Congresso che, secondo la Costituzione, ha il potere esclusivo riguardo l’utilizzo delle risorse destinate e poi sottratte ad altri obiettivi. “Il ramo esecutivo - ha scritto il giudice Sidney Thomas - mancava dell’autorità costituzionale indipendente per autorizzare il trasferimento di fondi”. Il procuratore generale della California Xavier Becerra, che aveva intentato la causa per fermare la costruzione del muro, ha elogiato la sentenza della corte del suo Stato. “I cittadini - ha dichiarato Becerra in una nota - meritano di sapere che i loro soldi vanno dove intendeva il Congresso, a beneficio loro e delle loro comunità. Applaudiamo il tribunale per aver preso provvedimenti, per aver fermato immediatamente l’utilizzo illegale di denaro da parte di Trump”. Egitto. Al-Sisi svuota le carceri, si spera per Zaki di Gianluca Rotondi Corriere di Bologna, 28 giugno 2020 L’Egitto libererà 530 detenuti, il rettore Ubertini: “Mettiamo fine a questa vicenda”. La speranza di riabbracciare Patrick Zaki, lo studente dell’Ateneo in carcere da quasi cinque mesi al Cairo, passa attraverso l’annuncio del presidente al-Sisi di voler liberare 530 detenuti per il rischio Covid. Il rettore Ubertini ha lanciato un appello a governo italiano e comunità accademica internazionale affinché facciano pressione sull’Egitto per includere anche Zaki tra i detenuti graziati. All’iniziativa si è associato anche il sindaco Merola. Sindaco e rettore provano ad aprire una breccia nel muro eretto dalle autorità del Cairo sulle sorti di Patrick Zaki, lo studente 28enne dell’Alma Mater inghiottito ormai da oltre quattro mesi in un carcere egiziano con accuse fumose e usate strumentalmente per punire il suo impegno sul terreno dei diritti civili. Il grimaldello, individuato in primis da Amnesty Italia, sta nell’annuncio del presidente egiziano al-Sisi di voler concedere la grazia a 530 detenuti del suo paese per tamponare l’emergenza coronavirus. Patrick, è il ragionamento e insieme l’esortazione di Ubertini e Merola, potrebbe rientrare tra i beneficiari, tanto più che soffre di asma ed è a rischio in caso di contagio. Una strada non semplice da percorrere che richiede un fronte di pressione adeguato. Per questo Merola e Ubertini hanno inviato una lettera all’ambasciatore italiano al Cairo. “Faccio appello al governo italiano, alla Commissione europea, alle numerosissime istituzioni che hanno aderito alla nostra mozione e a tutte le università del mondo che come noi hanno sottoscritto i principi della Magna Charta, affinché si uniscano all’Alma Mater e facciano sentire la propria voce - esorta il rettore -. È l’occasione per mettere fine a questa assurda vicenda e poter restituire Patrick alla sua vita e ai suoi studi”. Un appello fatto proprio anche dal portavoce nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, e dalla senatrice M5S Michela Montevecchi. Finora il governo, già alle prese con i silenzi e le omissioni degli egiziani sull’assassinio di Giulio Regeni, il ricercatore sequestrato, torturato e ucciso dai servizi di sicurezza di al-Sisi, non ha ottenuto nulla e anzi ha attirato su di sé polemiche e accuse per la decisione di vendere agli egiziani due fregate militari. Zaki, iscritto a un master sui diritti civili a Bologna, è detenuto dal 7 febbraio subito dopo l’arrivo al Cairo per una breve vacanza. Interrogato e torturato, è stato arrestato con le accuse di “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”. Un’enormità legata, come detto, solo al suo impegno in difesa dei diritti umani e ad alcuni post in materia diffusi su Facebook. Udienza dopo udienza, la sua carcerazione è stata prorogata di quindici giorni in quindici giorni, per poi finire in un limbo dopo l’emergenza Covid e la chiusura dei tribunali. Per chiedere la sua liberazione c’è stata una partecipata mobilitazione partita da Bologna, anch’essa interrotta bruscamente dall’emergenza sanitaria. Ora l’Ateneo prova a far sentire forte la pressione sull’Egitto, nella speranza di poter ottenere il rilascio dello studente egiziano ormai adottato da Bologna che vuole concedergli la cittadinanza onoraria. “Spero di poterlo riabbracciare presto qui a Bologna”, conclude Ubertini.