Il Garante: “Si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 giugno 2020 La Relazione annuale al Parlamento che si è svolta ieri all’Università Roma Tre. Mauro Palma ha sottolineato come l’esercizio di giustizia non può prescindere dall’offrire a ogni autore di reato una “prospettiva di speranza verso cui orientare il proprio sguardo”. Il rischio di un ritorno graduale al sovraffollamento, la tendenza a psichiatrizzare ogni difficoltà che si manifesta all’interno del carcere, ritmo frequente di suicidi e non è mancata nemmeno una stilettata all’amministrazione penitenziaria precedente quando quest’ultima parlava di “sovraffollamento virtuale”. Questo e altro ancora ha relazionato il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma durante la presentazione della relazione annuale al Parlamento tenutasi ieri mattina all’Università Roma Tre Il Garante parte dalla considerazione che il Covid-19 non ha risparmiato nessuno e ha avuto ricadute anche nelle situazioni di sofferenza preesistenti. “L’emergenza determinata dal contagio da Covid-19 ha mutato la nostra percezione della difficoltà e del dolore, così come la capacità di analizzare i luoghi dove il dolore già prima di tale emergenza si coagulava perché intrinseco alla privazione della libertà, qualunque ne possa essere la causa che l’ha determinata”, ha sottolineato il Garante. Il Covid-19 come la palla d’acciaio in “prova d’orchestra” - Per comprendere il momento attuale, Palma è ricorso a un’immagine, quasi una metafora. Ha evocato il film Prova d’orchestra di Federico Fellini. L’immagine è nella parte finale, quando improvvisamente irrompe nella piuttosto tumultuosa orchestra una enorme palla d’acciaio che sfonda le pareti. “Un evento imprevisto - ha spiegato Palma - che disaggrega del tutto il dinamismo, già alquanto confusionario, che caratterizzava il “prima”. Allo sconcerto e all’irrazionalità dell’evento segue un “dopo” che non è il semplice tornare a suonare tra le rovine come se nulla sia accaduto, perché anche le relazioni tra orchestrali e con il direttore sono sostanzialmente mutate”. Ma - ha proseguito il Garante - “gli esiti possono essere diversi: se da un lato si riprende a suonare, si ritrova un’armonia ricompositiva, dall’altro il direttore ormai parla con linguaggio rigido - nel film enfaticamente parla in un tedesco gutturale - indicativo di un ordine in cui le soggettività non hanno più espressione”. Cosa sta a significare questa metafora? Palma ha spiegato che anche a noi, attualmente, si pone il problema del come riprendere a suonare, certamente in modo diverso da prima: se rimanere vittime dello sgomento, oppure trovare una nuova forma armonica diversa dalla precedente che non si esponga all’irruzione di una nuova sfera d’acciaio; o se, malauguratamente affidarci a una connessione tra suonatori che semplicemente esegua ordini e non sia più artefice della propria musica. “Credo - ha osservato Palma - che la nuova forma di armonia possibile sia l’obiettivo del nostro “dopo”. L’universo carcerario non può essere parametrato al 41bis - Vale la pena riportare un altro passaggio fondamentale del Garante. È quello relativo alla connessione tra la garanzia di sicurezza e la finalità costituzionale della pena. “Il principio ordinamentale dell’esecuzione penale - ha spiegato Palma - si fonda sulla differenziazione di percorsi e di interventi mirati e non sull’aggravamento di condizioni di vita all’interno del carcere”. Il Garante ha sottolineato che “il contenuto della pena detentiva è la privazione della libertà e si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti”. L’altra osservazione di Mauro Palma è stata quando ha posto l’accento sul rischio di riassumere tutta la complessità detentiva in uno specifico sottoinsieme di assoluta minoranza, rappresentato dall’area della cosiddetta “Alta sicurezza” e del 41bis, e così “finire col dosare su di esso le scelte relative alla quotidianità detentiva di tutti”. La relazione annuale, di ben 408 pagine, dell’autorità del Garante è composta sostanzialmente da quattro sezioni. La prima riguarda i temi principali che hanno coinvolto negli ultimi mesi il mandato istituzionale dell’autorità. Quindi vale la pena soffermarsi. C’è la questione dell’ostatività all’accesso ai benefici e alle misure alternative, al centro di due giudizi, della Corte di Strasburgo e della Corte Costituzionale italiana, che, seppur con accenti diversi, parlavano la stessa “lingua”. Il Garante nazionale, nella relazione nota che, anche alla luce di queste decisioni, l’esercizio di giustizia non può prescindere dall’offrire a ogni autore di reato una “prospettiva di speranza verso cui orientare il proprio sguardo: diretto al futuro e non voltato al passato”. Si affronta la questione dei cosiddetti Decreti sicurezza (2018 e 2019), le cui modifiche sono al centro dell’attuale dibattito politico. Il Garante nazionale aveva evidenziato fin da subito l’incompatibilità del testo adottato per quanto riguarda il caso di navi impegnate in attività di ricerca e soccorso in mare, con gli obblighi internazionali cui l’Italia è vincolata. A questo proposito, il Garante nota che “senza un passo indietro del Legislatore e un ripensamento globale delle politiche di gestione delle frontiere, il Mediterraneo rischia tuttora di rimanere teatro di violazioni”, ribadendo fra l’altro “l’inconciliabile contrapposizione logica tra la previsione di un’area di ricerca e soccorso di competenza libica e l’impossibilità di ritenere la Libia un place of safety, cosa di cui nessuno può dubitare”. Un grosso capitolo della relazione è sull’emergenza sanitaria da Covid-19, che ha comportato, attraverso provvedimenti legislativi, significative limitazioni alle libertà fondamentali dei cittadini e in alcuni casi, persino situazioni di privazione de facto della libertà personale. È stato il caso delle Residenze sanitarie per anziani, sulle quali l’Istituto superiore di sanità, ha condotto una ricerca alla quale ha collaborato anche il Garante nazionale, ricerca che ha contribuito a fare luce sulla “gravità delle conseguenze della diffusione del virus in queste strutture”. Sul tema più complesso dei riflessi dell’emergenza sul rischio di pandemia in carcere, il Garante giudica la risposta governativa come “un primo passo importante, soprattutto da punto di vista culturale, nella direzione dell’obiettivo di ridurre quella densità di popolazione detenuta negli Istituti che, nell’occasione dell’emergenza sanitaria, dava con evidenza il segno della sua insostenibilità. Un primo passo, quindi, cui avrebbero dovuto seguirne altri più incisivi anche al fine di affrontare una criticità sistemica che richiede un ripensamento complessivo sull’esecuzione delle pene e sulla unicità della pena carceraria come sistema di risposta alla commissione del reato”. Le misure del lockdown hanno generato angoscia - La relazione affronta anche il caso delle proteste e i disordini in carcere che hanno segnato i tempi recenti, con gravissime conseguenze: 14 detenuti morti. Evento tragico che è stato rapidamente archiviato, quasi come “effetto collaterale” delle rivolte. Il Garante nazionale, come in casi simili, si è presentato come persona offesa nei procedimenti relativi all’accertamento delle cause dei decessi, nominando anche un proprio difensore e un proprio consulente medico legale. A monte delle proteste c’è stata - si legge nella relazione - anche “una comunicazione sbagliata, tendente a presentare le misure che necessariamente si stavano per adottare come totalmente preclusive di ogni possibilità di contatto con l’esterno e di proseguimento di percorsi avviati: non solo, comprensibilmente, niente colloqui con persone care cui peraltro era impedito il muoversi nel territorio, ma anche niente più semilibertà o permessi o attività che vedesse il supporto di figure esterne”. A questo punto vale la pena di ritornare nuovamente alle parole di Mauro Palma. Durante la presentazione ha fatto riferimento all’ansia che tutto ciò ha generato alle persone private della libertà, anziani delle Rsa compresi. Una doppia ansia che ha determinato l’angoscia, “che è ben diversa dalla paura perché non individua l’oggetto del proprio sentimento e, quindi, non può neppure esorcizzarlo. Può determinare l’abbandonarsi”. Il Garante dei detenuti al governo: “Cambiare subito i decreti sicurezza” di Liana Milella La Repubblica, 27 giugno 2020 L’intervista a Mauro Palma. “Stop alle detenzioni inumane nei centri di accoglienza”. Una trattativa tra rivolte e scarcerazioni? “Non ci sono evidenze”. “Cambiare subito i decreti sicurezza”. “Stop alle detenzioni inumane nei centri di accoglienza”. “Riportare il carcere nel solco della Costituzione”. Ma anche “non vedo evidenze su una trattativa tra lo Stato e la mafia per ottenere le scarcerazioni”. E ancora: “Non leggo le rivolte come organizzate anticipatamente dalle mafie”. Questo, e molto altro, nell’intervista a Repubblica di Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, che oggi presenterà la sua relazione alle Camere. Il carcere, 60.769 detenuti al 31 dicembre 2019, 53.527 al 25 giugno 2020. Lei ha inviato questi dati a Mattarella, ne spiegherà il significato oggi in Parlamento davanti alla presidente della Consulta Cartabia che si è spesa per un “carcere dei diritti”. Cosa significano queste due cifre? “Semplicemente che non c’è bisogno di provvedimenti eccezionali per ridurre il numero dei detenuti. Con un tempestivo e adeguato ricorso agli strumenti che l’ordinamento già prevede si può trasformare il carcere portando fuori e risolvendo fuori da quelle mura le difficoltà e la conflittualità. Basti pensare che ancora oggi abbiamo in cella 867 persone condannate a meno di un anno e 2.274 con una pena tra uno e due anni. Evidentemente questi sono casi che l’istituzione “carcere” non può risolvere. Per la semplice ragione, tra l’altro, che qualsiasi programma di recupero richiede almeno sei mesi. Queste vite invece entrano ed escono dal carcere. Sono solo persone senza strumenti per difendersi”. Lei sta proponendo di tenerli fuori? “Nella società che sta fuori bisogna trovare strumenti di controllo e di sostegno senza far ricadere sul carcere problemi che il carcere stesso non può risolvere. Anche economicamente, un investimento esterno alla lunga sarebbe meno dispendioso di una ripetitività di detenzioni”. Ma il calo di circa 7mila detenuti in sei mesi come si è prodotto e cosa vuol dire? “Tre fattori sono stati determinanti. Il primo, e più importante, è stata l’accelerazione di provvedimenti dei magistrati di sorveglianza che sulla spinta del rischio epidemico hanno fatto un grande lavoro di esame di tutte le situazioni meno rilevanti. Il secondo fattore è stato il minor numero di ingressi in carcere, sia per il calo dei reati durante il lockdown, sia per essere tornati alla custodia cautelare in carcere come misura estrema. Il terzo fattore è la norma del 17 marzo, contenuta nel decreto Cura Italia, che ha previsto una più rapida possibilità di accesso alla detenzione domiciliare. Va detto comunque che gli effetti di questa norma eccezionale sono stati ben minori degli altri due. A conferma che un buon uso dell’ordinarietà è sempre meglio dell’eccezionalità”. Lei scrive però che stanno di nuovo aumentando i nuovi ingressi in carcere, a maggio 117 in media al giorno a fronte di 86 scarcerazioni, più di 150 persone negli ultimi 15 giorni. Significa che il carcere sta tornando sovraffollato? “Non siamo ancora a questo, anche se i posti disponibili oggi sono intorno ai 47mila. Ma se malauguratamente dovessimo aver bisogno di spazi per isolare persone, avremmo necessità di un carcere molto meno “denso”. Per questo i numeri dovrebbero ancora calare riservando la pena in cella solo quando è davvero necessaria e utile”. “Si va in carcere perché puniti, non per essere puniti”. Che significa questa frase contenuta nella sua relazione che Repubblica ha letto in anticipo? “Vuol dire che la pena è la privazione della libertà, ma non c’è alcun bisogno di ulteriori aggravamenti, mentre servono percorsi diversificati. Il trattamento di un detenuto comune è naturalmente diverso da quello di un condannato per fatti di grande criminalità. Ma ciò non vuol dire che il secondo debba avere meno diritti e maggiori aggravamenti. Il secondo semmai richiede maggiore osservazione e rigore nell’interruzione dei rapporti con le reti criminali. Non si capisce perché debba richiedere meno ore d’aria”. Sta dicendo che il 41bis e l’Alta sicurezza sono trattamenti ingiusti? “Assolutamente non lo sto dicendo. Dico invece che vanno prese tutte le misure rigorose per interrompere le connessioni criminali. Ma la finalità costituzionale della pena resta anche per loro perché la Costituzione non fa distinzione”. La nostra Carta vale anche per chi ha fatto le stragi e ha ucciso uomini come Falcone e Borsellino? Io non credo. “Non sono d’accordo con lei. La Carta vale per tutti. Ma spetta a noi saper tradurre i suoi principi in un sistema sicuro, rigoroso, ma che non la tradisca”. I primi sei mesi del 2020 sono stati squassati dalla pandemia da Covid che lei paragona alla sfera d’acciaio che nel film di Fellini “Prova d’orchestra” irrompe in scena. Ma il coronavirus ha prodotto, nel mondo delle prigioni, le rivolte, su cui si affastellano molte ipotesi. Qual è la sua? “Le prime rivolte sono nate anche da un grande errore comunicativo che ha fatto percepire il decreto che stava per essere approvato come una norma che avrebbe chiuso tutto. Questo, a chi vive in una realtà già chiusa, ha provocato una duplice ansia. Non a caso Modena, il carcere centro della rivolta, ha visto i primi casi accertati di Covid. Che poi, nelle stesse rivolte si possa insinuare via via la criminalità organizzata non è da escludere e l’autorità giudiziaria lo accerterà. Ma non leggo le rivolte come organizzate anticipatamente dalle mafie”. In un’audizione di fronte alla commissione parlamentare Antimafia Nino Di Matteo lascia intendere che un’ipotetica trattativa tra i mafiosi e lo Stato è realisticamente possibile. Ne ha viste delle tracce concrete? “Assolutamente no. E anzi chiederei in generale a chi prospetta determinate tesi di sostenerle con elementi di evidenza”. Sta dicendo che servono delle prove? E quali potrebbero essere? “Per avanzare un’ipotesi così importante si devono avere dei dati di fatto per dimostrare la connessione, altrimenti s’ingenera nell’opinione pubblica un’idea di onnipotenza della criminalità che ha effetti negativi sul sentirsi attori e difensori della propria democrazia”. Le scarcerazioni - quasi 500 di cui 220 di mafiosi di alto e medio livello - sono documentate. Lei come le valuta? “Non c’è stata alcuna scarcerazione, ma arresti domiciliari o detenzioni domiciliari. Sempre provvedimenti decisi dall’autorità giudiziaria. In più della metà dei casi sono stati i giudici di merito a decidere per persone ancora sotto processo. Quindi tanti giudici e tante indipendenti valutazioni. Per meno di metà dei casi è stata la magistratura di sorveglianza che da sempre è chiamata anche a rivedere periodicamente queste decisioni. Ci potranno essere state delle valutazioni assunte sull’onda del rischio di contagio da Covid, ma certamente la magistratura era in grado di rivederle anche senza i decreti che impongono un ritmo di revisione. È giusto rivederli comunque se la motivazione del contagio viene meno”. L’ormai famosa circolare del 21 marzo. Secondo lei è la causa delle scarcerazioni? Era il frutto di una trattativa? “Che possa essere stata il frutto di una trattativa lo escludo, o comunque non ho avuto in mano alcun elemento in questa direzione. Mi pare evidente che si trattasse soltanto di un’indicazione di fattori di possibile rischio. Non escludo neppure che nell’ansia del periodo possa essere stata letta come una sorta di indicazione ai giudici. Ma è chiaro che poi gli stessi giudici hanno deciso in modo autonomo”. L’ex capo del Dap Francesco Basentini era un direttore modesto, un direttore incapace, un direttore che consapevolmente ha ceduto alle pressioni di una trattativa? “Non mi associo ai cori di chi, quando una persona decade da un suo ruolo, smette di parlarne bene e individua in lui tutti i difetti. Questo non significa che fossi d’accordo con tutte le sue scelte”. Cosa ha criticato? “La sua non vicinanza con il personale, anche in momenti di difficoltà. L’errore di non essere andato subito nei luoghi delle rivolte, neppure a Modena dove pure erano morte più di dieci persone. Il non aver costruito una fisionomia unitaria e coesa del Dipartimento”. Secondo lei un capomafia detenuto al 41bis come Pasquale Zagaria può essere messo ai domiciliari? Ne ha diritto chi ha commesso reati gravissimi? “Se lo richiede la situazione sanitaria e se non ci sono altre soluzioni che riescano a garantire la salute in piena sicurezza, la risposta è sì. Nel caso specifico altre soluzioni potevano essere trovate. Già tre anni fa avevo segnalato al Dipartimento che non c’era una struttura sanitaria di piena sicurezza in Sardegna nel caso si fosse ammalato uno dei tanti detenuti al 41bis che pure si trovano in quella regione”. Scorrendo la relazione colpisce il suo soffermarsi sul reato di tortura e sul primo bilancio che cerca di trarne... “La relazione cade nella giornata internazionale contro la tortura. Contestare anche questo reato può essere utile all’indagine per l’assoluta trasparenza, a volte per ridimensionare alcuni casi, ma soprattutto per la complessiva dignità dei corpi di polizia che non hanno assolutamente bisogno di essere tutelati da un alone di non trasparenza. L’Italia è stata condannata a Strasburgo per il G8 di Genova del 2001 e per un caso penitenziario di Asti proprio perché pur avendo appurato che la tortura c’era stata, però mancava il reato”. Migranti e decreti sicurezza. Quei decreti sono ancora lì, proprio nella versione di Salvini. La maggioranza rossogialla non ce la fa a cambiarli. Lei parla di un “Mediterraneo teatro di violazioni”. Cosa chiede al governo? “Innanzitutto di modificare subito i decreti, a partire dalle stesse osservazioni che aveva fatto il presidente Mattarella quando furono convertiti in legge. Se una nave non può più salvare vite umane perché corre il rischio di sanzioni esemplari, è innegabile che ci sia una responsabilità dell’Italia rispetto ai morti”. Quando lei cita i dati sui migranti - 6.172 persone nei centri, solo 2.992 rimpatriate, mentre per 1.775 la privazione della libertà non è confermata - sta dicendo che i centri sono prigioni non autorizzate? “Chiudere vite umane in attesa di un rimpatrio del tutto ipotetico e che poi non avviene, è un atto illegittimo non solo secondo me, ma secondo la stessa direttiva europea sui rimpatri. La situazione è migliorata rispetto a prima, ma la percentuale di chi è stato di fatto detenuto nei centri, peraltro in condizione spesso peggio del carcere, è ancora troppo alta”. Palma: Decreto carcere? Figlio della gazzarra in TV di Angela Stella Il Riformista, 27 giugno 2020 “Da cose strillate in qualche trasmissione si è arrivati a provvedimenti frettolosi. La penalità non può essere la risposta al sentimento popolare”. Abbiamo intervistato Mauro Palma, Presidente del Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà, a margine della presentazione della Relazione al Parlamento 2020. Dottor Palma uno dei punti evidenziati nella relazione è il concetto di “speranza”… Quando tempo fa è uscito il libro “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale”, di cui ho curato la prefazione, ho notato che la Cedu utilizzava l’espressione “diritto alla speranza” a differenza delle nostre sentenze nazionali. Con soddisfazione in una recente sentenza della Cassazione ho trovato ribadito questo concetto: l’uomo non coincide con la fotografia del reato commesso, altrimenti la finalità costituzionale della pena che deve tendere alla rieducazione sociale del condannato verrebbe meno. Mi collego a ciò che ha aggiunto dopo: “Si va in carcere perché puniti e non per essere puniti”…. Il contenuto della pena è privare della libertà: non si può creare uno spazio per dare al detenuto ulteriori afflizioni. Io, che pure difendo tutte le forme che evitano le connessioni con le organizzazioni criminali - penso al 41bis - credo che tutto ciò che è afflizione aggiuntiva non abbia alcuna legittimità. A tal proposito mi riallaccio alle recenti polemiche sul regime di Alta sicurezza: per Gratteri ad esempio le celle aperte dell’alta sicurezza sono state all’origine delle rivolte… Tutto ciò che collega meccanismi di apertura con rivolte o con aggressioni è un modo mistificatorio di presentare la realtà. Le regole penitenziarie europee adottate dai Governi chiariscono che una persona, qualunque sia il regime di detenzione, deve stare almeno 8 ore fuori dalla cella. Grave errore fanno quegli istituti in cui stare fuori dalla cella equivale a ciondolare nei corridoi. Il messaggio non deve essere “rinchiudeteli” ma “impegnatevi a proporre attività culturali e lavorative”. Voglio specificare un aspetto. Prego… Questo continuare a parlare sempre e soltanto dell’Alta sicurezza e del 41bis, cioè di meno di 10.000 persone, rischia gravemente di modulare tutto il carcere intorno a quelle modalità di reclusione. Forse sarebbe accaduto con Nino Di Matteo a capo del Dap, visto che riteneva di meritare quel posto per la sua lotta contro la mafia… Non si hanno mai ruoli-contro, quando si è giudice o si esercita un potere amministrativo delle pene. Non si può essere una persona-contro ma una persona-per: per la legalità, la sicurezza, la costituzionalità, i diritti delle persone che ha in carico. Non conosco nessun programma di Di Matteo che sia andato al di là degli slogan televisivi e quindi che posso giudicare. È troppo facile riassumere tutto in una boutade televisiva. Tornando al tema della speranza, essa viene a mancare se il numero degli ergastolani ostativi è di 1.258… L’ostatività è un termine che non mi piace affatto perché uccide la speranza. Bisogna in qualche modo, come ha fatto la Corte Costituzionale in una recente sentenza - e spero che prosegua su questa linea - abolire quella connessione tra rimozione dell’ostatività e funzione di collaborazione attiva all’inchiesta. Sono stati 13 i detenuti morti durante le rivolte. Lei ha parlato di “evento tragico che è stato rapidamente archiviato, quasi come effetto collaterale delle rivolte”…. Nel nostro Paese non si avevano così tanti morti da decenni per le rivolte. Il nodo della discussione si è concentrato su di esse e su chi le abbia organizzate ma non sul fatto che 13 vite si sono consumate. Ho nominato un perito legale: non ho motivi per supporre che la causa di morte sia dissimile dall’abuso di farmaci. Ma non è un evento normale l’assalto ai farmaci, non si può archiviare. Mi ha colpito quando ha posto l’accento sul dover “far evolvere quella che viene definita frettolosamente “pubblica opinione” e che rappresenta spesso la motivazione per un agire politico che non si pone il problema della crescita culturale e civile, ma solo quello dell’adesione preventiva al presunto consenso”. La sua è anche una critica ai decreti “emergenziali” presi dal Governo dopo diverse “scarcerazioni”? In tema di penalità sono contrario a tutti i decreti emergenziali, soprattutto se di aggravamento. La penalità non può essere la risposta al sentimento popolare. Occorre avere nervi saldi. Rispetto ai decreti per bloccare le “scarcerazioni” se andiamo a ricostruire l’iter mi sembra che ci troviamo dinanzi al classico esempio in cui si è partiti da cose strillate, questioni di opinione pubblica che in qualche trasmissione televisiva debordavano fino ad arrivare a dei provvedimenti frettolosi. Queste situazioni non sono state collocate all’interno di quel momento che era di grande sviluppo del contagio, per cui era giusto che si pensasse che le persone che potevano essere a rischio dovessero essere considerate con una particolare attenzione. A prendere le decisioni è stata la magistratura o vogliamo pensare che si sono messe d’accordo tutte le corti in una specie di disegno di trattativa? Siamo alla fantapolitica! È chiaro che i magistrati hanno preso delle decisioni anche sulla spinta della diffusione del virus. Passata l’emergenza quelle decisioni potevano essere riviste ma non c’era bisogno che qualcuno con un decreto imponesse loro di rivederle. Avrebbero fatto da soli. Ha toccato anche il tema dei decreti sicurezza: “Il Mediterraneo rischia tuttora di rimanere teatro di violazioni” ha detto… Quando ad una nave che ha salvato delle persone viene negata la possibilità di entrare nei confini, altrimenti ci sono sanzioni altissime, non si distingue tra questa e una nave commerciale; se si considera il salvataggio di una ong come una azione di una realtà non inoffensiva si disincentiva la possibilità di salvataggio in mare. E così si ha una responsabilità sul maggior numero di morti. I numeri 2019 mostrano la discrasia tra quante persone sono state ristrette nei Cpr e quante effettivamente rimpatriate…. La Direttiva europea per i rimpatri dice che una persona che deve essere forzatamente rimpatriata può essere privata della libertà. Però aggiunge che se non c’è previsione del rimpatrio quella privazione della libertà non ha più un elemento legittimante. Allora per quel 51% di persone non rimpatriate come giustifichiamo la privazione della libertà? Durante l’emergenza Covid non c’erano voli disponibili: qual era il senso della privazione della libertà finalizzata al rimpatrio se il rimpatrio non sarebbe potuto avvenire? Una pena nel rispetto della dignità di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 27 giugno 2020 La Relazione di Mauro Palma nell’anno dell’orgia securitaria salviniana con il decreto-sicurezza-bis, la criminalizzazione delle Ong, il sovraffollamento, fino alla pandemia. Una boccata d’ossigeno in un ambiente denso di nubi, alcune potenzialmente tossiche. La Relazione annuale del Garante nazionale delle persone private della libertà è stata presentata simbolicamente in un’aula dell’Università Roma Tre. Una scelta, quella dell’università, per evocare quanto la questione delle garanzie, delle libertà, della tortura, della vita quotidiana nei luoghi di detenzione sia anche una questione culturale. Solo un sapere profondo e critico ha la forza di spingere verso trasformazioni sociali e mutamenti di pratiche, altrimenti lesive dei diritti fondamentali. Un anno complicato è stato quello che Mauro Palma ha dovuto riassumere. È successo un po’ di tutto: l’orgia securitaria salviniana con il decreto-sicurezza-bis, la criminalizzazione delle organizzazioni non governative, le prime inchieste per tortura in giro per le Corti italiane, il sovraffollamento carcerario crescente, l’epidemia e i provvedimenti necessari di deflazione al fine di evitare tragedie e contagi di massa, la concessione di più telefonate e video-chiamate ai detenuti, le morti a Modena e Rieti dopo le proteste, la campagna mediatica nel nome di una presunta anti-mafia contro talune scarcerazioni della magistratura di sorveglianza, i nuovi numeri in crescita della popolazione detenuta. Mauro Palma ha costruito un mosaico complesso, i cui tasselli sono piccole fotografie tenute insieme da un’idea di fondo, che è quella espressa inequivocabilmente all’articolo 27 della nostra Costituzione: la pena non può consistere (mai) in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere (sempre) alla rieducazione del condannato. Se ne facciano una ragione tutti coloro che amano vivere fuori dal confine dei valori e dei principi costituzionali. Anche se Liana Milella, autorevole giornalista di Repubblica, nell’intervistare Mauro Palma afferma che la nostra Costituzione non dovrebbe valere per i mafiosi che hanno ucciso Falcone e Borsellino. La sua è un’anomala, nonché illegittima interpretazione di norme scritte con il sangue e il dolore di chi aveva vissuto l’esperienza tragica del carcere fascista, condita da abusi, violenze e torture. Sarebbe importante se gli stessi magistrati impegnati nella lotta alle mafie, così come ha fatto Mauro Palma nella risposta alla giornalista, ribadiscano che l’articolo 27 della Costituzione vale per tutti e che a nessuno può essere tolta la dignità umana. C’è una parola su cui Mauro Palma si è soffermato nella sua Relazione: anonimia. Il detenuto è spesso reso anonimo, ridotto a numero. L’affollamento carcerario lo rende a volta indistinguibile: nomi e volti sono ignoti agli stessi operatori penitenziari che, sempre in difetto di organico, devono confrontarsi con una gran quantità di persone. In questo modo non sarà per loro possibile intercettare la disperazione di chi sta in carcere. I suicidi nelle prigioni sono in molti casi esito di una profonda disperazione individuale, che però le istituzioni non intercettano. Il detenuto suicida resta dunque un numero, uno dei ventitré che si è tolto la vita nel 2020. Così come anonimi sono i tredici detenuti morti lo scorso marzo e anonimi sono tutti quei migranti, lasciati affogare o torturare fuori dai nostri intoccabili confini. E, infine, anonimi restano tutti quei direttori, educatori, poliziotti che ogni giorno si dedicano al rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Ammutoliti e resi anonimi anche da chi si erge a loro rappresentante sui luoghi di lavoro. Vi sono sindacati autonomi che al posto di lottare per una pena costituzionale nonché per una trasformazione moderna e gratificante del lavoro del poliziotto, chiedono l’abrogazione del reato di tortura o della legge istitutiva del Garante. Noi, invece, siamo felici di avere avuto nel lontano 1998 (il primo disegno di legge aveva quale firma di apertura quella di Ersilia Salvato) quell’intuizione che ha portato oggi a disporre di un meccanismo nazionale di prevenzione della tortura, così autorevolmente presieduto. Carceri militarizzate, torna la minaccia di Maria Brucale Il Riformista, 27 giugno 2020 Dopo circa 26 anni di attesa, è stato finalmente pubblicato il bando di concorso per dirigenti penitenziari. 45 posti ma solo 38 sono disponibili a chiunque possegga i requisiti. Gli altri sono riservati a “dipendenti dell’amministrazione inquadrati nella III area funzionale del ruolo comparto funzioni centrali ovvero nei ruoli direttivi del corpo di Polizia penitenziaria con almeno tre anni di servizio”. Torna così il progetto mai sopito di militarizzare le carceri ponendo a capo degli istituti di pena non più civili bensì commissari di polizia penitenziaria. Un controllo interno che non sfugge alle ansie di meccanismi corporativi. Già nel 2016 il Dott. Gratteri, allora al vertice della Commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità istituita presso Palazzo Chigi, aveva inserito la militarizzazione delle carceri nel suo corposo progetto di riforma. Pochi mesi fa, il tentativo di destituire il primato gerarchico del direttore era stato messo in atto nello schema di decreto legislativo “Correttivi del riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle forze di polizia e delle forze armate”, fortunatamente non andato a buon fine. Oggi la minaccia torna nel bando di concorso: il 15% dei nuovi dirigenti delle nostre prigioni indosserà una divisa. Eppure le regole penitenziarie europee (raccomandazione dell’U gennaio 2006 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa) recitano: “Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”. Prevedono che gli istituti siano gestiti in un contesto in cui sia prioritario l’obbligo di trattare tutti i detenuti con umanità e di rispettare la dignità che è propria di ogni essere umano; che il personale penitenziario sia formato e orientato ad un ruolo non solo di vigilanza ma anche e soprattutto di verifica che il carcere serva alla restituzione dell’individuo in società; che sia la direzione dell’istituto a indicare le linee guida per assicurarsi che la reclusione miri a tale scopo; che ogni istituto abbia un direttore qualificato per il suo ruolo con riguardo alle sue qualità personali e alle sue competenze amministrative, alla sua formazione e alla sua esperienza professionale; un direttore che sia incaricato a tempo pieno e dedichi tutto il suo tempo ai propri compiti istituzionali. Richiedono, inoltre, che le autorità penitenziarie assicurino che ogni istituto sia costantemente sotto la completa responsabilità del direttore, del vice direttore o di un funzionario incaricato. Il direttore deve essere un tutore esterno e terzo, vestire panni civili e porsi come garante della sicurezza e del rispetto di tutte le regole che proiettano la pena alla sua funzione costituzionale. E ciò nel rispetto di un concetto di sicurezza che mira alla protezione della società attraverso la riabilitazione della persona detenuta e il buon esito del reinserimento sociale. Va quindi respinto con forza il nuovo tentativo di militarizzare gli istituti penitenziari. Basti, per comprendere appieno, evocare le norme dell’ordinamento penitenziario in materia di impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione: “Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti o degli internati, deve immediatamente riferirne al direttore dell’istituto”. E poi: “Gli agenti in servizio nell’interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore”. Un direttore in divisa impone, anche nell’immaginario collettivo, la visione di un carcere sempre più chiuso e separato dalla comunità, un non luogo protetto da confini di filo spinato dove la punizione soppianta la Costituzione. “Io resto in cella”, fra prevenzione e afflizione di Grazia Zuffa fuoriluogo.it, 27 giugno 2020 Io resto in cella è cosa ben diversa da io resto a casa. Per i detenuti/e il distanziamento sociale evoca il carcere come pura afflizione, senza alcuna valenza risocializzante. La salute è un diritto fondamentale dell’individuo e insieme “interesse della collettività”, come sancisce l’art. 32 della Costituzione. In quanto diritto fondamentale, lo è per tutti e tutte, liberi e reclusi. Perciò, quando la salute, individuale e collettiva, è minacciata in maniera gravissima - come è stato ed è per il coronavirus - ci si aspetta che le politiche pubbliche siano all’altezza di tale principio. In ogni modo, su questo vanno giudicate. Di più: la serietà del pericolo “mette alla prova” - se così si può dire- il rispetto del principio di parità nella tutela della salute. Sappiamo che il diritto dei reclusi è costantemente minacciato: da un lato entra in contraddizione con la condizione stessa di privazione della libertà (e di totale dipendenza dall’istituzione), che di per sé mette a rischio la salute psichica, prima ancora che fisica; dall’altro, è compresso dalle esigenze di sicurezza, sospinte di questi tempi dal vento di pulsioni sociali afflittive, a sostegno implicito (ma spesso anche esplicito) di quei “trattamenti contrari al senso di umanità” che la Costituzione esclude. In breve: la tutela della salute dei detenuti è fonte di permanente conflitto e la vicenda coronavirus lo ha riconfermato. Questa premessa di principio è indispensabile per leggere correttamente il dibattito che si è sviluppato intorno alle misure di protezione dall’epidemia in carcere. E per comprendere appieno la direzione: ci si è spinti oltre lo storico conflitto “salute versus sicurezza”, lo stesso diritto alla tutela della salute è stato travolto da una ben determinata concezione retributiva della pena. Preliminarmente, propongo di ragionare sullo specifico con uno sguardo alle misure generali di contrasto destinate all’insieme della popolazione. In tal modo, possiamo meglio notare affinità fra detenuti e altri soggetti definibili come “svantaggiati”. La misura eccezionale di lockdown, ad esempio, poco ha tenuto conto delle diseguaglianze fra cittadini. Il “restare a casa” è un’imposizione più pesante per chi vive in spazi ristretti, o magari proprio una casa non ce l’ha; per chi si è ritrovato tagliato fuori dai suoi cari per le nuove “frontiere” regionali, o chi magari, senza un lavoro regolare, è rimasto senza mezzi di sussistenza da un giorno all’altro. L’affermazione “siamo tutti sulla stessa barca” dice solo una parte della verità. Se il rischio epidemico mette in luce l’interdipendenza fra uomo e ambiente e fra esseri umani, le possibilità di salvarsi dipendono molto dal tipo di imbarcazione con cui affrontiamo la tempesta. Non c’era bisogno dell’America con i contagi e i morti concentrati nei quartieri poveri degli afro-americani, per ricordarci che la salute dipende anche da fattori socioeconomici e culturali. E non c’era bisogno delle tante vittime nelle residenze per anziani (non solo in Italia, purtroppo) per ricordarci della particolare responsabilità delle istituzioni nei confronti di chi non è in grado di provvedere da sé alla propria tutela; oppure, di chi ne è impedito (come i detenuti e le detenute). Così, mentre l’accento del discorso pubblico era (ed è) focalizzato sull’appello alla responsabilità individuale nell’assumere comportamenti corretti e nell’obbedire ai molteplici divieti (secondo il motto “la salute è nelle nostre mani”), sul terreno della responsabilità sociale sono emerse le falle maggiori. Né ci sono segni di ripensamento. Per gli anziani, a parte le inchieste della magistratura, è assente una seria riflessione, a livello politico, sulle ordinarie distorsioni dell’assistenza nelle case di riposo, che la minaccia epidemica straordinaria ha messo drammaticamente in evidenza. Se davvero ci fosse la volontà (e la capacità) di ridisegnare le politiche sociosanitarie, il tema della (non) istituzionalizzazione degli anziani dovrebbe essere all’ordine del giorno nel dibattito pubblico. Un ragionamento simile vale per le persone in carcere: fin dall’inizio non si è tenuto conto del significato che poteva assumere agli occhi di chi è in prigionia l’interruzione dei colloqui coi familiari, dei rapporti col volontariato, delle attività ricreative, educative, culturali. Per dirla in breve: “io resto in cella” è cosa ben diversa da “io resto a casa”. Il lockdown è stato per i più uno spiacevole intermezzo di costrizione personale, alleviato dalla prospettiva temporale breve (e, almeno per me, appesantito dalla stucchevole e falsa retorica del “siamo distanti ma vicini”); per i detenuti e le detenute, è facile ricollegare il cosiddetto “distanziamento sociale” a una precisa idea e pratica della pena: il carcere come pura afflizione, spogliato di qualsivoglia valenza educativa e risocializzante; senza più diritti, a cominciare dalla elementare possibilità di mantenere i contatti coi propri cari; senza cioè l’essenziale per dare ai reclusi una speranza di futuro. Da qui le proteste, la repressione, i tredici detenuti morti. Sui quali è sceso quasi subito un (irresponsabile) silenzio, puntando il dito sulle responsabilità delle vittime (saccheggiatrici di farmaci psicotropi - si dice), per meglio distogliere lo sguardo dalle responsabilità di chi le custodiva. In nome della responsabilità sociale, dobbiamo continuare a nominare quei morti uno per uno, chiedendo verità e giustizia. Al momento in cui scriviamo, non si può dire che la minaccia coronavirus sia sotto controllo. C’è stato uno sforzo per ridurre di diverse migliaia i detenuti, alleggerendo il sovraffollamento (i detenuti erano scesi a circa 50.000 agli inizi di giugno), tuttavia non si è raggiunta la capienza regolamentare. In altre parole, il carcere attuale non è ancora in grado di assicurare una vita accettabile in condizioni ordinarie; tanto meno nelle condizioni straordinarie della pandemia. Bisognerebbe scendere almeno di altre 3000/5000 unità, per ottenere standard ragionevoli di sicurezza sanitaria: assicurando il distanziamento fisico fra i detenuti nelle attività quotidiane, soprattutto garantendo l’isolamento dei positivi. Rimane anche il problema della tempestività dei test per i i sintomatici, essenziale per garantire le cure adeguate. Né possiamo dimenticarci che tale gestione dell’emergenza coronavirus ha contribuito a diminuire le opportunità per le donne: si segnala ad esempio che in alcune carceri è stato revocato il lavoro esterno alle sole detenute, per problemi di isolamento dal contagio. Ancora una volta gli scarsi numeri della detenzione femminile si sono tradotti in svantaggio, invece che vantaggio. Veniamo alla narrazione pubblica dell’emergenza coronavirus in carcere. Si è detto e scritto che i contagiati in carcere sono “pochi”. Ci si è perfino avventurati in (macabri) paragoni fra i contagi “limitati” nelle carceri e la strage nelle Residenze Assistite per anziani (sottinteso: “per i detenuti si fa perfino troppo”). C’è perfino chi si è buttato a calcolare le percentuali di contagio e di mortalità, che sarebbero inferiori in carcere rispetto al territorio. Una triste contabilità, utile a sostenere che “il carcere è un luogo sicuro”, e che “i detenuti stanno meglio dentro che fuori”. Non è difficile rovesciare la funebre logica dall’ottica dei diritti: anche una sola vita persa - quando la si sarebbe potuta salvare- testimonia la violazione di un diritto. Dietro le “scarcerazioni facili”, la negazione dei diritti Proprio qui sta il punto. Nella polemica sui cosiddetti “boss scarcerati” (basata peraltro su dati falsi, come ormai noto) proprio la salute come diritto è stata messa in discussione, alla radice. Non si è respinta la detenzione in luoghi altri dal carcere (casa, ospedale, residenze sanitarie) per il (supposto) maggior di pericolo di eventuali evasioni; quanto perché - si sostiene- solo il carcere assicura il “giusto” tasso di afflizione, a “giusto” risarcimento morale della società e delle vittime. Il carcere diventa un imperativo “morale”, nella logica assoluta che caratterizza tutti gli imperativi a valenza morale-simbolica. In questa luce, non c’è spazio per l’idea stessa dei diritti del detenuto (perfino di quello basilare alla salute). Nello specchio deformante della giustizia come pura retribuzione, i diritti assumono l’immagine di indebito condono per i reati commessi. La costruzione mediatica dell’emergenza coronavirus (assecondata dalla gran parte della politica) segue questa linea. Le alternative al carcere per prevenire il contagio sono assimilate alle “scarcerazioni facili”. Si utilizzano i casi di reati particolarmente odiosi (vedi il giovane truffatore e assassino della sua insegnante) per presentare il passaggio alla detenzione domiciliare come un rilascio in libertà, chiamando a testimoni i parenti delle vittime che “reclamano giustizia”. Nel mucchio del biasimo sociale, vanno a finire anche le persone (i famosi boss) finite in ospedale in gravissime condizioni di salute, senza che il Covid-19 c’entri per niente. Più in generale, è proprio la salute a non entrarci per niente. E infatti si intervistano le vittime per dire che “non possono tollerare di incontrare per strada i loro carnefici”. Il carcere dopo Cristo, scriveva Alessandro Margara: intendendo dopo Cristo giustiziato in croce. Ovviamente, il discorso sui “boss” facilita l’espulsione della salute dalla narrazione pubblica. Ma è chiaro che il carcere come imperativo “morale” travolge i diritti di tutti, anche dei “poveracci”. Peraltro, proprio lì si vuole arrivare. Per questo, non mi convince la logica difensiva di chi ricorda che i trasferimenti fuori dal carcere hanno interessato solo in minima parte, se non per nulla, i boss. Anche se è vero, ed è importante ristabilire la verità. Ma bisogna aggiungere che anche i colpevoli dei reati più gravi hanno diritto a essere protetti dal virus. Senza se e senza ma. In nome del carcere dopo Cristo, per chi crede: intendendo Cristo nato e risorto. In nome di una società umana e civile, per tutti e per tutte. Quel giorno a Modena morì lo Stato di Francesca Spasiano Il Dubbio, 27 giugno 2020 Era una domenica di marzo. L’Italia si avviava verso il lockdown. Nel carcere Sant’Anna scoppiò una rivolta: nove detenuti persero la vita. Visitare il carcere di Modena significa misurarsi con le macerie di un sistema andato in pezzi. Centro dell’ondata di rivolte che hanno attraversato il Paese lo scorso marzo, per la casa circondariale Sant’Anna il bilancio è drammatico: nove morti senza ancora una risposta. Chi ricorda quel giorno, l’otto marzo a Modena, ha ancora in mente il rumore delle sirene spiegate e una colonna di fumo nero che si addensa in cielo: la voce dei detenuti squarcia il silenzio di una domenica pomeriggio, mentre l’Italia in piena emergenza sanitaria si avvia progressivamente al lockdown. A raccontarcelo è Paola Cigarini, referente del Gruppo Carcere-Città che per anni ha fatto volontariato all’interno della casa circondariale modenese. “Quello che è successo è il segno di qualcosa che non va, e non solo qui a Modena”, spiega Cigarini che di quelle immagini dolorose vuole farne un monito per il futuro. “La nostra città non deve dimenticare quella data - continua la volontaria - anche se siamo abituati che il carcere lo sia. Per far sì che nove persone non siano morte invano si tratta di ricordare che nell’Istituto c’era un sovraffollamento di più di 200 persone, un numero di educatori insufficiente e tempi lunghissimi per le risposte da parte della magistratura di sorveglianza”. Il carcere di Modena, numeri alla mano, ha una capienza di 340 persone. Al momento delle rivolte, esplose a catena negli istituti del Paese da Salerno a Milano, Sant’Anna ne ospitava 560: molti dei quali detenuti definitivi, pur essendo quella di Modena una casa circondariale. Dopo la distruzione di buona parte della struttura che ha reso inagibile intere sezioni restano a Modena meno di cento detenuti, per lo più condannati per reati che non prevedono l’accesso a misure alternative. Quasi tutti gli altri sono stati trasferiti nella notte in istituti dislocati in tutto il territorio nazionale, tra questi quattro dei detenuti morti in seguito alla rivolta: tutti visitati presso il presidio sanitario allestito nel piazzale del carcere, come ha assicurato la direttrice, hanno dovuto affrontare in alcuni casi diverse ore di viaggio. Anche cinque ore per un detenuto di quarant’anni morto al carcere di Ascoli Piceno. Un’ora fino a Parma invece nel caso di un giovane moldavo morto sul posto dopo essere stato portato in rianimazione. Cinque i corpi senza vita ritrovati all’interno di Sant’Anna. Per tutti i nove decessi l’autopsia avrebbe confermato la morte per overdose: un’intossicazione da farmaci, probabilmente metadone razziato dall’infermeria del carcere durante gli scontri. Sui fatti di quel pomeriggio sono ancora aperte le indagini, che dovranno chiarire l’opportunità di trasferire coloro che manifestavano già condizioni critiche di salute. E ricostruire la catena di responsabilità nella gestione dell’emergenza. Proprio di responsabilità parla Cigarini: “Bisogna che tutte le figure che hanno a che fare con la pena se ne assumano una parte. Tutti dovrebbero chiedersi che cosa hanno fatto rispetto al proprio ruolo. Che cosa non è stato fatto perché questa rabbia si contenesse? Che cosa non ha funzionato? Non si può attribuire quella rivolta esclusivamente al Covid. Non si può dare questa unica risposta a quello che è successo”. Per chi il carcere lo conosce e lo vive da anni come volontario la preoccupazione più grande è che la ricostruzione, già avviata con i lavori interni che dovrebbero concludersi a settembre, non sia un’occasione per rivedere e migliorare il trattamento carcerario ma un momento di regressione al passato. “Quello che è accaduto a Modena è anche il fallimento del nostro lavoro di pacificazione. Ma che questo fallimento sia una denuncia”, confessa ancora Cigarini cercando di spiegare le ragioni che hanno prodotto una rabbia così potente tra i detenuti. A causa dell’emergenza sanitaria i volontari non hanno avuto accesso alla struttura già dal 24 febbraio, così che venisse a mancare quell’ultimo canale comunicativo necessario a contenere il malcontento e la paura del contagio. Molte persone ristrette a Modena sono straniere, hanno problemi di tossicodipendenza, di disagio psichico o malattie croniche. Molti sono anziani o senza fissa dimora. Un concentrato di problemi impossibile da contenere: alla percezione di marginalità e isolamento che già normalmente vivono i detenuti si è aggiunta la mancanza di informazioni dall’esterno e la totale mancanza di affettività con i familiari. “La giustizia ha bisogno di verità e la verità ha bisogno di cose”, conclude Cigarini che chiede ancora risposte su quelle morti quasi dimenticate. “Dobbiamo spiegare che nove persone sono morte infrangendo il proprio sogno, senza altra risposta che non l’assunzione di una sostanza: il sogno di arrivare in Italia per cambiare vita è diventato lo stare ai dettati della nostra società moderna diventando l’ultimo anello della catena e pagando con il carcere e con la morte. C’è bisogno di una nuova idea di trattamento, oggi la pena è solo privazione della libertà”. Carcere e disagio al tempo del coronavirus di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 27 giugno 2020 L’annuale Relazione al Parlamento del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà non poteva quest’anno prescindere dalla situazione che si è venuta a creare negli ultimi mesi e che ha ulteriormente chiuso realtà intrinsecamente già chiuse, come le carceri, i centri di accoglienza per immigrati ma anche le residenze per anziani. “Al di là di quei cancelli, all’ansia che in sé si genera in questi spazi chiusi - ha dichiarato il Garante Mauro Palma, presentando oggi, venerdì 26, la Relazione - si è aggiunta l’ansia determinata dal nemico invisibile, di cui ciascuno poteva essere inconsapevole portatore e che entrando in quei luoghi avrebbe determinato un’incontrollabile impossibilità di difendersene”. Da qui, ad esempio, le rivolte scoppiate in carcere all’annuncio della sospensione dei colloqui con i familiari, che hanno causato 14 morti. A peggiorare la situazione è stato inoltre il cronico sovraffollamento degli istituti di pena, che da sempre “preoccupa” il Garante, con 61.230 reclusi alla fine di febbraio 2020. E anche se tra marzo e la seconda metà di maggio, in seguito alle misure adottate dal Governo, vi è stata una diminuzione consistente delle presenze in carcere passate a 53.548, ha spiegato Mauro Palma, “è estremamente allarmante il fatto che recentemente i numeri sono di nuovo in ascesa con un trend di crescita che ha portato un aumento di quasi 300 presenze negli ultimi quindici giorni”. Le carceri italiane soffrono dunque un sovraffollamento endemico dovuto, secondo il Garante, anche alla mancanza “di risposte esterne capaci di intercettare il disagio e le difficoltà di vita per diminuire l’esposizione al rischio di commettere reati”. Un esempio sono le 867 persone detenute ad oggi per una pena (non un residuo di pena) inferiore a un anno e le 2.274 con una pena compresa tra uno e due anni. Sono inoltre 13.661 i detenuti con un residuo di pena da scontare inferiore a due anni. Un esercito di persone che, evidenzia il Garante, dovrebbero poter avere accesso alle misure alternative al carcere per un loro graduale reinserimento nella società. Strettamente legata a questo tema è l’altra emergenza evidenziata nella relazione e cioè il disagio mentale in carcere e la “tendenza a psichiatrizzare ogni difficoltà che si manifesta all’interno delle mura carcerarie”. Secondo Palma “la salute mentale negli istituti di pena si può sintetizzare in questi parametri: vuoti, inerzie, carenze e bisogno”. Una realtà che traspare anche dal crescente numero dei suicidi, 53 nel 2019, in media uno a settimana, e dal costante aumento di episodi di autolesionismo e di aggressione verso il personale penitenziario. Un trend costante anche nei primi mesi del 2020 con già 18 suicidi, 481 tentati suicidi e 3.617 atti di autolesionismo. Altro tema di allarme, messo a fuoco nella Relazione, è la privazione della libertà dei migranti. “I numeri del 2019 confermano la discrasia tra il numero delle persone ristrette nei Centri permanenti per il rimpatrio e quello relativo alle persone effettivamente rimpatriate. Delle 6.172 persone ristrette in una situazione di detenzione amministrativa, solo 2.992 sono state rimpatriate mentre in 1.775 casi la privazione della libertà non è stata confermata dall’Autorità giudiziaria”. L’ultima parte della Relazione è dedicata alle strutture “più affollate” tra quelle che il Garante si trova a visitare e monitorare: le residenze per anziani e le residenze per disabili che, secondo gli ultimi dati, forniscono 88.571 posti letto in 12.458 strutture. Realtà in cui il covid-19 ha causato significative limitazioni alle libertà fondamentali e in alcuni casi, persino situazioni di privazioni de facto della libertà personale. Alla luce di quanto accaduto, che in taluni casi è all’attenzione della Magistratura inquirente, il Garante ricorda di aver stipulato un accordo di ricerca con l’Istituto Superiore di Sanità per il monitoraggio continuo di queste strutture “che il contagio ha configurato solo come potenziali cluster, facendoci dimenticare che erano luoghi dove si realizzava la forzata interruzione dei legami e ci si avvia a esiti nefasti in un contesto di vuoto e di percezione di solitudine assoluta”. Da qui la necessità di un’osservazione costante “perché - sottolinea Palma - ogni persona ha diritto a che le sue potenzialità vengano coltivate e sviluppate al massimo, al fine di non diminuirne la possibilità relazionale e l’esercizio pieno di quel residuo di libertà che ognuno porta con sé”. Sulle intercettazioni la riforma Bonafede sfida la Cassazione di Raffaele Marino Il Riformista, 27 giugno 2020 La “mise en abyme” è una espressione che indica una tecnica nella quale un’immagine contiene una piccola copia di sé stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito. Il termine ha origine in araldica, dove descrive uno stemma che appare come uno scudo al centro di uno scudo più grande. A un analogo accorgimento ricorsivo fa riferimento il cosiddetto “effetto Droste”. Un’immagine in cui è presente l’effetto Droste possiede una piccola immagine di se stessa, localizzata dove dovrebbe trovarsi se si trattasse di un’immagine reale. Questa piccola immagine, inoltre, contiene a sua volta una versione ancora più ridotta di sé, e così via. Tecnicamente non c’è limite al numero di iterazioni, ma in pratica si continua fino a quando la risoluzione permette di distinguere un cambiamento. È quello che si verifica con le intercettazioni. Da molto tempo l’avvocatura, la dottrina più illuminata, ma anche la magistratura più garantista, hanno denunciato una serie di distorsioni legate all’uso indiscriminato delle intercettazioni, spesso costituente una sorta di scorciatoia probatoria per giungere ad un risultato di provvisoria colpevolezza, strombazzato e amplificato dai media. Si tratta di antichi mali del processo che hanno assunto varie etichette, quali il gigantismo delle indagini preliminari, rispetto alla originaria centralità del giudizio, l’emarginazione della difesa in questa fase iniziale, la scarsa o nulla rilevanza e attenzione alle vittime, la prevalenza dell’uso delle intercettazioni quale pressoché unica fonte investigativa, le cosiddette intercettazioni a strascico dove, ipotizzato un reato, se ne scoprono via via tanti altri, sicché quelle intercettazioni vengono poi usate in svariati processi, sovente legati solo dalla circostanza che le intercettazioni sono le medesime per i fatti più diversi e disparati. Completano spesso questo quadro desolante la mancanza di qualsiasi riscontro a quanto emerge dalle intercettazioni, la mancata ricerca di interpretazioni diverse da quelle proposte da chi ha ascoltato le conversazioni intercettate, le prassi distorte di ascoltare le conversazioni a distanza di tempo quando i riscontri immediati non possono più utilmente compiersi, la consegna da parte della polizia giudiziaria al Pubblico Ministero a distanza di mesi o addirittura di anni della informativa in cui vengono spiegate le conversazioni intercettate ai fini della sussistenza dei reati e della loro attribuibilità a soggetti determinati. I tempi delle indagini si allungano sempre di più, il ricorso indiscriminato alle intercettazioni come unica fonte di prova determina altresì un innalzamento dei costi della giustizia, come attestato dal bilancio sociale esposto dalle procure più importanti, che indicano proprio nei costi per le intercettazioni la maggiore fonte di spesa. Eppure il legislatore aveva concepito da sempre il processo penale come un processo che si svolge nei confronti di singole persone e per fatti determinati; eppure il legislatore aveva raccomandato particolare attenzione nell’uso delle intercettazioni proprio per il loro carattere decisamente invasivo del diritto alla riservatezza e alla libertà delle comunicazioni, costituzionalmente protetti; e proprio perché ove necessario, le intercettazioni possono esser compiute anche nei confronti di persona non indagata né imputata, e solo qualora ciò sia indispensabile al fine trovare la prova di colpevolezza. La recente sentenza delle Sezioni Unite, ormai nota come sentenza Cavallo, sembra porre un argine all’uso indiscriminato delle intercettazioni in processi diversi e per reati diversi da quello nel cui ambito furono autorizzate, e ciò in quanto l’autorizzazione del giudice non si limita a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova, ma circoscrive anche l’utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all’autorizzazione stessa risultino riconducibili: è questo l’insegnamento della Corte Costituzionale che fin dal 1991, con la sentenza numero 336, aveva avvertito che l’intercettazione deve dar conto dei soggetti da sottoporre a controllo e dei fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede. Sulle pagine di questo giornale autorevoli studiosi, magistrati, avvocati e docenti hanno ben spiegato come la Corte di Cassazione abbia interpretato la nozione di diverso procedimento e i limiti entro i quali le intercettazioni possano essere utilizzati in un diverso procedimento, che deve essere legato a quello originario da una connessione qualificata, ovvero quando i reati siano stati commessi in concorso da più persone, ovvero dalla stessa persona con un’unica azione ovvero con più azioni ma in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, ovvero se i reati diversi siano stati commessi per eseguire o occultare altri reati e sempre che le intercettazioni per tali diversi reati siano indispensabili e si tratti di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e che rientrino nel catalogo dei reati previsti dalla legge. Le Sezioni Unite hanno rimarcato, infatti, che l’utilizzazione probatoria dell’intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di sottolineare, nel surrettizio, inevitabile aggiramento di tali limiti. Questa interpretazione assolutamente condivisibile della Corte rischia però di esser vanificata dalla (contro)riforma delle intercettazioni varata di recente dal ministro della Giustizia, le cui difficoltà interpretative ed esecutive sono dimostrate dai numerosissimi rinvii alla sua entrata in vigore (l’ultimo disposto col decreto legge 28 del 30 aprile 2020 che ha spostato al primo settembre l’entrata in funzione della nuova legge). La filosofia della riforma è improntata a un ampliamento dei casi in cui è possibile ricorrere alle intercettazioni, in particolare a quelle a mezzo di captatore informatico: un virus che all’insaputa dell’intercettato viene iniettato in un dispositivo di comunicazione informatico e funge da microfono e telecamera attivabile da remoto. La riforma appare ispirata anche a un ampliamento dei poteri del Pubblico Ministero, cui è affidato l’archivio informatico in cui sono custodite le intercettazioni, e a un ennesimo ed ulteriore ridimensionamento delle facoltà difensive in quanto, da una prima lettura della norma, sembra che i difensori, come avvenuto di recente a Perugia nel cosiddetto processo Palamara, potranno nella fase iniziale solo ascoltare le intercettazioni ma non estrarne copia, con tutte le immaginabili difficoltà di dover ascoltare migliaia di ore di intercettazioni in tempi ristrettissimi e senza poter fare altro che prendere qualche nota. Ma questo è un altro capitolo del disastro della giustizia in atto. Altro che ripartenza: i tribunali saranno vuoti fino a settembre di Simona Musco Il Dubbio, 27 giugno 2020 Il 30 giugno finisce la Fase 2 della giustizia, ma le udienze sono un miraggio. Gli avvocati: “Basta smart-working o la ripresa a luglio sarà virtuale”. “La tanto sbandierata ripartenza delle attività dei Tribunali sarà praticamente inattuabile e pertanto verrà rinviata, se tutto andrà bene, al mese di settembre”. Le conclusioni - tragiche sono di Antonello Talerico, presidente del Coa di Catanzaro reduce dall’incontro di giovedì con Lorenzo Del Giudice, vice capo del dipartimento Organizzazione giudiziaria di via Arenula. Una riunione alla quale hanno preso parte i presidenti delle Corti d’Appello, quelli degli Ordini degli avvocati e i procuratori generali delle regioni meridionali, le meno colpite dall’emergenza e, almeno in linea di principio, “predisposte” ad una riapertura vera dei Tribunali. Ma le cose, in realtà, non stanno così. E gli esempi, per Talerico, sono lampanti: le udienze, spiega, “sono fissate soltanto sino alla data del 15 luglio 2020 e i magistrati stanno già procedendo a rinviare d’ufficio molti dei processi che si sarebbero dovuti celebrare tra il 1° ed il 15 luglio”. Mentre da nord a sud continua il braccio di ferro tra avvocatura e personale amministrativo - che insiste sulla necessità di mantenere lo smart working per garantire la sicurezza - la classe forense continua ad interrogarsi sulla ripartenza, fissata per decreto al primo luglio. Una “Fase 3” che si preannuncia, però, soltanto di facciata. Almeno secondo l’avvocatura, che chiede protocolli in grado di garantire la ripartenza, impossibile se il personale di cancelleria non tornerà, effettivamente, al lavoro sul campo. “Non possiamo dimenticare che permangono i divieti di assembramenti e le norme che impongono il distanziamento sociale - dice al Dubbio Rosario Pizzino, presidente del Coa di Catania. Quindi nelle strutture giudiziarie che presentano spazi angusti sarà molto problematico contemperare la presenza fisica delle udienze con l’applicazione di queste misure. Probabilmente andremo incontro ad una ripresa virtuale, per la quale, evidentemente, dovremo ancora concordare con i magistrati una serie di misure per evitare l’affollamento”. Si rischiano assembramenti, file, rinvii, insomma: tutto meno che il ritorno alla normalità. Ancora una volta a scapito della domanda di giustizia dei cittadini e, professionalmente, a scapito degli avvocati. “L’avvocatura è stata la componente della giurisdizione più colpita. Ma nonostante ciò, se è stato possibile affrontare questi quasi quattro mesi è solo grazie alla nostra collaborazione - aggiunge - la quale, con tutta una serie di protocolli, ha permesso che quel minimo di attività si espletasse. E questo sarà ancora necessario”. La disponibilità a collaborare c’è, a patto, afferma Pizzino, “che le cancellerie tornino a lavorare a pieno regime”. Per Talerico, “l’abusato smart working, oltre a non consentire agli operatori di svolgere a distanza importanti attività, ha determinato anche facili giustificazioni nei ritardi maturati nelle plurime attività spesso sollecitate dall’avvocatura. Avrebbe dovuto consentire ai singoli operatori di rispondere a pec, email ed ai contatti telefonici, ma gli avvocati non hanno ricevuto risposta”. I buoni protocolli servono dunque a poco senza una previsione sulle modalità di lavoro delle cancellerie, per le quali vale la circolare del 12 giugno scorso, a firma del capo del Dog, Barbara Fabbrini, secondo cui il Dl Rilancio già consente di rimodulare il ricorso al lavoro agile. Ma rimane, comunque, onere dei capi degli uffici riorganizzare il tutto. “Bisogna contemperare lo smart working con l’esigenza di funzionalità degli uffici - aggiunge Pizzino - dal momento che il personale amministrativo da casa non può collegarsi ai registri telematici”. Un punto sul quale anche diversi presidenti delle Corti d’Appello si sono mostrati d’accordo. Ci sono poi i ritardi nella liquidazione del patrocinio a spese dello Stato, spesso causati dalla mancata informatizzazione del procedimento, fattore che ha ulteriormente penalizzato l’avvocatura, specie la sua parte più giovane. Il Dog ha garantito lo stanziamento di fondi straordinari per l’acquisto di dispositivi, nonché, in futuro, la possibilità di collegamento telematico ai registri, quantomeno sul civile. Ma il nodo cruciale rimane sempre quello dei rinvii, alcuni dei quali addirittura al 2023. “Va registrato il rinvio di circa l’85% delle cause che dovevano celebrarsi nel periodo di lockdown”, sottolinea Talerico, secondo cui il ministero della Giustizia avrebbe dovuto prevedere “prescrizioni generali applicabili uniformemente su tutto il territorio italiano”, ad eccezione delle Regioni maggiormente colpite. Da Catanzaro la proposta è quella di azzerare lo smart working, con una nuova riorganizzazione degli Uffici e delle udienze e un agevole impiego degli strumenti informatici. “Si sono riaperte le discoteche, è ripartito lo sport e tante altre attività che comportano la violazione di ogni prescrizione sanitaria - conclude Talerico - ma si continua invece a pretendere il distanziamento e il divieto di assembramento all’interno dei Tribunali, così di fatto impedendo una concreta possibilità di ripartire”. Riforma del Csm, il nodo rimane la legge elettorale di Giulia Merlo Il Dubbio, 27 giugno 2020 La politica, per una volta, è ben lieta di stare alla finestra e di lasciare alle toghe il compito di trovare in autonomia una via per uscire dal pantano in cui è bloccato il Csm. Anzi, la linea del governo sembra essere proprio quella di lasciare ai magistrati l’onere di gestire l’attenzione pubblica catalizzata dalle chat di Palamara, separando nettamente il “caos procure” dalla riforma dell’organo di autogoverno. Una riforma da gestire senza alcuna fretta e con l’imperativo di evitare divisioni interne alla maggioranza di governo. I tempi dell’approvazione, infatti, continuano a dilatarsi. Il testo doveva arrivare sul tavolo del Consiglio dei ministri la settimana scorsa, poi a fine giugno, ma con tutta probabilità slitterà ulteriormente. Del resto, il governo è ancora alle prese con la complicata Fase 3 della pandemia e lo stesso ministero della Giustizia sta gestendo il ritorno al lavoro nei tribunali. Dunque, al netto del clamore mediatico, la riforma del Csm è solo uno dei tanti dossier sulla scrivania di via Arenula e nessun angolo dell’Esecutivo preme per accelerare. Inoltre, il testo da licenziare in Cdm è un disegno di legge delega al governo, dunque dovrà passare per l’approvazione del Parlamento e l’aspettativa dell’Esecutivo è che commissioni e Camere vogliano procedere a qualche modifica. Tradotto, calma e gesso. Del resto, il testo non è ancora chiuso. Le lunghe riunioni al ministero tra il ministro Alfonso Bonafede e le delegazioni dei partiti di maggioranza hanno risolto alcune questioni, altre invece rimangono aperte. L’intenzione dei 5 Stelle di voler precludere la nomina a consiglieri laici del Csm ai parlamentari “è stata superata”, ha spiegato il responsabile Giustizia del Pd, Walter Verini, che ha confermato che la nuova bozza non contiene più alcuna limitazione per deputati e senatori. La quadra, invece, manca ancora del tutto sulla riforma del sistema elettorale per i membri togati e proprio questo è il nodo insolubile che sta bloccando il via libera in Cdm. “Un nodo che rimane perché si sta studiando quale possa essere il sistema migliore per garantire che non ci siano degenerazioni correntizie e che ci sia parità di genere”, ha commentato Verini. Su questi due obiettivi - argine alle correnti e maggiore rappresentanza di genere “c’è pieno accordo in maggioranza”, ma la difficoltà è trovarne una declinazione fattuale. Le ipotesi in campo sono molte e disparate. L’ipotesi più accreditata sembrava quella di eliminare il collegio unico nazionale in favore di più collegi localizzati, in modo da far prevalere i singoli magistrati apprezzati sui territori invece di quelli indicati dalle correnti. I contrari, però, hanno obiettato che collegi con numeri molto ridotti si presterebbero a facili “scambi” di voti. Altra ipotesi, divisiva soprattutto per le toghe ma non del tutto scartata, rimane quella del sorteggio. Di ancora più difficile soluzione, inoltre, è il problema di favorire la parità di genere tra gli eletti: tra le possibilità sul tavolo ci sarebbe quella di formare due distinte liste, una di uomini e una di donne, e l’obbligo di doppia preferenza. Quel che è emerso chiaramente dal tavolo di confronto in maggioranza, tuttavia, è che non si sia formata una netta preferenza per un sistema o per l’altro e dunque nemmeno la condivisione di un testo da portare in Cdm. “In ogni caso, il Parlamento avrà l’ultima parola sul disegno di legge delega”, aggiunge Verini. Dunque ci sarà modo per le Camere di entrare nel merito, con audizioni in Commissione, in modo da definire in modo specifico i margini della delega al governo. L’imperativo della maggioranza, tuttavia, rimane quello di procedere nel modo più ordinato possibile e senza strappi. “Pochi i giudici a non ottenere benefici da intese tra correnti” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 giugno 2020 Cricenti, consigliere della Cassazione: “È un fenomeno diffuso in tutta la magistratura. Palamara doveva essere sentito dall’Anm. Separare le carriere? Sarebbe una misura di garanzia”. Non usa mezzi termini per censurare alcuni comportamenti della magistratura e per criticare il suo attuale assetto ordinamentale. Giuseppe Cricenti, magistrato, consigliere della Suprema corte di Cassazione, commenta duramente il caso Csm aperto un anno fa dall’indagine di Perugia su Luca Palamara e altri colleghi. Consigliere Cricenti si aspettava che sul ruolo delle correnti emergessero elementi così pesanti? La realtà non è emersa nella sua vera gravità: si cerca di accreditare l’idea che si tratti di un fenomeno di malcostume di alcuni magistrati o di alcuni gruppi. Invece, è diffuso in tutta la magistratura e sono pochi quelli che possono dirsene esenti o che nel corso della loro carriera non hanno tratto beneficio da un qualche accordo di corrente. Come spesso accade in questi frangenti, allignano moralisti senza morale, che dopo avere partecipato al sistema se ne tirano fuori e additano gli altri. Le correnti andrebbero sciolte? Sono, in astratto, espressione della libertà di associazione, e sarebbe come limitare quest’ultima. Ma non si può negare che si tratta di associazioni dal ruolo oramai anomalo: un organo a rilevanza costituzionale come il Csm è condizionato da associazioni private e non c’è delibera che non risponda a un interesse correntizio. Alcuni di quelli che hanno beneficiato del sistema, anche oggi, ripetono che le correnti erano sorte come fucine di pensiero, luoghi attenti allo sviluppo culturale della magistratura e che solo di recente sono degenerate in sistemi di spartizione degli incarichi. Ma è una mistificazione: precisino allora quale modello culturale hanno visto nascere e coltivare a iniziativa delle correnti. E soprattutto dimostrino che gli adepti di ciascuna corrente hanno adeguato i loro comportamenti alla dottrina di quelle fucine di pensiero. Al di là delle prerogative statutarie, Palamara andava sentito sabato nel direttivo dell’Anm? Andava sentito, certo. È una regola a priori, diremmo, di ogni procedimento sanzionatorio che chi è accusato debba avere la possibilità di dichiarare le sue ragioni. Il presidente dell’Anm Luca Poniz, in una intervista a questo giornale, ha detto che “la carriera ha fuorviato alcuni magistrati” ma che vanno accantonate le “ipocrisie della politica”, a proposito, per esempio, della scelta dei magistrati nei ministeri... Ai magistrati le correnti hanno offerto un certo modello di carriera, fondato sul sostegno del gruppo, piuttosto che sul merito, requisito ritenuto, se non dannoso, perlomeno inutile; hanno imposto l’idea che studiare è un’applicazione del tutto superflua, poiché basta avere amicizie in un gruppo influente. I magistrati si sono adeguati. Dunque, non è la prospettiva di carriera ad aver fuorviato i magistrati. Detto questo, la politica ha poche colpe, se si allude alla scelta dei collaboratori nei ministeri, i quali sono piuttosto indicati dalle correnti che scelti dal ministro per simpatie politiche. A ogni cambio di ministro c’è tendenzialmente un cambio di corrente. Basti verificare a quale corrente, ad esempio, appartengono i diretti collaboratori dell’attuale ministro. Sabino Cassese ha definito le Procure un “quarto potere” indipendente dalla magistratura stessa. È vero. Intanto, a fronte della formale obbligatorietà dell’azione penale, di fatto le Procure scelgono, a volte per fondate ragioni pratiche, a quali notizie di reato dare precedenza e questa scelta è di natura “politica”, incide sugli interessi della collettività e sugli stessi rapporti sociali, lasciando di fatto impuniti determinati fatti illeciti, perseguendone altri. Ed è questa un’azione che sfugge al controllo istituzionale, nella quale le Procure operano con una certa discrezionalità. C’è poi da considerare il ruolo sociale assunto dai pm negli ultimi anni, che è di maggior visibilità e di maggior contatto con l’opinione pubblica: mai visto un giudice delle locazioni diventare il beniamino di una certa quota di popolazione. Fino ad ora, né il Csm né l’Anm hanno assunto decisioni chiare sulla caratterizzazione “populista” che le Procure rischiano di avere: alcuni pm si fanno interpreti delle attese del popolo e in questo modo acquistano un potere che sfugge al controllo della stessa magistratura. Quale è il suo giudizio in merito alla separazione delle carriere? La separazione delle carriere è in primo luogo una misura di garanzia e di adeguatezza istituzionale: di garanzia in quanto la terzietà del giudice passa anche attraverso l’appartenenza di questi a un ordine diverso da quello della parte pubblica. Spesso si denuncia l’”appiattimento” del gip/ gup sulle richieste del pubblico ministero: è in gran parte vero. Ed è un esito di certo condizionato dalla contiguità che l’appartenenza ad un medesimo ordine favorisce. È una misura di adeguatezza istituzionale, anche, nel senso che si tratta di due mestieri diversi e di due ruoli istituzionali diversi. Si obietta che separando i Pm dall’ordine giudiziario si finisca con assoggettarli al potere esecutivo. È ovviamente un’obiezione incongruente: nulla vieta di creare un ordine distinto, con distinto organo di autogoverno. Cosa ne pensa delle allusioni sul Csm fatte trapelare da De Magistris nella trasmissione di Giletti? Il solito argomentare per illazioni: siccome nel collegio della disciplinare c’era il tale che però è anche citato nelle intercettazioni, allora vuol dire che la decisione disciplinare è viziata. Oppure peggio: siccome il tale da me indagato, e poi però assolto, è stato arrestato per altri fatti allora anche la mia indagine era fondata. Da un punto di vista giuridico nessuno si fa suggestionare da queste illazioni, tanto è vero che le sentenze di assoluzione a favore degli indagati di quell’ex pm non saranno di certo messe in discussione, ma l’illazione non è uno strumento retorico innocuo: condiziona i sistemi simbolici di cui fruisce l’opinione pubblica e mina la fiducia nei giudicati. Il consigliere Csm Sebastiano Ardita, commentando la scarcerazione di Carminati, ha detto che i cittadini non capiranno e occorre una riforma per rendere più semplice il sistema penale. Non le sembra un discorso populista? Le procedure italiane, ormai da qualche decennio, producono decisioni formalmente corrette, ma che per l’opinione pubblica risultano assurde e ciò a prescindere da come vengono divulgate. Da un punto di vista teorico, il tema è complesso: appartiene alla tradizione liberale l’idea che la garanzia stia nella forma e non nel contenuto della regola, ma il problema è l’idea distorta che si ha proprio della forma. Da un punto di vista della politica del diritto, è vero che ci sono settori della magistratura inclini a pensare che la giustizia coincida con l’accusa e che basti quest’ultima per fare dell’accusato un colpevole. In questa strategia v’è il sostegno di buona parte dell’informazione. Sicuramente è una forma di populismo giudiziario, ossia di quel modo ritenuto più semplice perché un magistrato possa assumere le vesti di interprete delle esigenze e degli interessi del popolo: quest’ultimo vuole giustizia dei corrotti e dei mafiosi? La semplice accusa soddisfa quel bisogno. Va arginata l’egemonia dei pm non il pluralismo delle correnti di Davide Varì Il Dubbio, 27 giugno 2020 Contro l’assurda idea di reprimere l’associazionismo dei magistrati. L’ultimo regime che sciolse l’Anm fu il fascismo. Siamo certi che la creazione di un blocco monocorde, compatto e centralista sia la soluzione per rimettere sui binari della “legalità istituzionale” la magistratura italiana uscita con le toghe lacere dopo lo scandalo nomine? E siamo sicuri che il problema della nostra magistratura sia la pluralità di pensiero e non, piuttosto, la convinzione di una sorta di superiorità morale che attraversa buona parte delle procure italiane? Insomma, pensare di risolvere il problema del protagonismo politico delle toghe chiedendo lo scioglimento delle sue articolazioni associative, non solo sarebbe assai discutibile sul piano dei principi democratici e della libertà di espressione, ma anche poco efficace. Le nomine, infatti, non sono la causa, ma l’effetto della deriva egemonica di pezzi della magistratura. In questi anni c’è chi ha teorizzato questa superiorità; c’è chi ha addirittura provato a sostenere che dopo l’era delle religioni e quella della politica, il nuovo millennio sarebbe stato caratterizzato dal primato della magistratura. Insomma, un destino inevitabile, un disegno escatologico, che avrebbe posto rimedio al “naufragio della coscienza civica” (copyright Francesco Saverio Borrelli). Ma la risposta della politica a questo disegno, la disarticolazione di questa tensione egemonica non può passare per uno scioglimento di fatto dell’Anm: ci pensò il fascismo e, a occhio e croce, non è un buon modello da seguire. Né possiamo accettare “processi sommari”: diritti e garanzie valgono per tutti, anche per quei magistrati pizzicati a gestire nomine. È il potere delle procure che deve essere ridimensionato, è il loro quotidiano sconfinamento nel campo della politica che deve essere arginato. Qualche giorno fa l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha chiesto una “revisione” del reato di abuso d’ufficio. Un reato che viene spesso usato come un grimaldello per scardinare il palazzo della politica. Sindaci e governatori regolarmente eletti sono le “prede” più ambite, anche se qualche volta ci si accontenta di semplici consiglieri regionali. Ma come ha spiegato Pignatone, solo il 22% dei processi si conclude con una sentenza di condanna. Tutto bene, dunque? Neanche per idea. L’assoluzione, infatti, arriva dopo mesi di gogna mediatico-giudiziaria e dopo anni di udienze - che peraltro con la riforma della prescrizione diverranno decenni. Senza contare l’azione autolesionista della legge Severino, che fu approvata a larga maggioranza dal Parlamento, che sospende o rende incandidabili i condannati anche solo in primo grado. Ecco, è questo potere che va spezzato e non il legittimo diritto ad associarsi. I luoghi perduti della giustizia di Giuseppe Sottile Il Foglio, 27 giugno 2020 C’erano una volta le aule di tribunali e Corti d’Assise. Erano le cattedrali del diritto. Ma chi se le ricorda più? Ormai il destino dei grandi processi, come quello sulla Trattativa, si decide in tv. In primo e in secondo grado. Se la retorica avesse ancora un senso potremmo anche dire che le aule di giustizia sono come le chiese; e che un’aula della Corte d’Assise, per chi crede nello stato di diritto, potrebbe anche essere paragonata a una cattedrale, a una basilica, a una Notre Dame de Paris. Giudici togati e giudici popolari vi accedono con passo lieve e solenne, uno dietro l’altro, e si dispongono sull’emiciclo con la stessa liturgica cadenza con la quale chierici e sacerdoti fanno da corona al vescovo che celebra il suo pontificale. Ma a che servono ormai le aule di giustizia? La Corte d’Assise di Palermo, dove si giudicano in appello gli imputati della fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa Nostra, non odora di incenso ma di amuchina. Il presidente Angelo Pellino vigila, oltre che sul dibattimento, anche sul distanziamento sociale. Ma al di là dei rigori imposti dal coronavirus, ciò che succede in quell’aula non suscita né un interesse né una curiosità. Nel raggio di trecento metri non si vede un solo cronista; i banchi degli avvocati sono presidiati dai giovani di studio e gli imputati - che pure sono stati tutti condannati in primo grado a pene severissime - seguono le udienze a debita distanza: sono quasi tutti ottantenni, dal generale Mario Mori al generale Antonio Subranni, da Marcello Dell’Utri ad Antonino Cinà fino al terribile Leoluca Bagarella, cognato e luogotenente di Totò Riina, l’ultimo capo dei capi; sono quasi tutti rassegnati perché sanno che spesso non basta una vita per arrivare, con questa giustizia, a una sentenza definitiva; e sono oltremodo diffidenti perché sanno che la partita dei processi di mafia, da quasi dieci anni, non si gioca più nei palazzi di giustizia ma nei talk-show. È lì, nel sinedrio mediatico, che ormai si decidono condanne e assoluzioni; è lì che si elevano i monumenti ai magistrati coraggiosi ed è lì che si elaborano - e spesso si manipolano - le verità ad uso e consumo dei giudici popolari. I pubblici ministeri queste cose le sanno. Ricordate il processo di primo grado? Eravamo nel 2012 e Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, si preparava già a solcare il palcoscenico della politica. Aveva calpestato, col piglio dell’inquisitore, tutti i palazzi del potere: aveva interrogato Silvio Berlusconi, aveva messo sotto accusa il senatore Marcello Dell’Utri, aveva dato la caccia a Nicola Mancino, aveva cercato tra le agende di Azelio Ciampi, aveva puntato gli occhi sul Quirinale di Giorgio Napolitano. E con la banalissima scusa di scavare nel doppiofondo della politica e dei servizi deviati, aveva messo a soqquadro baroni, cavalieri e dignitari della Repubblica. Fino al tavolo ovale attorno al quale, secondo il suo teorema, lo Stato sarebbe venuto a patti con i boss e avrebbe ceduto persino ai loro scellerati ricatti. Un ricamo straordinario quello imbastito nelle stanze della procura di Palermo da Antonio Ingroia. E, all’un tempo, un copione formidabile per ogni talk-show, in particolare per un conduttore d’assalto come Michele Santoro che sui poteri occulti e le trame oscure aveva costruito gran parte della sua carriera. Il procuratore aggiunto di Palermo diventò l’idolo della trasmissione e la Trattativa, che era ancora nella fase istruttoria, entrò a pieno titolo nel cartellone più sfavillante del circo mediatico. Portandosi dietro, manco a dirlo, tutti i personaggi e gli interpreti reclutati per stupire il pubblico del teatrino giudiziario. A cominciare da Massimo Ciancimino che, travestito da ventriloquo del padre - il boss Vito Ciancimino, che fu anche sindaco di Palermo - veniva mostrato in giro come una madonna pellegrina: diceva di custodire il papello delle richieste consegnato dai sanguinari corleonesi a don Vito perché le loro pretese arrivassero, tramite Mori, ai piani alti delle istituzioni; raccontava di avere incontrato personalmente Bernardo Provenzano, il boss latitante che faceva da spalla a Totò Riina; e diceva pure che nella sua casa di via Torrearsa custodiva casse di documenti, lasciati dal padre, che avrebbero fatto tremare il mondo. Tutte fandonie, ovviamente. Perché Massimuccio, trasformato con un azzardo mai visto in una “icona dell’antimafia” era un pataccaro e nulla più. Ma che Ingroia ha utilizzato e spremuto per ubriacarsi di popolarità. Fino al punto, pensa tu, di candidarsi nel 2013 alla carica di primo ministro. Le cose non andarono però per il verso giusto: il risultato elettorale fu un bagno di sangue e il magistrato palermitano, trasferito per incompatibilità ad Aosta, fu costretto a lasciare la toga e a intraprendere il mestiere di avvocato. Ma la Trattativa, con tutto il fragore mediatico che l’aveva elevata al cielo, riuscì a sopravvivere. Passata al vaglio di Piergiorgio Morosini, giudice per le indagini preliminari, è approdata nell’aula della Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto. Ed è rimasta lì per cinque anni, al centro di un dibattimento che ha visto mirabilie di ogni tipo e qualità: persino un conflitto di attribuzioni con Napolitano, intercettato mentre parlava dal Quirinale con il senatore Mancino, accusato di falsa testimonianza. Cinque anni di colpi di scena. Cinque anni indimenticabili. Durante i quali si scoprì persino che Massimo Ciancimino, da icona dell’antimafia, ne aveva combinato di tutti i colori: aveva falsificato le carte del padre e, come se non bastasse, teneva nascosti nel giardino di casa, in via Torrearsa, ventitré candelotti di tritolo. Ma Nino di Matteo, il pm che aveva raccolto l’eredità di Ingroia, nonostante i numerosi incidenti di percorso, non ha mollato la presa. Anzi. Ha cominciato a girare in lungo e in largo per l’Italia, ha raccolto oltre cento cittadinanze onorarie, ha scritto libri, non si è negato a nessuna intervista e a nessun talk-show, ha polarizzato su di sé le minacce tenebrose di Totò Riina, ha raccolto la militanza delle associazioni antimafia ed è diventato il magistrato più coraggioso e più scortato di Italia. Un eroe. Non tutto, sia chiaro, è avvenuto per sua volontà. Ma nei cinque anni di indomita presenza nell’aula bunker su Nino Di Matteo è piovuto un diluvio di consensi, di applausi, di solidarietà. Che ha lasciato scoperta una domanda: quale giudice popolare della Corte d’Assise avrebbe mai trovato il coraggio di considerare la Trattativa una “boiata pazzesca”, così come aveva fatto Giovanni Fiandaca, ordinario di Diritto Penale? Quale giudice popolare avrebbe mai gettato alle ortiche gli sforzi fatti, anche a rischio della propria vita, da un pubblico ministero che per cinque anni ha martellato l’opinione pubblica al solo scopo di affermare la sua verità; che ha girato per le scuole e per le aule consiliari per trasmettere agli uomini di buona volontà la forza della propria testimonianza e del proprio coraggio? La sentenza pronunciata da Alfredo Montalto al termine del primo grado di giudizio e le pesantissime condanne inflitte agli imputati non solo hanno premiato l’impegno di Di Matteo e degli altri tre pubblici ministeri - Teresi, Tartaglia e Del Bene - che lo avevano affiancato in aula. Hanno anche affermato un principio destinato a introdurre nell’ordinamento giudiziario nuovi squilibri e nuove distorsioni: il principio secondo il quale il trasferimento di un processo dalle aule di giustizia alla giostra mediatica contribuisce non poco all’affermazione delle tesi formulate dall’accusa. La controprova sta nel fatto che Di Matteo non sembra avere alcuna intenzione di abbandonare gli studios della tv. Da sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia è andato a parlare delle stragi con Andrea Purgatori su La7 e ha scatenato l’ira del suo capo, Federico Cafiero De Raho. Poi, da membro togato del Csm, è andato a “Non è l’arena” e con Massimo Giletti ha scatenato una tempesta di sospetti sul ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e sulla gestione del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziario. È difficile stabilire perché lo abbia fatto e soprattutto perché si sia esposto tanto. Il ministro gli aveva promesso, subito dopo il suo insediamento, nel giugno del 2018, di nominarlo al vertice delle carceri ma il giorno dopo si rimangiò tutto e non se ne fece nulla. Dopo due anni, Di Matteo si è tolto il pietrone dalla scarpa. Ha chiesto pubblicamente al ministro per quale ragione fosse venuto meno alla parola data e ha lasciato chiaramente intendere che dietro il ripensamento ci sarebbe stata una pressione indebita: forse dai mafiosi, sempre alla ricerca di scrollarsi i rigori del carcere duro; forse da un innominabile uomo delle istituzioni magari irritato con il magistrato palermitano per chissà quale gogna o chissà quale sputtanamento. Ma l’attacco frontale a Bonafede è stata anche l’occasione, per Di Matteo, di battere sul chiodo delle scarcerazioni di alcuni boss, per lo più gravemente ammalati, spediti agli arresti domiciliari anziché nelle strutture ospedaliere costruite e ben funzionanti all’interno delle carceri. Una battaglia legittima, per carità. Ma che è servita al pm della Trattativa anche per sancire il principio che, pur gravitando nell’orbita del partito manettaro dei grillini, lui resta comunque il più puro dei puri e duri. Era già un eroe incontestato e incontestabile. Era il magistrato che aveva scavato nelle caverne più nascoste e più limacciose del potere. Era l’uomo che aveva scoperchiato la più infame delle trattative. L’ultima tornata televisiva non poteva che collocarlo su un piedistallo ancora più solido, ancora più alto, ancora più blindato e inespugnabile. Potrà questo dettaglio non influire sulla sentenza d’appello che il presidente Angelo Pellino spera di leggere entro la fine dell’anno? Potrà lasciare indifferenti i giudici di appello? L’impalcatura giudiziaria della Trattativa ha subìto già un primo, durissimo colpo: Calogero Mannino, l’ex ministro democristiano che Morosini aveva rinviato a giudizio con tutta la compagnia dei traccheggiatori, si è staccato dal gruppo: ha scelto il rito abbreviato ed è stato assolto in primo e secondo grado. La sentenza che lo ha ripulito di ogni accusa e di ogni nefandezza, smonta tutte le tesi Ingroia ed è una sentenza definitiva: in base a una legge del 2017 se l’assoluzione di primo grado viene confermata in appello non può essere impugnata in Cassazione. Bene. Che cosa succederebbe se la Corte d’appello presieduta da Angelo Pellino ricalcasse le motivazioni dell’altra Corte d’appello, quella di Mannino, e mandasse assolti anche gli imputati del troncone ordinario, da Mori a Subranni, da Dell’Utri a Cinà? Che ne sarebbe dei nostri eroi? Sarebbe un disastro. Da qui la necessità di rafforzare, con l’aiuto del circo mediatico, le convinzioni dei giudici popolari. E di convincerli, anche e soprattutto, attraverso la televisione, che non c’è altra verità se non quella sostenuta dall’accusa e dalle forze del bene. Con la conseguenza di marginalizzare ancora di più il dibattimento. Del resto, a che serve l’aula, dove il giudice Pellino continua a convocare pentiti e pentiticchi nella speranza di cavare un ragno dal buco? La sorte degli imputati non dipenderà mai dalle tesi brillantemente esposte da un avvocato difensore o dalle sconvolgenti rivelazioni di un collaboratore di giustizia. Dipenderà quasi esclusivamente dalle certezze che albergheranno, al momento della sentenza, nella mente dei sei giudici popolari schierati al fianco di Pellino. Durante la pandemia il Papa - che pure è ispirato dallo Spirito Santo ed è teologicamente vicario di Cristo - ha chiuso chiese, cappelle, parrocchie e cattedrali. Ha sbarrato persino la basilica di San Pietro. Perché non chiudere anche le aule dei Tribunali, delle Corti d’Assise, delle Corti d’Appello e tutti i luoghi che possano comunque appannare il potere dei pubblici ministeri? Dal sospetto alla galera il passo sarebbe breve, brevissimo. La società sarebbe finalmente purificata. Sanificata, si direbbe oggi, e liberata anche dal virus del male. Non ci sarebbero più né boss né picciotti, né ‘ndrangheta né camorra, né reprobi né malacarne. Te Deum laudamus. Chi frena la riforma della giustizia di Iuri Maria Prado Libero, 27 giugno 2020 Forse soltanto i giornalisti mostrano altrettanta prepotenza reazionaria quando è in discussione qualche riforma che li riguarda: senonché i giornalisti tutt’al più possono spacciare notizie false e sputtanare la gente, che sono cose anche molto gravi ma non quanto quelle che può farti un magistrato nel normale disbrigo del suo ufficio, vale a dire sbatterti in galera, toglierti la famiglia, sequestrarti la casa, l’azienda, lo stipendio devastando ogni ambito della tua esistenza fisica, civile e professionale: il tutto, a volte (anzi molto frequentemente), prima della sentenza che alla fine ti assolverà. Chi è dotato di questo potere immenso dovrebbe fare il piacere di accontentarsene senza pretendere di essere il giudice esclusivo pure di sé stesso, mettendosi di traverso quando la società e il legislatore manifestano l’increscioso desiderio di esercitare la sovranità che la Costituzione, fino a prova contraria, non attribuisce ai pubblici ministeri. E non si capisce per quale motivo mai il dibattito pubblico sulle riforme in campo di giustizia debba essere diretto dalle ammonizioni dei magistrati che mostrano il pollice verso davanti a ogni ipotesi di riforma che non gli piaccia, cioè qualsiasi riforma che non preveda più galera per tutti, il diritto del magistrato di fare quello che gli pare e l’obbligo per il resto del mondo di inchinarsi al suo potere. Nel persistere essenziale del fascismo italiano, così buffo quando si trasfigura nel fraseggio democratico, la spinta corporativa viene dappertutto e tutte le arti provano a esercitarla: solo che se dobbiamo rifare le norme sugli impianti di riscaldamento non è che facciamo decidere gli idraulici, e non lo facciamo perché quelli non hanno analoghi strumenti di pressione (al più ci uccellano la moglie, che è una pressione anche quella ma amen), mentre i magistrati ti spiegano che la democrazia è in pericolo se non togliamo al condannato il diritto di fare appello o se smettiamo di mandare in mondovisione le conferenze stampa sulla rivoluzione giudiziaria che smonta il paese come un trenino Lego. E te lo spiegano, appunto, stando seduti su quel loro potere esclusivo, un potere che non ha bisogno di essere adoperato per assolvere alla sua funzione intimidatrice. Serve precisare che non tutta la magistratura si pone con questi modi rispetto al dibattito pubblico sulla giustizia? Non serve, perché è indiscusso che la parte maggioritaria della magistratura, saggiamente, si astiene dal parteciparvi e assiste probabilmente con perplessità alle esibizioni degli influencer togati che governano la scena. Quest’altra parte rischia tuttavia di far la figura di un’armata agli ordini di un pugno di generali impazziti se continua a starsene in silenzio: alzare la mano e dire qualcosa di diverso non sarebbe ammutinamento, anche perché il potere di quegli altri è puramente usurpato. La strage di Ustica, 81 vittime innocenti della Guerra fredda di Miguel Gotor L’Espresso, 27 giugno 2020 Manca una verità giudiziaria sulla tragedia del Dc-9, ma sui cieli italiani quella sera era in corso una battaglia che vedeva protagonisti i caccia della Nato o francesi. Che avevano come obiettivo il leader libico Gheddafi. Nel corso di quarant’anni i responsabili della strage di Ustica non sono stati ancora individuati sul piano giudiziario nonostante l’immane impegno del magistrato Rosario Priore, l’attività della commissione parlamentare stragi, decine di perizie e controperizie e oltre centotrenta rogatorie internazionali. L’assenza di giustizia ha alimentato, un anniversario dopo l’altro, l’indignazione dell’opinione pubblica e in particolare quella dei famigliari delle vittime, al punto che uno di loro un giorno esclamò: “Nessuna ragione al mondo giustifica l’assenza di una verità. Potrebbe essere stato anche lo sputo di un airone. Ma lo dicano!”. Sul piano storico la strage di Ustica ha sollevato il tema della sovranità limitata dell’Italia nel contesto internazionale atlantico, a causa di un assai probabile coinvolgimento di forze militari della Nato e della Francia che avrebbero provocato la distruzione del DC-9 dell’Itavia per un tragico errore. Secondo i periti dell’inchiesta guidata da Priore si sarebbe svolta nello spazio aereo nazionale una battaglia fra tre caccia italiani, uno americano, uno francese e due Mig libici. In base alle risultanze giudiziarie l’incidente sarebbe avvenuto mentre quei caccia cercavano di abbattere con un missile l’aereo del leader libico Muammar Gheddafi in volo sulla stessa rotta verso la Polonia, oppure due Mig libici decollati dalla Jugoslavia per raggiungerlo e scortarlo indietro, i quali si sarebbero nascosti sotto la pancia del DC-9 all’altezza della Toscana. Una pratica consueta che l’aviazione civile e militare libica utilizzava, grazie alla complicità di quella italiana, per potersi servire di quel corridoio aereo senza essere intercettata dai radar della Nato, e così trasportare verso il nord Europa alte personalità bisognose di viaggiare in incognito per motivi di sicurezza e per raggiungere Venezia o Banja Luka, in Jugoslavia, dove i velivoli del governo di Tripoli erano riparati o aggiornati con nuovi pezzi di ricambio. Ovviamente questi segreti spostamenti lungo i corridoi dei cieli italiani di Gheddafi, ma anche di altre personalità a rischio in quegli anni di essere abbattute con un missile come il leader dell’Olp Yasser Arafat, erano conosciuti dai nostri servizi che dovevano autorizzarli e garantirli affinché sfuggissero ai sistemi radar della Nato. Secondo esplicite quanto tardive dichiarazioni dell’ex presidente del Consiglio di allora Francesco Cossiga, Gheddafi sarebbe stato avvisato dal capo del Sismi Giuseppe Santovito del pericolo che stava correndo, ma da quel momento il ras libico iniziò a sospettare, con fondate ragioni, che una fazione della nostra intelligence avesse fatto trapelare di nascosto i tracciati dei suoi spostamenti a quanti poi avrebbero utilizzate quelle informazioni riservate per provare a ucciderlo. Peraltro egli ben conosceva la costitutiva divisione nei servizi segreti italiani tra un campo fiduciario filo-israeliano e uno filo-arabo che Aldo Moro aveva saputo armonizzare e ricomporre per circa un quindicennio fino alla vigilia della sua morte, dalla cui rinnovata conflittualità sarebbe potuta trapelare la soffiata decisiva. Sempre Cossiga, nel 2008, quando era presidente emerito della Repubblica italiana, puntò il dito contro la Francia, aggiungendo il particolare, confermato anche dal magistrato Priore, che il missile sarebbe stato “a risonanza e non a impatto” e che il pilota transalpino responsabile della strage, una volta rientrato alla base, resosi conto del tragico errore commesso, si sarebbe suicidato per la disperazione. Per alcuni questa presa di posizione, confermata anche dall’allora ministro dei Trasporti Rino Formica, sarebbe in realtà una buona ragione per escludere i francesi dal novero delle nazioni responsabili, ritenendo che Cossiga possa averli coinvolti così frontalmente per coprire un più diretto coinvolgimento della Nato o degli Stati Uniti, dal momento che la Francia nel 1980 non era inquadrata nel comando militare dell’alleanza atlantica. A questo proposito è utile notare che il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, con una lettera inviata al presidente del Consiglio Giuliano Amato il 24 ottobre 2000, ha solennemente affermato di essere “fermo nella convinzione che non vi sia stato alcun coinvolgimento americano di qualsiasi sorta nell’incidente del DC9 Itavia”. Diversamente, il 27 settembre 2000, il presidente della Repubblica francese Jacques Chirac, in un’analoga missiva, ha ribadito il pieno sostegno della Francia “per aiutare la giustizia italiana a fare piena luce” sul tragico evento, ma non si è spinto, come il suo pari grado statunitense, a negare per iscritto qualsiasi responsabilità francese. A indiretta ma circostanziata conferma che la sera del 27 giugno 1980 si svolse nei cieli italiani una battaglia aerea intorno al DC-9 dell’Itavia poi precipitato, che coinvolse certamente anche l’aviazione libica, è il fatto che, il 18 luglio successivo, sui monti della Sila, fu ritrovato il cadavere di un pilota in “avanzatissimo stato di decomposizione (secondo la perizia medica addirittura di colliquazione) con accanto i rottami di un Mig libico con la fusoliera attinta da diversi colpi di cannoncino (in base alla testimonianza oculare di un soldato di leva, in seguito confermata da altri suoi commilitoni, il quale, nel 1990, dichiarò in un’intervista a questo settimanale di essere stato inviato, già il 28 giugno 1980, a piantonare i resti dell’aereo, ufficialmente ritrovati soltanto il 18 luglio successivo). Inoltre, nel 1987/88 e nel 1991/92, le due complesse campagne di recupero del relitto dell’aereo in fondo al mare, esclusero la possibilità che a bordo del Dc 9 fosse scoppiata una bomba a tempo, ad esempio lasciata nella toilette dell’aereo, come alcuni hanno continuato a sostenere fino a oggi: un’eventualità già peregrina in sé sul piano logico giacché il volo era partito da Bologna con quasi due ore di ritardo, ma che venne abbandonata dopo il ritrovamento della seggetta del water perfettamente integra e di gran parte degli oblò del DC-9 ancora intatti, senza alcuna traccia di esplosivo a bordo. I resti dell’aereo, però, furono recuperati in un raggio di sette chilometri e quindi un’esplosione doveva pur esserci stata. È opportuno sottolineare che il governo italiano si premurò di affidare le operazioni di recupero del relitto proprio a una ditta francese, legata al grande subacqueo Jacques-Yves Cousteau (collaboratore, sin dai tempi della Seconda guerra mondiale, dei servizi segreti transalpini) con il quale, negli anni Settanta, aveva lavorato anche l’agente del Sismi Francesco Pazienza, esperto sommozzatore. Dal fondo del mare, nei pressi del relitto, emerse anche un serbatoio di fabbricazione statunitense di un aereo militare, ma esso teoricamente sarebbe potuto appartenere a ben quattro modelli di velivolo diversi in servizio in quegli anni presso l’aviazione di una quarantina di Paesi al mondo, tra cui certamente gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Libia, ma anche, per dire, il Botswana e l’Honduras; sicuramente, non alla Francia che però utilizzava un modello di aereo assai simile. Com’è noto, le tracce dei radar delle portaerei e delle basi a terra statunitensi e francesi, opportunamente sforbiciate nel corso degli anni, non hanno fornito risultati conclusivi a capire cosa accadde quella sera. Per parte sua il governo transalpino ha sempre negato movimenti aerei della propria aviazione militare sul mare Tirreno, ma è stato smentito dal generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, braccio destro di Carlo Alberto Dalla Chiesa, grazie a una fortunata coincidenza. L’alto ufficiale dell’antiterrorismo italiano, infatti, proprio il 27 giugno 1980, si trovava in vacanza in Corsica, in prossimità della base aerea di Solenzara, e ha dichiarato, nel corso di un’audizione parlamentare, di avere visto: “un viavai incredibile di aerei. Erano aerei “Phantom” e “Mirage”. I “Phantom” erano tedeschi e belgi e i “Mirage” francesi” che durò dalle quattro del pomeriggio fino a notte fonda con atterraggi e decolli continui alla volta delle coste tirreniche. Il generale Bozzo ha tenuto a precisare di averli persino fotografati, un particolare che consente di nutrire almeno un dubbio sulla effettiva natura delle sue improvvise vacanze in Corsica dal momento che egli scelse di mettersi a prendere il sole proprio accanto alla recinzione della base militare francese. Anche la strage di Ustica, quindi, potrebbe essere stata pesantemente condizionata da una dimensione internazionale, riguardante le relazioni dell’Italia con l’infuocato fronte mediorientale affacciato sul Mediterraneo. Un’area instabile, caratterizzata da una trama di rapporti politici, diplomatici ed economici, ma anche di traffici clandestini di armi, uomini e merci in cui si intrecciavano in quegli anni una serie di fili assai delicati: il “lodo d’intelligence”, stipulato nel 1973 tra il governo italiano e l’autorità palestinese, l’annoso conflitto arabo-israeliano, le altalenanti relazioni tra Roma e la Libia, fondamentali per l’approvvigionamento energetico della penisola, e le crescenti tensioni della Francia e degli Stati Uniti contro il ras libico a causa della sue volontà di allargarsi sullo scacchiere mediterraneo. L’eliminazione di Moro nel 1978, che con la sua diplomazia formale e informale, era riuscito a tenere sotto controllo, per circa un decennio e oltre, prima come presidente del Consiglio e poi come ministro degli Esteri, quel campo minato a tutto vantaggio dell’Italia, provocò un’indubbia fibrillazione in quell’area già di per sé tanto instabile. Bisogna anche tenere presente che, dal 1978 in poi, lungo il sabbioso confine tra la Libia e il Ciad, dove però nel sottosuolo riposavano imponenti giacimenti di uranio, era ripreso un conflitto armato che aveva visto la Francia inviare propri contingenti di soldati a difesa della sua ex colonia invasa dalle truppe di Gheddafi. Di conseguenza, tra il 1979 e il 1980, il governo di Parigi si trovava in una situazione di guerra non dichiarata ma effettivamente combattuta con la Libia e aveva buone ragioni per considerare la politica espansionistica di Gheddafi, in Nord Africa e nella fascia subsahariana, un fattore d’instabilità lesivo dei propri interessi nazionali. In quella drammatica estate 1980, l’inquietudine continuò ad alimentare l’inquietudine e il tormento a crescere sul tormento in quanto l’attentato alla stazione di Bologna avvenne soltanto trentasei giorni dopo la strage di Ustica. Vi è un legame, al netto della loro prossimità cronologica e del filo dei depistaggi orditi dai nostri servizi infiltrati dalla P2, tra i due tragici avvenimenti che infuocarono in quell’estate il fronte mediorientale del Mediterraneo? A questa domanda bisognerebbe rispondere. Certo è che l’Italia, come tra il 1969 e il 1974 con le stragi di matrice neofascista, sembrava di nuovo presa nel vortice di una tempesta di sangue e di morte senza che si riuscisse a individuare l’origine dei colpi, il movente e soprattutto la via d’uscita. Ma oggi lo sappiamo: “Guarda! Cos’è?” urlò il copilota del Dc 9: un missile o, assai più probabilmente, un caccia militare in posizione d’attacco. Di sicuro non era lo sputo di un airone, ma piuttosto un bagliore nel cielo in grado di rivelare il presente, il passato e il futuro della storia d’Italia, come sempre sospesa, con la sua difficile sovranità, tra la rigidità di un vincolo esterno e la fragilità di quello nazionale al tempo della Guerra fredda. Decreto Salvini smontato dal Tribunale di Torre Annunziata, la palla passa alla Consulta di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 27 giugno 2020 Mentre la politica si divide praticamente su tutto, ci pensa qualche magistrato garantista (sì, sono rari ma esistono) a smontare uno dei teoremi sui quali si basa il decreto sicurezza bis varato nel 2019. Enrico Contieri, giudice del Tribunale di Torre Annunziata, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in relazione alla norma che impedisce di applicare la formula della particolare tenuità del fatto al reato di resistenza a pubblico ufficiale. Roba da Stato etico, come scrive lo stesso giudice, buona solo a rimarcare il valore delle istituzioni sacrificando la libertà delle persone: osservazioni sulle quali la Consulta si pronuncerà probabilmente a breve. I fatti sono questi. Novembre 2019, Castellammare di Stabia. In un bar scoppia un diverbio tra un 28enne e un uomo accompagnato dalla moglie. Intervengono prima la municipale e poi i carabinieri. Il ragazzo, in preda all’ira, minaccia i vigili urbani e strattona un militare dell’Arma. Scatta l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Le prime udienze davanti al Tribunale di Torre Annunziata vengono rinviate causa Covid, ma nell’ultima arriva la sorpresa. Il giudice Contieri firma un’ordinanza con la quale sospende il processo e rimette il fascicolo alla Consulta. Il motivo? Nonostante non abbia tenuto comportamenti simili in precedenza e la sua condotta abbia arrecato “danni minimi al regolare funzionamento della pubblica amministrazione”, il 28enne non può beneficiare della formula della particolare tenuità del fatto ed è quindi destinato a essere condannato. E questo perché, in base al decreto Salvini bis, “l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni”. Il ragionamento del giudice Contieri è semplice. Innanzitutto, impedendo che al reato di resistenza a pubblico ufficiale si applichi la formula della particolare tenuità, “il legislatore introduce un automatismo sanzionatorio che costringe il magistrato a irrogare una pena anche in relazione a fatti che non ne hanno bisogno”. Quindi quella sanzione è irragionevole. Non solo perché non può rieducare il condannato, ma soprattutto perché punta esclusivamente all’riaffermazione simbolica del valore della norma violata. “L’applicazione di una pena anche minima a un illecito di particolare tenuità è una reazione sproporzionata dell’ordinamento - scrive il giudice Contieri - che sacrifica e banalizza la libertà dell’individuo”. E, quando una sanzione è tanto “ingiustificata e inutile”, comporta “un intollerabile sacrificio della libertà personale” e vale solo a rimarcare il valore dell’istituzione, si afferma “una concezione e sacrale” di quella stessa istituzione: il trionfo dello “Stato etico”, retaggio di “passate stagioni politiche”. Insomma, da Torre Annunziata arriva un bel colpo a quell’idea autoritaria e un po’ manettara dello Stato che Matteo Salvini, ad agosto 2019 ministro dell’Interno, ha tentato di affermare. Il primo a esprimere perplessità sulla norma contenuta nel decreto era stato Sergio Mattarella. Nel promulgare il testo, il capo dello Stato aveva parlato di scelta legislativa tale da impedire al giudice “di valutare la concreta offensività della condotta posta in essere”. Tradotto: promulgo il decreto, ma modificatelo presto perché certe norme sono assurde. Ora la palla passa alla Consulta: il diritto e la ragionevolezza prevarranno sull’autoritarismo? Carcere per i giornalisti, Consulta: “Solo se la diffamazione istiga all’odio e alla violenza” Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2020 I giudici costituzionali, nell’ordinanza con cui hanno dato al legislatore 12 mesi per formulare una nuova disciplina ritenendo “inadeguata” quella attuale, hanno specificato che il Parlamento “potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità. Bilanciare cruciale funzione di controllo dei pubblici poteri con rischi legati ai social network”. La Corte costituzionale ha dato un anno di tempo al Parlamento per riformare la legge che prevede il carcere per i giornalisti in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa e ha indicato come le pene detentive potranno al massimo riguardare i casi in cui l’offesa alla reputazione “implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”. La questione di legittimità è stata sollevata dai Tribunali di Salerno e Bari e, con l’ordinanza depositata oggi ma nota già dal 9 giugno, la Consulta ha rinviato l’udienza sulla decisione al 22 giugno 2021 in modo da consentire al legislatore di approvare una nuova disciplina, ricordando che la libertà della stampa è “cruciale” ma sottolineando tuttavia che tecnologie e social aumentano i rischi per la reputazione delle vittime. L’indicazione della Corte costituzionale, contenuta nell’ordinanza, è quella di una legittimità del carcere come pena solo nel caso in cui la diffamazione inciti all’odio e alla violenza. Il bilanciamento espresso dall’attuale legge, a parere della Corte, è divenuto ormai “inadeguato” e richiede di essere rimeditato dal legislatore “anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, che “al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata” l’applicazione di pene detentive nei confronti di giornalisti “che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui”. Ciò anche in funzione dell’esigenza di “non dissuadere i media dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri”. Il nuovo bilanciamento, prosegue la Consulta, dovrà “coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica” con le altrettanto “pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti”. Vittime, ragionano i giudici, “che sono oggi esposte, dal canto loro, a rischi ancora maggiori che nel passato” per via degli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”. Ad avviso della Consulta, quindi, un così “delicato bilanciamento” spetta “primariamente” al legislatore, ritenuto il soggetto più idoneo a “disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso - nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito - a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come in primis l’obbligo di rettifica)”, ma anche a “efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico”. In questo quadro, conclude la Corte costituzionale nel dare un anno di tempo per cambiare la legge, il Parlamento “potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, tra le quali si inscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”. Il carcere? Così come concepito è inutile di padre Lucio Boldrin formatrieti.it, 27 giugno 2020 Da settembre sono al servizio dei detenuti nel carcere di Rebibbia a Roma. In altre occasioni ho avuto modo di esprimere come in carcere lavorino molte persone bravissime nel compiere il proprio dovere. Educatori (spesso educatrici), psicologi, insegnanti, direttori, amministratori e anche guardie: si respira un’aria di professionalità che è impossibile da ignorare. La professionalità inoltre ti aiuta a mantenere un filtro personale alto. L’attività che svolgi dentro è molto coinvolgente sul piano emotivo. Quando dico molto intendo dire: assai. E non per qualche animella sensibile: per tutti, pure per “gli stronzi”. Allora a un certo punto hai bisogno per forza di raccontartela: mi coinvolgo emotivamente perché questo coinvolgimento è parte essenziale del mio servizio. Guai se mancasse. Altra sensazione è che le energie profuse là dentro siano abbastanza inutili: arginano un’onda che la mattina dopo rimonta uguale a prima. Una fatica necessaria a non affogare, ma una fatica di Sisifo (personaggio della mitologia greca - indica un’impresa che richiede grande sforzo senza alcun risultato). Il macigno di inutilità che questa gente ogni giorno tira su per la salita è l’inutilità intrinseca del carcere. Il carcere così come è non serve a niente. Non tirerò in ballo le opinioni di giuristi insigni o di grandi sociologi, tutti concordi nell’affermare che, così com’è concepito in Italia, il carcere sia uno strumento privo di efficacia (le trovate ovunque), ma riferirò una cosa che a me ha colpito da subito e che però non sento dire quasi mai. L’aspetto punitivo del carcere, quello che ci fa vedere come un castigo (per alcuni addirittura giusto, o meritato) la permanenza in una piccola cella di molte persone, con poco o nessuno spazio vitale a disposizione e zero privacy è ciò che a primo impatto più sconvolge chiunque ne visiti uno. Se non ci siete mai stati, pensate se qualcuno vi dicesse che da domani dovrete defecare davanti a sei o quattro persone, nella stessa stanza dove mangiate e dormite, se siete fortunati separati da una tenda: e che dentro a quello stesso bagno in cui defecate in sei, poi dovrete lavarci le stoviglie, la biancheria e pure voi stessi. Ecco, pensate solo a questo, cioè all’impossibilità di avere a disposizione momenti di personale e necessaria solitudine per tutto il tempo della vostra pena e avrete un’idea dell’inumanità di quella condizione. Ci siamo? Ci state pensando? Vi state sentendo inumani? Vi sentite ridotti un po’ a bestie? Ecco, ora vi dico un’altra cosa: in molti casi non è neanche una punizione. Quindi come punizione oltre a essere inumana è pure inutile. E in queste situazioni noi addetti ai lavori siamo chiamati a mantenere alto il senso del rispetto umano verso sé stessi, se non addirittura insegnarlo. Ben poco si riesce a fare se non si attuerà una riforma, attesa da troppo tempo. Recuperare alla società chi è stato in carcere è molto più di un atto di solidarietà. È un principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione italiana, che parla esplicitamente di rieducazione del condannato. Fatto che non avviene dato l’alto tasso di recidività dei reati che porta un 80-85% dei detenuti a ritornare in carcere. Come si può chiamare ciò se non un fallimento della tanta auspicata dimensione rieducativa che dovrebbe avere una detenzione carceraria? Il recupero e l’inclusione dei carcerati ed ex carcerati è un aspetto fondamentale nell’amministrazione della giustizia: troppo spesso l’esperienza della detenzione finisce per rafforzare l’esclusione del condannato e spingerlo a rientrare negli ambienti illegali e criminali anziché essere aiutato a rientrare in famiglia, cercare un lavoro, affrontare una società per cui è ormai un “etichettato”. Vi assicuro che molti hanno paura nel tornare in libertà. Il fine pena è vissuto con paura, incertezza, e solitudine umana e sociale. Qualche detenuto spera di terminare la sua vita in carcere: davanti ha solo il vuoto lavorativo e familiare. Quanti detenuti ho visto abbandonati dalla compagna, dai figli o da genitori che non li rivolevano a casa! Umanamente comprensibile in certi casi. Ma dove andranno queste persone se nessuno le vuole? Il carcere è sempre più lo specchio della società che viviamo all’esterno. L’elemento peggiore, causato dalla inefficienza di una vera riforma carceraria è che il carcere è divenuto la “discarica sociale”: un cercare di allontanare dagli occhi e dalla strada quelli che “consideriamo malati e pericolosi”, ma senza prendersi cura per cercare una terapia per il loro recupero. In carcere direi che, da quanto ho incontrato, circa un 60%, se non di più, è finito nei guai a causa della maledetta droga, ma vi sono anche persone cadute in povertà costrette a commettere reati o per necessità o ingenuità, malati psichici, barboni, stranieri e non pochi rom. Insieme a delinquenti, ladri e truffatori di professione, mafiosi e camorristi, assassini…ma anche innocenti. Tutti trattati nello stesso modo. L’unica differenza la fa “il dio denaro” anche in carcere. Denaro che ti permette di trovarti i migliori avvocati, e non avere solo quelli d’ufficio. Puoi permetterti di fare la spesa e mangiare quello che più ti aggrada facendolo venire da fuori. Il sabato e la domenica, anche da un ristorante convenzionato. Comprarti ciò che ti serve: dal tabacco a ciò che occorre per l’igiene personale, ai vestiti e alla biancheria intima. Senza dover attendere che sia il cappellano a portarteli, grazie all’aiuto di persone esterne, associazione e dalla Caritas. Una cosa che non comprendo è perché in carcere tutto debba costare di più. Anche in questo mondo si sta cercando di ricominciare dopo 100 giorni di lockdown causato dalla pandemia, tre mesi lunghissimi e pesanti per tutti. In carcere ancora di più: processi rinviati e che vanno già alla lunga per il muoversi pachidermico del nostro apparato giudiziario; sospese tutte le lezioni di ogni grado; interrotti gli incontri con i volontari, i familiari; sfumata la possibilità di lavorare all’esterno per chi ne aveva ottenuto il permesso. Tutto limitato tranne le lunghissime ore vissute in branda (in certi reparti 21 ore su 24), la mancanza di un abbraccio o di uno sguardo di un familiare, o dietro smartphone (da poche settimane e solo per 45 minuti ogni 7 giorni), se hai soldi e parenti in Italia. Più che mai questa pandemia ha reso urgente una revisione della realtà detentiva o la necessità di pene alternative alla carcerazione anche allo scopo di fare scendere il sovraffollamento presente e per il quale l’Italia è già stata sanzionata. Ma ciò sembra interessare ben pochi e così le carceri continueranno a partorire altri delinquenti: di chi sarà la colpa? Campania. Trattamenti disumani in carcere. L’Italia non è esente Vita, 27 giugno 2020 Il Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello e l’Osservatorio Regionale delle Carceri in occasione della Giornata Mondiale contro la tortura sollevano un argomento che purtroppo è più che mai attuale. “Nessun individuo deve essere sottoposto a tortura o, comunque, a trattamenti disumani e degradanti. La tortura si presenta in diverse forme e sfumature, che ancora oggi avvengono, con molti soprusi e costrizioni che rientrano nella triste categoria di cui sopra e che ledono la dignità di una persona. Pensiamo, ad esempio, ai trattamenti sanitari obbligatori, a quanti li subiscono senza poter far valere i loro diritti, ai detenuti del sistema carcerario campano caratterizzato da un fenomeno di sovraffollamento mai risolto che acuisce le tensioni nei penitenziari e il malessere di quanti ne condividono le criticità: carcerati e agenti. Pensiamo al logorio dei ristretti affetti da problemi psichiatrici che attendono a lungo un trasferimento alla Rems che non arriva, pensiamo agli immigrati fermati per strada, perché ebbri o considerati sospetti a prescindere, che vengono trattenuti in questura o, se nel primo caso, sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori, poi dimessi e abbandonati a sé stessi”, così Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà personale. Il Garante e l’Osservatorio Regionale delle Carceri tengono, quindi, a sollecitare “una riflessione collettiva sugli abusi ai danni di persone inermi”. Ciambriello infine invoca “un maggior impegno istituzionale nei confronti del problema e a una più profonda presa di coscienza a livello di opinione pubblica contro la tortura in tutte le sue articolazioni, sapendo che l’indifferenza è la migliore alleata di ogni ingiustizia”. Milano. “Punire equivale a far soffrire” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 27 giugno 2020 Parla Ruggero Giuliani, direttore sanitario di San Vittore. Il Centro clinico del carcere è diventato dal 7 aprile a tutti gli effetti il centro Covid della Lombardia. “1.500 tamponi fatti. Abbiamo fatto tracciare subito tutti i contatti di ogni positivo”. Il dottor Ruggero Giuliani è una di quelle persone che ti sembra di conoscere da sempre, anzi, che avresti voluto aver conosciuto da sempre, tanto che immediatamente ti perdi nella sua storia. E ti ritrovi a dargli del tu come se non fosse solo la seconda volta che lo vedi e come se non si fosse in una situazione oppressa dalle mura di una prigione. Oggi il dottor Giuliani è il direttore sanitario del carcere di San Vittore, reduce dalla battaglia con il Covid-19 e anche da quella con la rivolta dei detenuti del 9 marzo. Ma fino a poco tempo fa, con la collega (che casualmente è anche sua moglie) Teresa Sebastiani era operatore sanitario di Medici senza frontiere in Africa, per oltre dieci anni, in luoghi di guerra e in ultimo in Mozambico. È specializzato in infettivologia. Così è cascato da un anno dentro i gironi infernali di San Vittore proprio alla vigilia dell’arrivo di un virus che lui ha annusato abbastanza in fretta, pur se a tutti sconosciuto. Il racconto di questi mesi a San Vittore è l’immagine plastica di una sorta di bolla che si è (è stata) salvata pur all’interno della complicata situazione sanitaria lombarda. Nell’istituto, al numero due della piazzetta Filangieri cantata da tante canzoni della mala milanese come “Ma mi”, oggi ci sono circa 850 detenuti. Il che significa il venti per cento in meno dei 1000-1100 dell’era ante-Covid. Chiedo subito di chi sia il merito: dei giudici di sorveglianza o del decreto governativo? “No, il motivo principale è stata la riduzione delle attività investigative e della presenza dei presìdi di polizia nelle zone rosse”. Quindi, poiché zona rossa (o arancione) è stata tutta la Regione Lombardia, questo vuol dire non solo che forse in Italia ci sono troppi reati di strada, cioè la cosiddetta piccola criminalità, ma anche che si arresta con troppa facilità, come se il carcere fosse l’unica soluzione dei problemi di devianza o emarginazione. “Il carcere ormai - il dottor Giuliani ne è convinto - è l’ultimo luogo che si prende cura dei residuali. Li chiudi dentro, butti la chiave e li tieni lì. Forse in questo modo affronti qualche problema di sicurezza, ma dimentichi che punire equivale a far soffrire”. A San Vittore il 70% è composto da detenuti stranieri che non hanno neanche un domicilio, quindi è difficile applicare loro le misure alternative al carcere. Così è anche per molti anziani malati e soli. Sono questi i problemi. Qui non esistono reparti di alta sicurezza e neanche 41bis. Qui c’è la “normalità” di poveri ed emarginati per cui la detenzione pare l’unica soluzione di vita. O di sopravvivenza. Quindi, come è andata con il Coronavirus? “La prima regola, in presenza di un virus così contagioso, è ridurre il sovraffollamento. Ma in un carcere come questo, con piccole celle da 3 persone in nove metri quadri o grandi da 11 in 18 metri quadri, non puoi fare nessun distanziamento. L’unica soluzione è tenere sempre le celle aperte, cosa che si fa con molta ipocrisia dopo la sentenza Torreggiani (quando la Cedu ha condannato l’Italia per gli spazi ridotti per detenuto, ndr), così si contano anche i metri dei corridoi. Non potendo intervenire su questo aspetto, noi come prima cosa abbiamo chiuso porte e portoni, cioè sospeso i colloqui e bloccato l’ingresso degli esterni non indispensabili. Fin dal mese di febbraio avevamo prestato particolare attenzione alle polmoniti e ai detenuti cinesi o che comunque fossero arrivati dalla Cina”. Ma ci sono cinesi? Sorriso: “Certo, e adesso cuciono mascherine e camici che sono stati già omologati dal Politecnico”. San Vittore dispone di un ottimo Centro clinico interno, con venti medici e cinquanta infermieri. Con qualche operatore sociosanitario, un’ottantina di persone, che nei mesi scorsi si sono occupate quasi a tempo pieno della pandemia. “Con il Direttore Giacinto Siciliano abbiamo costituito una task force fin dal 23 febbraio, quando fu scoperto a Codogno il famoso paziente uno, e abbiamo intensificato tutte le misure di prevenzione. Poi il 9 marzo la rivolta ha rischiato di far saltare tutto. C’erano già state tensioni a Pavia e Voghera, penso ci sia stato una sorta di tam-tam. Ma quando penso ai volti dei “miei ragazzi” sul tetto mi vien da sorridere all’idea che qualcuno abbia pensato a una strategia per far insorgere i carcerati. Credo invece che loro fossero delusi perché speravano in una soluzione Iran, cioè carceri svuotate completamente. Comunque abbiamo superato quel momento, anche se abbiamo avuto problemi con i nostri agenti che erano andati a dare una mano fuori, cioè nelle altre carceri e che si sono contagiati”. Non sono uscite all’esterno molte notizie su quel che succedeva “dentro”, dopo i giorni della rivolta. “I primi casi si sono verificati all’inizio di marzo, ma solo per un paio di detenuti che sono transitati all’ospedale di Niguarda, dove hanno necessitato anche di piantonamento. Così si sono contagiati circa sessanta agenti, di cui il settanta per cento erano sintomatici. Ma in tutto la situazione grave si è limitata a un agente e un detenuto morti, purtroppo”. Questo è il momento in cui Ruggero Giuliani, che neanche per un attimo ha mostrato la vanità dei tanti virologi che in questi mesi hanno affollato le nostre tv, ha un moto d’orgoglio. Sembra quasi uno che crede davvero nelle virtù salvifiche del carcere. Perché a partire dal 7 aprile il Centro clinico di San Vittore è diventato a tutti gli effetti il “Centro Covid” di tutta la Lombardia. “Mentre tutti ci dicevano di scarcerare, noi pensavamo a curare. Abbiamo fatto 1.500 tamponi. Ogni volta che trovavamo un positivo, immediatamente, entro le ventiquattrore, abbiamo fatto i tracciamenti di tutti i contatti interni. E siamo intervenuti in modo rapido ed efficace a dare l’accesso alle cure. Fino a un certo momento eravamo anche riusciti a tenere separati i tre settori paralleli: detenuti, agenti e personale sanitario. Ma il 31 marzo era avvenuto il primo contagio interno, cioè il passaggio del virus da detenuto ad agente e viceversa”. È stato in quel momento che la task force ha fatto un vero appello ai detenuti. “Abbiamo bisogno di voi, abbiamo detto, e li abbiamo coinvolti sollecitando comportamenti attivi, con un decalogo di regole di prevenzione, con l’uso di mascherine e di igienizzazione di ogni oggetto presente nelle celle”. Insomma, è andata. “Abbiamo avuto l’ultimo positivo interno il 24 aprile. Complessivamente i positivi erano stati 22 detenuti su 550 e 60 agenti su 550. Poi ci sono arrivate 70 persone positive dalle carceri di tutta la Lombardia. Li abbiamo curati tutti, ora ne sono rimasti solo tre”. Tre è un numero di qualche giorno fa, relativo al momento dell’intervista. Inutile chiedere, infine, al dottor Ruggero Giuliani se sia favorevole all’amnistia o all’indulto. Lui crede molto nella riabilitazione sociale, nella formazione, nel lavoro. “Ci sono tanti reati di povertà”, scuote la testa, sconsolato. Se questo medico di frontiera vi ha dato l’impressione di essere un vecchio saggio giramondo, sappiate che ha solo 48 anni. Molto ben vissuti. Siracusa. “Due anni per un esame diagnostico ai detenuti”. Il Garante attacca l’Asp blogsicilia.it, 27 giugno 2020 “La nota dolente è rappresentata dal servizio sanitario a cura dell’Asp di Siracusa che la regione Sicilia dispone per assistere i detenuti. Troppa lentezza e burocrazia sia per esami diagnostici sia per interventi chirurgici programmati, che superano molte volte attese di 1 o 2 anni”. Lo afferma il garante dei detenuti del carcere di Siracusa, Giovanni Villari, che chiede un’inversione di tendenza soprattutto perché una corretta prevenzione ha il merito di salvare delle vite. Ma la lentezza degli esami diagnostici è, per il garante, solo uno dei problemi all’interno della struttura penitenziaria di contrada Cavadonna in cui ci sarebbero poche attività per il recupero dei detenuti. “Le rare attività di reinserimento - dice Villari - sociale in regime di semilibertà sospese durante la fase più difficile dell’emergenza sanitaria, solo ora stanno dando leggeri segni di ripresa. Attualmente possono ritenersi fortunati solo quei pochi detenuti a cui è affidato qualche servizio all’interno dell’istituto (manutenzione ordinaria; lavanderia; porta vitto; spesino). Altri hanno la possibilità di lavorare nel biscottificio annesso alla casa circondariale, sotto la cura della cooperativa Arcolaio, producendo dolci tipici e biologici utilizzando mandorle nostrane, bucce d’arancia, carrube. Poi ci sono coloro che lavorano nella tessitoria dell’istituto e producono lenzuola e federe ad uso interno. È degno di nota il lavoro di alcuni detenuti impegnati nel laboratorio di tessitoria, i quali hanno prodotto circa 10 mila mascherine protettive in cotone a trama fitta e doppio strato con tasca”. Inoltre, secondo il Garante dei detenuti del carcere di Siracusa, “la presenza della Magistratura di sorveglianza all’interno del carcere è, per la mole di lavoro da cui sono gravati i singoli magistrati, episodica, tanto che spesso i detenuti ne lamentano l’assenza. L’ufficio del garante desidera creare sinergie con l’Ufficio della Magistratura di sorveglianza, trovare disponibilità al dialogo e all’ascolto rispetto alle criticità riferite per garantire i diritti primari dei detenuti e dei soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà” Milano. #Ricuciamo: prove di produzione di mascherine nel carcere di Bollate di Marco Belli gnewsonline.it, 27 giugno 2020 Hanno iniziato a girare a pieno regime da stamattina le quattro macchine del progetto #Ricuciamo per la produzione industriale di mascherine chirurgiche nello stabilimento di Milano Bollate. Al momento si tratta soltanto delle prime prove di produzione, ma il ritmo di immagini e suoni che sono in grado di sprigionare rendono l’idea delle loro potenzialità molto più di mille parole. Le prove andranno avanti fino a tutta la prossima settimana. Attorno alle quattro macchine si alterneranno, nelle diverse fasi della produzione, un totale di 144 detenuti che opereranno 24 ore su 24: nove addetti per ogni macchina, per quattro turni di lavoro da sei ore ciascuno. Nei prossimi giorni saranno inoltre messi a punti i protocolli per la sanificazione dell’area industriale e per la certificazione delle attività. L’inizio della produzione vera e propria è previsto per la seconda settimana di luglio, con un quantitativo iniziale stimato intorno alle 200mila mascherine al giorno. Il progetto #Ricuciamo per la produzione industriale di mascherine protettive è nato lo scorso 26 maggio con la firma apposta da Arcuri e Bonafede sul Protocollo d’intesa fra il Commissario straordinario di governo per l’emergenza Covid-19 e il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Proprio nell’istituto milanese di Bollate, il Capo del Dap, Bernardo Petralia, e il coordinatore del team “Riconversione Incentivi” del Commissario per la gestione dell’emergenza Covid-19, Ernesto Somma, presentarono il progetto insieme ai cinque partner privati che si sono uniti in fase di start up: Italia Camp, per la promozione istituzionale dell’iniziativa, la formazione ed informazione ai detenuti e al personale coinvolto nelle tre sedi penitenziarie; Boston Consulting Group, per i rapporti con il produttore delle macchine e le forniture delle materie prime; Comau e Fca Group, specializzata in robot di saldatura e in macchine per magazzini automatizzati, per il montaggio e la certificazione della macchine, per lo sviluppo e la realizzazione di processi di automazione, soluzioni e servizi di produzione; e infine Manpower, per l’ingaggio degli operation manager/capi turno che si alterneranno nella conduzione della produzione in carcere. In totale sono otto le macchine arrivate dalla Cina che fra poco entreranno a regime, consentendo di produrre fino a 100mila mascherine al giorno per ciascuna macchina: oltre alle quattro di Milano Bollate, due sono nell’istituto penitenziario di Salerno e due nel Polo di Roma Rebibbia presso il Servizio di Approvvigionamento e Distribuzione Armamento e Vestiario (Sedav). Milano. Marco, che insegna ai detenuti di Opera: “L’emozione della prima Maturità” di Marco Zonca bergamonews.it, 27 giugno 2020 Il 36enne professor Rovaris: “L’insegnamento in carcere? Un’esperienza umanamente arricchente”. “Sono emozionato, è la prima Maturità che affronto insieme ai miei studenti, anche se il fatto di non aver potuto avere alcun tipo di contatto ha messo un po’ in crisi me e i miei colleghi. Abbiamo immaginato quanto potesse essere pesante anche per gli alunni, abituati a vederci tutti i giorni”. La Maturità, affrontata durante la pandemia di Covid-19, è una triste novità per tutti, a causa delle limitazioni imposte. Ancor di più per chi, come Marco Rovaris, insegna all’interno del carcere milanese di Opera. “Non abbiamo potuto fare lezioni online. Come i miei colleghi, l’unico legame che ho potuto avere in questi tre mesi di lockdown sono state le dispense, mandate ad ogni studente, con il materiale da studiare. Quello che è mancato di più, però, è il confronto quotidiano”. Traspare, dalle parole di Marco Rovaris (36enne di Bergamo, una laurea magistrale in Lettere), la passione per l’insegnamento, in particolare verso il compito svolto all’interno del carcere milanese, raggiunto dopo un periodo di insegnamento trascorso alla casa circondariale di Bergamo. “Diciamo che la mia esperienza all’interno del mondo della scuola è un po’ particolare. Non ho mai insegnato in scuole diurne, con ragazzi adolescenti”. La prima esperienza, partendo dalla terza fascia, nel 2015 come supplente al carcere di Bergamo, dove ha insegnato per due anni. Poi il concorso per l’immissione in ruolo nel 2016 e, dopo un anno passato al serale dell’ITIS Paleocapa, il desiderio di tornare ad insegnare in carcere. “Nel 2018 ho chiesto il trasferimento, ed ora sono ad Opera, a Milano”. Una scelta precisa, quella di Marco Rovaris, dettata, prima di tutto, dal desiderio di ricreare un rapporto insegnante-studente costruito sull’arricchimento personale comune, vissuto da ambo le parti. “Il confronto con persone adulte o comunque maggiorenni ha un percorso che nasce in modo opposto rispetto all’insegnamento agli adolescenti. Nessuna imposizione familiare, nessun obbligo statale: le persone a cui insegno sono di fronte a me perché l’hanno scelto, perché hanno desiderio di imparare, di conoscere, di arricchirsi culturalmente come persone”. L’insegnamento in carcere amplifica ancora di più questo aspetto. “Nonostante anche gli adulti nei corsi serali avessero delle motivazioni forti per studiare, insegnare in carcere arricchisce molto l’aspetto umano e il rapporto fra persone. Insegnando italiano e storia, l’importanza verso il confronto traspare ancora di più. Diventa molto più arricchente dare vita a dibattiti con persone che, tra le varie motivazioni, hanno quella di ricrearsi una quotidianità ed abituarsi ad una nuova vita da trascorrere nella legalità, imparando a rispettare le regole”. Rovaris racconta l’amore verso il proprio lavoro, che porta avanti come una vera e propria passione, quasi una missione. “Anche per background, mi trovo molto vicino a queste persone. Aver vissuto diverse esperienze nella vita, mi ha consentito di deviare da una strada già predefinita, tracciata da altri. Questo mio essere è il punto fondamentale che mi ha spinto a tornare ad insegnare in carcere”. Il Covid-19, in questo periodo, ha però stravolto tutto, sia per quanto riguarda l’insegnamento, sia per le tensioni che si sono manifestate all’interno delle carceri. “La scuola è finita e non me ne sono accorto - ha scritto Marco Rovaris in un post sui social network - Non ho salutato né visto nessuno. Non guardo in faccia i miei studenti dal 22 febbraio, nemmeno in video-chat, né li ho sentiti. Gli aggiornamenti sono fumosi e dilazionati. Qualcuno è stato messo in isolamento durante le rivolte, qualcuno si è fatto male in modo serio, qualcuno è stato trasferito e forse non lo rivedrò più. Altro non è dato sapere. Si è spezzato un cordone che lascerà degli strascichi pesanti in un posto come quello dove lavoro, dove il concetto di tempo non esiste, ma è solo un macigno da trascinare a vuoto. Laddove il diritto allo studio sembra un vezzo da appiccicare a random a un discorso, per qualcuno è semplicemente aria da respirare. O almeno, dovrebbe”. Con la diffusione delle notizie in merito alla pandemia, in diversi carceri d’Italia, tra cui quello di Bergamo e quello milanese di Opera, ci sono state proteste e momenti di tensione. “L’obiettivo di contingentare le notizie all’interno, secondo me, è stato quello di tutelare al massimo i carcerati, evitando di creare preoccupazioni ulteriori” - spiega Rovaris - Il fatto che comunque nelle strutture ci siano televisioni e radio ha creato forte tensione, perché le notizie potevano, di fatto, circolare. In carcere si vive un po’ fuori dallo spazio e dal tempo, i detenuti probabilmente sono andati nel panico ed hanno reagito nelle maniere più svariate. Secondo me, tutto è nato dalla paura di non essere bene a conoscenza di ciò che stava accadendo fuori”. Marco ha sottolineato poi l’importanza del diritto allo studio. Un diritto che, insieme ai suoi colleghi, vuole ribadire, portando avanti la propria missione, sempre nel rispetto delle regole. “Fortunatamente riusciamo a fare gli esami di maturità in presenza. Gli studenti si sono trovati davanti a noi, tutti muniti di mascherina, con dispenser di gel igienizzante, penne personalizzate e mascherine, rispettando naturalmente il distanziamento. Non possiamo consegnare personalmente i diplomi, per limitare i contatti: è un dispiacere non potersi congratulare di persona con alunni che abbiamo accompagnato lungo questo percorso. L’esame di maturità rimane sempre un momento chiave nella vita di tutti”. Un momento emozionante, da una parte o dall’altra delle sbarre. Velletri (Rm). 13 detenuti si diplomano periti agrari col progetto del “Battisti” ilcaffe.tv, 27 giugno 2020 Dall’Anno Scolastico 2010/2011, l’Istituto Tecnico Cesare Battisti veliterno ha iniziato un percorso d’istruzione a favore dei detenuti della Casa Circondariale di Velletri con il corso di studi di perito agrario. In questi giorni si sono svolti gli esami di stato online, i maturandi erano 13, da segnalare che fra di loro si è diplomato uno studente di 71 anni, di Anzio, ed altri di varie età e nazionalità della zona dei Castelli, Latina e Roma. Il referente della scuola presso il carcere, il professor Antonino Marrari si è congratulato con i neo diplomati ed ha detto: “Che questo traguardo raggiunto possa essere una forma di riscatto e di stimolo per intraprendere un nuovo percorso di vita, e la scuola e lo studio è statisticamente provato che aiuta molto in questo, come dice sempre il nostro dirigente scolastico professor Dibennardo, che segue le evoluzioni e gli sviluppi di queste iniziative in carcere”. A seguito della pandemia da Covid-19 e alla conseguente interruzione delle lezioni nel penitenziario veliterno che ospita centinaia di detenuti, ci si è immediatamente attivati nell’organizzazione della didattica a distanza. “Ringrazio la direttrice del carcere Maria Donata Iannantuono e la dirigente Sabrina Falcone responsabile area pedagogica educativa che si sono prontamente mobilitate ad attrezzare con i mezzi a disposizione le aule per la DaD in particolare per gli studenti della classe quinta, dato che dovevano sostenere gli esami di stato; questo accadeva già dalla fine di marzo, riprende il professor Marrari. Si fa presente che il “modello Velletri” sulla Didattica a Distanza è stato preso ad esempio dall’ufficio scolastico regionale. Inoltre un ringraziamento speciale va al personale della polizia penitenziaria e al dirigente del Cesare Battisti il professor Eugenio Dibennardo, che si è tanto impegnato da molti anni in questa lodevole iniziativa e che ci ha dato la possibilità di continuare con passione e impegno questo progetto”. Al professor Marrari, è arrivata in mattinata, una mail, di un detenuto diplomatosi, in cui lo ringrazia per il tempo e la cura avuta durante le lezioni, perché lo hanno fatto sentire una persona libera, un vero studente, tutto questo grazie alla cultura e al suo impegno. *Nella foto 11 dei 13 diplomati in perito tecnico agrario, che hanno fornito al professor Marrari la liberatoria per la pubblicazione. Orvieto (Pg). Progetto carcere: tre detenuti diventeranno giardinieri Il Messaggero, 27 giugno 2020 Lavoro fuori dal carcere per tre detenuti della casa circondariale di Orvieto, grazie al progetto Orto 21, sostenuto dalla Regione Umbria e dall’Otto per mille della chiesa valdese. A gestirlo, attraverso il patto di collaborazione con il Comune di Terni, è l’associazione Demetra, che ha dato il via al percorso culturale e artistico per la cura e la rigenerazione dell’area verde del Centro di Palmetta, nel capoluogo. Questa, nei prossimi mesi, sarà riaperta e fruibile da tutta la cittadinanza. Per sei mesi i tre detenuti si dedicheranno ad attività formative e pratiche di giardinaggio, orticoltura e frutticoltura. In affiancamento ci saranno dei tutor, un agronomo e i volontari dello stesso Centro di Palmetta. Il progetto Orto 21 è realizzato in collaborazione con la casa circondariale di Terni, l’ufficio di esecuzione penale esterna di Terni, l’associazione Ora d’Aria, l’associazione Zoe, la cooperativa sociale Edit, la scuola edile, Mercato Brado e cooperativa mobilità trasporti. Oltre alla formazione e al lavoro i tre detenuti saranno coinvolti nelle altre attività dell’associazione Demetra, in particolare con “Radici”, la residenza artistica dedicata alla Land Art e a tutte le pratiche creative inserite nel paesaggio prevista nell’area verde del centro. Qui verrà ultimata la realizzazione del primo parco cittadino di “Arte Ambientale”, gratuito e aperto al pubblico. Rieti. Diploma per cinque detenuti grazie alla scuola del Rosatelli Corriere di Rieti, 27 giugno 2020 Nella Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso hanno raggiunto la maturità cinque detenuti che frequentano la scuola carceraria. Nonostante il Covid 19, i tragici disordini che si sono verificati e le enormi difficoltà che hanno ostacolato la didattica a distanza, la determinazione dei neo maturandi, li ha portati a raggiungere il duplice obiettivo di essere i primi cinque diplomati all’interno del carcere e di essere i primi, nella provincia di Rieti, a conseguire il diploma ITT, indirizzo Informatica e Telecomunicazioni articolazione Informatica, uno degli indirizzi Tecnico Tecnologici dell’Istituto di Istruzione Superiore Celestino Rosatelli di Rieti. “I diplomati - ha commentato la dirigente scolastica Daniela Mariantoni - hanno acquisito un diploma che faciliterà il loro reinserimento nel mondo del lavoro. Nonostante le difficoltà organizzative, i risultati sono stati più che soddisfacenti. Il sapere è la medicina che cura ogni male”. I cinque saranno anche gli ultimi a diplomarsi in informatica nella nostra provincia, perché tale indirizzo è stato sostituito con l’indirizzo professionale in Manutenzione e Assistenza Tecnica. La scuola in carcere continuerà ad operare anche il prossimo anno, grazie agli insegnanti, non solo delle superiori, ma della scuola secondaria di primo grado del Centro Provinciale Istruzione Adulti di Rieti. Il personale docente garantisce il diritto all’istruzione anche a chi vive il carcere, dove è in corso un cammino di recupero di uomini che, a fine pena, saranno nuovamente inseriti nella società. Civitavecchia (Rm). La vita in un carcere diverso dagli altri di Giuseppe Rizzo Internazionale, 27 giugno 2020 “Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente”. Il deserto dei Tartari, Dino Buzzati. C’è una vecchia barzelletta che descrive bene il rapporto tra l’Italia e le sue carceri. La storia ha per protagonista un detenuto. Da anni l’uomo prova ad ammaestrare due pulci perché spera che lo aiutino a guadagnare qualcosa quando sarà libero. Il giorno che i cancelli si aprono, mette i due animali in una scatola e va in un bar. Seduto a un tavolino, l’ex detenuto prova il suo numero. Funziona. Quando arriva il cameriere, gli dice: “Le vedi queste due pulci?”. Il cameriere non capisce, si mortifica. Pensa che l’uomo voglia rimproverarlo per la poca pulizia del locale. “Mi scusi”, dice. E uccide le pulci. Tra le migliaia di persone che ogni anno entrano ed escono dal carcere, qualcuno ha un suo numero da provare una volta in libertà; qualcun altro i numeri comincia a darli in cella; certi non hanno mai avuto granché da giocarsi. A tutti viene detto che non ci sono alternative alla prigione. Glielo dicono nella stragrande maggioranza delle carceri, glielo dice la stragrande maggioranza dei politici, glielo dice la stragrande maggioranza della società. E così negli anni le celle si sono riempite fino a contare più di 60mila detenuti per 50mila posti disponibili. Quattro, cinque, sei persone sono state ammassate in pochi metri quadri, mentre fuori un gran coro ha ripetuto che non c’erano alternative. La pandemia ha mostrato che non è vero. La paura che le prigioni si trasformassero in focolai ha spinto il governo ad approvare in fretta e furia un decreto che ha consentito a chi aveva pochi mesi ancora da scontare, o a chi era stato condannato per reati non gravi, di accedere a pene alternative alla detenzione. L’alternativa, dunque, c’era: c’è sempre stata. In due mesi si sono registrate circa ottomila presenze in meno negli istituti, senza che questo trasformasse l’Italia - come qualcuno ha sempre detto per ingrossare la bolla della paura e del risentimento - in un paese in mano alla criminalità. Dal 1 gennaio al 31 marzo 2020 i delitti sono diminuiti del 29,2 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019, a parte l’usura che durante il lockdown è cresciuta del 9,6 per cento. Il caso di Civitavecchia - Le alternative al carcere ci sono, ma bisogna volerle vedere. Una la porta avanti chi si sforza di trasformare il tempo vuoto passato nelle celle - spesso rabbioso, sicuramente controproducente -, in qualcosa di più produttivo, di più umano. Qualcosa che prepari, accompagni e sostenga il ritorno in libertà di una persona che ha commesso un reato. È un’alternativa difficile da costruire, perché in quasi tutte le 191 carceri in Italia il sistema non fa che perpetuare se stesso - il rumore degli ingranaggi che non funzionano e che stritolano le persone non si sente neanche più, né dentro né fuori. Ecco come funziona: si aprono le celle, si chiudono le celle, si chiedono permessi, si rifiutano richieste. Si alimentano depressioni e si distribuiscono psicofarmaci. In generale si aspetta che i giorni, i mesi e gli anni passino, e infine si liberano persone che si sono incattivite o annichilite. Salvo pochissime eccezioni, questo è la norma della galera in Italia. Entrambe le cose, la norma e l’eccezione, si possono osservare a Civitavecchia. Nella piccola cittadina sul mare a cinquanta minuti di treno da Roma ci sono due carceri nel giro di sei chilometri e mezzo. Una è una casa circondariale, cioè un posto dove finiscono le persone ancora in attesa di giudizio, quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni e quelle che devono scontarne ancora cinque. L’altra è una casa di reclusione, dove vanno i condannati in via definitiva. Il primo lo chiamano Nuovo complesso, anche se in realtà risale al 1992. Formato da enormi blocchi e lame di cemento, mura alte e recinzioni di ferro, occupa 193mila metri quadrati lungo la via Aurelia. Per raggiungerlo o si prende la macchina o si aspetta un autobus che parte dalla stazione di Civitavecchia ogni due ore e mezza. Avrebbe posto per 350 persone, ma in media negli ultimi anni ce ne sono sempre state più di 500. Nel 2018 duecento si sono fatte male con atti di autolesionismo. Il secondo porta il nome di Giuseppe Passerini, appuntato ucciso da un detenuto nel 1974. È in via Tarquinia, a pochi passi dal centro e si affaccia sul porto. Voluto da papa Pio IX nel 1864, è uno dei primi penitenziari realizzati nel Regno d’Italia, e ne porta tutti i segni. L’architettura rispecchia infatti i panottici che si costruivano allora, con tanti bracci intorno a un nucleo centrale dal quale si potevano tenere sott’occhio tutti gli ambienti. Ci sono 140 posti, ma i detenuti sono una settantina. Negli ultimi anni non ci sono stati atti di autolesionismo. Parlando con alcune delle persone che sono state in entrambi gli istituti - la direttrice, due ex detenuti, un poliziotto, una regista teatrale - succede che tutte a un certo punto scuotano la testa. Le architetture e i numeri non gli bastano per esaurire le differenze tra i due luoghi. Devono ricorrere alle proprie storie e alle proprie esperienze per spiegare il tentativo di mettere in pratica delle alternative a un sistema che così per com’è stato ideato e per come ancora si tiene in piedi è inefficace, costoso e lontano dalla funzione riabilitativa della pena prevista dalla costituzione italiana. Patrizia Bravetti, direttrice dei due istituti di Civitavecchia - Io sono diventata direttrice della Passerini nel 2009, e dal 2017 dirigo anche il Nuovo complesso, che si trova nella periferia della città. Le due strutture sono diverse per molti aspetti. Nella prima ci sono circa settanta detenuti, mentre nella seconda sono circa 400. Nella Passerini c’è solo chi ha avuto condanne definitive, mentre nel Nuovo complesso tanti stanno attraversando la fase critica del processo, durante la quale devono affrontare spese anche ingenti, oltre che possibili rotture con i propri familiari o amici. È una fase turbolenta, che può durare anche anni, e durante la quale si ingigantiscono ed esasperano i problemi che hanno portato una persona in carcere, che siano legati alla tossicodipendenza o alla violenza. Un’altra differenza tra le due strutture è negli spazi. Il Nuovo complesso è un carcere classico, la camera rimane aperta per almeno otto ore al giorno. Ci sono orari per tutto, e non si può fare altrimenti. Alla Passerini c’è più flessibilità. Un detenuto può scegliere quando andare in palestra o in biblioteca, in barberia, nella sala hobby. E tutti devono prendersi cura di questi spazi. Nell’insieme, questi luoghi formano quasi un piccolo borgo. Un’architettura che ha degli effetti positivi. Il clima è più disteso e collaborativo. Non è che non ci siano regole, anzi, chi sbaglia sa che sarà trasferito. Si lavora molto sulla responsabilizzazione di una persona, aiutandola a fare i conti con la propria storia, con i delitti commessi e con le loro conseguenze. Lo si fa con psicologhe ed educatrici. E poi si fanno corsi, laboratori e collaborazioni con realtà esterne. Alcune delle persone che sono uscite dalla Passerini sono poi rimaste a vivere a Civitavecchia, dove si erano fatte conoscere attraverso progetti di formazione e lavoro. Altre sono tornate dalle loro famiglie. Naturalmente, ci vuole una scelta di base da parte loro. Se non gli si fa vedere un’alternativa, se non la si costruisce, tenderanno a replicare gli stessi comportamenti che li hanno portati in carcere. Marco Elia, ex detenuto, venditore ambulante - Io sono stato alla Passerini per tentato omicidio. Mi ero separato da mia moglie e c’erano sempre liti tra di noi. Una sera del 2013, alla fine dell’ennesima discussione, le ho tamponato l’auto mentre era a bordo. Non andavo veloce, ma le ho rotto un piede. Il processo è andato male e sono finito in carcere, a 54 anni. Non era la prima volta. Sono cresciuto nel quartiere Prati, a Roma, in una famiglia senza problemi, i miei genitori lavoravano ed erano affettuosi. I problemi sono cominciati quando ci siamo trasferiti a Ostia e ho conosciuto dei ragazzi con cui ho cominciato a provare di tutto. Per anni mi sono fatto di eroina, e per pagarmela ho fatto furti e rapine. Sono andato avanti così fino ai 18 anni, quando mi hanno beccato e arrestato per furto d’auto. Erano gli anni ottanta, la droga era dappertutto. A tirarmi fuori mi ha aiutato la comunità di don Pierino a Benevello, in provincia di Cuneo. Uscii da lì nel 1987 e cambiai vita. Lavoravo e intanto mettevo su famiglia. Il carcere era un ricordo lontano, ma la verità è che in tutti quegli anni non avevo risolto i problemi che mi ci avevano portato. Li avevo solo sepolti dentro di me, tant’è vero che sono riesplosi nel 2013. Questa cosa, naturalmente, non l’ho capita subito. Quando sono tornato in cella, prima a Regina Coeli e poi al Nuovo complesso, per anni ho avuto degli incubi. Ero grande, intorno a me vedevo tanti ragazzi che facevano gli sbagli che avevo compiuto anche io alla loro età, che si riempivano la testa di stronzate. Non pensavano ad altro che a fare il prossimo reato. Ma del resto, in carceri come quelle, non è che c’è molto altro da fare: il tempo si ferma, la vita diventa una palude, i problemi non si affrontano. Io ho cominciato a farlo lavorando con la psicologa e con l’educatrice della Passerini. Mi spronavano - a volte provocandomi - ad analizzare la mia storia e i miei errori. Mi facevano vedere le cose da una prospettiva diversa. Un altro tassello importante è stata l’esperienza con la compagnia teatrale di Ludovica Andò. Quando abbiamo lavorato su “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, mi sono accorto che la storia del sottotenente Giovanni Drogo che passa la vita chiuso in una fortezza, da guardiano e da recluso allo stesso tempo, aveva molti punti in comune con la nostra situazione e a me personalmente mi ha spinto a riflettere parecchio sul passare del tempo in prigione. Naturalmente, la spinta per fare tutto questo deve venire da dentro e poi bisogna essere forti quando si esce. Spesso si è soli. Per me, per esempio, a 57 anni è durissima. Ma chi mi sta vicino sa che sono cambiato. Il teatro mi ha aiutato a spogliarmi della corazza con cui sono entrato in carcere. Ho imparato a gestire il giudizio degli altri, la mia chiusura, la mia rabbia. Ludovica Andò, regista teatrale - Il teatro sfida le persone che lo fanno. In un ambiente come il carcere può sembrare un’attività marginale, ma in realtà è uno strumento molto utile, che insieme ad altri può costruire un’alternativa educativa e riabilitativa per una persona. È quello che posso dire dopo undici anni di esperienza. Certo, anche le strutture contano. Lavorare al Nuovo complesso significa farlo con centinaia di persone in attesa di giudizio, quasi sempre in condizioni emergenziali, un vero marasma. Quel carcere, con i suoi colori grigi e le sue linee solo rette, è come se plasmasse il modo di pensare delle persone, irrigidendolo. La Passerini è un altro mondo, tanto che prima della chiusura per via della pandemia, siamo riusciti a girarci anche un film. L’idea di lavorare su Il deserto dei Tartari, da cui prima avevamo tratto uno spettacolo teatrale, è stata di Emiliano Aiello ed è stata un’idea un po’ pazza, ma alla fine ha permesso ai detenuti di misurarsi con temi anche non facili, dalla reclusione alla solitudine, dall’assurdità dei regolamenti al confronto con il mondo di fuori. Il film l’abbiamo girato in 17 giorni ed è la dimostrazione di quello che si può fare in un carcere più aperto. Non trovandosi di fronte a numeri mastodontici, la psicologa e l’educatrice possono seguire meglio le persone, e i progetti per il reinserimento sono più solidi: molti passano la loro giornata fuori a lavorare e poi rientrano la sera, per esempio. E anche le misure alternative sono importanti, perché prevedono un confronto continuo con il mondo esterno e maggiore responsabilizzazione. Per permettere tutto questo è fondamentale anche l’impegno degli agenti. Alla Passerini la polizia penitenziaria collabora con le altre figure perché sa che ci saranno effetti positivi sull’intera struttura, e quindi anche sulle loro giornate. Pasquale Olivieri, agente di polizia carceraria - Io ho 48 anni e 29 di servizio. Di carceri ne ho visti tanti. Ho lavorato ad Asti, a Rebibbia, al circondariale di via Aurelia. La giornata lavorativa in strutture grandi è sempre faticosa. Le tensioni con i detenuti sono tante e continue, le cose da fare molte, l’attenzione deve essere sempre al massimo. Naturalmente l’attenzione è massima anche in strutture come la Passerini, e anche lì ci sono delle regole da rispettare. Ma tutto questo si accompagna a un lavoro di responsabilizzazione. Il fatto che puoi frequentare la palestra, la sala musica o la biblioteca in orari meno rigidi, e che di questi spazi ti devi prendere cura, rispettando sia i tuoi compagni sia l’amministrazione, aiuta il detenuto a cambiare il modo che ha di pensare. Tanti non ci sono abituati, e questa cosa li destabilizza. Psicologi, operatori e professionisti li aiutano. E poi li preparano a ritornare in libertà. Francesco Montella, ex detenuto, elettricista e autista di mezzi pesanti - È una cosa complicata. Non è che un carcere più aperto risolve tutti i problemi. Non è che il teatro, il gruppo di musica, la psicologa, i corsi di formazione fanno i miracoli. Però sono tutte cose che messe insieme - con il presupposto che dentro di te qualcosa ha cominciato a dire basta, e magari con il pensiero che fuori c’è ancora una famiglia o qualcuno che ti vuole bene - ti fanno crescere e ti fanno cambiare. Di sicuro, il carcere normale non fa niente per evitare di tornare a fare cazzate, anzi. Io la prima volta che c’ho messo piede era il 1988, condannato per possesso di droga e di un’arma da fuoco. Avevo 27 anni e quando sono uscito ero ancora più matto. Non ero un santo, ma il carcere ti cambia. È anche una questione di sopravvivenza. Stringi amicizie, parli con gli altri, ti difendi e ti esalti. Impari dai tuoi compagni come si fa questo o si fa quello, fai una specie di gavetta. Quando sono uscito, ero ancora più incazzato di quando sono entrato, e questo ti fa sbagliare. Ho fatto rapine, furti, ricettazioni. Naturalmente m’hanno beccato e le condanne si sono sommate fino ad arrivare a quasi 25 anni di carcere. Da marzo 2016 sono libero, ma faccio ancora i conti con questo passato, me lo ritrovo davanti ogni giorno. Se mi fermano a un posto di blocco mi smontano la macchina perché dal casellario giudiziario vedono la mia situazione e si insospettiscono. Se mi presento a un colloquio di lavoro mi chiedono il certificato penale. Racconto sempre la mia storia, ma non tutti si fidano. Se sono cresciuto, in parte è stato anche merito del lavoro con il gruppo di Ludovica Andò. Alla Passerini di Civitavecchia ho dato una mano a realizzare la sala musica. E poi al teatro c’è ancora l’impianto di luci che ho fatto io. Ho anche recitato, e questa cosa ti mette a nudo, devi smettere di fare il duro, lo spavaldo, sei più fragile. E ci devi fare i conti. I progetti ti aiutano a superare certi momenti duri, a non andare in depressione, a scaricare la rabbia e quello che hai dentro. Sono pezzi di un percorso. La famiglia è un pezzo importante. Per me sono stati fondamentali mio figlio e mia madre. È per loro che ho detto davvero basta, che sono riuscito a sistemarmi da solo questa piccola casa a Torre Spaccata e che penso che anche se certi giorni non mangio, va bene lo stesso, ma non torno a fare la vita di prima. Certo, bisogna considerare una cosa. In galera tutti ti tendono la mano, ma appena metti un piede fuori, sei di nuovo da solo con te stesso. Sì, ci sono le cooperative che magari all’inizio ti danno una mano. Trovi un lavoro part-time, ma sono 300-400 euro al mese, come vivi? La situazione è complicata per tutti, ma tanti di noi sono persone a rischio, come si dice. Allora ci dovrebbe essere un’attenzione in più. Bisognerebbe che certi percorsi che cominciano in strutture come quella di Civitavecchia poi proseguissero pure fuori. “Fortezza” - Girato da Ludovica Andò ed Emiliano Aiello nella casa di reclusione di Civitavecchia, Fortezza (Italia, 2019, 72’) è la rilettura del romanzo Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. La pellicola è stata selezionata alla Festa del cinema di Roma, al festival di Rotterdam nei Paesi Bassi e a quello di Olhão in Portogallo. Le foto di questo articolo sono state scattate sul set e dietro le quinte dello spettacolo teatrale che ha preceduto le riprese. Il governo teme il triplo fronte: Covid, economia e immigrati di Massimo Franco Corriere della Sera, 27 giugno 2020 La pandemia aveva tolto l’immigrazione dai radar. Ma adesso minaccia di riaffiorare, e con la miscela potenzialmente esplosiva dei barconi dei disperati dall’Africa. Al momento si manifesta solo come appendice di una rissa politica e personale tra il leader leghista Matteo Salvini e il presidente della Campania, il pd Vincenzo De Luca. Rissa nella quale, dopo molti colpi ricevuti, Salvini cerca di prendersi la rivincita additando il focolaio di Covid 19 scoperto tra una comunità di immigrati bulgari vicino Caserta, a Mondragone; e dandone naturalmente la colpa a De Luca. Può apparire uno scontro elettorale locale, visto che nella regione si vota a settembre. Eppure, evoca fantasmi che potrebbero presto diventare nazionali. Il tema sta dando qualche brivido a una maggioranza che pensava di avere disarcionato Salvini dal suo principale cavallo di battaglia. La pandemia aveva tolto l’immigrazione dai radar. Ma adesso minaccia di riaffiorare; e con la miscela potenzialmente esplosiva dei barconi dei disperati dall’Africa, da sommare alle comunità dei lavoratori stranieri sottopagati e “invisibili” già presenti nelle periferie più estreme. La novità consiste nel rischio di uno scontro tra queste realtà e le comunità italiane a diretto contatto con loro, colpite insieme dalla crisi economica e dal pericolo di contagio. Il fatto che Salvini abbia annunciato che lunedì andrà a Mondragone conferma quanto la tensione possa essere usata strumentalmente ed esasperata. D’altronde, al capo del Carroccio non sembra vero di poter ritornare sul terreno che in questi anni gli ha dato visibilità e consensi. “Se gli sbarchi triplicano i ghetti ritornano”, ha detto ieri. “Sono onestamente molto preoccupato. Gli ultimi dati danno 200 sbarchi al giorno”. Probabilmente, è una apprensione che si mescola alla consapevolezza che se si ricrea un’emergenza del genere, lui ha tutto da guadagnare. Spinte centrifughe nel M5S - Può attaccare un Viminale che in questi mesi, con una politica silenziosa ma efficace, ha arginato i problemi creati dall’epidemia. E può sperare di risalire in sondaggi che da tempo lo danno costantemente in calo. Non è da escludersi che di fronte a un peggioramento della situazione si arrivi a creare un commissario all’emergenza concentrato su Covid e immigrazione, da affidare a una sorta di superprefetto. Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, l’ha già proposto. Alla fine dovranno decidere il ministro della Sanità, Roberto Speranza, e quello dell’Interno, Luciana Lamorgese. Scelta non facile, perché si inserisce in una fase di grande nervosismo. Tra defezioni e spinte centrifughe nel Movimento Cinque Stelle, e divergenze tra grillini, Conte e Pd sul prestito europeo del Mes, e non solo, Palazzo Chigi vive in bilico. Il premier continua a riscuotere indici di gradimento alti, ma i suoi alleati faticano a tenere. E, per quanto l’alternativa non ci sia e la destra fatichi a mostrarsi compatta, essere esposti sul fronte triplo della crisi economica, dell’immigrazione e del Covid potrebbe far vacillare anche un esecutivo definito “obbligato” come quello di Conte. Salvini, i porti chiusi e il virus di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 giugno 2020 La pandemia diffusa dal migrante diventa un mantra sovranista. Fermiamolo. Matteo Salvini è tornato a martellare sui migranti per cercare di cancellare dalla memoria le responsabilità del governatore leghista della Lombardia, Attilio Fontana, nella gestione catastrofica della pandemia. Con i soliti hashtag sui porti chiusi, Salvini ha accusato la nave di una ong norvegese, la Ocean Viking, di proseguire “la raccolta”, dopo aver salvato 67 migranti in mare. I dati delle agenzie europee Frontex e Easo confermano che l’invasione è una fantasia. Il totale dei migranti sbarcati a Malta e in Italia nei primi cinque mesi del 2020 è stato di appena 5.500, secondo Frontex. Easo ha invece certificato che nel 2019 l’Italia è scivolata al sesto posto nell’Ue per richieste di asilo con un calo del 27 per cento dal 2018. Con 43.770 siamo lontani dal picco di 128.860 domande del 2017. Le ong e il Covid-19 non c’entrano nulla: con la Libia in guerra, i migranti partivano anche quando non c’erano navi umanitarie di salvataggio in mare. Ma la pandemia diffusa dal migrante sta diventando parte della narrazione del mondo sovranista che ruota attorno ai tweet e ai comizi di Salvini. “Il problema sanitario è figlio anche dei quartieri ghetto e senza regole. La sanatoria e la cancellazione dei decreti sicurezza sono delle follie”, ha detto il segretario della Lega in Campania, Nicola Molteni a proposito di Mondragone. Il messaggio che cercano di far passare è che il virus sia portato da bulgari, rom o africani fuggiti dalla Libia. Non ci sono dubbi che il problema sanitario sia più difficile da gestire in “quartieri ghetto e senza regole”. Ma la marginalità e l’illegalità sono il prodotto dei decreti Salvini e delle politiche anti integrazione promosse dalla Lega. Per quel che riguarda i migranti salvati in mare, invece, faranno la quarantena prima di poter sbarcare. Un eventuale focolaio sarà quindi spento. Il realismo straccione dell’Italia con l’Egitto sui casi di Giulio Regeni e Patrick Zaky di Luigi Manconi L’Espresso, 27 giugno 2020 Il proclamato “pragmatismo” con Al Sisi è stato un boomerang. Perché separare interessi commerciali dalla difesa dei diritti umani finisce per danneggiarci due volte. Si avverte quasi sempre una traccia di dissimulazione nelle parole che le autorità pubbliche dedicano alla vicenda dell’assassinio di Giulio Regeni. La si percepisce quando - con voce che diventa più grave - si elogia “il coraggio e la determinazione dei genitori del ricercatore italiano ucciso al Cairo”. Omaggio doveroso, che contiene, tuttavia, un elemento di ambiguità. Mi spiego. Il lutto chiede di essere vissuto nell’intimità della sfera privata, nel profondo della dimensione familiare, laddove più si patisce e più intenso è “il nostro bisogno di consolazione” (Stig Dagerman). Quando si decide di rendere pubblica la sofferenza per una perdita, perché pubbliche si ritengono le responsabilità di essa, i familiari della vittima rinunciano a una parte del proprio lutto per condividerlo con estranei (fino a milioni di estranei) e renderlo così questione collettiva e materia civile. È un grande sacrificio, così come grande è la responsabilità di quanti (gli estranei, appunto) accolgono quel dolore e intendono farlo proprio. Molti, in Italia, hanno condiviso il lutto per Giulio Regeni e hanno chiesto verità e giustizia. Ma proprio per questa ragione, troppo spesso l’elogio di Paola Deffendi e Claudio Regeni, appare rituale e sembra corrispondere alla volontà, magari inconscia, di consegnare quella morte a una dimensione privata, dove le “persone offese” sono i consanguinei della vittima. Ma non è più così. Grazie alla scelta dei genitori di Giulio, la sua fine è diventata una questione pubblica e politica. E, accanto a Paola Deffendi e a Claudio Regeni, la parte lesa è rappresentata dall’intera collettività. Questo è il punto essenziale. L’assassinio di un cittadino italiano, avvenuto fuori dai confini nazionali, in un paese considerato “amico”, a opera presumibilmente di uomini degli apparati statuali di quel paese, solleva un grande tema: in gioco è la nostra stessa sovranità nazionale. Il patto che lo Stato stringe con i cittadini, si fonda sulla promessa di tutelarne l’incolumità: se un connazionale viene ucciso in un paese straniero, lo Stato deve esigere l’accertamento della verità e la condanna dei responsabili. Se non lo fa abdica alla propria qualità di Stato sovrano e al proprio interesse nazionale. Dunque, la morte di Giulio Regeni è, certamente, una questione umanitaria, ma è allo stesso tempo un problema decisivo di politica internazionale. I governi italiani che si sono succeduti dal 2016 a oggi, sembrano non averlo capito. È in questo scenario che va collocata la commessa di quasi dieci miliardi per la vendita di sistemi d’arma all’Egitto. La tesi di quanti condividono la scelta del governo italiano è sostanzialmente così motivata: l’incremento dei rapporti import-export tra l’Egitto e l’Italia renderà più efficace l’azione diplomatica presso il regime di al-Sisi per ottenerne la collaborazione sul piano giudiziario. Ma è esattamente questa la linea perseguita finora: i risultati sono sotto gli occhi di tutti e rappresentano né più né meno che un fallimento. All’origine, c’è uno scarto politico e temporale tra il piano delle relazioni economico-commerciali e quello delle iniziative per la ricerca della verità su Regeni. È questo che indebolisce fino all’inettitudine l’Italia, che rivela una sorta di complesso di inferiorità nel rapporto con il regime egiziano. Si dimentica che uno Stato sovrano deve riconoscere alla tutela della vita di un connazionale almeno la medesima importanza che si attribuisce a un investimento economico. In genere, mentre si afferma retoricamente il contrario (“il valore di ogni persona è inestimabile”) nei fatti accade che i diritti umani scivolino sempre all’ultimo posto tra le Varie ed eventuali dell’agenda delle relazioni sovranazionali. Il fatto è che gli interessi del nostro export vengono considerati inesorabilmente quelli principali, ma questo affievolisce la forza negoziale e la capacità contrattuale del nostro paese. Se pure la vendita delle due navi militari fosse scelta opportuna e giusta (e ne dubito fortemente), la trattativa con l’Egitto avrebbe dovuto prevedere sia lo scambio commerciale sia una vera cooperazione giudiziaria sulle responsabilità della morte di Regeni. Così l’Italia avrebbe avuto più, e non meno, capacità di pressione sulla politica di al-Sisi. Insomma, solo se la questione dei diritti umani diventa priorità tra le priorità si possono avere chance di successo. Al contrario, separando la trattativa commerciale dalla questione Regeni e dei diritti umani in Egitto, si è consentito che la prima diventasse il solo oggetto del negoziato; e, rinviando ad altra fase il tema della cooperazione giudiziaria, si è ulteriormente sminuito il ruolo dell’Italia e si è relegato in una posizione gregaria il dossier sull’omicidio del ricercatore. Questo è il risultato della realpolitik che oggi si invoca per motivare la scelta della compravendita dei mezzi militari. Ma è quella stessa realpolitik che ha segnato, giorno dopo giorno, l’atteggiamento dell’Italia nei confronti del regime egiziano. Una strategia che vorrebbe rifarsi alla grande lezione dei Bismarck e dei Kissinger, ma che rivela solo una pensosa partecipazione a lunghe serate di Risiko tra amici. Una politica evocata con riferimenti geo-strategici tanto sussiegosi quanto sgangherati. Si tratta, in realtà, di un realismo straccione che non ha sortito finora alcun risultato e sembra destinato a ulteriori e fragorosi insuccessi. Un esempio solo. Quando, il 14 agosto del 2017, il Governo decise di far rientrare al Cairo l’ambasciatore italiano (richiamato a Roma sedici mesi prima), lo fece in base a un “realistico” proposito: rendere più efficace l’azione diplomatica per la ricerca della verità su Regeni. A distanza di quasi tre anni, non se n’è fatto nulla, proprio nulla. E c’è qualcosa di indecente nella reiterata contrapposizione tra interessi economici e valori umanitari. Quasi che questi ultimi non fossero altro che velleitarie fantasie adolescenziali. Ma è l’esatto contrario: la tutela dei diritti umani è materiale pesante, sostanza concreta, realtà tangibile e ruvida. Riguarda direttamente l’esistenza delle persone in carne e ossa, l’integrità dei loro corpi, la misura e lo spessore delle relazioni sociali e della vita delle comunità. È proprio questo che attribuisce al destino singolo di Giulio Regeni un significato universale e fa di questa vicenda familiare, come si è detto, una questione di sovranità nazionale. Non a caso, è l’intelligente sensibilità di Paola Deffendi e Claudio Regeni a farci intendere il senso complessivo di questa storia, quando spiegano come il destino del loro figlio sia simile a quello di tanti egiziani che ne condividono la sorte: rapiti, seviziati, uccisi. La signora Regeni, a proposito di Giulio e dei suoi coetanei, ha parlato di “giovani contemporanei” che attraversano le frontiere, stupiti che queste ancora sopravvivano, e che parlano le lingue degli altri, imparano le culture e le mentalità, tra l’Europa, il Medio Oriente e gli Stati Uniti, si muovono rapidi (“per non uscire in fotografia”, come si diceva una volta), affamati e curiosi del mondo e dei suoi abitanti. Tra essi Patrick Zaky, iscritto al Master in Studi di genere presso l’Università di Bologna, arrestato mentre rientrava nel suo paese e ora in carcere con l’accusa di “istigazione al rovesciamento del governo e della Costituzione” per i post pubblicati nella propria pagina Facebook. E, sempre a quella generazione cosmopolita e veloce, apparteneva Sara Hijazi, attivista omosessuale, detenuta e torturata per un anno nel carcere di Tora, a sud del Cairo. Rifugiata in Canada, si è tolta la vita appena qualche giorno fa, lasciando queste ultime parole: “Ai miei amici: l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare. Perdonatemi. Al mondo: sei stato davvero crudele, ma io ti perdono”. È una assoluzione forse immeritata: non potrà esserci perdono se consentiremo che la morte giovane di Giulio e la morte giovane di Sara siano consegnate all’oblio. Il Pd: “Senza risposte vere su Regeni l’Italia non venda le armi all’Egitto” di Daniela Preziosi Il Manifesto, 27 giugno 2020 Approvata una mozione dem. Lite sulla Libia. Orfini: sui diritti umani non è credibile. Verso il no al decreto missioni. Il Pd si impegna ufficialmente, almeno sulla carta, “a discutere con la maggioranza e il governo la possibile sospensione degli accordi di fornitura militare in assenza di risposte immediate e concrete sull’uccisione di Giulio Regeni”. Alla fine di quattro ore di dibattito serrato in video-collegamento, ieri la direzione dem trova una posizione unitaria sulla vicenda della vendita delle navi militari all’Egitto. Le posizioni di partenza erano abbastanza distanti. La discussione era stata chiesta dall’ala dei giovani turchi di Matteo Orfini che negli scorsi giorni avevano depositato un ordine del giorno che chiedeva “il blocco di qualsiasi ipotesi di vendita di forniture militari del nostro Paese all’Egitto” alla luce della totale mancanza di collaborazione dell’autorità giudiziaria egiziana con quella italiana sul caso Regeni e della sordità totale del golpista Al Sisi rispetto alle campagne italiane e internazionali per la libertà dello studente dell’università di Bologna Patrick Zaky, detenuto nelle carceri egiziane dal 7 febbraio. Ma dall’altra parte erano comunque in molti, nel parlamentino dem, a chiedere la distinzione delle azioni per ottenere la verità sul caso Regeni dall’evidentemente irrinunciabile commercio di armi con l’Egitto. Alla fine però la direzione ha votato l’impegno a portare nel governo “la possibile sospensione” della vendita delle due fregate Fremm. Una posizione diversa da quella più volte espressa da alcuni esponenti Pd del governo, e innanzitutto dal ministro della difesa Lorenzo Guerini. Tanto che nelle conclusioni il segretario Nicola Zingaretti sembra attenuare l’impatto del dispositivo approvato: “In Egitto senza un ruolo italiano, politico ed economico, il caso Regeni verrebbe archiviato. Per questo non c’è contraddizione tra il mantenere cooperazione con l’Egitto e un impegno forte e determinato per ottenere verità sull’omicidio di Giulio Regeni”. Il Pd chiede anche che il governo garantisca di “attivarsi con il massimo impegno possibile, anche attraverso il coinvolgimento dell’Unione europea, per ottenere immediatamente atti concreti per l’accertamento della verità sull’omicidio Regeni e la consegna dei suoi responsabili alla giustizia”. Il sotto-testo è che l’audizione del premier Conte in commissione, lo scorso 18 giugno, non ha convinto neanche il partito più affidabile della maggioranza. Nel Pd restano invece ancora molte le distanze sulla nuova versione del Memorandum d’intesa Italia-Libia che secondo il ministro degli Esteri Di Maio “va nella giusta direzione” e sul quale il 2 luglio si riunirà la commissione tecnica bilaterale. “Sulla Libia il Pd e i governi di centrosinistra hanno sbagliato tutto”, sostiene Orfini. Per arrivare al no al rifinanziamento degli accordi con la Guardia Costiera libica, presto al voto del parlamento, il deputato si appella alla tradizione di quella parte della sinistra che in nome dei diritti umani è arrivata a teorizzare “la guerra umanitaria”. “Non è possibile difendere la scelta del Memorandum”, spiega, “bisogna ammettere che il governo Gentiloni” - che ha stretto il primo accordo con la Libia nel 2017, ministro degli interni era Minniti, Pd -, “ha accettato una violazione dei diritti umani fatta per procura dalla Guardia costiera libica con i nostri finanziamenti. Non lo dico io, lo dicono le inchieste della magistratura e le Nazioni unite”. Per Orfini i (presunti) nuovi impegni del governo libico, che continua a non applicare la Convenzione di Ginevra, sono a dir poco “generici”. C’è di più: a il 23 febbraio l’assemblea nazionale del Pd ha votato all’unanimità che il partito “non avrebbe più sostenuto impegni con la guardia costiera libica”. “Ma se noi decidiamo una cosa nei nostri organismi dirigenti, questo impegna o no la nostra delegazione al governo?”. È, di fatto, l’annuncio di un drappello di no al decreto missioni. Resta da capire se, con i voti provenienti anche da altri gruppi, sarà abbastanza consistente da metterne a rischio l’approvazione. Uno scheletro nell’armadio della Nato di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 27 giugno 2020 Il presidente del Kosovo, Hashim Thaçi, è stato incriminato con altre nove persone dalla Corte dell’Aja, con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità. Sarebbero “responsabili di circa 100 omicidi”, di espianto d’organi e torture. Il presidente del Kosovo, Hashim Thaçi, è stato incriminato insieme ad altre nove persone dalla Corte dell’Aja, nella figura giuridica del Tribunale speciale sui crimini di guerra in Kosovo, fondato dall’Unione europea ma basato sulla legge kosovara, con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità commessi prima, non solo durante la guerra con la ex Jugoslavia nel 1998-1999, quando era uno dei leader dell’Esercito di Liberazione Nazionale (questo vuol dire l’acronimo Uck), organizzazione paramilitare kosovaro-albanese impegnata nel conflitto contro Belgrado quando la regione era ancora provincia autonoma della Serbia. Il presidente Thaqi, secondo i procuratori de L’Aia membri della Camera degli Specialisti sul Kosovo, è responsabile insieme agli altri nove, tra cui c’è anche il capo del Partito Democratico kosovaro ed altro ex leader Uck, Kadri Veseli, di “essere responsabile di circa 100 omicidi”, oltre che di espianto d’organi (per sostenere l’Uck), tortura, persecuzione e sparizioni forzate ai danni civili serbi, albanesi considerati collaborazionisti e rom, come si legge in una nota dello stesso tribunale. Adesso un giudice esamina le accuse per decidere se confermarle. Bene dunque, potremmo dire con soddisfazione. Dopo 20 anni questa mostruosa verità viene finalmente a galla. Soprattutto perché pochi giornalisti la denunciavano in perfetta solitudine.Per non parlare delle ostilità subite da Dick Marty, magistrato, senatore svizzero e inviato speciale del Consiglio d’Europa il cui rapporto è alla base di queste accuse finalmente confermate in modo ufficiale. C’è il rischio però di trovarsi di fronte ad una mezza, inutile verità se non si approfondisce davvero il ruolo di questo criminale balcanico, tra l’altro presidente in carica della repubblica del Kosovo, nel frattempo dichiaratosi unilateralmente indipendente dalla Serbia nel 2008, con l’appoggio di tutte le presidenze Usa. Hashim Thaqi è stato infatti dalla fine del 1998 - solo poco mesi prima l’Uck era considerata “terrorista” dal Congresso americano - al 1999 e poi in tutti questi anni, l’interlocutore privilegiato dell’Alleanza atlantica. Che, significativamente, sull’incriminazione tace. Fu così, le milizie dell’Uck altro non erano che la fanteria della Nato che bombardò per 78 giorni ininterrotti le città serbe - nel sud-est d’Europa - producendo vittime e stragi catalogate dai brillanti portavoce atlantici come “effetti collaterali”. Quella della Nato fu, per l’alleato Thaqi, una vera legittimazione politica sul campo. Era chiaro pure nel marzo del 1999, ma ora è un criminale di guerra per la giustizia internazionale. A proposito di guerra, diversamente dalle adesioni a quelle precedenti (In Iraq), questa fu gestita in prima persona dalle leadership “democratiche” occidentali, da Bill Clinton, Tony Blair, D’Alema, Koushner e dai Verdi tedeschi (così “ambientalisti” da riempire di cluster bomb e di uranio impoverito mezzo continente balcanico. Questo giornale la chiamò “guerra costituente”: la sinistra si mostrava adeguata alla governance del mondo guidando una guerra. Bastava chiamarla “umanitaria” ma insieme al “disumano” Thaqi. Una guerra che fu fondativa tra l’altro della nuova strategia della Nato. Mentre i caccia atlantici bombardavano e Thaqi espiantava organi dai civili serbi, albanesi e rom, a Washington l’Alleanza colse l’occasione per cambiare la sua natura difensiva che fino ad allora ne giustificava l’esistenza, per diventare invece strumento strategico di offesa, in Europa e nel mondo (da allora le imprese Nato non si contano, dall’Afghanistan alla LIbia). Quel che ne seguì subito fu il pericoloso allargamento della Nato a Est e la conseguente adesione all’Alleanza atlantica, armi, basi, bilanci militari e truppe (tranne la Russia) di tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia sciolta invece subito nel 1991. La svolta in piena Europa - che non a caso resta senza politica estera - fu il portato di quella guerra basata sul solido legame con Hashim Thaqi, un criminale di guerra come il suo stato maggiore. Per una solidarietà del resto ricambiata: oggi a Pristina si erge una statua in bronzo di cinque metri di Bill Clinton, anche a ringraziamento degli sforzi Usa che, in aperto disprezzo degli accordi di pace di Kumanovo alla fine della guerra di raid aerei, sostennero nei già frammentati Balcani la nascita unilaterale nel 2008 di un staterello indipendente a configurazione etnica dopo relativa contropulizia etnica, e che ancora risulta, nonostante l’ingente sostegno finanziario occidentale, tra i più corrotti e poveri del pianeta. La domanda - mentre il silenzio dei media è assordante, (l’attento Corriere della Sera ieri non ha nemmeno dato la notizia) - a questo punto è: ma è sicuro che i leader occidentali fautori di quella guerra “umanitaria” che accreditò la figura del macellaio Thaqi come statista, ora che risultano di fatto complici dei suoi crimini, non abbiano niente da dire o da fare invece di nascondere in silenzio i loro scheletri negli armadi? Medio Oriente. Cisgiordania verso l’annessione. “Ma l’apartheid qui è già una realtà” di Michele Giorgio Il Manifesto, 27 giugno 2020 Terra compromessa. Tra i palestinesi della Valle del Giordano a pochi giorni dal via al processo israeliano di appropriazione del 30% di Cisgiordania. Carenza di acqua e servizi, impossibilità di costruire, stipendi miseri. L’opposto della vita nelle colonie. L’ombra accogliente delle palme da dattero davanti alla casa di Ahmed Ghawanmeh ci offre un po’ di refrigerio in una giornata davvero calda. Il tè caldo è d’obbligo da queste parti, anche con temperature che sfiorano i 40 gradi, e Ghawanmeh ci tiene a servirlo lui. Da qualche anno è a capo del consiglio amministrativo locale di Jiftlik, una delle più importanti comunità palestinesi nella Valle del Giordano. “Questa terra a prima vista appare tutta roccia e deserto e invece è fertile e generosa. È una serra naturale. La amo molto, non potrei immaginare un altro posto dove vivere”, ci dice prendendo dalle mani del figlio adolescente un vassoio con dell’uva. Non è chiaro se Benyamin Netanyahu annuncerà, il primo luglio, l’annessione immediata anche della Valle del Giordano a Israele, come ha promesso di fare durante le ultime campagne elettorali, o se sceglierà di farlo in un secondo momento limitandosi per ora a un piano più contenuto. Ghawanmeh riflette qualche secondo prima di rispondere alla nostra domanda su ciò che potrebbe accadere a luglio. “Tutti parlano di al dammu (“annessione” in arabo) imminente ma qui siamo annessi (a Israele) già da anni, viviamo già in un sistema di apartheid e nessuno lo ha visto”, ci dice. Poi indicandoci alcuni degli insediamenti coloniali vicini a Jiftlik, aggiunge che “se sei un colono (israeliano) hai tutto, l’acqua, l’elettricità, le strade asfaltate. Se sei un palestinese devi lottare ogni giorno per spostarti, lavorare e per conservare quel poco che hai”. Jiftlik, con i suoi 4100 abitanti, è una delle più grandi delle 27 comunità palestinesi nella Valle del Giordano - circa 60mila abitanti - che, in buona parte, rientra nell’Area C, ossia la porzione più ampia (60%) della Cisgiordania che secondo gli Accordi di Oslo per cinque anni, dal 1994 al 1999, sarebbe rimasto sotto il controllo di Israele. Lo status definitivo dell’Area C doveva essere stabilito nei negoziati finali tra Olp e Israele dell’estate del 2000. Fallì tutto, cominciò la seconda Intifada e da allora Israele considera già suo il 60% della Cisgiordania. Non è così per la legge e gli accordi internazionali. Un tempo era molto più popolata la Valle del Giordano. Dal 1967, l’anno di inizio dell’occupazione, l’esercito israeliano ha “trasferito” oltre 50.000 palestinesi, a volte intere comunità, per sostituirle con campi di addestramento militare. Con questa giustificazione sono stati dispersi ad esempio gli abitanti di Khirbet al Hadidiyah, nella Valle del Giordano settentrionale. Anche in questi giorni, denunciano le agenzie dell’Onu e le ong per i diritti umani, vengono demolite case e strutture abitative o di ricovero per gli animali, considerate “illegali” dalla legge militare israeliana. Per un palestinese ottenere un permesso edilizio in Area C’è praticamente impossibile. Dal 2009 al 2016, meno del 2% di oltre 3.300 domande di autorizzazione, ha avuto successo, calcola il gruppo Peace Now. Le 36 colonie israeliane - circa 10mila abitanti, sorte dopo il 1967 violando il diritto internazionale - al contrario godono di pieni diritti e di tutti i servizi essenziali. “Dopo anni di battaglie hanno portato l’elettricità anche a Jiftlik ma non basta per tutte le case e la corrente va e viene”, ci racconta Othman, 26 anni, “l’acqua è sempre poca per noi e le nostre coltivazioni. Nelle colonie invece è abbondante, hanno anche le piscine”. Eppure l’acqua non scarseggia nella Valle del Giordano e durante l’occupazione giordana (1948-67) sostituita poi da quella israeliana, furono scavati numerosi pozzi. “Potremmo avere più acqua - prosegue Othman - però non possiamo andare oltre i 100 metri con le perforazioni. Così la nostra acqua è più salata rispetto quella che arriva ai coloni, estratta più in profondità”. Per questo molti agricoltori sono stati costretti a passare dalla coltivazione degli ortaggi, più sensibili all’acqua meno dolce, alle palme da dattero più resistenti al sale. “Il dattero è meno remunerativo - dice il giovane palestinese - perché dobbiamo competere con la produzione massiccia dei coloni”. Dopo il tè, sul tavolino sotto la palma appaiono caffè e datteri. L’ospitalità è sacra. Arrivano altri giovani, amici o parenti di Othman. Alcuni sono laureati all’università al Najah di Nablus, altri hanno terminato le scuole superiori. Mazen Taamra abita a Fasail, a qualche chilometro di distanza. “Devo essere sincero” ci dice “a me non piace l’agricoltura, a scuola sognavo di fare un lavoro diverso da quello di mio padre e di mio nonno. Ma l’economia (palestinese) è inesistente, l’ha distrutta l’occupazione. E possiamo solo lavorare nei campi”. Mazen, come Othman e tutti i giovani presenti sono braccia a basso costo per le produzioni agricole nelle colonie. Ogni mattina all’alba raggiungono l’ingresso di qualche insediamento e, dopo i rigidi controlli delle guardie di sicurezza, entrano nelle serre e nei campi. “Ci spezziamo la schiena - spiega Othman - e d’estate lavoriamo con temperature insopportabili. Nonostante ciò riceviamo per una giornata di lavoro solo 100-120 shekel (circa 30 euro). Meno di quello che riceve un israeliano ma è l’unico lavoro che abbiamo. Così se hai dei soldi vai da qualche altra parte, dove c’è un futuro”. Shaul Arieli, un comandante militare israeliano in pensione specializzato nella demarcazione dei confini, ha previsto sulle pagine del giornale online Times of Israel, che i palestinesi perderanno durante l’annessione altri 280 kmq di terreni privati. Israele inoltre marcherà un nuovo confine di 200 km tra la Valle del Giordano e il resto della Cisgiordania e un confine di 60 km, di fatto un recinto, attorno a Gerico, il capoluogo della valle. Nuovi confini puntellati di tanti posti di blocco e controllo. Benyamin Netanyahu è stato categorico. “Nessun palestinese nelle aree annesse diventerà cittadino israeliano”, ha assicurato. E ha parlato di “enclavi” palestinesi che faranno capo all’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen. La parola giusta però è “Bantustan” e adesso anche non pochi israeliani cominciano a parlare di “apartheid”. Stiamo per salutarci e Othman ci racconta che la madre “spera che una volta avvenuta l’annessione ci daranno la residenza con la carta blu, come i palestinesi di Gerusalemme. Così, dice, ci sposteremo e lavoreremo con più facilità. Anche lei però sa che (gli israeliani) non sono qui per facilitarci la vita, vogliono spingerci ad andare via, poco alla volta”.