La giornata contro la tortura e la centralità della “persona” di Mauro Palma La Stampa, 26 giugno 2020 La Relazione 2020 del Garante nazionale delle persone private della libertà viene presentata al Parlamento nella Giornata internazionale della lotta contro la tortura. Il ricorso alla tortura non è una pratica da pensare relegata in scenari a noi distanti: nessuno Stato può definirsi immune da episodi che possano essere così qualificati. Per questo, l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale, va salutato come atto di responsabilità, in coerenza con quanto prescritto dall’articolo 13 della nostra Costituzione, affinché comportamenti così gravi non corrano il rischio dell’impunità e al contempo si salvaguardi la dignità di tutti coloro che operano correttamente e dei loro Corpi di appartenenza. Esaminando le prime concretizzazioni di tale nuova previsione normativa, attraverso la contestazione di questo reato in fase di indagine, anche in situazioni recentemente riportate dalla cronaca, è necessario riaffermare in primo luogo che è proprio la possibilità di indagare episodi specifici attraverso questa lente a salvaguardare non solo la possibile vittima, ma anche gli operatori della sicurezza nel loro complesso e la loro condivisa volontà di trasparenza. Proprio a partire da questa Giornata, la Relazione al Parlamento di quest’anno pone il centro sulla “persona” e, quindi, sulle diverse soggettività che abitano i luoghi di privazione della libertà, con l’obiettivo di considerarle nei singoli aspetti che restituiscono loro la fisionomia con cui cessano di essere numeri di statistiche. Riacquistano il loro nome ed escono dall’anonimia: quella delle persone straniere che devono essere identificate, accolte o respinte oppure quella delle persone morte nei disordini in carcere dei primi di marzo. Anche lo sfilare delle bare che andavano verso cimiteri “altri”, provenienti da zone particolarmente colpite dalla pandemia ha proiettato un messaggio di anonimia. Questo è, quindi, lo sguardo attraverso cui abbiamo analizzato l’andamento dei luoghi di privazione della libertà nel 2019 e il loro specifico misurarsi con l’imprevedibile evento dei primi mesi di quest’anno. Questo è lo sguardo da utilizzare per la ricostruzione di un “poi” che non cristallizzi la fase di “vuoto” sperimentata in questo periodo per non rischiare di uscire dalla tuttora grave situazione presente con un brusco ritorno all’indietro. Ma che al contrario ipotizzi una ripresa che sappia dare indicazioni in avanti. Un “poi” che sappia contribuire a far evolvere quella che viene definita frettolosamente “pubblica opinione” e che rappresenta spesso la motivazione per un agire politico che non si pone il problema della crescita culturale e civile, ma solo quello dell’adesione preventiva al presunto consenso. Proiettare in avanti l’orizzonte di una comunità sempre più inclusiva e capace di affrontare le difficoltà non è obiettivo da poco, ma forse è quello che deve coinvolgere tutti coloro che, con ruolo e ambiti diversi, rappresentano le istituzioni democratiche di questo Paese. L’autore è il presidente dell’Autorità Garante delle persone private della libertà, la cui Relazione al Parlamento viene presentata oggi a Roma. Carceri da guarire (oltre il Covid) di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 26 giugno 2020 Il ciclone Covid-19, al momento, pare essersi abbattuto sul pianeta carcere con minor intensità di quella temuta. Dall’inizio della pandemia, a fronte di 7.188 tamponi eseguiti, i detenuti contagiati dal coronavirus risultano 284, di cui 33 “esterni” ricoverati in ospedale. Gli agenti penitenziari positivi ammontano, invece, a 51. Sono dati inediti, aggiornati al 18 giugno, contenuti nella Relazione al Parlamento del Garante nazionale per i detenuti e le persone private della libertà, che verrà presentata oggi e di cui Avvenire è in grado di anticipare i contenuti. Tra il marzo del 2019 e i primi mesi del 2020, i componenti del collegio del Garante (Mauro Palma, presidente, Emilia Rossi e Daniela de Robert) hanno visitato 70 luoghi di privazione della libertà in 15 Regioni (carceri, istituti minorili, residenze per anziani e Rems, Cpr e hotspot per migranti, servizi ospedalieri psichiatrici) e hanno monitorato 46 voli di rimpatrio forzato. Nelle Rsa, in particolare, l’Istituto superiore di sanità ha condotto una ricerca a cui ha collaborato il Garante, facendo luce sulla “gravità delle conseguenze della diffusione del virus in queste strutture”. Morti e proteste. Le proteste in carcere hanno causato la morte di 14 detenuti. Il Garante si è presentato come parte offesa nei procedimenti sulle cause dei decessi. Attualmente, si legge nella Relazione, nei penitenziari si trovano 53.559 reclusi, 7mila in meno di febbraio, per via delle misure alternative disposte durante la pandemia. Torture e suicidi. Tre procure (Napoli, Siena e Torino) hanno aperto inchieste “ravvisando il delitto di tortura in atti di violenza e di minaccia compiuti da operatori della Polizia penitenziaria” su detenuti. Preoccupa la salute mentale dei reclusi. I 53 suicidi nel 2019 e l’aumento di episodi di autolesionismo e atti aggressivi “indicano un progressivo incremento del disagio generale”. “Modificare i decreti sicurezza”. Nel 2019, nei Centri di permanenza per i rimpatri, su 6.172 persone trattenute solo 2.992 sono state rimpatriate. Inoltre, in 1.775 casi la loro privazione della libertà non è stata confermata dall’Autorità giudiziaria. Quest’anno i rimpatri forzati sono stati sospesi dall’Ue durante l’emergenza e ripresi solo da poco. Nei 9 Cpr al momento ci sono 400 persone, su 600 posti, e non c’è stato un problema di contagio (solo 3 casi, immediatamente isolati). Mentre prosegue il dibattito politico nella maggioranza, il Garante torna a chiedere che governo e Parlamento si adoperino per “la più volte annunciata revisione dei cosiddetti decreti sicurezza”, peraltro incompatibili “in caso di navi impegnate nel soccorso in mare, con gli obblighi internazionali”. Palma avverte: “Senza un passo indietro del legislatore e un ripensamento globale delle politiche di gestione delle frontiere, il Mediterraneo rischia tuttora di rimanere teatro di violazioni”. La relazione sottolinea “l’inconciliabile contrapposizione logica tra la previsione di un’area di ricerca e soccorso (Sar) di competenza libica e l’impossibilità di ritenere la Libia un piace of safety, cosa di cui nessuno può dubitare”. Quando i problemi sociali sono trattati come un reato di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto, 26 giugno 2020 Almeno 30.000 detenuti sono in carcere a causa di una legge che persegue un reato senza vittima e che produce essa stessa le sue vittime. Quest’anno ricorrono i venticinque anni dalla fondazione di Forum Droghe, una delle associazioni che promuovono con la Società della Ragione il Libro Bianco e che ha tenuto alta la bandiera della resistenza alle battaglie ideologiche punitive e proibizioniste, con la promozione di cartelli alternativi, proposte di legge, mobilitazioni della società civile, studi, ricerche, seminari, convegni, libri: un patrimonio che costituisce ancora oggi la base per azioni e rivendicazioni. I dati che presentiamo in questo Libro bianco, come è tradizione, sono quelli dell’anno precedente, cioè del 2019, e confermano un trend ormai stabilizzato. Il 30% degli ingressi in carcere è per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90 e sui 60.769 detenuti presenti al 31/12/2019, quasi il 25% era ristretto per quel reato: detenzione o spaccio di sostanze stupefacenti. In termini assoluti si fa riferimento a più di 14.000 persone. Per quanto riguarda i detenuti classificati come tossicodipendenti i numeri sono altrettanto impressionanti: gli ingressi sono attestati su oltre il 36% e i presenti raggiungono quasi il 28%; in termini assoluti parliamo di quasi 17.000 persone. Sommando ai detenuti per violazione del testo unico sulle sostanze stupefacenti i consumatori abituali di sostanze stupefacenti che sono entrati in carcere per un altro reato legato al loro stile di vita e di emarginazione, possiamo dire con certezza che più del 50% degli ingressi e delle presenze in carcere hanno a che fare con una questione sociale declinata come fatto criminale. Almeno 30.000 detenuti sono in carcere a causa di una legge che persegue un reato senza vittima e che produce essa stessa le sue vittime, costringendole nei gironi infernali di una carcerazione senza scopo. Abbiamo detto molte volte che se si fosse coerenti con il principio del carcere come extrema ratio, non avremmo sovraffollamento e potremmo garantire condizioni di vita e igienico sanitarie accettabili per chi comunque dovesse esservi rinchiuso. Ci si potrebbe così concentrare nella difficile sfida dell’attuazione della finalità rieducativa per chi ha commesso gravi reati contro la persona, o nell’ambito di organizzazioni criminali, e non perdere tempo con quella che Alessandro Margara definiva “detenzione sociale”. La simulazione che anche quest’anno presentiamo di un carcere senza detenuti per droga e senza detenuti classificati “tossicodipendenti” è eloquente. La situazione del peso sul sistema giustizia dei processi per droga rimane gravemente allarmante e, se si confermano i numeri sempre più consistenti delle misure alternative, si accentua anche la tendenza all’assaggio del carcere per i tossicodipendenti: alle alternative ci si arriva preferibilmente così, anche se le pene sono brevi o brevissime. Di fronte a questo quadro di insensata repressione prima della esplosione della pandemia, la ministra Lamorgese proponeva l’arresto anche per i responsabili di fatti di lieve entità. Rimangono esplosive le segnalazioni alle prefetture per semplice consumo che ormai raggiungono la cifra di 1.312.180 persone (una cifra scandalosa, perlopiù di giovani) dal 1990 ad oggi, che rischiano pesanti e stigmatizzanti sanzioni amministrative. Una criminalizzazione di massa che in gran parte, quasi un milione, riguarda il consumo di cannabinoidi. Se non si realizzeranno riforme incisive, a cominciare da una decriminalizzazione del consumo di tutte le sostanze e dalla legalizzazione della canapa, non si uscirà dal buco nero imposto dagli imprenditori della paura e dall’abuso populista della giustizia penale. L’appuntamento è a Milano per una Conferenza dal basso e autogestita, vista la latitanza del Governo. *Il “Libro Bianco sulle droghe”, promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila, Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud è disponibile in versione cartacea in tutte le librerie e i rivenditori on line, ed è consultabile sul sito di Fuoriluogo, www.fuoriluogo.it/librobianco. Il libro bianco sarà presentato con un webinar on line oggi dalle 15: info su www.fuoriluogo.it/librobianco26giugno “Credevo nel carcere, ora mi sono convinto che deve essere abolito” di Nicola Campagnani* Il Dubbio, 26 giugno 2020 Intervista a Gherardo Colombo: “Secondo me per mettere una persona in prigione devi aver provato cosa è la prigione. Ma dovresti averla provata per davvero, non averla vista da turista, da operatore che arriva, interroga e se ne va”. “Io credo che sia essenziale testimoniare”, così l’ex magistrato Gherardo Colombo commenta il progetto Sui pedali della libertà del Dubbio, che porterà Roberto Sensi a incontrare e raccontare il carcere in tutte le sue sfaccettature, dell’estremo Nord all’estremo Sud del Paese, sui pedali della sua bicicletta. Chi incontra il carcere per la prima volta, si trova spesso a riformulare radicalmente la sua idea a riguardo, allora è per questo che diventa fondamentale raccontarlo. “Noi facciamo esperienza direttamente o attraverso quello che ci viene riportato da altri - spiega Colombo, che il carcere lo ha lungamente vissuto in prima persona da magistrato e oggi riporta la sua esperienza di questa istituzione - La testimonianza è proprio questo riportare a chi non ha visto direttamente”. Gherardo Colombo cosa rappresentava per lei il carcere all’inizio della sua professione? E cosa ha capito poi? Il carcere per me era uno strumento. Credevo, come si impara all’università, che fosse uno strumento di prevenzione speciale e di prevenzione generale, cioè che servisse a evitare che una persona commettesse un reato per la paura della minaccia della pena. Per quanto non lo vedessi comunque bene, pensavo che fosse uno strumento necessario per educare le persone a rispettare le regole. Ma in 33 anni di magistratura, dal 1974 al 2007, progressivamente ho cambiato idea su questo punto. Sempre più ho interiorizzato la differenza tra l’articolo 27, che richiede che le pene non siano in contrasto con il senso di umanità, oltre a dover tendere alla rieducazione del condannato, e la situazione effettiva del carcere. E ormai sono convintissimo che la pena non serva a dissuadere dal commettere reati. Peraltro l’inflizione di un castigo, se qualcosa fa, induce all’obbedienza; e una democrazia non ha bisogno di obbedienza, ma ha bisogno di capacità di gestire la propria libertà. Mi sono dimesso con 14 anni di anticipo sulla scadenza naturale di allora, quando i magistrati andavano in pensione a 75 anni. Poi ho intensificato un’attività che facevo già da un po’ di tempo: girare per le scuole a parlare ai ragazzi di regole e di giustizia. Perché io credo che per osservare le regole sia necessario condividerle. Da magistrato ha chiesto l’ergastolo una volta sola. Anche questa è stata una scelta? Sì, ho chiesto l’ergastolo una volta sola, per un omicidio commesso da due persone. Per fortuna però il tribunale non l’ha inflitto, credo si stabilì una pena di 28 anni di reclusione. Sotto il profilo tecnico gli elementi per chiedere l’ergastolo a mio avviso c’erano. Ma oggi, se facessi ancora quel mestiere, direi che un ergastolo non lo chiederei più. Probabilmente solleverei una questione di legittimità costituzionale. Qual è la funzione del carcere oggi? Serve a educare o a punire? Ci sono delle eccezioni: qui in Lombardia abbiamo Bollate, che è un carcere particolare rispetto a quasi tutte le altre carceri che ci sono in Italia. Però generalmente il carcere è un luogo in cui le persone restano a scontare la pena, con degli interventi talmente minimali in senso rieducativo da essere molto spesso paragonabili al nulla. Cos’è che manca soprattutto? Manca un complesso di cose: più o meno dappertutto manca lo spazio vitale; manca il diritto all’igiene; è molto compromesso il diritto alla cura della salute; il diritto all’istruzione; il diritto all’informazione; il diritto, perché anche quello è un diritto, all’affettività. Dovremmo riflettere in modo approfondito sul senso di quell’espressione che si trova nell’articolo 27, ovvero che non si può essere contrari al “senso di umanità”. Che cos’è questo “senso di umanità”? Cosa vuol dire un carcere “umano”? Un carcere umano a mio parere è un carcere in cui tutti i diritti della persona, che non confliggono con la sicurezza della collettività devono essere garantiti. Ma proprio tutti. E possono essere ridotti e ridimensionati soltanto quei diritti il cui esercizio impedisce la sicurezza della collettività, che sono però molto pochi. Se così fosse nel nostro Paese il carcere sarebbe chiamato dall’opinione pubblica un albergo a cinque stelle. Dunque si dovrebbe smettere di pensare al carcere come una punizione che restituisce il male che si è fatto? Seconde me non dovrebbe essere restituito il male che si è fatto. Anche se esiste una filosofia retribuzionista, secondo cui il male si elide attraverso l’inflizione del male, a me sembra che matematicamente uno più uno faccia due, non faccia zero. Quindi se al male commesso aggiungiamo un altro male inferto, il male lo raddoppiamo invece di annullarlo. Il male costituisce l’espressione di un desiderio di vendetta che viene soddisfatto non direttamente dalla vittima, ma dall’istituzione nel suo complesso. Io credo che il desiderio di vendetta sia un desiderio negativo, che non dovrebbe essere soddisfatto, ma dovrebbe invece essere elaborato, perché si possa utilizzare, nei confronti di chi ha commesso un reato, un percorso che riporti la persona che si è allontanata dalla società, all’interno della società. Lo Stato dovrebbe porsi al di sopra, non inseguire la vendetta come farebbe un criminale... Quasi tutto quello che fa un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, se fosse commesso da lui privatamente o da un altro cittadino, costituirebbe reato. Dispongo una misura cautelare in carcere, si tratterebbe di sequestro di persona; intimo a un teste di presentarsi, sotto minaccia di essere accompagnato dalla forza pubblica, è violenza privata; una perquisizione è violazione di domicilio; un sequestro è rapina aggravata dal numero delle persone e dall’uso delle armi. Secondo la Costituzione, non è una violenza rilevante, sotto il profilo giuridico, soltanto quella minima che serve a impedire la commissione di reati. Tant’è che l’articolo 13, al penultimo capoverso, dice, usando un’espressione fortissima che compare una volta sola in tutta la Costituzione, “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. La violenza nei confronti di una persona che sta in carcere è punita dalla Costituzione. La nostra Costituzione inibisce l’uso di violenza da parte delle istituzioni, se non nel momento in cui questa sia rigorosissimamente necessaria per evitare che altri diritti di pari dignità siano posti in dubbio. E comunque vengono stabiliti tre limiti fondamentali: senso di umanità, rieducazione e assoluta mancanza di violenza. Con l’emergenza coronavirus i carcerati hanno vissuto come una violenza l’interruzione dei colloqui con i parenti e hanno risposto con le sommosse... Premesso che la violenza non si deve usare, io credo che vada considerato che generalmente i detenuti hanno la possibilità di vedere i parenti solo sei volte al mese, per un tempo non superiore a un’ora in totale, per tutti i parenti. Con la pandemia il tutto è stata ridotto a un’unica telefonata di 10 minuti a settimana. Il tutto in una situazione in cui c’è un virus che si sta espandendo. Saltano i colloqui visivi, c’è soltanto una telefonata di 10 minuti alla settimana. Così sale la preoccupazione, perché sei in carcere e non sai nulla di quello che succede ai tuoi cari, pur ricevendo il segnale televisivo in cui i notiziari e il resto hanno quasi esclusivamente come oggetto questa pandemia. I rischi delle persone che stanno fuori, le immagini dell’esercito che porta via le bare, questo crea un’ansia e un’angoscia notevoli. Il coronavirus ha almeno contribuito a sensibilizzare sulle condizioni sanitarie dei carcerati? Io penso che il tema delle condizioni di vita già fosse all’attenzione delle istituzioni e, per chi avesse voluto, anche della pubblica opinione. Il tema è da sempre sotto gli occhi delle istituzioni, ma non si è fatto molto. Una vera e propria riforma non c’è stata. Cosa si potrebbe fare oggi? Secondo me per mettere una persona in carcere devi aver provato cosa è il carcere. Ma dovresti averlo provato per davvero, non averlo visto da turista, da operatore che arriva interroga e se ne va. Una settimana dentro sarebbe necessario starci per capire che cos’è il carcere. È necessario capire che cos’è veramente il carcere. Oggi la stragrande maggioranza delle persone che sono in carcere non è pericolosa. Abbiamo una popolazione credo di circa 56 o 57mila detenuti, dopo che sono scesi un po’ con l’emergenza Covid, e di questi credo che ci saranno al massimo 20mila persone pericolose, volendo esagerare. Capirete che passare da 57mila a 20mila e occuparsi degli altri attraverso misure alternativa come l’affidamento in prova ai servizi sociali, vorrebbe dire anche rendere la vita di chi è detenuto più coerente con il principio costituzionale. Soluzioni alternative al carcere esistono già... Credo che siano più le persone che oggi scontano la pena fuori dal carcere, di quelle che scontano la pena dentro il carcere. La recidiva di chi sconta la pena fuori dal carcere è notevolmente inferiore di chi la pena la sconta dentro. Quasi il 70% delle persone che escono dal carcere ritornano in carcere; per chi è stato sottoposto a un affidamento in prova ai servizi sociali si parla di una recidiva al 19%. La differenza è notevole. Si parla anche di giustizia riparativa... Generalmente chi agisce il male non sa che ciò che agisce sia male. Per una serie di motivi, soprattutto culturali, di educazione e così via. Per evitare che una persona faccia male è necessario in primo luogo che sappia che quel comportamento provoca dolore. La strada forse più utile per arrivare a questa percezione è proprio quella del percorso di giustizia riparativa. Con la mediazione di una persona che se ne intende, la vittima e il responsabile sono accompagnati lungo un percorso che si conclude con un incontro, che serva al responsabile a rendersi conto del male che ha fatto, senza per questo essere distrutto dai sensi di colpa, e alla vittima di ripararsi del male che ha subito e di riacquistare il senso di dignità che aveva smarrito proprio per il male che era stato inferto. Qual è la sua testimonianza del carcere? Ci sono delle associazioni che portano gli studenti in carcere facendogli fare lo stesso percorso che fanno i detenuti, l’ho fatto anche io una volta e forse quello è il ricordo più vivo del carcere. Poi ci sono dei ricordi terribili, perché qualcuno si è suicidato in carcere e a me è successo di andare a vedere. E gli interrogatori, per 28 anni ho fatto il giudice o il pubblico ministero investigativi, era usuale per me frequentare San Vittore per interrogare delle persone che erano detenute. In quei momenti c’è l’incontro della faccia che sta fuori e della faccia che sta dentro, che sono estremamente diverse, ma tanto diverse da essere sostanzialmente incomparabili. Non ho visto solo le carceri italiane, lavorando a uno dei tavoli degli Stati Generali mi è capitato di visitare le carceri norvegesi e poi quelle boliviane, esperienze radicalmente diverse: in Norvegia sembra davvero un albergo a cinque stelle, mentre in Bolivia è un paese circondato da mura. Di esperienze ne ho avute molte e sono tutte esperienze che confermano la mia convinzione ormai sicura che, così com’è qui da noi, il carcere dovrebbe essere abolito. *Collettivo Lorem Ipsum Sì al decreto anti-scarcerazioni, ma sarà al vaglio della Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 giugno 2020 Approvazione definitiva alla Camera del Decreto Giustizia. Droni per la sicurezza del carcere e conferma dei decreti “antiscarcerazione” che però ora saranno al vaglio della Corte costituzionale. Alcune misure urgenti previste dal decreto-legge, o introdotte nel corso dell’esame parlamentare, riguardano gli istituti penitenziari, il trattamento dei detenuti e la disciplina che consente, in situazioni particolari, l’uscita di reclusi dal carcere. Il provvedimento approvato dalla Camera consentirà alla polizia penitenziaria di utilizzare i droni per assicurare una più efficace vigilanza sugli istituti penitenziari e garantire la sicurezza al loro interno e interviene sull’ordinamento penitenziario per modificare la disciplina procedimentale dei permessi di necessità e della detenzione domiciliare “in deroga”, cioè sostitutiva del differimento dell’esecuzione della pena. Per entrambe le misure, la modifica consiste nella previsione di un parere obbligatorio che i giudici di sorveglianza devono richiedere al Procuratore antimafia in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto: solo al Procuratore distrettuale, se la decisione riguarda l’autore di uno dei gravi reati elencati nell’art. 51 comma 3 bis e comma 3 quater, anche al Procuratore nazionale, se riguarda un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale del 41 bis. Introduce altresì una disposizione volta a prevedere l’obbligo di revoca del provvedimento di ammissione alla detenzione domiciliare “in deroga” quando vengano meno le condizioni per le quali era stata concessa. Ma, ricordiamo, diversi magistrati di sorveglianza hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta: i principali motivi sono la lesione del diritto alla difesa e la questione temporale, visto i tempi strettissimi che sono resi obbligatori per il giudice di valutare se il detenuto sia in condizione o no di ritornare in carcere. L’altro provvedimento approvato interviene sulla disciplina della corrispondenza telefonica delle persone detenute prevedendo che l’autorizzazione possa essere concessa una volta al giorno (in luogo di una volta a settimana) nel caso in cui riguardi figli minorenni o maggiorenni portatori di una disabilità grave, e nei casi in cui si svolga con il coniuge, l’altra parte dell’unione civile, persona stabilmente convivente o legata all’internato da relazione stabilmente affettiva, con i genitori, i fratelli o le sorelle del condannato se questi siano ricoverati presso strutture ospedaliere. Quando si tratta di detenuti o internati per un grave delitto e per i quali si applichi il divieto dei benefici ivi previsto, l’autorizzazione non può essere concessa più di una volta a settimana. Tale disciplina non si applica ai detenuti sottoposti al regime speciale di cui all’articolo 41bis. Confermata al Garante nazionale dei detenuti la prerogativa del colloquio riservato, dando la possibilità ai garanti regionali, nell’ambito del territorio di propria competenza, di effettuare colloqui monitorati con il vincolo della riservatezza e infine prevedendo un esplicito divieto per i garanti locali di effettuare colloqui riservati con i detenuti sottoposti al regime speciale. I dannati della cella. Morire di carcere di Sergio Segio fuoriluogo.it, 26 giugno 2020 L’Appello del Comitato per la verità e la giustizia sui 13 detenuti deceduti dopo la rivolta di Modena. Un triste precedente risale al 1989. Un incendio alla Vallette di Torino provocò la morte di 9 detenute e due vigilatrici. In carcere si muore: constatazione di per sé ovvia, che diventa però inquietante se si comparano percentuali e frequenze rispetto alla popolazione generale e laddove si riscontrino casi di morti evitabili che non lo sono state a causa della struttura penitenziaria o di sue specifiche carenze e disfunzioni. In base al meritevole e storico lavoro di raccolta dei dati svolto da “Ristretti orizzonti” nell’ultimo ventennio, dal 2000 a oggi (al 14 maggio 2020), i decessi in prigione risultano 3087, di cui 1125 per suicidio. Quest’ultimo, in Italia, è la prima causa di morte nelle celle, con un caso ogni 924 detenuti (che sale addirittura a uno su 283 tra i reclusi in 41bis), a fronte di uno ogni 20.000 nella popolazione generale. Cifre che ci introducono a una considerazione forse meno scontata: ovvero, che di carcere si può morire ed effettivamente si muore. Una verità sottaciuta, ma da sempre nota a chi conosce davvero le patrie galere. Neppure questi, però, avrebbero potuto immaginare che l’anno in corso avrebbe portato - oltre a rivedere dopo quasi mezzo secolo i detenuti salire sui tetti per protesta - un tragico record, con 13 reclusi morti nel giro di poche ore. Non si era mai visto, neppure nella storica Pasqua Rossa del 21 aprile 1946 raccontata dallo scrittore Alberto Bevilacqua, allorché, in “una delle rivolte più imponenti del sistema carcerario mondiale” capeggiata da Ezio Barbieri, un rapinatore milanese capo della “banda della Aprilia nera”, “un eroe maledetto capace di amicizie e di amori intensi”, nella Milano dell’immediato dopoguerra migliaia di reclusi in armi insorsero in quel di San Vittore. Furono costretti ad arrendersi, solo dopo quattro giorni, a colpi di mitragliatrice e addirittura di cannone, come mostrano le impressionanti immagini dell’epoca. Eppure, il bilancio fu di tre detenuti e un agente morti, oltre a numerosi feriti. Del solo poliziotto, a differenza dei reclusi, non da oggi considerati anonime e irrilevanti scorie sociali, è rimasto tramandato il nome: Salvatore Rap. Quello odierno è un drammatico primato, insuperato neppure dalla famosa rivolta nel carcere di Alessandria del 10 maggio 1974, repressa sanguinosamente dai carabinieri; vi morirono due detenuti, due agenti di custodia, il medico del carcere, un’assistente sociale e un insegnante. L’unico precedente che si avvicini in termini di numeri e di gravità è l’incendio accidentale della sezione femminile del torinese carcere delle Vallette, che il 3 giugno 1989 portò alla morte di nove recluse e di due vigilatrici. Episodio presto dimenticato, nonostante la sua gravità e malgrado l’attivismo di alcune ex detenute politiche che si erano salvate dal rogo e dell’Associazione 3 giugno, allora costituita, che realizzò un dossier per ricordare le morti e per denunciare le disfunzioni e negligenze alla base della strage. Ancora nel 2019, con l’Associazione Sapere Plurale, hanno promosso e realizzato a Torino lo spettacolo Lascia la porta aperta per conservarne la memoria; invece già dolosamente inficiata, laddove nel Museo del carcere de Le Nuove di Torino si ricordano come vittime solo le vigilatrici. Le detenute, semplicemente, sono state espunte dalla narrazione della vicenda. Non a caso, dunque, la vicenda torinese è richiamata dai promotori di un appello a costituire un Comitato per la verità e la giustizia sui 13 detenuti deceduti l’8 e 9 marzo 2020. Una nuova e ancor più ampia strage, sulla quale immediatamente si è cercato di fare calare una pesante cappa di silenzio, complice l’emergenza da coronavirus. Le misure disposte dalle autorità penitenziarie per contrastare il contagio attraverso la sospensione dei colloqui, unite alla paura generalizzata e ai timori dovuti alla scarsa informazione fornita ai reclusi, avevano determinato le proteste in decine di istituti, in alcuni casi degenerate in vere e proprie rivolte e in un caso, a Foggia, in una fuga di massa. Quella stessa emergenza ha più facilmente consentito a media e autorità una subitanea rimozione dell’accaduto e al ministro competente un’imbarazzante reticenza. Come abbiamo già visto, del resto, nelle carceri da tempo divenute discarica sociale, deposito di vite a perdere, la morte non fa notizia e non lascia eco, come non l’aveva lasciata la loro vita. Scorre subito via, come schiuma nella risacca. Altro che carceri popolate da boss, come vorrebbe la cronaca bugiarda o approssimata dei media e l’indecente incitazione dei maggiori commentatori a rimettere prontamente in galera chi fosse stato scarcerato nei giorni della pandemia, anche se anziano, malato e a rischio, revocando le decisioni dei giudici, la cui autonomia e le cui prerogative, in questo caso, sono state stracciate senza remora e contra legem. Su “Giustizia News on line”, il quotidiano del Ministero della Giustizia, al tragico evento dei 13 morti, nonostante sia di inedita gravità nella storia dei penitenziari italiani, vengono dedicate poche righe in due articoletti. Nel primo, dal titolo Carceri: rientrate quasi tutte le proteste. Nono morto a Modena, datato 10 marzo, si dà atto, con una manifesta contraddizione, che “si sono conclusi quasi ovunque” i disordini “iniziati o ancora in atto” e che vi è stato un “Nono decesso a Modena: si tratta di un detenuto tunisino di 41 anni; anche nel suo caso si sospetta che la morte possa essere stata provocata dall’assunzione sconsiderata di farmaci presi durante il saccheggio dell’infermeria” (le sottolineature sono nostre). A poche ore dai tragici avvenimenti e in assenza di esami autoptici, dunque, sulle cause di morte vi sono sospetti che vengono subito diffusi alla stampa. Sull’argomento, nella stessa data, vi è un’altra news: Carceri: detenuti ancora in protesta. Presi 50 degli evasi da Foggia. Vi si afferma che “a Modena è deceduto un altro detenuto, presumibilmente - come gli altri tre - a seguito di overdose da farmaci: ricoverato in gravi condizioni, è l’ottavo decesso dalla rivolta di domenica scorsa. Nell’istituto i disordini si sono conclusi e si stanno trasferendo gli ultimi detenuti”. Dalla comunicazione istituzionale, insomma, non è dato di capire se i disordini siano o no conclusi e neppure ancora quante siano le vittime. Quel che è certo, si fa per dire, è che presumibilmente siano rimaste uccise da overdose di farmaci. Il cronista del ministero, sia pure a livello di ipotesi, anticipa così quanto affermerà in una nota il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio solo quattro giorni dopo. La dichiarazione diffusa sollecitamente dalla procura, tuttavia, deve precisare che “l’esito definitivo degli accertamenti sarà disponibile nelle prossime settimane”. Cautela non rilevata dai media, che titolano sul fatto che sarebbe stata confermata come causa di morte l’overdose di farmaci. I giornalisti più prudenti, di nuovo con qualche incoerenza espositiva, informano che “si sono concluse le autopsie sui detenuti deceduti durante i disordini: i primi esiti escludono una morte violenta e sembrano confermare l’ipotesi di overdose di farmaci” (di nuovo le sottolineature sono nostre). In sostanza, dopo alcuni giorni e nonostante i primi esami, siamo ancora al livello delle presunzioni, pur se ora dotate di ufficialità. Inutile - o forse no - rilevare che nelle successive settimane dell’esito definitivo degli accertamenti autoptici sulla stampa non si troverà traccia. Del resto, il riserbo o l’indifferenza delle autorità è tale che a lungo non saranno neppure resi pubblici i nomi dei deceduti. E forse sarebbero rimasti anonimi a tutt’oggi, senza il decisivo intervento della stampa locale e di quella nazionale. Laddove singoli giornalisti hanno meritoriamente supplito ai silenzi e inadempienze delle autorità politiche e penitenziarie, così come alla distrazione e reticenza di gran parte dei loro colleghi. I detenuti di Modena deceduti sono stati nove: cinque la domenica 8 marzo, altri quattro il giorno successivo, dopo o durante il trasferimento in nuovi penitenziari. Ulteriori tre sono morti a Rieti e uno a Bologna (pur se, inizialmente, qualcuno erroneamente ne conterà due). Tre nomi erano stati ricostruiti nell’immediatezza dalla stampa locale, ma l’elenco completo arriverà solo grazie a Luigi Ferrarella, cronista di giudiziaria del “Corriere della Sera”, che riuscirà finalmente a pubblicarlo il 18 marzo: “Un nome, ce l’avevano pure loro. E anche una storia”. Due soli gli italiani, il 35enne Marco Boattini, morto a Rieti e il 40enne Salvatore Cuono Piscitelli, deceduto ad Ascoli dopo il trasferimento da Modena. Gli altri erano stranieri, alcuni in attesa di giudizio, spesso per piccoli reati, talvolta connessi alle droghe. Diversi tunisini: Slim Agrebi, 40 anni; Lofti Ben Masmia anche lui quarantenne; Hafedh Chouchane, 36 anni; Ali Bakili, 52 anni; Haitem Kedri, 29 anni, Ghazi Hadidi, 36 anni. Dal Marocco venivano Erial Ahmadi, 37 anni, e Abdellah Rouan di 34. Infine, Ante Culic, 41 anni, croato, Carlo Samir Perez Alvarez dell’Ecuador e Artur Iuzu, 31 anni, moldavo; avrebbe avuto il processo il giorno successivo la morte. Altri dettagli sulle 13 vittime arriveranno dalla giornalista Lorenza Pleuteri, con un articolo pubblicato il 2 aprile, che si è presa la briga di cercare e sentire volontari, operatori, magistrati, avvocati e di rintracciare famigliari. Di fare, insomma, il suo mestiere, a differenza di tanti altri colleghi. Tutto ciò “nel totale silenzio del Ministero di Grazia e Giustizia e delle autorità”, come scriverà a fine marzo la testata locale, “La Gazzetta di Modena”, che ricorderà come dei 13 morti non sia mai stata data la lista e neppure una spiegazione né dal ministro Alfonso Bonafede né dal Dipartimento dell’Autorità Penitenziaria. Il ministro, in verità, aveva preso parola tempestivamente, con una informativa al Parlamento datata 11 marzo. Peccato che, con la stessa, non avesse chiarito alcunché. Né, appunto, fornendo i nomi e la posizione delle vittime; né, ancor meno, particolari sulla vicenda e sulle cause della strage. Vittime cui, in tutta la lunga relazione, il Guardasigilli dedica un unico passaggio. Dopo aver ricostruito nel dettaglio e stigmatizzato i disordini, “fuori dalla legalità e addirittura nella violenza non si può parlare di protesta; si deve parlare semplicemente di atti criminali”, espresso la propria solidarietà agli “oltre 40 feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione”, vi è un solo, lapidario, inciso al bilancio “purtroppo di 12 morti tra i detenuti, per cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”. Nessun particolare, nessuna specificazione, nessun chiarimento su chi e quanti siano gli abusatori di farmaci e quanti e quali gli altri, sui primi riscontri, sugli accertamenti in corso e quelli da fare. Nessuna informazione, in quella sede o altrove, è stata data sulle visite mediche che obbligatoriamente dovrebbero essere effettuate sui detenuti tradotti. Nessuno, in ogni caso, ha contestato al ministro, sui media o in parlamento, quel che ha giustamente rimarcato in un comunicato la Camera Penale di Modena: “risulta difficile comprendere come molti di loro siano deceduti nel corso della traduzione o presso l’istituto di destinazione”. Vi sono dunque chiarimenti che doverosamente il ministro avrebbe dovuto dare - e che altrettanto doverosamente chi ne ha titolo avrebbe dovuto richiedere - anche riguardo le morti che effettivamente rientrino in quella sfuggente e ambigua definizione: “per lo più”. Degli altri, dei “per lo meno”, a tutt’oggi, non si hanno notizie. Dalla Camera stretta sulle toghe fuori ruolo. E il governo si divide di nuovo sulla prescrizione di Liana Milella La Repubblica, 26 giugno 2020 Giustizia, dalla Camera stretta sulle toghe fuori ruolo. E il governo si divide di nuovo sulla prescrizione. Via libera definitivo ai decreti del Guardasigilli Bonafede sulle misure anti scarcerazioni. La giustizia riparte il 1 luglio. A settembre entra in vigore la legge sulle intercettazioni “irrilevanti”. Sì all’App immuni, alla ripartenza della giustizia dal primo luglio, ma anche ai decreti anti-scarcerazioni di Bonafede e alle intercettazioni in vigore dal primo settembre. Ma la Camera dice sì anche alla stretta sulle toghe che vanno fuori ruolo. Il governo dà il via libera all’ordine del giorno del responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa che, vista l’emergenza Covid e la giustizia a rilento, chiede di far tornare in servizio i magistrati che attualmente si trovano fuori ruolo. Parliamo di circa 200 toghe. Dopo lunghe trattative passa un testo frutto di un compromesso, sottoscritto anche dal sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi di M5S presente in aula. Che parla di “ridurre” gli incarichi per le toghe “ordinarie, amministrative, contabili e militari, nonché per avvocati e procuratori dello Stato”. Ma non basta, perché sempre Costa prosegue la sua battaglia contro la prescrizione di Bonafede (entrata in vigore il primo gennaio 2020, blocca l’orologio del processo dopo il primo grado). Un altro ordine del giorno dello stesso Costa e del forzista e avvocato barese Francesco Paolo Sisto viene sì bocciato, ma incassa i voti a favore del centrodestra e soprattutto quelli di Italia viva, che con Silvia Fregolent ribadisce la contrarietà alla norma Bonafede. Che, secondo gli autori dell’ordine del giorno, andrebbe cancellata per ripristinare la legge Orlando, con la prescrizione soltanto sospesa per 36 mesi dopo il primo grado (18 mesi) e dopo l’appello (altri 18), ma solo per chi è stato condannato. Come si ricorderà la trattativa per cambiare la legge Bonafede, su cui era stato raggiunto un accordo, si è bloccata per via del Covid e non è mai più ripresa. Ma i renziani sono sempre stati contrari alla Bonafede e in più occasioni parlamentari hanno chiesto di rinviarla per poi cambiarla nel frattempo. Alla Camera finisce con 256 voti a favore e 159 contro (con 4 astenuti) sul decreto “misto” che raggruppa il nuovo, ma questa volta definitivo rinvio della legge sulle intercettazioni, al primo settembre. Ma anche le norme sull’App immuni. Nonché i due decreti riuniti del Guardasigilli Alfonso Bonafede contro le 220 scarcerazioni di altrettanti boss mafiosi avvenute in una quarantina di giorni tra marzo e aprile. Il primo decreto è quello che obbliga i magistrati di sorveglianza a sentire il parere delle procure antimafia e anche del procuratore nazionale antimafia. Il secondo, peraltro già impugnato davanti alla Consulta da tre uffici giudiziari, è quello che obbliga le toghe a verificare le condizioni che hanno permesso i domiciliari. Tra le norme c’è anche quella che fa ripartire la giustizia il primo luglio, lasciandosi alle spalle il lockdown dovuto al Covid. Tribunali, finisce (forse) l’emergenza. Intercettazioni con riforma tra 2 mesi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2020 Dalle misure sul carcere alla giustizia civile e penale da remoto, dal nuovo rinvio della riforma delle intercettazioni alla disciplina della app Immuni, il decreto legge approvato ieri in via definitiva alla Camera grazie al voto di fiducia (non esattamente un buon viatico per future e più ambiziose riforme nel segno della condivisione), rappresenta un contenitore che ha incamerato una buona parte delle norme emergenziali di queste ultime settimane. Nel dettaglio, la novità in assoluto più significativa introdotta nel passaggio di conversione è senza dubbio rappresentata dalla decisione di mettere fine, con un mese di anticipo, alla fase di amministrazione della giustizia caratterizzata da un sostanziale blocco con rinvio delle udienze e, comunque, da un accentuato utilizzo delle modalità digitali sia nel civile sia, per quanto possibile, nel penale. Da mercoledì i tribunali dovrebbero tornare alla normalità, anche se si tratta di una normalità che già scontenta gli avvocati alle prese con continui slittamenti che di fatto fanno ritenere possibile una vera ripartenza non prima dell’autunno. Già però si profila un altro fronte, perché è intenzione del ministero della Giustizia provare a conservare sino alla fine dell’anno una parte almeno dell’esperienza di queste settimane, soprattutto sul fronte dell’amministrazione “da remoto”, permettendo, per esempio, lo svolgimento dell’udienza civile che non richiede la presenza di soggetti diversi dai difensori attraverso il deposito telematico di note scritte oppure la partecipazione da remoto alle udienze civili dei difensori e delle parti su loro richiesta. Nel penale, lo svolgimento, con il consenso delle parti, delle udienze con l’uso di soli collegamenti audiovisivi. In questo senso già è stato presentato un emendamento al decreto rilancio. Nel testo del provvedimento approvato ieri trova posto anche lo slittamento al 1° settembre dell’entrata in vigore della nuova disciplina delle intercettazioni con un più diretto controllo del pubblico ministero sulla trascrizione di contenuti irrilevanti per lo svolgimento delle indagini. Via libera anche al pacchetto di modifiche della procedura per la concessione di alcune misure alternative al carcere, prevedendo, tra l’altro, che quando è in discussione il riconoscimento di permessi premio e detenzione domiciliare a categorie di detenuti per alcune categorie di reati, soprattutto di criminalità organizzata, vengano coinvolte anche le strutture antipamfia, locali o nazionale. Collocate nel decreto anche le possibilità di revoca, da parte della magistratura di sorveglianza, già oggetto peraltro di alcune questioni di legittimità costituzionale, dell’uscita dal carcere di detenuti soprattutto per mafia, motivata da ragioni sanitarie legate all’emergenza Covid. “Ora processiamo le toghe” di Errico Novi Il Dubbio, 26 giugno 2020 Giovanni Salvi chiede al Csm il giudizio disciplinare per Palamara e altri nove magistrati. Il Procuratore della Cassazione: “Rischiano di essere radiati, toccato il punto di non ritorno”. Ancora al vaglio le nuove chat. Il momento. Si deve considerare il momento. L’espulsione di Luca Palamara, appena deliberata dall’Anm tra non poche contestazioni della difesa. L’ipotesi di avviare una procedura amministrativa nella prima commissione del Csm, che valuti eventuali incompatibilità ambientali per i magistrati coinvolti nel caso Procure. La sanzione impropria di una riforma hard. Che tuttora oscilla fra l’arma letale (per le correnti) del sorteggio e le troppe timidezze sul rigore nelle valutazioni di professionalità. C’era il serio rischio della giustizia sommaria, anzi confusa, nella cosiddetta Palamaropoli (copyright dell’insopportabile Vittorio Sgarbi). Di fronte a un simile rischio, il Pg della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati italiani, convoca una eccezionale, perché insolita, conferenza stampa. Si limita a poche parole, pesantissime: chiusa la prima parte dell’istruttoria relativa agli atti dell’indagine penale di Perugia, la Procura generale, spiega, “ha chiesto alla sezione disciplinare del Csm il giudizio per dieci magistrati”. Sono Luca Palamara, il deputato di Italia viva (magistrato in aspettativa) Cosimo Ferri, i cinque ex togati del Csm - Antonio Lepre, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli - che si erano dimessi l’anno scorso dopo l’avvio dell’inchiesta, l’ex pm della Dna Cesare Sirignano, l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava e due magistrati segretari del Consiglio superiore (per uno dei quali la richiesta di giudizio disciplinare è già stata avanzata in precedenza). “Rischiano anche le sanzioni più gravi”, ossia la radiazione dall’ordine giudiziario, ricorda Salvi. Non solo. La Procura generale della Cassazione, chiarisce ancora il magistrato che ne è a capo, continua a condurre un lavoro incentrato sulla “assoluta correttezza e trasparenza” anche sulle nuove chat contenute negli atti di recente depositati dagli inquirenti umbri. Se sui primi 10 nomi l’istruttoria è chiusa, ci sono diverse altre posizioni al vaglio della Suprema corte. “Alcune conversazioni riguardano anche consiglieri”, cioè togati tuttora in carica, ma, avverte ancora il pg di Cassazione, “dobbiamo fare un lavoro completo, valutare le diverse condotte”. Non si trascurerà alcun dettaglio e anche i comportamenti meno immediatamente associabili a chiari illeciti disciplinari saranno trattati “con serietà”, senza “nessun coperchio sopra”, con “criteri chiari e trasparenti, che saranno resi pubblici assieme alla conclusione dell’istruttoria”. Alcuni dei magistrati finiti nell’ultima ondata del gossip mediatico- giudiziario non sono consiglieri superiori ma hanno rivestito funzioni di enorme rilievo, anche ai vertici dei ministeri. “Ciò che è successo è irreversibile, ha segnato un punto di non ritorno”, osserva Salvi nell’incontro con la stampa, “l’impatto di queste vicende è pessimo ma ora si stanno facendo passi avanti importanti al Csm. All’opinione pubblica”, è il messaggio del pg, “direi di guardare con fiducia: c’è stato un grave colpo alla credibilità, e abbiamo tutti desiderio di dimostrare che vogliamo cambiare pagina”. Si dirà: ecco il terribile inquisitore. Il magistrato pronto a stritolare i colleghi troppo indaffarati a trattar nomine. Certo, il capo d’incolpazione è pesantissimo, nel caso dei 10 per i quali l’istruttoria è chiusa: parlare di “interferenza nell’esercizio dell’attività del Consiglio”, riferita ai contatti impropri, esterni al fisiologico confronto con la componente laica del Csm, è una contestazione disciplinare molto specifica e ben definita. Certo più di quanto potrebbe essere l’assai fumoso traffico di influenze per un politico che raccomanda il dirigente di un’azienda a partecipazione pubblica. Perché va pesato quel dettaglio rilevantissino, non casualmente richiamato dal procuratore generale: “L’elemento differenziale sta nel fatto che le scelte venivano esposte in relazione a condotte o richieste rispetto a posizioni processuali, per favorire uno o danneggiare l’altro”. Quindi, il legame tra esponenti dei partiti e alcuni consiglieri superiori avrebbe intrecciato le strategie sulle nomine con indagini di competenza degli uffici a cui erano relative. Qui c’è qualcosa di diverso: non si tratterebbe di traffico d’influenze, ma del tentativo di condizionare, con l’attribuzione di incarichi direttivi, l’esito di indagini che alcune Procure, essenzialmente quella di Roma, conducevano a carico sia di magistrati sia di esponenti politici. Si diceva dell’inquisitore. E invece Giovanni Salvi va riconosciuto come un pacificatore, in realtà. Perché rispetto alle pur pesantissime ipotesi disciplinari che intende contestare nel giudizio a Palazzo dei Marescialli, non fa altro che svolgere la propria funzione. Ora per gli incolpati “ci sarà la più ampia possibilità di difendersi”, come ricorda lo stesso pg. Ma soprattutto, con la mossa appena compiuta, Salvi ha fatto ordine. Ecco perché va considerato un pacificatore. Ha ricordato che non sarà necessario ricorrere a procedure di trasferimento per incompatibilità ambientale, o che comunque tali iniziative non dovranno essere proposte quale improprio surrogato del procedimento disciplinare. Ha ricordato pure che l’Anm ha titolo, certo, ad agire per le violazioni al codice deontologico, ma che la stessa associazione non dovrà essere tormentata dalla frenesia della giustizia domestica sommaria. E soprattutto, Salvi ha ricordato, come aveva fatto Giovanni Maria Flick qualche giorno fa attraverso un’intervista al Dubbio, che gli strumenti per sanzionare le condotte scorrette, nella magistratura, esistono. E che lì dove non si ritiene di potersi spingere sul piano penale, può arrivare il processo davanti alla sezione disciplinare del Csm. E infine, che la politica non avrà alcun bisogno di riforme punitive, né nei confronti delle correnti né del Csm. Dovranno essere “semplicemente coraggiose” (e non ipocrite, come paventato dall’Unione Camere penali), al pari delle parole pronunciate ieri da Salvi. Una struttura che va riformata di Valerio Onida Corriere della Sera, 26 giugno 2020 Si discute molto, di questi tempi, di organizzazione e di governo della giustizia e della magistratura, fra rivelazioni sulle modalità con cui il Consiglio Superiore sceglie i dirigenti degli uffici giudiziari e polemiche postume sulla scelta da parte del Ministro del Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a cui non è stato preposto un noto magistrato di Procura che aspirava al ruolo. Non si pone molta attenzione, invece, ad un fatto che di per sé costituisce una singolare anomalia: nell’organigramma del dicastero guidato dal Ministro della giustizia, cui spettano, per Costituzione, “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” (è l’unico Ministro, nel nostro sistema, che ha una sfera di competenza direttamente determinata dalla Costituzione, e quindi poteri propri che può difendere anche nei confronti di ogni altro potere dello Stato), pressoché tutti i dirigenti apicali sono magistrati ordinari collocati temporaneamente fuori ruolo con l’autorizzazione del Consiglio superiore. Lo è il direttore generale “per il coordinamento delle politiche di coesione”, lo sono il capo e il vice capo dei quattro Dipartimenti (affari di giustizia; organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi; amministrazione penitenziaria; giustizia minorile e di comunità). Lo sono persino i vertici di quasi tutti gli uffici di diretta collaborazione col Ministro, a partire dal Gabinetto del Ministro, per proseguire con l’ufficio legislativo e l’ispettorato generale. Se ci si domanda quale sia la ragione di questa singolarità - membri dell’ordine della magistratura, autonomo e indipendente da ogni altro potere, che dirigono le funzioni amministrative relative ai servizi relativi alla giustizia, spettanti al Ministro e dunque al Governo - la risposta probabilmente è nella storia: da sempre in Italia è così. Da sempre dunque numerosi magistrati ordinari, per periodi più o meno lunghi della loro carriera, non fanno né i giudici né i pubblici ministeri, funzioni per le quali la legge garantisce loro l’indipendenza, ma lavorano nel Ministero, scelti dal Ministro e alle dipendenze del Ministro (o è il Ministro che finisce per dipendere da loro?), occupandosi di tutti i servizi amministrativi della giustizia, e quindi svolgendo compiti che hanno direttamente a che fare con l’efficienza di tali servizi. Sarebbe anche interessante ricostruire quanto e come tali funzioni amministrative apicali svolte da magistrati influiscano in fatto sulla loro carriera, quando tornano a fare i magistrati e concorrono all’assegnazione di funzioni direttive in organi giudiziari (presidenti di Tribunale e di Corte d’appello, procuratori della Repubblica e procuratori generali). Certo non sono irrilevanti nel loro curriculum: abbiamo visto, di recente, un magistrato, che era stato capo di Gabinetto del Ministro, nominato subito dopo, si deve supporre con pieno merito, Capo di una importante Procura. E si deve anche riconoscere che ai fini dell’assunzione di uffici direttivi nella magistratura, in cui insieme alla capacità di risolvere le controversie secondo giustizia dovrebbero contare le capacità e le attitudini organizzative e manageriali necessarie per dirigere uffici complessi, una esperienza svolta nel campo dell’amministrazione può essere utile. Tuttavia resta l’anomalia di un corpo amministrativo quasi interamente costituito, ai massimi livelli, da membri dell’ordine giudiziario. L’amministrazione è o dovrebbe essere “servente” della politica, anche della politica giudiziaria, assicurando l’istruttoria tecnica nella formazione delle decisioni politiche e quindi delle leggi (si pensi agli uffici legislativi), e curando i procedimenti amministrativi necessari per la loro attuazione e per organizzare i servizi, nel rispetto dell’indipendenza dei giudici. Nemmeno si può dire che sia questione di competenza tecnico-giuridica: quella necessaria per organizzare e dirigere servizi amministrativi è diversa da quella richiesta per giudicare. E del resto colpisce il fatto che, mentre in altri Ministeri tale competenza tecnicogiuridica è spesso assicurata, ai massimi livelli, da consiglieri di Stato, membri del massimo organo di giustizia amministrativa ma anche storico apparato di alta consulenza del Governo, nel Ministero della Giustizia si trovano solo magistrati ordinari. La legge chiama il Ministro della giustizia, fra l’altro, a concorrere alla scelta dei magistrati da preporre agli uffici direttivi della magistratura, con il “concerto” che deve essere cercato con l’apposita commissione del Csm, anche se poi la scelta finale spetta al plenum del Consiglio. Ebbene, non è improbabile che una delle ragioni per le quali non sembra che i Ministri riescano a contrastare, esercitando opportunamente il proprio potere di “concerto”, le prassi corporative e correntizie emerse nella cronaca di questi mesi, stia proprio nel fatto che la struttura del Ministero è di fatto “occupata” da magistrati, la cui carriera dipende in definitiva dalle determinazioni del Consiglio Superiore. Ancora: si discute molto, e giustamente, di limitare il fenomeno cosiddetto delle “porte girevoli”, cioè del passaggio da funzioni giudiziarie a compiti politici e viceversa, soprattutto impedendo a chi si sia dedicato a funzioni politiche di tornare troppo facilmente a giudicare: ma, sia pure facendo le debite differenze, anche questo assai più frequente scambio fra funzioni giurisdizionali e funzioni amministrative svolte dalle medesime persone può nuocere sia alla indipendenza della magistratura, sia soprattutto alla indipendenza delle scelte politico-amministrative del Governo da eccessivi influssi “corporativi”. È da auspicare dunque che, nel momento in cui giustamente si pensa di aprire una stagione di riforme anche nei modi in cui si provvede al governo autonomo della magistratura, si ponga mente anche all’esigenza di eliminare o contenere l’anomalia che si è detta: magari pensando a costruire nel tempo un corpo amministrativo (si pensi, in tutt’altro campo, al ruolo che svolge da sempre nel nostro sistema politico-amministrativo il corpo dei prefetti) formato e dedicato specificamente ai servizi della giustizia. Quel “grido di dolore” del presidente Mattarella e la crisi della giustizia di Vincenzo M. Siniscalchi Il Mattino, 26 giugno 2020 Il sobrio ed incisivo discorso del presidente Mattarella in occasione della cerimonia commemorativa di magistrati assassinati da terrorismo e mafie negli anni ottanta ha l’indiscutibile pregio della chiarezza. È un “grido di dolore” che esprime la sofferta constatazione della crisi che investe l’organo di autogoverno della magistratura con la “perdita di credibilità dell’Ordine giudiziario”. Non è più solo un problema in altri termini, di comportamenti riconducibili ad uno scadimento etico di singoli, ma quello più generale di una grave ricaduta negativa nella considerazione della società italiana a danno della autorevolezza e del prestigio della magistratura nel comune sentire della società democratica. I rilievi del presidente della Repubblica, (che, come è noto, nel nostro sistema costituzionale del Csm è anche presidente), fanno ancora una volta risaltare in capo al presidente Mattarella la funzione di garante dei valori di autonomia e di indipendenza della magistratura, valori che appaiono clamorosamente offuscati proprio nella trattazione delle pratiche di autogoverno che il Csm svolge in forma primaria. Si addensano ombre sulle pratiche relative alle nomine di uffici direttivi nonché, nella articolazione delle Commissioni, con tutta la serie di provvedimenti autorizzativi in materia di trasferimenti e questioni rilevantissime in materia di decisioni relative ai cosiddetti “fuori ruolo”. Va detto che questi gravi problemi non si evidenziano solo per quanto emerge da inchieste giudiziarie o disciplinari, ma si chiede, ormai, di affrontare questi problemi (che trovano correttivi nei ricorsi alla giustizia amministrativa) in un tessuto più chiaro e più stringente di regole dal punto di vista etico e giuridico. In altri termini il “male assoluto” sarebbe l’aggiramento delle regole di valutazione a danno della trasparenza dei giudizi. I giudizi valutativi, rischiano di subire le torsioni derivanti dai patti interni tra gruppi di potere per scavalcare la obiettività del giudizio sulle carriere dei magistrati. Penso che ricorrere addirittura ad una riforma costituzionale, come pur si sostiene, significherebbe solo ricorrere ad un gattopardesco mutamento genetico. Se di torsioni etiche e comportamentali si tratta ritengo l’intervento correttivo vada contenuto in una attivazione maggiore della competenza della Sezione disciplinare e della Prima commissione consiliare del Csm. Se poi bisogna intervenire nella formazione dei poteri correntizi certamente la ipotesi bizzarra del “sorteggio” non appare consona al privilegio da accordare comunque a metodi di elezione democratica. Quella che viene definita “degenerazione correntizia” è frutto di accordi che tendono a superare anche le valutazioni che promanano dai vistosi fascicoli che consentono una onesta e trasparente scelta di voto per gli incarichi direttivi e semi-direttivi come per le designazioni alla Scuola superiore della magistratura o all’importante funzione di magistrati di collegamento dall’Estero. Nel mortificante dibattito in corso si intravede comunque qualche segnale positivo. Ad esempio: non si può pensare che la “degenerazione” debba travolgere la funzione dell’associazionismo giudiziario. La storia delle varie componenti della Anm è la storia di un dibattito democratico che ha prodotto nel corso dei decenni rilevanti risultati culturali e sociali, ha sviluppato nei congressi delle Associazioni una moderna struttura articolata in un dibattito fatto di studio, di convegni, di proposte. Un dibattito che, francamente, non può essere confuso con la modestia etica delle inquietanti “spartizioni” di incarichi e controlli mirati delle nomine stesse che pur sono emerse in questo periodo. Travolgere i risultati positivi di questo lavoro di studio e di esperienza con il pretesto della caccia al “correntismo deteriore” significa aprire la porta alla improvvisazione ed alla politicizzazione più confusa. Fondamentale è potenziare con normative stringenti la difesa istituzionale del Csm, a tutela piena e libera dalla autonomia ed indipendenza della magistratura. E tuttavia non può darsi all’intervento del Capo dello Stato il valore di un richiamo limitato alla crisi del Csm. La perdita di autorevolezza e di prestigio che si segnala da più indicatori è riferibile ad una crisi che investe l’intero ordinamento giudiziario ed alla sostanziale inerzia che paralizza l’attività della giurisdizione. Chi legge le cronache delle rivolte nelle carceri, e, peggio, delle morti di detenuti, chi segue i dibattiti televisivi che accompagnano le scarcerazioni dei “boss”, chi entra in una: aula giudiziaria penale ed assiste al continuo susseguirsi del rinvio dei processi a tempi lunghissimi, per fare solo qualche esempio, attribuisce la caduta della credibilità dell’Ordinamento alla crisi innegabile delle istituzioni giudiziarie della quale nessuno si occupa e sulla quale dovremo fare il punto per comprendere che non tutto è ascrivibile al “correntismo”. Piuttosto, ci troviamo di fronte ad una Giustizia che non può più dirsi amministrata “in nome del popolo italiano” se è vero che nel popolo italiano si diffonde un evidente sentimento di sfiducia sull’andamento della giustizia, una sorta di scadimento irreversibile di quello che dovrebbe essere un pilastro della democrazia repubblicana. In Italia non c’è giustizia, i Pm condizionano sentenze e processi di Piero Sansonetti Il Riformista, 26 giugno 2020 Luca Palamara, nell’intervista che ha rilasciato al nostro Paolo Comi, è stato spietato nei confronti della magistratura. Io penso che ci si possa fidare di lui. La conosce bene la magistratura. L’ha frequentata in lungo e in largo, nel bene e nel male, nelle retrovie e in prima linea. Conosce i soldati e i generali. La sua denuncia mi sembra che si concentri su un punto: lo strapotere delle Procure e dei Pm. Ci spiega bene questo strapotere, che non consiste - come in genere si dice - nei rapporti con la politica. Anche se quei rapporti spesso ci sono e sono palesi ma illeciti. Consiste nel ruolo stesso che è stato consegnato ai Pm, nel grado della loro indipendenza e delle loro competenze. L’indipendenza è considerata dai Pm semplicemente come il diritto di essere al di sopra di ogni controllo. Dominus senza condizioni. Le competenze danno loro il potere di comandare ogni tipo di polizia, anzi di sceglierla, di decidere come e dove indirizzare le indagini, di gestire i rapporti con la stampa, e la subordinazione della stampa, e anche di esercitare una influenza fortissima sulla magistratura giudicante, che nel disegno istituzionale dovrebbe essere la controparte del Pm, ma nella realtà, salvo eccezioni, è molto spesso una parte sottomessa. Ora la riflessione che va fatta, credo, è questa. Proviamo anche a disinteressarci del problema di come avvengono le nomine e di come il partito dei Pm domini la giustizia, la renda dipendente di sé stesso e di come condizioni con facilità la politica. Poniamoci invece questa semplicissima e drammatica domanda: il partito dei Pm è in grado di condizionare i processi e le sentenze? Il problema veramente drammatico che abbiamo davanti è esattamente questo. Perché la risposta alla domanda che ho posto è inequivocabile: sì, i Pm sono in grado di condizionare le sentenze e lo fanno con una certa frequenza. E le sentenze, e il corso dei processi, spesso sono merce di scambio, o partita di giro nelle trattative di potere che avvengono tra le correnti, nelle correnti, e nei rapporti tra Procure e Giudici. Capite che vuol dire? Che in Italia non esiste la giustizia. E che il destino dei cittadini che a centinaia di migliaia, o forse a milioni, incontrano la strada della magistratura, non sarà determinato dalla giustizia o dalle leggi o dal diritto, ma dai giochi di potere nella magistratura. Lo dico meglio: viviamo in una società illegale. La domanda di giustizia è del tutto inevasa. La speranza per un cittadino per bene che finisca nelle maglie della giustizia, è che il Pm abbia interesse o inclinazione a favorirlo. Tutto questo lo abbiamo scoperto grazie al trojan? No, lo sapevamo, i giornalisti lo sapevano: però tacevano. Per convenienza, per complicità. Si può correggere tutto questo? Sì, ma non bastano certo le riformette di Bonafede. La separazione delle carriere va realizzata immediatamente. E poi bisogna trovare il modo giusto per salvare l’indipendenza della magistratura e annullare il potere dei Ras. Probabilmente va messa in discussione l’indipendenza del Pubblico Ministero. Che, del resto, non esiste in quasi nessun paese democratico. La strage di Ustica, 40 anni fa: la battaglia nei cieli e le bugie di Stato di Andrea Purgatori Corriere della Sera, 26 giugno 2020 Il 27 giugno 1980, il Dc9 Itavia Bologna-Palermo esplose in volo, inabissandosi nei pressi dell’isola di Ustica. I morti furono 81. Ecco che cosa sappiamo di quella strage: dai caccia in volo in quel momento agli infiniti depistaggi. Raccontare la strage di Ustica dopo 40 anni, un tempo infinito per i familiari delle 81 vittime che dal 27 giugno del 1980 aspettano la verità, è un po’ come fare la cronaca di una lunga e complessa corsa a ostacoli. Serve la memoria, che conta ma non basta. E non soltanto perché alla Procura di Roma c’è tuttora una inchiesta aperta per stabilire cause e responsabilità dell’esplosione di quel DC9 che volava da Bologna a Palermo in un cielo limpido ma, al contrario di quello che per decenni si sono affannati a sostenere i vertici militari dell’epoca, affollato di caccia di molte nazioni: americani, francesi, britannici e naturalmente italiani. E tutto questo in un Mediterraneo che allora era uno dei luoghi più pericolosi del pianeta. Dove si scaricavano fortissime tensioni internazionali tra i due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, ma anche confronti tra nazioni. Daria Bonfietti, dal 1988 è presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime di Ustica (Ansa) Daria Bonfietti, dal 1988 è presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime di Ustica (Ansa) Ecco, è in questo contesto che va calata la storia della strage. In una stagione in cui l’Italia giocava su più tavoli, per interessi diversi. Basta pensare alla Libia del colonnello Muammar Gheddafi, che all’epoca era considerato il nemico numero uno dell’Occidente come poi lo sarebbero diventati Saddam Hussein e Osama Bin Laden. Nel 1980, Gheddafi possedeva il 13 per cento delle azioni della nostra industria più importante: la Fiat. Ci garantiva quasi la metà dell’energia di cui il paese aveva bisogno, tra petrolio e gas. E aveva accolto oltre ventimila lavoratori italiani, che costituivano la forza necessaria a costruire la grande Jamahiria su cui il colonnello aveva fondato la propria ambizione di leader del mondo arabo. Potevano americani e francesi tollerare che l’Italia intrattenesse rapporti tanto ambigui con Gheddafi? Certamente, no. E ce lo avevano detto esplicitamente. Il DC9 Itavia decolla dall’aeroporto di Bologna alle 20,08 con due ore di ritardo, a causa di un violento temporale. A bordo ci sono due piloti, due assistenti di volo e 77 passeggeri tra cui 13 bambini. La rotta prevede il sorvolo dell’Appennino, la discesa fino a Roma e poi l’ultima tratta lungo l’aerovia Ambra 13 fino a Palermo. Ma è proprio quando l’aereo si trova sull’Appennino che, secondo le perizie radaristiche, si verificano i primi due episodi sconcertanti di questa lunga storia. Primo. Il DC9 viene agganciato da un altro velivolo, quasi certamente un caccia e forse un Mig libico (tre settimane dopo ne verrà “ufficialmente” rinvenuto uno precipitato sulla Sila), che si mette nella scia dell’aereo civile per nascondersi ai radar. Secondo. Due intercettori F104 dello stormo dell’Aeronautica di Grosseto incrociano il DC9 e rientrano alla base segnalando un’emergenza come previsto dal manuale Nato: volando in modo triangolare sull’aeroporto mentre inviano segnali muti premendo il pulsante della radio. Sull’F104 che dà l’allarme ci sono i piloti Ivo Nutarelli e Mario Naldini. Alfredo Galasso, avvocato di parte civile dei familiari delle vittime (Ansa) Alfredo Galasso, avvocato di parte civile dei familiari delle vittime (Ansa) Hanno visto l’intruso? Sì, perché volavano “a vista”. Ma non potranno mai raccontarlo. Prima di essere interrogati dal giudice Rosario Priore moriranno a Ramstein, in Germania, dove si scontreranno uno contro l’altro durante un’esibizione delle Frecce tricolori. Intanto il DC9 continua sulla rotta verso Sud. E il controllo del traffico aereo di Ciampino lo segue. Ma la traccia è a zigzag, e i periti la interpreteranno come doppia, confermando la presenza del secondo velivolo sconosciuto. Fino al cielo sulle isole di Ponza e Ustica. Dove pochi secondi prima delle 21 il copilota dice quell’ultima frase, completata da una nuova analisi compiuta da Rainews sulla registrazione del voice recorder: “Guarda cos’è….”. Poi l’esplosione e il silenzio. Extracomunitari, domande di “protezione” anche al giudice, no al trattenimento di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2020 Più tutele per i cittadini extra comunitari alla ricerca di “protezione internazionale”. La Corte di giustizia di Lussemburgo, con la sentenza 25 giugno 2020, nella causa C-36/20 PPU, ha infatti accordato maggiore libertà nella presentazione delle domande e fissato rigidi paletti per il “trattenimento”. Per i giudici europei anche il giudice istruttore chiamato a pronunciarsi sul trattenimento di un irregolare di un paese terzo rientra nel novero delle “altre autorità” preposte a ricevere domande di protezione internazionale e deve informare l’interessato delle modalità concrete di inoltro della domanda. Non solo la persona che abbia manifestato la volontà di chiedere la protezione internazionale non può essere trattenuta a causa delle disponibilità insufficienti in un centro di accoglienza umanitaria. La vicenda - Il 12 dicembre 2019, un’imbarcazione a bordo della quale si trovavano 45 persone di paesi terzi, tra cui un cittadino del Mali, è stata intercettata dal soccorso marittimo spagnolo nei pressi dell’isola di Gran Canaria (Spagna), dove poi sono stati condotti. L’indomani, un’autorità amministrativa ne ha disposto l’allontanamento e ha formulato una domanda di collocazione in un centro di trattenimento. A questo punto lo straniero ha manifestato l’intenzione di chiedere la protezione internazionale. In mancanza di sufficienti disponibilità in un centro di accoglienza umanitaria, il giudice ne ha però disposto il collocamento in un centro di trattenimento. Da qui il ricorso contro la decisione poi rimbalzato alla Corte Ue. Investita della questione, la Corte europea ha dichiarato che un giudice istruttore chiamato a pronunciarsi sul trattenimento di un cittadino di un paese terzo in situazione irregolare rientra nella nozione di “altre autorità” (ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2013/32, cd. “direttiva procedure”), che sono preposte a ricevere le domande di protezione internazionale sebbene non siano competenti, a norma del diritto nazionale, a registrarle. Il giudice è poi tenuto ad informare il richiedente sulle modalità concrete di inoltro della domanda. La Corte ha altresì dichiarato che l’impossibilità di trovare un alloggio in un centro di accoglienza umanitaria non può giustificare il trattenimento di un richiedente protezione internazionale. Le motivazioni - Ricapitolando. In primo luogo, la Corte ha precisato che la scelta dell’aggettivo “altre”, testimonia la volontà del legislatore dell’Unione di accogliere una concezione ampia delle autorità che, senza essere competenti a registrare le domande, possono tuttavia riceverle. Tale espressione può, pertanto, ricomprendere tanto autorità amministrative quanto autorità giurisdizionali. Del resto, prosegue la decisione, uno degli obiettivi perseguiti dalla direttiva “procedure” è proprio quello di garantire un accesso effettivo, ossia più facile possibile, alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale. In questo senso, vietare a un’autorità giurisdizionale di ricevere le domande ostacolerebbe la realizzazione di tale obiettivo, in particolare nel caso di procedimenti assai rapidi, nei quali l’audizione del richiedente da parte di un giudice rappresenta la prima occasione per presentare la domanda. In secondo luogo, il giudice è tenuto a fornire ai richiedenti protezione internazionale informazioni sulle modalità concrete di inoltro della domanda. E qualora il richiedente abbia manifestato la volontà di presentare la domanda a un giudice istruttore, quest’ultimo deve trasmettere il fascicolo all’autorità competente. In terzo luogo, la Corte ha esaminato la compatibilità del trattenimento con le direttive “procedure” e “accoglienza”. Anche in questo ambito, per i giudici, occorre accogliere una concezione ampia della nozione di “richiedente protezione internazionale”, al punto che un cittadino di un paese terzo acquisisce tale qualità dal momento in cui presenta una domanda di protezione internazionale. Dunque, la semplice volontà di chiedere la protezione internazionale davanti ad un’“altra autorità”, come un giudice istruttore, è sufficiente a conferirgli la qualità di richiedente protezione internazionale. Di conseguenza, da quel momento in poi, le condizioni di trattenimento sono disciplinate dall’articolo 26, paragrafo 1, della direttiva “procedure” nonché dall’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva “accoglienza”. E dal momento che l’articolo 8, paragrafo 3, primo comma, di quest’ultima direttiva enumera esaustivamente i vari motivi tali da giustificare il trattenimento e che l’impossibilità di trovare un alloggio in un centro di accoglienza umanitaria non corrisponde ad alcuno dei sei motivi di trattenimento, il trattenimento è contrario alle prescrizioni della direttiva “accoglienza”. Firenze. Carcere di Sollicciano, si suicida un pentito che temeva per la sua vita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 giugno 2020 Si chiamava Giuseppe Pettrone e si è suicidato nel carcere fiorentino di Sollicciano. Gli agenti penitenziari lo hanno ritrovato impiccato ancora agonizzante, ma non sono stati bastati i soccorsi anche con l’ausilio del 118. Secondo quanto riferisce Gennarino De Fazio, il leader nazionale della Uil-Pa polizia penitenziaria, sembrerebbe che l’uomo si sia impiccato legandosi alla spalliera della propria branda. Un’ impiccagione strana, sicuramente non usuale. Il Dubbio ha potuto accertare, tramite fonti interne, che l’uomo non è un detenuto qualsiasi, ma un collaboratore di giustizia. Si chiamava Giuseppe Pettrone, classe 1966, importante per le sue rivelazioni su un clan camorrista. Ma proprio l’anno scorso, nel corso dell’udienza preliminare a carico di 33 persone accusate, a vario titolo, di aver fatto parte del clan Piccolo-Letizia, il collaboratore disse di temere per la propria vita e di voler ritrattare. In realtà già nel 2007 Pettrone avrebbe temuto per la propria vita: “So che il clan Belforte mi vuole ammazzare”, disse agli inquirenti. Il capo della Uil-Pa, commentando la notizia, afferma duramente: “Oggi la Stato ha perso due volte! La prima perché non ha saputo salvaguardare, nuovamente, una vita umana che gli era stata affidata; la seconda perché non potrà più avvantaggiarsi di un collaboratore di giustizia nella lotta alla malavita organizzata che, per di più, pare avesse in passato riferito di temere per la propria vita. Il dato, in definitiva, è che nelle carceri si continua a morire, vuoi per un motivo vuoi per un altro, e il ministro Bonafede continua ad essere l’unico vero latitante inacciuffabile. Basti pensare che il carcere di Sollicciano è ancora privo di un comandante titolare della Polizia penitenziaria”. Chiosa ancora De Fazio: “Lo abbiamo peraltro detto è lo ripetiamo, il Governo deve varare al più presto un “decreto carceri” che affronti l’emergenza penitenziaria in maniera strutturale e, parallelamente, una legge delega per la riforma dell’Amministrazione e del Corpo di polizia. Roma. “Non vediamo i nostri piccoli dall’inizio dell’emergenza coronavirus” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 giugno 2020 L’appello dei detenuti di Rebibbia in una lettera inviata a Rita Bernardini. I detenuti scrivono che “possono entrare solo gli adulti per un’ora al mese, mentre fuori tutti hanno riaperto e i bambini possono andare al parco e al ristorante”. “In carcere non vediamo i nostri figli piccoli da mesi, aiutateci!”. A scriverlo, con una lettera indirizzata a Rita Bernardini del Partito Radicale, sono gli studenti universitari del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Mentre il mondo libero ha riaperto tutte le attività, riportando i cittadini a una vita normale, rispettando ovviamente la sicurezza per evitare di essere contagiati dal coronavirus, gli istituti penitenziari ancora hanno fortissime limitazioni. Oggi, infatti, è possibile fare solo un colloquio al mese con una persona adulta. “Carissima Rita, siamo un gruppo di studenti universitari del reparto di Rebibbia. Vorremmo portarti a conoscenza - scrivono rivolgendosi alla Bernardini - della problematica relativa ai nostri figli, moltissimi in tenera età, che non vedono i propri genitori detenuti da molti mesi in quanto impossibilitati a fare ingresso in istituto, causa emergenza Covid-19”. I detenuti scrivono, appunto, che possono entrare solo gli adulti per un’ora al mese e sottolineano che tutto questo accade mentre fuori tutti hanno riaperto e i bambini possono andare al parco, in spiaggia e al ristornate. Ma nello stesso tempo “non possono incontrare i propri genitori - scrivono i detenuti di Rebibbia alla dirigente radicale - e quindi con gravi ripercussioni… Ti sembra giusto?”. Per questo, ora, hanno deciso di lanciare una iniziativa per sensibilizzare le istituzioni di questo problema. Un problema ben conosciuto da chi si occupa in prima fila dei bambini che hanno i genitori in carcere. Proprio ieri c’è stata una conferenza europea sul tema dell’affettività dove sono intervenuti, tra gli altri, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, la Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza, Filomena Albano, il Capo del Dipartimento della giustizia minorile e comunità Gemma Tuccillo, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, la Past President della rete Cope (Children of Prisoners Europe), Lucy Gampell e la Presidente di Bambinisenzasbarre, Lia Sacerdote. La domanda chiave parte dalla Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti e dalla Raccomandazione Europea Cm/ Rec (2018) per riflettere sul carcere, diffondere le esperienze positive in atto e contribuire a costruire un sistema penitenziario più umano, giusto e resiliente. Ogni anno l’associazione Bambinisenzasbarre Onlus, all’interno della Campagna europea “Non è un mio crimine ma una mia condanna”, promossa dal network europeo Cope (Children of Prisoners Europe) di cui Bambinisenzasbarre è membro per l’Italia e nel board, promuove la campagna italiana “Carceri aperte”, in collaborazione con il Dap per portare all’attenzione il tema della relazione figli- genitori detenuti e organizza in ogni istituto penitenziario dei momenti speciali per le famiglie durante tutto il mese di giugno. Il tema guida della Campagna è il mantenimento della relazione figli- genitori detenuti, diritto rappresentato dalla Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti e la sua applicazione in questi anni nel sistema penitenziario. Quest’anno la Campagna di giugno ‘ Carceri Apertè, a causa dell’emergenza Covid- 19, è diventata ‘ In attesa di Carceri Aperte, figli- genitori connessi’. È partita il 26 maggio con la Videoconferenza europea di apertura. “L’emergenza Covid- 19 ha imposto un blocco anche nel percorso di buone pratiche e procedure aderenti alla Carta attuate nelle carceri italiane. È un blocco - ha affermato Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre - che ci auguriamo rimanga temporaneo, per non disperdere tutto il lavoro di questi ultimi vent’anni. Il lavoro di monitoraggio previsto dalla Carta ci consentirà di presidiare il dopo Covid e contribuire a mantenere ciò che di positivo l’emergenza ha reso necessario, come l’aumento di contatti con le videochiamate, e le iniziative a distanza introdotte a sostegno integrando e potenziando le buone pratiche consolidate. Nell’emergenza del distanziamento sociale la linea guida è stata quindi, non distanza sociale ma socializzazione della distanza”. Durante la Campagna europea, in particolare in giugno, nel periodo di blocco e post-blocco causato dal Covid-19, Bambinisenzasbarre ha attivato e portato avanti varie iniziative per sostenere, a distanza, le famiglie colpite dai genitori detenuti. Trani (Bat). Il 2 luglio la presentazione della Garante dei detenuti Elisabetta De Robertis traniviva.it, 26 giugno 2020 La sua elezione nel corso dell’ultimo Consiglio comunale. Giovedì 2 luglio alle ore 16 presso la Casa di reclusione femminile di Trani (piazza Plebiscito) è in programma la presentazione di Elisabetta De Robertis, eletta dal Consiglio comunale garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Trani. Alla presentazione interverranno Pietro Rossi (Garante regionale), il Sindaco, Amedeo Bottaro, il Presidente del Consiglio comunale, Fabrizio Ferrante, l’assessore alle culture, Felice di Lernia, l’assessore al patrimonio, Cherubina Palmieri, ed il Direttore degli Istituti penali di Trani, Giuseppe Altomare. Taranto. Nel carcere una sala dedicata agli incontri dei genitori detenuti con i propri figli viviwebtv.it, 26 giugno 2020 Il 27 giugno prossimo, alle 11, sarà inaugurata la sala dedicata agli incontri dei genitori detenuti con i propri figli allestita all’interno del carcere di Taranto. L’evento, al quale ha assicurato la sua presenza anche il governatore del distretto 2120 Sergio Sernia, rappresenta il compimento del service “Essere famiglia in carcere” fortemente voluto dalla presidente del Rotary Club Massafra Rosanna Rossi. Una sala speciale all’interno del carcere di Taranto, nello specifico un ambiente a misura di bambino, servirà ad ospitare gli incontri dei minori con i genitori reclusi. Per i piccoli è certamente difficile accettare la lontananza del genitore ma se gli sporadici incontri avvengono in un ambiente confortevole ed adatto a loro, la percezione della detenzione sarà meno traumatica e dolorosa. Il Rotary Club Massafra, si legge in una nota inviata alla stampa, intende dunque offrire un po’ di colore e calore per scaldare un momento grigio dei minori che hanno un genitore detenuto. Ricordiamo che l’iniziativa è stata al centro di una conferenza svoltasi a Massafra a palazzo della cultura “Nicola Lazzaro” lo scorso febbraio. Relatrice dell’incontro intitolato “L’esperienza in carcere: tra sanzione e rieducazione. Lo sportello genitoriale” è stata Stefania Baldassarri, direttrice della casa circondariale di Taranto. Dalla Baldassarri una fotografia precisa e dettagliata di tutti gli aspetti della gestione di una casa circondariale: “Il regime penitenziario - ha spiegato - regola ogni aspetto della quotidianità. Ad ogni detenuto è riservato un trattamento individualizzato che tiene conto di molteplici aspetti tra cui istruzione, religione, sport, attività ricreative”. La direttrice Baldassarri ha parlato diffusamente di tutti i progetti messi in campo per offrire ai detenuti opportunità di lavoro e quindi di reinserimento nella società. Dalla relazione della dottoressa Baldassarri è emerso che ogni detenuto è sottoposto all’osservazione scientifica della personalità attraverso l’operato congiunto di sociologo, psicologo e criminologo. “La società - ha concluso la dottoressa Baldassarri - deve concorrere alla rieducazione dei detenuti.” Quello del Rotary Club è un gesto concreto in questa direzione nonché un contributo al recupero della genitorialità”. Altro importante evento propedeutico al compimento del service è stato l’interclub svoltosi lo scorso gennaio nell’incantevole cornice della Masseria Sacramento. La serata organizzata in collaborazione con il club Ginosa - Laterza, rappresentato dal vice presidente dottor Francesco Giannico, ha avuto un protagonista d’eccezione: Antonio Morelli, già presidente del tribunale di Taranto. Morelli ha relazionato sul tema “Magistratura, magistrati, società e politica”. Il brillante quanto interessante intervento ha offerto tanti spunti di riflessione a cominciare dalla funzione del giudice e di come questa figura influisca sulla società. “Il giudice - ha osservato Morelli - è la persona che deve risolvere un caso concreto perciò non ha prospettive, la politica è invece chiamata ad occuparsi dei problemi che possono presentarsi perciò deve essere lungimirante, deve avere lo sguardo proiettato verso il futuro”. Interessante il passaggio della relazione focalizzato sull’opinione pubblica e sui cosiddetti “processi mediatici” nell’ambito dei quali sovente il giudice è chiamato ad intervenire. Secondo Morelli il giudice non dovrebbe intervenire se non a chiusura di un caso o per parlare di casi chiusi di cui si è occupato. “Il giudice - ha chiosato il dottor Morelli - non ha bisogno di successo ma di rispetto”. Un percorso articolato sulla giustizia quello ideato dal Rotary Club Massafra che troverà dunque compimento con l’inaugurazione della sala incontri. Livorno. Gorgona, addio al macello. E un’arca salva gli animali di Monica Dolciotti La Nazione, 26 giugno 2020 L’isola-penitenziario cessa definitivamente l’attività di produzione di carni. Mucche, pecore e galline tornano sul continente a bordo di una chiatta speciale. Non è un’arca costruita su indicazione divina da Noè quella salpata ieri dall’isola di Gorgona con 75 animali a bordo. Ma la grande chiatta che verso 20 ha lasciato l’isola carcere e nel cuore della notte ha attraccato nel porto di Livorno con a bordo pecore e galline ha rievocato la suggestiva immagine biblica. L’isola di Gorgona cesserà di essere la colonia penale agricola per rivestire il ruolo di polo del turismo ecocompatibile, punterà sulla produzione di vino, frutta e olio. Il vigneto è gestito dal 2012 dalla ditta Frescobaldi che garantisce l’assunzione di tre detenuti ogni anno. Il 21 gennaio era stato firmato il protocollo d’intesa tra Comune di Livorno, direzione della casa circondariale, garante dei diritti dei detenuti e Lav (Lega anti vivisezione) per smontare e alienare le attrezzature necessaria alla macellazione e di interrompere così definitivamente la riproduzione degli animali domestici sull’isola. Ieri, dunque, è stata una giornata storica. Sull’isola sono sbarcati il sindaco Luca Salvetti, Giovanni De Peppo garante dei detenuti, gli assessori Giovanna Cepparello e Andrea Raspanti, il vicepresidente del Parco Stefano Feri, Gianluca Felicetti presidente Lav e ad accoglierli il direttore del carcere Carlo Mazzerbo e Gisberto Granucci, comandante della sezione di Gorgona. Agli ospiti è stato offerto un pranzo vegano preparato dai detenuti Redoan Boucherf vice cuoco, Rosario Rapida fornaio, Adriano Urzini manovale ma prestato per l’occasione alla cucina e Angelo Castorina che lavora allo spaccio-bar dell’isola. “Per noi oggi essere qui a preparate il pranzo per gli ospiti è stata una festa - hanno detto in corso - quando ci possiamo rendere utili è a una soddisfazione”. Detenuti abituati a convivere con centinaia di animali, tanto che la macellazione era diventata pratica pesante. Jennifer e Lilly, storiche mucche, il maialino John e l’asino Cesarino e le scrofe Canale 5 e China con gli occhi a mandorla. Ogni animale, una storia, che ora non terminerà più al mattatoio ma continuerà nei rifugi del Lazio dove tutti questi animali saranno ospitati. Reggio Emilia. Vocazione in carcere: condannato per omicidio prende i voti di Alessandro Zaccuri Avvenire, 26 giugno 2020 Condannato a 30 anni, sabato pronuncerà i voti di povertà, castità e obbedienza. Il vescovo Camisasca: nel suo gesto di donazione c’è qualcosa di luminoso, Da ragazzo, per prenderlo in giro, i compagni lo chiamavano “don Luigi”. A lui non dispiaceva perché voleva davvero diventare sacerdote, e intanto serviva Messa, pregava, interveniva con un rimprovero quando sentiva bestemmiare. Non avrebbe immaginato di finire in carcere, a scontare trent’anni per omicidio. Non è questa, però, la fine della storia di Luigi, nome convenzionale dietro il quale si nasconde una vicenda di caduta e di rinascita che monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, racconta ad Avvenire con il consenso dell’interessato. Sabato Luigi, oggi quarantenne, pronuncerà infatti i voti di povertà, castità e obbedienza proprio nelle mani di monsignor Camisasca, con il quale intrattiene da tempo un profondo dialogo spirituale. Sono due strade che si incontrano, quella di Luigi, nato in una famiglia contadina, e quella della Chiesa diocesana, che da tempo svolge un’importante azione pastorale nel carcere di Reggio Emilia. Due i sacerdoti impegnati, don Matteo Mioni dei Fratelli della Carità e don Daniele Simonazzi dei Servi della Chiesa: sono loro ad aver fatto da tramite con il vescovo quando Luigi ha manifestato il desiderio di prendere i voti. “A Reggio - ricorda monsignor Camisasca - rimangono attive due sezioni dell’articolazione della salute mentale in attesa che apra la Rems, residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Fu uno dei luoghi che scelsi di visitare il 16 dicembre 2012, al mio ingresso in diocesi. Non conoscevo molto la realtà del carcere, lo confesso, ma da allora è iniziato un cammino di presenza, celebrazione e condivisione che mi ha molto arricchito”. La storia di Luigi, dunque. Dopo l’infanzia e l’adolescenza segnate dal desiderio del sacerdozio, quando si trova nell’impossibilità di entrare in seminario il ragazzo cambia vita, bruscamente. Alcol, droghe, episodi sempre più frequenti di violenza, una sregolatezza costante. Si allontana dalla Chiesa, di tanto in tanto sembra trovare un suo equilibrio, ma la dipendenza finisce sempre per avere la meglio. È sotto l’effetto di alcol e cocaina anche la sera in cui, coinvolto in una rissa, commette l’omicidio per cui è condannato. Al momento del processo, si rifiuta di invocare l’infermità mentale. Un primo segnale di riscatto, un primo passo sulla strada del pentimento e del recupero della propria dignità. Con il ritorno alla fede si risveglia la vocazione, Luigi riprende a pregare, diventa lettore alla Messa domenicale in carcere, studia e prega, prega moltissimo, specie “per la salvezza dell’uomo che ho ucciso”, come scrive in una delle numerose lettere scambiate con monsignor Camisasca. “Un passaggio che mi ha molto colpito - afferma il vescovo - è quello in cui Luigi sostiene che il vero ergastolo non si vive dentro una galera, ma fuori, quando manca la luce di Cristo”. L’intuizione dei voti emerge lentamente, ma con chiarezza. “Inizialmente avrebbe voluto aspettare l’uscita dal carcere. È stato don Daniele a suggerirgli un percorso diverso, che gli permettesse di prendere questo impegno solenne già adesso”, racconta ancora monsignor Camisasca, che dal settembre dello scorso anno ha intrattenuto con lui un rapporto sempre più fitto. “Nessuno di noi è padrone del proprio futuro - osserva - e questo vale a maggior ragione per una persona privata della libertà. Per questo volevo che Luigi pensasse anzitutto a ciò che significano questi voti nella sua condizione attuale. Per questo l’ho invitato a mettere per iscritto i suoi pensieri e le sue aspettative. Alla fine mi sono convinto che nel suo gesto di donazione c’è qualcosa di luminoso per lui, per gli altri carcerati, per la Chiesa stessa”. A leggere gli appunti di Luigi, ci si rende conto che il linguaggio teologico, acquisito di recente, è sostenuto da una freschezza a tratti quasi infantile. Ecco allora che la castità è anzitutto virtù dello sguardo, capacità di indirizzare gli occhi in modo da “umiliare ciò che è esteriore perché emerga ciò che è più importante della nostra interiorità”. La povertà, poi, offre la possibilità di conformarsi alla “perfezione di Cristo, che si è reso povero” promuovendo la povertà stessa “da disgrazia a beatitudine”. Ed è rinuncia al superfluo, perché “anelare agli eccessi è sintomo di mancanza di gioia”. Per Luigi è povertà anche condividere la vita con le persone che sono detenute insieme con lui. L’obbedienza, infine, è disponibilità a mettersi in ascolto, sapendo che “Dio parla anche attraverso la bocca degli stolti”. “Con la pandemia noi tutti stiamo conoscendo un tempo di combattimento e sacrificio - conclude monsignor Camisasca -. L’esperienza di Luigi può davvero essere un segno collettivo di speranza: non per fuggire dalle difficoltà, ma per affrontarle con forza e consapevolezza. Non conoscevo il carcere, ripeto, e anche per me, da principio, l’impatto è stato molto duro. Mi sembrava un mondo di disperazione, nel quale la prospettiva della risurrezione era continuamente contraddetta e negata. Questa storia, come altre che ho conosciuto, dimostra che non è così. Il merito va all’azione dei sacerdoti e al lavoro straordinario della Polizia Penitenziaria e di tutto il personale sanitario, senza dubbio. Ma c’è dell’altro, c’è il mistero al quale non posso fare a meno di pensare quando sollevo lo sguardo verso il Crocifisso che sta nel mio studio. Viene dal laboratorio del carcere, mi impedisce di dimenticare i detenuti. Le loro sofferenze e le loro speranze sono sempre con me. E riguardano ciascuno di noi”. Aversa (Ce). L’associazione Casmu prepara nuovi spettacoli per i detenuti pupia.tv, 26 giugno 2020 Proseguono con grande successo le attività dell’associazione Casmu, presieduta da Mario Guida. In un tempo difficile, segnato da restrizioni, difficoltà e angosce per una ripresa che tarda ad arrivare, l’associazione aversana mette in campo il meglio delle sue energie per contribuire ad andare oltre il momento contingente e a guardare con fiducia e speranza al futuro. Si è concluso da pochi giorni una iniziativa di particolare spessore artistico e culturale, ovvero l’omaggio al maestro Ezio Bosso, amico di PulciNellaMente, la rassegna nazionale di teatro-scuola di Sant’Arpino, da cui Bosso ha ricevuto nel 2009 il Premio PulciNellaMente alla Carriera. “In loving memory di Ezio Bosso” è stato denominato il cartellone delle celebrazioni, ideate ed organizzate da PulciNellaMente con il patrocinio del Comune di Sant’Arpino, dal 15 al 21 giugno. Fondamentale il lavoro svolto dalla Casmu che, oltre a collaborare nelle varie fasi di svolgimento di questo prestigioso evento, si è anche occupata dalla parte tecnica e dei service audio-luci. Intanto, Casmu sta progettando una serie di manifestazioni musicali, alcune delle quali si terranno alla fine dell’estate, come sempre accomunate da momenti di grande solidarietà perché si svolgeranno nei luoghi della sofferenza e del dolore, come ad esempio le strutture carcerarie che ancora una volta spalancheranno le porte alla cultura, trasformandosi in palcoscenici in cui si rivela la straordinaria attitudine della musica a parlare al cuore di ciascuno di noi e, contemporaneamente, farci riflettere sui grandi temi che toccano la nostra vita, sia come persone che come collettività, mettendo in scena i valori, i sentimenti, le sfide e le speranze in un domani più belle e sereno. “Da anni - dichiara il coordinatore Mario Guida - non lesiniamo energie pur di testimoniare una solidarietà concreta, piuttosto che evocata, a quanti la vita purtroppo ha riservato sofferenza e disperazione. Il nostro auspicio è che queste iniziative possano indurci a riflettere sull’importanza della musica sia a livello artistico che etico: la cultura può, anzi deve, rappresentare per ciascuno di noi il motore per una rinnovata spinta verso il futuro traducendo in realtà le nostre speranze di cambiamento. Intanto ringrazio l’amico direttore di PulciNellaMente Elpidio Iorio per l’opportunità datami di partecipare alle celebrazioni in ricordo del Maestro Bosso ad un mese dalla sua scomparsa. Un grazie sentito a quanti hanno offerto la loro collaborazione per gli aspetti tecnici, in particolare a Claudio Guarino per l’impiantistica e ad Alfonso Pellegrino, noto dj aversano”. La giustizia (interiore) non lascia scampo. Ecco cosa si impara a volte in galera di Daniele Abbiati Il Giornale, 26 giugno 2020 Loris Cereda, che ha conosciuto la prigione, la racconta in “L’educatore”. Non somiglia per nulla né all’Uomo di Alcatraz, né a quell’altro uomo in Fuga da Alcatraz. Perché la galera non ne ha fatto né una sorta di “santo criminale” (diversamente da Robert Stroud, l’omicida ornitologo impersonato da Burt Lancaster nel film di John Frankenheimer), né un fuoriclasse dell’evasione (diversamente da Frank Morris, il rapinatore specializzato nel concedersi. lunghe licenze non autorizzate impersonato da Clint Eastwood nel film di Don Siegel). Forse perché Claudio Bassetti in galera lavora, anzi lavorava. Ma anche lui è un personaggio da romanzo, come quelli raccontati da Thomas E. Gaddis nel 1955 e da John Campbell Bruce nel 1963. Lui è “L’educatore” (Ex Cogita, pagg. 176, euro 16), e chi lo ha creato, Loris Cereda, nei “Ringraziamenti” finali lo saluta così: “non ha nulla a che vedere con l’educatore che mi ha seguito durante la detenzione, a lui però (quello vero) va la mia riconoscenza, per altro, per molto”. Sì, Loris Cereda in galera è stato, per la precisione a Bollate, fra il 2011 e il 2016, e con L’educatore finisce di scontare la sua pena. Questa volta pagando di tasca propria il tributo alla giustizia interiore. “Un archetipo carcerario - scrive - resiste solo a patto che sia galerabile. Come un sasso che si affina nel rotolamento alle spinte della marea. Ma se, per colpa di uno spigolo troppo acuto, non rispetta il ritmo dell’onda, prende un rimbalzo anomalo, vola sulla spiaggia, viene raccolto da un bambino e lascia per sempre quell’armonia del tempo”. E Claudio Bassetti non è “galerabile”. Ha quarant’anni, vive da solo a Milano, anche se ha un’amante (diciamo una e mezza, contando una sua collega), gioca a bridge on line, dalla madre e dalla sorella lontane si fa sentire raramente, mangia male e dorme peggio, e al civico 2 di via San Vittore stende relazioni sui detenuti, quella sorta di giudizio finale, come a scuola a fine anno, che all’esaminando può valere l’affidamento ai servizi sociali, o i domiciliari, oppure addirittura la semilibertà. “Chissà se un giorno la vera valutazione del detenuto avrebbe potuto essere fatta sulla persona e non sulla capacità o meno dell’individuo di rispettare le norme”. Questa è la domanda delle cento pistole, ma può bastarne una sola, di pistola, anche senza sparare un colpo, per ribaltare la situazione... Uno dei racconti che l’amministrazione chiede ai carcerati di scrivere sulla loro esperienza (vogliamo chiamarlo, di nuovo, come a scuola, tema libero? no, non è proprio il caso), quello di Amedeo Fassi, si chiude così: “Quando sogno allora sì che la vita vera torna, come piscio che, passando attraverso il rene in un percorso opposto, si riconverte in sangue”. Ecco un’ottima metafora per descrivere la trasvalutazione dei valori riveduta e corretta da Nietzsche. La fine che diventa l’inizio e l’inizio che diventa la fine. Claudio Bassetti è un borghese piccolo piccolo che sceglie il sé stesso della sua prima vita come bersaglio della propria vendetta. Dunque, potremmo considerarlo un eroe del nostro tempo. Droghe. Libro Bianco: il proibizionismo costa 20 miliardi La Repubblica, 26 giugno 2020 Il proibizionismo in Italia costa 20 miliardi di euro in mancate entrate per lo Stato, rallenta la giustizia e sovraffolla le carceri. Durante il lockdown i consumatori di droghe hanno dimostrato “capacità di autoregolazione” e il mercato illegale “flessibilità e resilienza” e soprattutto non si è fermato, mentre i servizi pubblici hanno saputo adattarsi solo a macchia di leopardo alla nuova situazione. È il quadro tratteggiato dall’XI edizione del Libro Bianco sulle Droghe, in particolare sugli effetti del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti Jervolino-Vassalli, che ogni anno viene presentato in occasione del 26 giugno, Giornata mondiale sulle Droghe, nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione “Support! don’t Punish”. È promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. I promotori chiedono che il Parlamento definisca nuove regole per consentire un consumo consapevole della cannabis legalizzandone produzione, consumo e commercio e cancellando anche le pesanti sanzioni per la detenzione delle altre sostanze proibite. Sugli oltre 60.000 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2019 ben 14.475 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio, 23,82%). Altri 5.709 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, 9,39%), solo 963 esclusivamente per l’art. 74 (1,58%). Questi ultimi rimangono sostanzialmente stabili. Nel complesso vi è una impercettibile diminuzione dello 0,67%. Resta ai livelli più alti degli ultimi 15 anni la presenza di detenuti definiti “tossicodipendenti”: sono 16.934, il 27,87% del totale. Questa presenza, che resta maggiore anche rispetto al picco post applicazione della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), è alimentata dal continuo ingresso in carcere di persone “tossicodipendenti”. Nel 2019 questi sono stati il 36,45% degli ingressi nel circuito penitenziario, in aumento costante e preoccupante da 4 anni. Una legge che, secondo gli autori del Libro Bianco, ha conseguenze dirette sulla Giustizia con oltre 200 mila fascicoli nei tribunali. Le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 175.788 e 42.067. È un dato che, pur in leggera diminuzione, si allinea “agli anni bui della Fini-Giovanardi”. Mentre quasi 1 procedimento su 2 per droghe termina con una condanna, questo rapporto diventa 1 su 10 per i reati contro la persona o il patrimonio. Continuano ad aumentare le misure alternative, fatto positivo in sé,- dicono gli autori - ma che nasconde anche una tendenza che fa pensare che siano diventate una alternativa alla libertà invece che alla detenzione. Consentendo così di ampliare l’area del controllo. Continua ad aumentare la repressione del consumo: su quasi 44.000 segnalazioni (+6,67%) solo 202 richieste di programma terapeutico. La cannabis - sottolineano infine gli autori - è al centro dell’azione delle forze dell’ordine, mentre con la Fini Giovanardi è vistosamente calata l’attività di contrasto a cocaina e eroina. Droghe. In un anno 33mila italiani segnalati per uso di cannabis di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 26 giugno 2020 Droghe e carcere al tempo del coronavirus: 1 detenuto su 3 è dentro per spaccio. Nel Libro Bianco le conseguenze devastanti della politica penale sulle tossicodipendenze. Il Libro Bianco sulle droghe è giunto alla undicesima edizione, e come ogni anno viene presentato in occasione del 26 giugno, giornata mondiale sulle droghe, nell’ambito della campagna internazionale Support! don’t Punish. In assenza della relazione governativa sulle tossicodipendenze, anche quest’anno desaparecida, è il rapporto indipendente di riferimento sui danni provocati dal Testo Unico sulle droghe. Dopo 30 anni di applicazione, le devastanti conseguenze penali della legge Jervolino-Vassalli non possono essere più considerati “effetti collaterali”. La legge sulle droghe continua a essere il volano delle politiche repressive e carcerarie italiane. I dati, presentati da Maurizio Cianchella nel suo aggiornamento delle conseguenze sulla giustizia e sul carcere, sono evidenti. Basti pensare che in assenza di detenuti per art. 73, o di quelli dichiarati tossicodipendenti, non vi sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario. Il 30% dei detenuti entra in carcere per l’art. 73 del Testo Unico (spaccio) mentre a fine anno il 35% è in carcere per una violazione del DPR 309/90. Gran parte sono pesci piccoli, pochissimi i narcotrafficanti. Questo a conferma di come “il proibizionismo sia addirittura utile ai consorzi criminali più potenti organizzati, ripulendo il mercato dai competitor meno esperti” scrive Cianchella. Allarmante poi il dato dei “tossicodipendenti” entrati in prigione, che arriva al 36,45%, in aumento costante da 4 anni. A fine anno, rappresentano il 27,87%, una presenza maggiore anche rispetto al picco post applicazione della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007). Si conferma un trend in aumento delle misure alternative che, fatto positivo in sé, nasconde anche “una tendenza all’allargamento dell’area del controllo” più che essere una alternativa alla detenzione. Sono 217.855 le persone con procedimenti pendenti al 31/12/2019, l’80% per spaccio (art. 73). Illuminante il dato portato da una ricerca di Massimo Urzi contenuta negli approfondimenti di questa edizione: mentre quasi 1 procedimento su 2 per droghe termina con una condanna, questo rapporto diventa 1 su 10 per i reati contro la persona o il patrimonio. Il sistema è quindi piuttosto efficiente a condannare e portare in carcere gli spacciatori, nonostante quello che dicono Salvini e Lamorgese. Drammatico il dato delle segnalazioni ai Prefetti per i consumatori. In continuo aumento dal 2015, nel 2019 sono state oggetto di segnalazione 41.744 persone. Più di 4.000 sono minorenni. In un terzo dei casi vengono comminate sanzioni che, ricordiamolo, sono pesantissime: la sospensione della patente di guida (anche se al momento della perquisizione non si era alla guida), del passaporto (o della Carta Identità valida per l’espatrio), del porto d’armi o del permesso di soggiorno per motivi di turismo (se cittadino extracomunitario). Risulta irrilevante la vocazione “terapeutica” della segnalazione: solo 202 richieste di programma di trattamento socio-sanitario, nel 2007 erano 3.008. La repressione colpisce principalmente persone che usano cannabis (77,95%), seguono a distanza cocaina (15,63%) e eroina (4,62%), irrilevanti le altre sostanze. Dal 1990 1.312.180 persone sono state segnalate per uso di sostanze: di queste quasi un milione (73,28%) per cannabis. Questa del resto è la sostanza al centro dell’azione repressiva sia per numero di operazioni, che per sequestri e persone segnalate all’attività giudiziaria. Lo si nota anche da una analisi retrospettiva dei dati della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga che mette in luce anche come, nel periodo in cui era vigente la Fini-Giovanardi, che equiparava tutte le sostanze, si sia divaricata la forbice fra operazioni con oggetto cannabis (in continuo aumento) e operazioni contro cocaina e eroina, in diminuzione. Per quest’ultima il calo del numero delle operazioni continua anche negli ultimi anni. Restano significativi, pur se disomogenei e di difficile interpretazione (anche secondo l’Istat), i dati rispetto alla guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. Ad esempio durante i controlli nelle notti dei week end, le violazioni accertate dai Carabinieri rappresentano solo lo 0,27% dei controllati. Rispetto alle positività accertate a seguito di incidente questa percentuale sale al 3,20% nel corso dei primi 10 mesi del 2019 (Carabinieri e Polizia Stradale). Ricordando che spesso la positività al test non è prova di guida in stato alterato (in particolare per la cannabis), possiamo affermare che l’uso di droghe non è certamente la causa principale di incidenti in Italia. Il rapporto presenta poi un focus sulle conseguenze della crisi Covid-19 su carcere e consumi. Inoltre, come ogni edizione del passato, contiene riflessioni e approfondimenti sul sistema dei servizi, sulla riduzione del danno e sulle prospettive di riforma delle politiche sulle droghe a livello nazionale ed internazionale. Droghe, i “trend” del mercato nella pandemia di Susanna Ronconi Il Manifesto, 26 giugno 2020 A fronte di un mercato illegale che si è dimostrato flessibile e non è mai venuto meno, i consumatori hanno mantenuto il proprio pattern di uso, anche quando accedere alla sostanza di elezione si faceva più difficile. Apprendere da situazioni extra-ordinarie per meglio comprendere la via da prendere in quelle ordinarie: da qui nasce la forte spinta da parte delle associazioni verso la ricerca sulle variazioni dei consumi in fase di lockdown. Sono state condotte tre ricerche mirate a tre diversi stili di consumo e una quarta indagine qualitativa, trasversale, è in corso, grazie a Forum Droghe, Cnca, Itardd, Itanpud, Neutravel, in collaborazione anche con realtà europee. Dai dati preliminari pubblicati nel Libro Bianco, e nonostante le differenze nei pattern analizzati, emergono comuni aspetti rilevanti, soprattutto sotto il profilo delle strategie che i consumatori hanno adottato nel regolare e rendere funzionale il proprio consumo alle mutate condizioni di vita. A fronte di un mercato illegale che si è dimostrato flessibile e che non è mai venuto meno, se non per una minor accessibilità nelle prime settimane, i consumatori hanno mantenuto il proprio pattern di uso, anche quando accedere alla sostanza di elezione si faceva più difficile: non ci sono stati viraggi eclatanti su sostanze più reperibili o meno costose, in caso di difficoltà più che ricorrere a un’altra sostanza, si è parzialmente diminuito il consumo, così come l’aumento del consumo di alcool ha riguardato solo i bevitori più che giornalieri, mentre per gli altri è sensibilmente diminuito. C’è stata capacità di adeguarsi al nuovo setting, con un ampio abbandono degli stimolanti usati nei contesti del divertimento, e la crescita delle motivazioni al consumo di droghe mirate al contenimento di ansia e solitudine, senza tuttavia configurare un picco di queste sostanze. I processi di autoregolazione hanno mantenuto il limite di spesa - abbassatosi sia a causa di minor reddito che della minor propensione dei pusher a fare credito - come fattore di controllo, anche per chi vive in strada, che non ha visto un aumento delle attività illegali. Non c’è stata sperimentazione di nuove sostanze, in un contesto di solitudine o famigliare che lo sconsigliava e lo avrebbe reso rischioso, e si è cercato il più possibile - ci è riuscito il 60% - di mantenere lo stesso pusher, per limitare i rischi di variazioni nella qualità. Alcuni tra chi consuma eroina si sono rivolti ai servizi per il mantenimento metadonico (+2,4%) e solo il 10% lamenta una carenza dei servizi di rdd. Costi i consumatori ne hanno pagati, ma a causa del mercato: i prezzi sono saliti, la qualità è diminuita. Ora aspettiamo i risultati definitivi delle ricerche e quanto altre indagini dovranno dirci, augurandoci che si capisca come la ricerca sia necessaria; ma una prima osservazione, per quanto indiziaria, possiamo già farla: a fronte di un mercato illegale che non ha mai smesso di funzionare, nonostante la doppia, potente proibizione, della legge 309 e dei decreti Covid19, i consumatori hanno regolato il proprio consumo, lontani dallo stereotipo che li vede in balìa e alla ricerca di qualsiasi cosa possa alterarli. Una prima buona lezione appresa dal Covid19. Stati Uniti. Gli abusi polizieschi in Usa anche con gli algoritmi di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 26 giugno 2020 A Detroit è appena emerso quello che potrebbe essere il primo caso noto di arresto di un innocente deciso col riconoscimento facciale. Mentre milioni di cittadini protestano sul palcoscenico delle piazze e delle strade d’America contro il razzismo e gli abusi della polizia, dietro le quinte va in scena uno scontro meno spettacolare ma ancor più rilevante: quello per evitare, nella repressione dei crimini, l’uso di tecnologie digitali sempre più potenti ma imprecise e basate sui pregiudizi di chi sviluppa gli algoritmi. A Detroit è appena emerso quello che potrebbe essere il primo caso noto di arresto di un innocente deciso col riconoscimento facciale: Robert Julian-Borchak Williams, un professionista di colore di 42 anni ammanettato nel giardino della sua villetta davanti alla moglie e alle figlie, accusato di un furto commesso un anno e mezzo prima in un negozio di orologi. Non era lui: i detective se le sono resi conto mentre gli mostravano, interrogandolo, tre foto riprese dalle telecamere del negozio. Williams si è fatto 30 ore di prigione e il procedimento non è ancora estinto. Tre cose impressionano di questo caso: l’approssimazione della polizia (nessuna indagine, solo il confronto delle immagini delle telecamere con un database di 49 milioni di foto), le carenze investigative occultate dietro la tecnologia (“ha sbagliato il computer”) e il giudizio cinico dell’avvocato di Williams: “Lui è fortunato: è ancora vivo. Quando gli agenti devono arrestare un afroamericano così grosso vanno nel panico”. È, allora, benvenuta la notizia del blocco di un sistema di riconoscimento facciale creato da due professori e da uno studente della Harrisburg University: un algoritmo che, sulla base dei tratti somatici, dovrebbe predire, con l’80 per cento di accuratezza, chi diventerà un criminale. Siamo al recupero di tesi pseudoscientifiche da tempo archiviate, da quelle di Lombroso alle teorie naziste della razza, rivitalizzate usando intelligenza artificiale e machine learning: lo hanno denunciato 2256 scienziati, sociologi e filosofi della neonata Coalizione per la critica della tecnologia (Cct). La rivista scientifica Springer Nature non pubblicherà lo studio, ma non è detto che sia finita qui: il Cct denuncia il proliferare di ricerche computazionali per predire i crimini basate su algoritmi che risentono di pregiudizi e usano in modo scorretto dati biometrici o statistiche dei reati commessi dai vari gruppi sociali. Strumenti tanto potenti quanto difettosi che vengono ugualmente utilizzati da start up prive di scrupoli e offerti alle polizie Usa. Francia. La polizia si sente sotto accusa di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 26 giugno 2020 Gli agenti protestano deponendo pistole e manette. Hanno le loro ragioni, come ce le hanno pure le centinaia di persone - non erano tutti teppisti - ferite o mutilate a vita al termine di una manifestazione. Ancora ieri il governo francese ha usato di nuova la retorica degli “eroi di tutti i giorni”. Lo ha fatto il ministro dell’Interno Christophe Castaner al Senato a proposito delle forze dell’ordine, ma è il destino che di recente tocca a tante categorie che svolgono compiti difficili, essenziali e poco pagati: infermieri, poliziotti, fattorini, specie in tempi di pandemia. A parole tutti eroi, e chi potrebbe negarlo? Solo che poi, nei fatti, durante un corteo agli Invalides l’infermiera Farida ha ricevuto la sua dose di lacrimogeni, ha risposto lanciando pietre e insulti ed è stata selvaggiamente picchiata e arrestata; nello stesso corteo un agente caduto a terra è stato massacrato a calci dai black bloc; e lì vicino, a due passi dalla Tour Eiffel, il fattorino Cédric Chouviat a gennaio era stato soffocato e ucciso durante un controllo. C’è la retorica degli “eroi”, ma gli stessi eroici infermieri, poliziotti o fattorini risultano essere vittime in vario modo di una gestione fallimentare dell’ordine pubblico, problema già grave ben prima della morte di George Floyd a Minneapolis. Gli agenti si sentono sotto accusa e protestano deponendo pistole e manette. Hanno le loro ragioni, come ce le hanno pure le centinaia di persone - non erano tutti teppisti - ferite o mutilate a vita al termine di una manifestazione. L’alternativa ideologica tra legge-ordine da un lato e anarchia distruttiva dall’altro è assurda, e tra i compiti di un governo democratico ci sarebbe quello di superarla. La retorica degli “eroi” serve allora a mascherare le mancanze delle autorità, per esempio dello stesso ministro Castaner o del prefetto di Parigi, Didier Lallement, regolarmente incapaci di fare valere sul terreno la differenza tra manifestanti pacifici e vandali. Spetta al governo e ai suoi alti funzionari, e non al poliziotto eroe preso di mira dai violenti, elaborare una strategia che tuteli il diritto democratico di manifestare. Medio Oriente. Perché oscurano l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele di Alberto Negri Il Manifesto, 26 giugno 2020 L’annessione avviene al culmine di un drammatico percorso di vent’anni condiviso da Usa e Israele per la disgregazione dei popoli mediorientali e di cui gli europei sono complici. L’annessione israeliana della Cisgiordania è una vicenda così brutale che soltanto una guerra e l’incombente crisi della Nato - in atto in Libia - potrebbero oscurare dagli schermi internazionali. La mobilitazione nazionale di domani a Roma per la Palestina illumina finalmente lo scenario. Le grandi potenze mondiali, Usa, Russia e Cina, sono come le tre scimmiette: non sento, non vedo non parlo. Per vari motivi sono soggiogate dalle mosse israeliane. Gli Stati Uniti hanno un asse privilegiato con Tel Aviv, una potente comunità ebraica maggioritariamente di destra, e sono in piena campagna elettorale; Mosca si serve di Israele e di un 1,5 milioni di cittadini ebraici di lingua russa per aggirare le sanzioni e rimanere indisturbata in Siria con le basi militari, mentre gli aerei israeliani bombardano ogni giorno; la Cina deve far fuori gli uiguri, la sua popolazione musulmana dello Xinjiang nei campi costruiti da Pechino. Fare a pezzi la Palestina sembra convenire un po’ a tutti. Qui c’è un virus che non ha ancora un antidoto: Israele ha ragione anche quando ha torto e noi lasciamo fare. L’Europa, un ectoplasma con storici sensi di colpa, invia segnali flebili mentre l’Onu alza un po’ la voce perché stanno cancellando le risoluzioni storiche del Palazzo di Vetro. Abbiamo soluzioni diplomatiche? Sembra di no. Si tratta di un atto di forza e in violazione del diritto internazionale: ma l’annessione della Valle del Giordano non è considerata come l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein per cui nel 1991 si fece una guerra che portò poi ad altre guerre e allo sfacelo del Medio Oriente. In realtà l’annessione avviene al culmine di un drammatico percorso di vent’anni condiviso da Usa e Israele per la disgregazione dei popoli mediorientali e di cui gli europei sono complici. La guerra in Afghanistan del 2001, l’occupazione dell’Iraq nel 2003, la guerra per procura in Siria per abbattere Assad, i raid in Libia del 2011 per far fuori Gheddafi. Direttamente o indirettamente gli Stati uniti hanno provocato milioni di morti e di profughi, manovrato i jihadisti con la Turchia, perseguito la distruzione di intere nazioni come Iraq, Siria, Libia, per lasciare infine a Israele il ruolo di superpotenza regionale. Ecco il vero “piano di pace” realizzato in Medio Oriente. Che ha un obiettivo preciso, oltre a favorire Israele: inviare un monito per tutti gli stati della regione che stanno ancora in piedi. Non è detto che un domani alcuni di questi Paesi siano ancora sulla mappa, anzi già in parte lo sono solo virtualmente. La Siria occupata da eserciti stranieri è un esempio, l’Iraq pure, lo Yemen anche, domani potrebbe toccare alla Libia. Israele ha uno statuto speciale fondato sull’Olocausto perpetrato in Europa da Germania, Italia e da regimi europei collaborazionisti con il nazi-fascismo e conniventi con le infami leggi razziali. Ricordiamoci sempre che i veri nemici di Israele sono anche nostri nemici storici e dell’umanità. Ma l’orrore di un tempo non giustifica le violazioni eclatanti di oggi e il perdurare, dal 1967, dell’occupazione dei Territori palestinesi a seguito della “Guerra dei Sei giorni”. L’annessione della Cisgiordania è stata favorita dagli Stati Uniti. Soltanto un ingenuo poteva credere che con il piano Kushner piovessero sui palestinesi miliardi di dollari. I palestinesi sono divisi tra di loro, lacerati. Figuriamoci se gli davano pure i quattrini. Si trattava della solita tattica dilatoria per consentire a Netanyahu di mettere a punto i suoi progetti. Con la complicità di un mondo arabo fatto di monarchie assolute e dittatori che fingono d’indignarsi. Neppure Erdogan farà nulla perché, come Israele, occupa territori altrui in Siria, dove nel Nord ha fatto la sua Gaza a danno dei curdi, e ora partecipa alla spartizione di influenze in Libia. In Siria Israele occupa il Golan dal 1967 e la Turchia ambisce a far parte ufficialmente del “condominio siriano” insieme allo stato ebraico e alla Russia. Persino le sacrosante rivendicazioni degli afroamericani sono manipolate. Tutti a inginocchiarsi perché la polizia ammazza neri e latinos ma nessuno che alzi il sopracciglio se gli israeliani uccidono un ragazzo autistico disarmato alla porta dei Leoni di Gerusalemme. E noi caschiamo volentieri in questa trappola perché ci assolve dal dovere di opporci a quello avviene in Cisgiordania. Le vite dei neri contano, come quelle dei palestinesi e di tutti noi. Di questo passo un giorno faremo fatica a spiegare chi sono i palestinesi o i curdi, per i quali abbiamo speso belle parole quando nell’ottobre scorso sono stati fatti fuori da Erdogan. Solo belle parole, però. Qui di parola ne serve una sola: giustizia. Ci resterà strozzata in gola, forse faremo fatica persino a pensarla quando, guardando la mappa del Medio Oriente, cancelleremo la parola Palestina anche dai nostri cuori traditori. L’Egitto viola ancora i diritti umani, mentre noi gli forniamo un’enorme commessa militare di Pierfrancesco Majorino* huffingtonpost.it, 26 giugno 2020 L’Italia si accinge a fornire all’Egitto la più grossa commessa militare della propria storia. Nel frattempo: 1) L’ultima richiesta all’Egitto da parte del nostro Paese di elementi necessari a far progredire l’incriminazione dei cinque membri della sicurezza nazionale che potrebbero essere responsabili dell’assassinio di Giulio Regeni (il loro indirizzo di residenza per le carte processuali) è rimasta immancabilmente inascoltata. 2) Il 16 giugno è stata prorogata di altri 15 giorni la carcerazione preventiva per lo studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki, che è chiuso da 100 giorni in un carcere egiziano senza incriminazioni né processo (e resta a lungo senza visite della famiglia né degli avvocati). 3) Sarah Hegazi, l’attivista egiziana arrestata tre anni fa per aver sventolato una bandiera LGBT a un concerto, torturata, molestata e in seguito esiliata in Canada dopo essere stata licenziata, era così tormentata dal fantasma delle torture che si è tolta la vita. Il suo biglietto d’addio non lascia dubbi sulle cause della sua decisione. 4) Di Alaa Abd el Fattah, uno dei giovani intellettuali più importanti del paese, detenuto con il solito pretesto della carcerazione preventiva rinnovata all’infinito, in piena emergenza Covid la famiglia non ha nessuna notizia da quasi un mese. Per chiedere una sua lettera, la madre Laila ha dormito per due notti davanti alle porte del carcere ed è stata strattonata dalle guardie, che hanno minacciato di sottrarle il cellulare. 5) Le due sorelle di Alaa, Mona e Sanaa, facendo compagnia alla madre fuori dal carcere sono state aggredite da un gruppo organizzato di donne sotto gli occhi indifferenti delle guardie e derubate dei cellulari; quando con gli abiti strappati ed evidenti contusioni sono andate a denunciare l’accaduto, Sanaa è stata caricata all’improvviso su un veicolo non contrassegnato e portata davanti al Procuratore di stato, dove le sono stati comminati 15 giorni di carcere preventivo con le stesse accuse pretestuose rivolte a George Zaki e tantissimi altri. 6) Poche ore dopo, le forze di sicurezza egiziane hanno fatto irruzione nella redazione di Almanassa al Cairo, frugando fra le carte e sequestrando computer. La direttrice Nora Younis è stata caricata su un veicolo non contrassegnato e portata in un luogo ignoto. 7) La mattina dopo è arrivata tramite Human Rights Watch la notizia che i parenti dell’attivista Mohamed Soltan hanno subito due raid in casa nel cuore della notte nel giro di quindici giorni, e che nel secondo gli agenti di sicurezza hanno sequestrato cinque dei suoi cugini, tutti fra i 20 e i 24 anni, per poi rilasciarli ore dopo. Mohamed Soltan vive in esilio negli Stati Uniti, e il 1° giugno aveva presentato sotto il Torture Victim Protection Act americano una denuncia per torture contro l’ex primo ministro egiziano Beblawy. Questa è la quotidianità nel Paese con cui vogliamo fare un affare storico da 9 miliardi di euro vendendogli due fregate militari, quattro navi, 20 pattugliatori, 24 caccia, e 24 aerei addestratori e che è diventato il primo paese importatore della nostra industria bellica. Il tutto mentre la legge n. 185 del 1990 vieta esplicitamente le esportazioni di armamenti verso i Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani e mentre dovrebbe avere ancora validità la decisione del Consiglio Europeo Affari Esteri di “sospendere le licenze di esportazione verso l’Egitto di attrezzature che potrebbero essere usate a fini di repressione interna” e “rivedere la loro assistenza nel settore della sicurezza con l’Egitto”. Decisione evidentemente disattesa dall’Italia e da altri 11 paesi. Va tutto bene? *Europarlamentare Pd Etiopia. Abiy Ahmed parla a tutti, ma non argina le violenze etniche di Laura Ghiandoni Il Manifesto, 26 giugno 2020 Amnesty accusa. Mentre soffiano venti di “guerra dell’acqua” con Egitto e Sudan, in Amhara e Oromia è strage tra le minoranze. Il premier, Nobel per la pace 2019, sotto pressione anche per il rinvio delle elezioni. All’inizio di giugno il governo etiope ha deciso di rimandare a data da destinarsi le elezioni previste in agosto a causa della pandemia. Nonostante nelle ultime settimane siano triplicati i casi di di Covid-19 e sia unanime la convinzione che un’espansione dell’epidemia non troverebbe il sistema sanitario etiope pronto, le polemiche per il rinvio del voto parlamentare, fuori e dentro lo stesso partito al governo, non si sono fatte attendere. L’8 giugno la presidente della camera alta del parlamento, Kereya Ibrahim, si è dimessa accusando Abiy Ahmed di aver violato la costituzione con il solo obiettivo di rimanere al potere. Il primo ministro, premio Nobel per la Pace 2019, con un discorso rivolto a tutti, ha risposto cercando di tranquillizzare i partiti e dicendo che dovranno attendere solo pochi mesi per avere le elezioni democratiche promesse. Ma le polemiche continuano. Così come è in pieno corso la turbolenta trattativa con Egitto e Sudan sul riempimento della mega-diga sul Nilo, la Grand Ethiopian Renaissence Dam, che per gli etiopi sarebbe la soluzione per risolvere una volta per tutte il problema della carenza di energia elettrica in tutto il Paese, grazie agli oltre 6mila kilowat che promette di produrre. Invece oggi rischia di causare un conflitto armato tra i tre paesi coinvolti: la diga modificherebbe in maniera rilevante il flusso del Nilo, e quindi la naturale irrigazione del territorio attraversato dal fiume in Egitto e Sudan. Gli Stati Uniti sono stati il primo mediatore interpellato per risolvere la questione, ma il 20 giugno l’Egitto ha chiesto ufficialmente che siano le Nazioni Unite a fornire un aiuto per risolvere la complessa questione. Il timore del Cairo è che durante il periodo di riempimento dell’importante infrastruttura venga prosciugata una parte del suo territorio. Mentre l’ipotesi di una guerra internazionale dell’acqua avanza, le divisioni legate ai conflitti etnici divampano all’interno del Paese. Abiy Ahmed dopo aver liberato nel febbraio 2018 migliaia di oppositori incarcerati dal governo precedente, ora deve confrontarsi con le divisioni fomentate da molti degli stessi attivisti liberati. Alcuni politici sono tornati a fare opposizione a volte rimarcando le differenze di tradizioni, lingua e costume tra le varie etnie per incitare all’odio sui social, o per aggredire con incursioni armate i gruppi considerati nemici. Alla fine di maggio Amnesty International ha pubblicato un report intitolato Beyond Law Enforcement che accusa duramente il governo di Addis Abeba per non aver protetto le minoranze etniche dalle aggressioni delle popolazioni maggioritarie. Ma c’è di più, il report racconta grazie a testimonianze verificate che le forze di sicurezza governative regionali si sarebbero schierate con il proprio gruppo etnico, partecipando alle incursioni contro le minoranze e causando centinaia di morti nelle regioni Amhara e Oromia. In Amhara, il 10 e l’11 gennaio 2019, sono state uccise in questo tipo di incursioni circa 60 persone appartenenti alla minoranza Qimant, che aspira all’autonomia. Gli attacchi, secondo le testimonianze raccolte da Amnesty, sono stati compiuti dalle stesse forze di sicurezza governative, di etnia Amhara. 30 cittadini Qimant sarebbero inoltre stati uccisi a Gondar, portando a oltre 400 i morti da metà ottobre. Anche nella regione Oromia si contano migliaia di morti, una parte dei quali legati al confronto tra il governo centrale e l’Oromo Liberation Front, il partito di Jawar Mahammed, l’attivista che ha già aveva spinto la popolazione alla rivolta nel 2016 e che oggi, via social, oltre a denunciare la repressione incita apertamente alla violenza inter-etnica.