Un intervento ragionevole e necessario: modificare la disciplina dell’amnistia di Stefano Anastasia e Francesco Urbinati volerelaluna.it, 25 giugno 2020 È presto per cantare vittoria, ma per il momento una buona stella ha protetto il nostro sistema penitenziario dalla esplosione della pandemia all’interno delle carceri. Ci sono stati positivi, malati e anche qualche morto, ma solo due-tre focolai, a Torino e in altri istituti del Nord Italia. Poteva andare peggio, molto peggio, in carceri in cui nella stessa stanza di pochi metri quadri convivono fino a sette, otto persone, in cui decine di detenuti usano le stesse docce e gli stessi servizi. Una buona stella ha fatto le veci di una razionale politica che avrebbe dovuto immediatamente ridurre le presenze in carcere ben al di sotto della capienza regolamentare, in modo tale da consentire le necessarie misure di prevenzione della diffusione del virus tra i detenuti in caso di contagio di uno di loro. Quelle prese dal Governo sono state misure quasi impercettibili e comunque scaricate nella responsabilità sulla giurisdizione e su amministrazioni centrali e locali prive di mezzi e di risorse per garantirne l’efficacia. Alla fine della moratoria delle incarcerazioni indotta dal lockdown, nelle carceri italiane ci sono ancora circa 5.000 detenuti oltre la capienza regolamentare, cosa che in alcuni istituti e in alcune sezioni si traduce in un sovraffollamento doppio rispetto alla capacità della struttura. Ci è andata bene, dunque, fin qui. E speriamo che duri. Una politica responsabile e razionale, invece, avrebbe dovuto immediatamente ridurre le presenze in carcere di 15-20.000 unità e lo avrebbe potuto fare con l’unico strumento che i sistemi penali (e il nostro tra gli altri) conoscono a tal fine: un provvedimento generale di clemenza per i condannati per fatti minori o che fossero alla fine di un più lungo percorso detentivo. Al 31 dicembre dello scorso anno erano in carcere 16.828 persone con una pena da scontare inferiore ai due anni. Un provvedimento di amnistia-indulto limitato ai reati e alle pene entro quel limite avrebbe fatto uscire dal carcere loro e migliaia di detenuti in attesa di giudizio con risibili minacce penali (qualche giorno fa ne abbiamo incontrato uno a Cassino, che aspetta ancora il giudizio di Cassazione per una pena a un anno che finirà di scontare a settembre). Una simile misura avrebbe consentito le necessarie misure di prevenzione nei confronti di coloro che sarebbero rimasti in carcere e vi avrebbe lasciato gli autori di reati più gravi e con pene medio-lunghe ancora da scontare. Una simile misura non ha potuto neanche essere presa in considerazione per un intreccio di ragioni politiche e istituzionali. Le ragioni politiche sono quelle che vedono dominanti al Governo come all’opposizione forze politiche che hanno fatto dell’uso politico del diritto penale e dell’uso simbolico del carcere la chiave del proprio successo prima e del proprio radicamento elettorale dopo. Le ragioni istituzionali sono dovute a una revisione costituzionale che ha reso l’adozione di provvedimenti di clemenza paradossalmente più difficile della stessa revisione costituzionale. Non a caso, anche sotto questo profilo, la storia dell’Italia repubblicana si divide in due: prima e dopo la legge costituzionale del 6 marzo 1992, n. 1, di modifica dell’articolo 79 della Costituzione. Prima di allora, più di venti provvedimenti di amnistia-indulto; dopo di allora solo l’eccezionale indulto del 2006, in un’altra grave contingenza di sovraffollamento penitenziario. D’altro canto, se si guarda in una prospettiva storica il sistema penitenziario italiano, tre sono i principali fattori normativi della sua esplosione a partire dagli anni Novanta del secolo scorso: la legge sulla droga del 1990, le limitazioni alle alternative al carcere a partire dal 1991, il blocco delle misure di clemenza con la legge costituzionale del 1992. Con la revisione del 1992 è stato reso (quasi) inservibile uno strumento pur previsto dalla Costituzione. L’amnistia e l’indulto possono essere deliberati solo con una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera per ogni articolo e nella votazione finale della legge che li preveda. Certo, ha pesato, nella scelta del legislatore di allora, l’abuso degli strumenti di clemenza nella cosiddetta prima Repubblica: una leva di consenso tra i ceti meno abbienti, forse; un mezzo ordinario di calmieramento del sistema penitenziario, certamente, che però - sul presupposto della sua ineffettività - ha legittimato un diritto penale ipertrofico. Ma nel passaggio dalla padella alla brace, dall’abuso all’interdetto, l’intero sistema di giustizia penale si è privato di un rimedio eccezionale alle storture e alle ingiustizie che esso stesso, come sappiamo bene, può generare. Un conto è la legittima critica dell’antica tradizione degli strumenti di clemenza, individuale (la grazia) o collettivi (amnistia-indulto), come privilegi ingiustificati del sovrano, tradizione certamente incompatibile con gli Stati costituzionali di diritto; altro è privare il sistema di una valvola di sicurezza in casi di emergenza, come quello che abbiamo vissuto in questi mesi, o che potremo trovarci ad affrontare quando la riforma della prescrizione avrà dato tutti i suoi frutti, lasciando in sospeso migliaia di procedimenti penali che sarebbero stati destinati all’archiviazione, o anche solo tra pochi mesi, quando riprenderanno tutti i processi sospesi per il Covid-19, come ha rilevato il Procuratore aggiunto di Torino Borgna in un intervento su Avvenire del 20 maggio scorso. Non c’è articolazione del sistema sociale che possa escludere la necessità di un resettaggio, almeno parziale, del suo funzionamento, il che, nel penale, corrisponde al riconoscimento di una contingente necessità di giustizia preminente rispetto alla meccanica esecuzione di un pur legittimo giudicato. Nel riconoscimento di questa essenziale e pragmatica attualità degli istituti di clemenza ci sono le ragioni della perdurante presenza di amnistia, indulto e grazia nella nostra Costituzione, e conseguentemente ci sono le ragioni che chiedono siano resi praticabili, certo con maggioranze qualificate, ma non impossibili, e politicamente responsabili nei confronti dei cittadini elettori. Con queste motivazioni, la Società della Ragione già nel gennaio del 2018 ha dedicato un importante seminario a “Costituzione e clemenza collettiva. Per un rinnovato statuto dei provvedimenti di amnistia e indulto”, partecipato da molti autorevoli studiosi, i cui interventi, introdotti dalle relazioni di Vincenzo Maiello e di Andrea Pugiotto, sono stati raccolti in volume omonimo, pubblicato da Ediesse. Molto opportunamente, il deputato radicale Riccardo Magi ha voluto raccogliere i temi di quella discussione e, specificamente, l’elaborazione normativa di Andrea Pugiotto, per trarne una nuova proposta di revisione dell’art. 79 della Costituzione (AC 2456), che vincoli l’adozione di provvedimenti collettivi di clemenza a “situazioni straordinarie” o a “ragioni eccezionali” (le prime relative a eventi imprevedibili, le seconde a scelte di politica criminale), ma che ne restituisca la responsabilità a una maggioranza qualificata, però non impossibile, individuata nella maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella votazione finale. Proseguendo nella sua iniziativa, la Società della Ragione ha promosso una battaglia di scopo volta alla riapertura di una discussione pubblica su questi temi da portare fin dentro le aule parlamentari. Non si discute qui di questo o quel provvedimento di clemenza e delle loro eventuali motivazioni, ma della necessità istituzionale di rendere operativi strumenti di giustizia previsti dalla Costituzione e di cui il nostro sistema non può fare a meno. Con queste motivazioni, Società della Ragione ha, dunque, convocato un primo seminario in cui sono state raccolte le adesioni di importanti associazioni del mondo della giustizia e per i diritti civili, come Altro Diritto, Antigone, Magistratura democratica, Ristretti Orizzonti e l’Unione delle Camere penali. Testate come Avvenire, Il Dubbio, Il Riformista e il manifesto hanno manifestato il loro interesse all’iniziativa. Primo obiettivo è quello di raccogliere il più ampio arco di sottoscrizioni parlamentari della proposta, per poi chiederne la calendarizzazione nel prossimo autunno. Il percorso è irto di ostacoli, dovendo confrontarsi con gli abusi populisti del diritto e della giustizia penale, ma solo le battaglie cui si rinuncia sono certamente perse in partenza. Depenalizzate l’uso di droghe e svuoterete le prigioni di Marco Perduca* Il Riformista, 25 giugno 2020 Il 23,8% dei detenuti in Italia è in galera per detenzione ai fi ni di spaccio. Un milione di persone segnalate per cannabis. Il governo sarà capace di rivedere cosa non funziona (quasi tutto) nel Testo unico che è del 1990? Dal 1987 il 26 giugno si celebra la Giornata mondiale contro l’abuso e il traffico illecito di droga. Per combattere “meglio” questi fenomeni, nel 1988 fu adottata una terza Convenzione sugli stupefacenti e dieci anni più tardi si tenne la prima sessione speciale dell’Assemblea generale dell’Onu dedicata a questo tema. L’incontro fu convocato da Pino Arlacchi, allora direttore della competente agenzia Onu, con lo slogan “un mondo libero dalla droga, possiamo farcela!” In onore al rapporto privilegiato tra Craxi e Reagan, nel ratificare la convenzione dell’88 l’Italia adottò la legge Jervolino-Vassalli che dal 1990 definisce le misure contro produzione, consumo e commercio delle sostanze sotto il controllo internazionale delle Convenzioni. Malgrado un referendum che nel 1993 depenalizzò l’uso personale, la legge Fini-Giovanardi che nel 2006 re-istituì sanzioni penali e amministrative senza differenziare tra sostanze, e una decisione della Consulta nel 2014 che cancellò buona parte della legge di otto anni prima siamo ancora al testo del 1990. Da 11 anni tutti i 26 giugno viene pubblicato il Libro Bianco sulle Droghe che analizza l’impatto della legge e delle politiche conseguenti sulla base di dati ufficiali. L’XI volume è dedicato a “Droga e carcere ai tempi del Covid” e contiene i risultati di tre ricerche sui consumi illeciti durante il lockdown che segnalano una significativa capacità di “autocontrollo” dei consumatori, le loro strategie creative per fronteggiare l’emergenza e l’adeguamento alle mutate condizioni di vita e consumo nel tentativo di minimizzazione i rischi. Studi che dimostrano anche la flessibilità e la resilienza del mercato illegale rimasto vivace anche nei momenti di picco dell’infezione. Non dappertutto i servizi pubblici hanno funzionato dimostrando notevoli problemi nell’adeguarsi allo smart working per fornire terapie farmacologiche, strumenti di Riduzione del Danno, consulenze e informazioni online. Oltre l’attualità del Coronavirus, che ha colto tutti di sorpresa, il resto del Libro racconta una storia nota: nessun governo è riuscito a tener sotto controllo gli stupefacenti. Aumenta il numero delle persone segnalate al prefetto per consumo di sostanze illecite: 41.744 nel 2019, un incremento del 6,67% rispetto al 2018, di cui oltre 4000 minorenni. Le sanzioni calano leggermente a 14.322 ma vengono comminate in un terzo dei casi; irrilevante la vocazione “terapeutica” della segnalazione al prefetto, solo 202 - nel 2007 erano 3.008. La repressione colpisce principalmente chi usa cannabis (77,95%), cocaina (15,63%) ed eroina (4,62%); pochissimi per le altre sostanze. Dal 1990 all’anno scorso, 1.312.180 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale; di queste quasi un milione per derivati della cannabis! Il proibizionismo resta anche la causa principale del sovraffollamento carcerario nel nostro paese. Degli oltre 60.000 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2019, ben 14.475 lo erano a causa dell’articolo 73 della legge del ‘90 che penalizza duramente la detenzione a fi ni di spaccio, il 23,82% del totale. Altri 5.709 sono detenuti in associazione con l’articolo 74, associazione per traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. Oltre il 36% di chi entra in carcere è consumatore problematico, numeri che non si vedevano dai tempi della Fini-Giovanardi - 16.934 sono definiti “tossicodipendenti”: il 27,87% del totale. Tra gli allegati del Libro Bianco ci sono proposte di legge per una sostanziale depenalizzazione dell’uso personale di tutte le sostanze e quella, d’iniziativa popolare, per la legalizzazione della cannabis. Qualcuno leggerà questi numeri e queste proposte? Qualcuno pretenderà che il Dipartimento per le politiche antidroga presenti la sua relazione annuale al Parlamento, magari nei tempi previsti dalla legge, cioè entro giugno? Qualcuno inchioderà il governo alle sue responsabilità di convocare la Conferenza nazionale per rivedere quel che funziona (quasi niente) e cosa no (praticamente tutto) del Testo unico sulle droghe 309 del 1900? L’ultima è del 2009! In attesa d’esser sorpresi positivamente dopo tutti questi anni La Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali, A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud saranno in piazza Montecitorio con Radicali italiani e Meglio legale il 25 giugno per una manifestazione di piazza e il 26 pomeriggio online per pianificare il futuro. *Associazione Luca Coscioni Quasi mille gli anziani in carcere, tra loro anche alcuni novantenni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 giugno 2020 Aumenta l’età media delle pene e l’età media della popolazione detenuta. In breve tempo la popolazione carceraria ultra 70enne è triplicata. Negli ultimi anni sono aumentate l’età media delle pene, aumenta l’età media della popolazione detenuta stessa e di conseguenza abbiamo triplicato, rispetto al 2005 (il primo dato disponibile sul sito del ministero della Giustizia), la popolazione ultra 70enne. Al 2019, infatti, risultano 986 persone anziane dove non mancano detenuti che hanno raggiunto la soglia dei 90 anni, soprattutto gli ergastolani che sono al 41bis. Sì, anziani con le ovvie patologie legate alla loro età, compreso i tumori. Quella popolazione più vulnerabile ai tempi della piena emergenza coronavirus dove il Dap non ha potuto fare a meno di inviare quella famosa circolare che aveva come nobile obiettivo di tutelare la salute delle persone detenute, conscio che le carceri avrebbero potuto fare la fine delle Rsa dove il Covid 19 ha fatto una strage di anziani. Il Dap risultò “colpevole” di aver richiesto a tutti gli istituti penitenziari una lista di detenuti anziani e con patologie importanti, più esposti ai rischi di contagio da Covid-19, a prescindere dalla loro posizione giuridica e dal circuito penitenziario di appartenenza. Forse fu l’unica cosa di buon senso che l’amministrazione penitenziaria riuscì a fare e fu colpita mediaticamente per questo, tanto che ancora oggi la commissione nazionale Antimafia sta compiendo una indagine conoscitiva. Quei novantenni in carcere - Ma ritorniamo agli anziani, soprattutto dopo il caso di Emilio Fede, quasi 90enne, che è stato arrestato mentre era a festeggiare in una pizzeria il suo compleanno, reo di non aver atteso la notifica della liberazione anticipata che gli era stata comunque concessa. Il consigliere regionale del Lazio di +Europa Alessandro Capriccioli, commentando la notizia su Facebook, ha detto: “So cosa state pensando: ci sono tanti anziani in carcere e nessuno se li fila, ma adesso che hanno arrestato Emilio Fede al ristorante tutti si indignano. Senonché, io in carcere ci vado spesso. E alcuni di quegli anziani li ho conosciuti. Ci ho parlato. Ho visto gli altri detenuti far loro da badanti, perché di badanti, non di agenti della penitenziaria, avevano bisogno”. Capriccioli poi ha aggiunto: “Lasciatevelo dire da uno che quegli anziani, quando gli capita, se li fila: fare i benaltristi, dicendo che prima di indignarsi per l’arresto di Emilio Fede bisognerebbe farlo per gli anziani meno famosi di lui che stanno dentro da chissà quanto, equivale a non fare nulla. Né per l’uno né per gli altri”. Il nostro ordinamento penitenziario contiene l’art. 47 ter, comma 1, il quale prevede che la pena detentiva inflitta ad una persona che abbia compiuto i settanta anni di età “può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza”. Questa ipotesi di detenzione domiciliare ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Però non vale per tutti. Ci sono gli anziani senza fissa dimora e senza alcuna struttura pronto ad accoglierli, oppure ci sono anziani con i reati cosiddetti “ostativi”. Si può pensare che siano tutti mafiosi, ma anche questo non è vero. La storia di Gino Baccani, l’82 enne recluso a Rebibbia - Due anni fa Il Dubbio si è occupato del caso di Gino Baccani, oggi 82enne, recluso al carcere di Rebibbia. Non è considerato socialmente pericoloso ed è stato arrestato nel 2014 per reati commessi tanti anni fa. Tutti gli operatori penitenziari, dagli educatori ai volontari che l’assistono, dicono che si è ravveduto. A dimostrarlo è anche l’ottima relazione dell’equipe di osservazione. Il signor Baccani si ritrova dentro per un cumulo di pene per due reati non mafiosi commessi a distanza di anni, traffico di sostanze stupefacenti: nel 1987 con sentenza definitiva nel 1989 e nel 2001 con sentenza definitiva emessa nel 2010. Ha così determinato una pena complessiva di 15 anni e 4 mesi di reclusione. Ma è sempre lì, in carcere, ora nel nuovo complesso di Rebibbia dove sta in una situazione di sofferenza. Storie come le sue ce ne sono tante. Ogni anziano ha storie a sé. Non sono tutti dei Totò Riina e non sono tutti come Gino Baccani. Ma è un fenomeno che dovrebbe porre interrogativi, quindi delle soluzioni senza farsi coinvolgere da chiavi di lettura dietrologica come sta accadendo oggi per bocca di personaggi auditi in commissione Antimafia. Luogo dove si evocano fantomatici papelli, mai dimostrati materialmente, ma solo per stigmatizzare le poche conquiste che rendono il nostro Paese un pò più civile. Carcere, 41bis e comunicazioni: a cosa serve una maggiore afflizione? di Giusy Santella linkabile.it, 25 giugno 2020 Di recente, il regime del 41bis è tornato al centro del dibattito dell’opinione pubblica. Tuttavia, ancora una volta, non si è trattato di una discussione che mettesse al centro l’individuo e la funzione della pena, bensì dell’ennesimo tentativo di rendere ancora più afflittivo e punitivo l’attuale sistema penale. Il tutto è iniziato con le polemiche riguardanti le cosiddette scarcerazioni - che in realtà sono detenzioni domiciliari - di detenuti in alta sicurezza durante l’emergenza legata alla pandemia, di cui solo tre erano in regime di 41bis e in condizioni di salute tali da far ritenere al giudice di sorveglianza la detenzione domiciliare necessaria perché essi potessero ricevere cure adeguate al di fuori delle mura carcerarie. La mala informazione e il costante clima di odio e insicurezza in cui viviamo hanno poi fatto la loro parte e il Ministro della Giustizia Bonafede ha ritenuto opportuno sfornare in fretta e furia un decreto “anti-boss”, che desse la possibilità di rivedere i provvedimenti assunti e ripristinare la detenzione laddove possibile. Il decreto è già stato oggetto, dopo solo un mese, di due questioni di legittimità costituzionale da parte dei Magistrati di Sorveglianza di Spoleto e Sassari. L’ultima polemica ha però riguardato il divieto di comunicazione che vige per i detenuti in regime di 41bis: si tratta di una vicenda che ha coinvolto il Magistrato di sorveglianza de L’Aquila due anni fa ma su cui solo pochi giorni fa la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi. Andando con ordine, l’ergastolano Mario De Sena, in regime di 41bis, era stato escluso dalle attività in comune per aver precedentemente augurato la buonanotte a detenuti appartenenti a un diverso gruppo di socialità. L’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario sancisce infatti il divieto per i detenuti in tale regime di ogni forma di comunicazione e dialogo con reclusi di altri gruppi di socialità. La norma, precisando che può trattarsi anche di comunicazioni non verbali, è finalizzata ad evitare contatti “pericolosi” tra sodali. Tuttavia, il magistrato di sorveglianza aveva poi ritenuto di accogliere il reclamo presentato dal detenuto, stabilendo che augurare la buonanotte si configura come una forma di comunicazione neutra, priva quindi di altri contenuti, che non violerebbe in alcun modo il dettato della norma, finalizzata ad evitare lo scambio di notizie. Dello stesso avviso non era invece il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, che ha presentato ricorso avverso tale decisione, adducendo un’erronea applicazione di legge ex articolo 606, comma 1 lett. b, c.p.c, e precisando che la sanzione inizialmente comminata non ledeva in alcun modo il diritto del detenuto di comunicare, assicurato all’interno del gruppo di socialità in cui è inserito. L’interpretazione portata avanti dall’amministrazione individuava la comunicazione in qualsiasi forma di contatto, non essendo però in grado di specificare di quale comunicazione occulta o fraudolenta si trattasse. E così la Suprema Corte di Cassazione, pochi giorni fa, ha precisato che tale sanzione, non intravedendo o sospettando alcun significato diverso da quello apparente da attribuire alla buonanotte, si sarebbe risolta in un’inutile afflizione non finalizzata al rispetto di alcuna norma, e dunque da evitare. La Cassazione ha così accolto l’interpretazione fornita dal magistrato di sorveglianza, precisando che si può parlare di comunicazione esclusivamente quando si instauri un dialogo e ci sia quindi uno scambio di contenuti, che in questo caso sembra non sussistere. Pur trattandosi di una vicenda abbastanza limpida, essa ha dato adito a numerose polemiche e i giudici sono stati accusati di eccessiva permissività, oltre che incapacità di leggere il linguaggio omertoso di cui talune categorie di detenuti si servirebbero. Al di là di questo singolo episodio, molti sembrano dimenticare che se non è possibile dimostrare la colpevolezza di un comportamento, e quindi in questo caso individuare il significato occulto da attribuire alla buonanotte, qualsiasi soggetto si presume innocente, qualunque siano gli ulteriori reati di cui egli si è macchiato. È necessario che le condanne e il nostro sistema penale vengano depurati da tutti quegli elementi esclusivamente afflittivi e punitivi che nulla hanno a che vedere con la funzione rieducativa della pena. Un ulteriore passo in avanti è stato fatto poche settimane fa dalla Corte Costituzionale, che ha ritenuto illegittimo per violazione degli articoli 3 e 27, comma 3 della Costituzione, il divieto assoluto di scambiarsi oggetti se applicato a detenuti in regime di 41bis ma appartenenti allo stesso gruppo di socialità. Questi trascorrono infatti del tempo insieme e hanno la possibilità di comunicare, quindi risulta irragionevole non poter scambiare oggetti di modesto valore e di uso quotidiano, a cui nessun significato occulto o fraudolento può essere attribuito. Anche in questo caso si tratterebbe di un’inutile afflizione che inoltre limiterebbe la creazione di una seppur scarna forma di socializzazione tra persone che vivono la propria quotidianità e gli spazi comuni insieme. Si tratta di un buon segnale di partenza per un cammino che è necessario intraprendere per liberare il nostro ordinamento da qualsiasi velleità punitiva e repressiva. Duemila chilometri in bicicletta per superare il carcere di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 giugno 2020 Al via “Sui pedali della libertà”. “La nostra Costituzione scommette sul cambiamento, sull’idea che la personalità del condannato non è incisa per sempre al reato che ha commesso ma è aperta al cambiamento”. Un tour in bicicletta da un capo all’altro del Paese attraverso le carceri italiane. Un viaggio di dieci giorni e circa 2000 chilometri tra il Brennero e Capo Passero che Il Dubbio percorrerà raccogliendo le voci di chi vive quotidianamente gli istituti penitenziari: istituzioni, associazioni e, naturalmente, i detenuti. L’iniziativa, al via il 25 giugno, nasce per raccontare una realtà sepolta, ai margini della società, e lanciare un messaggio di rinnovamento e superamento del carcere come mero strumento repressivo. “L’articolo 27 della nostra Costituzione ci dice che la pena è una realtà aperta al futuro. Ci spiega che non solo le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, ma che devono tendere alla rieducazione del condannato. Così, dunque, la nostra Costituzione scommette sul cambiamento, sull’idea che la personalità del condannato non è incisa per sempre al reato che ha commesso ma è aperta al cambiamento”. Sono le bellissime parole del giudice costituzionale Francesco Viganò, parole che ha pronunciato nel lungo viaggio che la Corte Costituzionale ha intrapreso negli istituti di pena italiani. “Mai più un carcere cimitero dei vivi, giurarono i padri costituenti, che durante il ventennio fascista avevano conosciuto la mortificazione del carcere-cimitero”, hanno ribadito i giudici costituenti. Quella contro l’idea del carcere-cimitero è una delle battaglie culturali sulle quali è stato fondato il Dubbio. Anche noi, come ha ricordato il giudice Viganò, scommettiamo su un’idea di pena che sia rieducativa e ribadiamo che i diritti fondamentali devono includere tutti. Anche perché la mera repressione, oltre a tradire la nostra Costituzione, non fa un buon servizio alla sicurezza collettiva. I dati parlano chiaro: chi sconta la propria pena fuori dal carcere, chi può beneficiare di pene alternative e percorre progetti di reinserimento ha molte meno possibilità di reiterare i reati. Ma la costruzione di progetti alternativi è più faticosa e ha bisogno di una politica forte, autorevole, paziente. Abbiamo assolutamente bisogno di una politica che smetta di assecondare per meri fini propagandistici le pulsioni più rabbiose e feroci che arrivano dalla società e che sia in grado di mettersi alla guida di un progetto di grande riforma che abbia come orizzonte una radicale trasformazione del carcere. Questo viaggio sarà anche l’occasione per riflettere sul presente e riannodare metaforicamente i fili spezzati di un Paese che in questi mesi si è dovuto chiudere in sé stesso: una sorta di grande detenzione collettiva che ha cambiato il nostro modo di vivere e di pensare e che nel momento stesso in cui ci ha isolati dagli altri, ci ha fatto capire quanto gli altri siano fondamentali. E così le nostre carceri che appaiono come monadi isolate, in realtà sono intrecciate più di quanto si crede alla “vita di fuori” e alla coscienza di ognuno di noi. Testimone di un Paese che prova a rimettersi in piedi sarà Roberto Sensi, amministratore unico della società editrice del Dubbio, che in sella alla sua bici muoverà lo sguardo dall’ultimo avamposto della battaglia contro la disgregazione sociale. “Quella della bici - spiega Roberto - è l’unica catena che ti rende libero. E così con i tempi dilatati del viaggio in bici, mentre assaporo tutta la libertà che la bici offre, il mio pensiero va a chi di questa libertà non può godere: ai reclusi. Attraverso questa mia avventura voglio dare voce alle persone che vivono in un mondo di tre metri per tre, che lo Stato ha recluso e la società ha escluso, voglio essere il testimone di questo mondo parallelo, e latore di un messaggio di superamento del carcere”. Il suo viaggio sarà seguito in tempo reale dalla redazione del Dubbio che, attraverso il sito web e l’edizione cartacea, accoglierà e diffonderà i suoi racconti quotidiani. Video, scrittura, audio. La redazione utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione per raccontare questo pellegrinaggio dei diritti scandito dai temi che Il Dubbio affronta quotidianamente: il 41bis, il fine pena mai, le tante storie di vite spezzate dagli errori giudiziari. Sul tema del carcere duro, il regime del 41bis, ci soffermeremo a Parma, mentre la tappa a Modena sarà l’occasione per ricostruire i fatti accaduti durante l’emergenza sanitaria da Covid- 19 con l’esplosione delle rivolte e la morte di 9 detenuti. A Firenze affronteremo il tema del perdono attraverso una figura emblematica all’interno degli istituti di pena: il cappellano. Dal carcere di Poggioreale a Napoli racconteremo la violenza e l’inumanità delle strutture di detenzione, mentre a Perugia incroceremo ancora la storia di Carmelo Musumeci: condannato all’ergastolo ostativo per omicidio e associazione mafiosa, da un anno e sei mesi è in liberazione condizionale e fa volontariato in una casa famiglia in Umbria. E giù per lo stivale con molto altro: il lavoro in carcere, gli istituti minorili, storie di malagiustizia. Un vero e proprio diario di viaggio alla fine del quale nessuno potrà più dire: “Marciscano pure in galera”. Partecipa anche un think tank di studi di futuro - Spoiler - che con metodi della previsione sociale accompagnerà i protagonisti del tour e gli interlocutori privilegiati incontrati nel viaggio per discutere e confrontarsi con loro sui possibili futuri del sistema carcerario italiano al 2040. L’iniziativa è patrocinata dal Consiglio Nazionale Forense. “Come a casa”: sportello di ascolto per tutto il personale penitenziario di Antonella Barone gnewsonline.it, 25 giugno 2020 Uno sportello gratuito di ascolto per tutto il personale in servizio negli istituti penitenziari sarà disponibile da domani grazie al protocollo d’intesa biennale firmato ieri dalla Direzione Generale del Personale e delle Risorse (Dgpr) dell’Amministrazione Penitenziaria e dall’Associazione di Protezione Sociale (Aps) “Girotondo intorno al sogno”. L’accordo estende al territorio nazionale il progetto “Come a Casa”, riservato fino a oggi agli operatori penitenziari di Toscana - Umbria - Emilia Romagna - Marche e Campania, realizzato in collaborazione con l’Osservatorio Violenza e Suicidio come risposta all’emergenza sanitaria del Covid-19. “Le telefonate ricevute nelle regioni in cui è già attivo il servizio hanno mostrato - spiega Edy Marucchi, psicoterapeuta e presidente di Girotondo intorno al Sogno - come lo stato emotivo del Personale di Polizia Penitenziaria durante il Covid-19 sia stato colpito su più fronti: lavorativo, personale e familiare. Durante l’emergenza sanitaria chi opera all’interno della realtà penitenziaria, e in particolare la polizia, ha continuato a prestare servizio con responsabilità e alto senso civico garantendo sicurezza pubblica alla collettività. Tutto questo ha comportato un sovraccarico di stress fisico e mentale che richiede un lavoro emotivo profondo per essere superato”. Dai contenuti delle chiamate analizzate, è emersa la necessità di ascolto da parte di chi lavora nelle realtà carcerarie e in particolare dal Corpo di Polizia Penitenziaria al di là del periodo di emergenza sanitaria mentre il positivo riscontro dell’iniziativa ha portato la Dgpr ha inserire il servizio tra le azioni a tutela del benessere psicofisico del personale. La complessità della realtà carceraria espone chi vi lavora a qualunque titolo a situazioni di tensione e stress, a sentimenti di frustrazione che non sempre possono essere affrontati e risolti dalla persona che ne è colpita ma a volte richiedono condivisione, ascolto e intervento di esperti. L’associazione “Girotondo intorno al sogno” offre il contributo di un gruppo multidisciplinare di professionisti con diverse competenze che operano nel campo della prevenzione di problematiche psicologiche e nel contrasto di fenomeni suicidari. Sulla base dei bisogni specifici emersi dalla prima fase del progetto l’attività del servizio si articola su tre livelli: una prima accoglienza, l’analisi della domanda e l’eventuale invio al professionista che si trova più vicino alla persona che usufruisce del servizio. L’utente insieme al terapeuta, potrà valutare la reale necessità che l’ha spinto a formulare una domanda di aiuto e a valutare quale sia la strada per una possibile soluzione. Per accedere al servizio sarà sufficiente richiedere un appuntamento scrivendo all’indirizzo e-mail comeacasa.poliziapenitenziaria@gmail.com oppure chiamando il numero verde 800585128. La persona sarà poi ricontattata dallo psicoterapeuta per fissare un appuntamento. I professionisti saranno ovviamente tenuti al segreto professionale come regolamentato dal codice deontologico. In attesa di carceri aperte, figli e genitori connessi gruppocrc.net, 25 giugno 2020 Conferenza europea, giovedì 25 giugno 2020, dalle 17:00 alle 19:00 (con Zoom, in italiano, apertura 16:45). Interverranno: il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia; la Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza, Filomena Albano; il Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile e Comunità Gemma Tuccillo; il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma; la Past President della rete Cope (Children of Prisoners Europe), Lucy Gampell; la Presidente di Bambinisenzasbarre, Lia Sacerdote. Sono previsti gli interventi programmati di: Maria Visentini già Ispettore Superiore Polizia Penitenziaria; Elias Oliver Kastner (Spagna) vicepresidente Fédérazione dei Relais Enfants Parents International e delegato del Consiglio d’Europa; Alain Bouregba (Francia) presidente Frep; Viviane Schekter (Svizzera) Direttore Frep Romand e altri partecipanti alla videoconferenza sono stati invitati a intervenire. La domanda chiave parte dalla Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti e dalla Raccomandazione Europea Cm/Rec (2018)5 per riflettere sul carcere, diffondere le esperienze positive in atto e contribuire a costruire un sistema penitenziario più umano, giusto e resiliente. Ogni anno l’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus, all’interno della Campagna europea Non è un mio crimine ma una mia condanna, promossa dal network europeo Cope (Children of Prisoners Europe) di cui Bambinisenzasbarre è membro per l’Italia e nel board, promuove la campagna italiana Carceri aperte, in collaborazione con il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) per portare all’attenzione il tema della relazione figli-genitori detenuti e organizza in ogni istituto penitenziario dei momenti speciali per le famiglie durante tutto il mese di giugno. Il tema guida della Campagna è il mantenimento della relazione figli-genitori detenuti, diritto rappresentato dalla Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti (*) e la sua applicazione in questi anni nel sistema penitenziario. Quest’anno la Campagna di giugno “Carceri Aperte”, a causa dell’emergenza Covid-19, è diventata “In attesa di Carceri Aperte, figli-genitori connessi”. È partita il 26 maggio con la Videoconferenza europea di apertura. “L’emergenza Covid-19 ha imposto un blocco anche nel percorso di buone pratiche e procedure aderenti alla Carta attuate nelle carceri italiane. È un blocco che ci auguriamo rimanga temporaneo, per non disperdere tutto il lavoro di questi ultimi vent’anni. Il lavoro di monitoraggio previsto dalla Carta ci consentirà di presidiare il dopo Covid e contribuire a mantenere ciò che di positivo l’emergenza ha reso necessario, come l’aumento di contatti con le videochiamate, e le iniziative a distanza introdotte a sostegno integrando e potenziando le buone pratiche consolidate. Nell’emergenza del “distanziamento sociale” la linea guida è stata quindi, non “distanza sociale” ma “socializzazione della distanza”. Afferma Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre. Durante la Campagna europea, in particolare in giugno, nel periodo di blocco e post-blocco causato dal Covid-19, Bambinisenzasbarre ha attivato e portato avanti varie iniziative per sostenere, a distanza, le famiglie colpite dai genitori detenuti. In particolare: (*) La Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti è la prima e unica esistente e attiva in Europa (firmata nel 2014 dal Ministro della Giustizia, dalla Garante nazionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza e da Bambinisenzasbarre). La Carta è diventata poi il testo guida per la Raccomandazione europea Cm/Rec (2018)5, 04.04.2018, firmata dai 47 stati del Consiglio d’Europa. Decreto carceri, sì alla fiducia. Slitta ancora la riforma del Csm di Emilio Pucci Il Messaggero, 25 giugno 2020 L’aula della Camera ha approvato con 305 voti favorevoli e 232 contrari la fiducia posta dal governo sul decreto Giustizia. E ora le forze politiche di maggioranza e opposizione attendono la riforma del Csm che il Guardasigilli Alfonso Bonafede dovrebbe portare in Cdm la prossima settimana. Forza Italia e Italia viva hanno issato nuovamente la bandiera della separazione delle carriere (“Ma - osservano fonti dem - sono freddi pure Lega e Fdi”) e il Pd rilancia - con il vice segretario Orlando - il progetto una sorta di Alta Corte per la responsabilità disciplinare di tutte le magistrature, e non solo di quella ordinaria. Nei fatti, sulla giustizia non c’è aria di collaborazione in Parlamento. I renziani in Commissione a Montecitorio appoggiano le battaglie del partito azzurro anche sul tema dello stop alla riforma della prescrizione, ma per ora non c’è alcun rischio che la maggioranza vada sotto. “Occorre togliere dal tavolo temi divisivi”, l’invito del responsabile Giustizia del partito del Nazareno, Walter Verini. “Ci dicono no su tutto; per loro, la nostra collaborazione deve essere unilaterale”, attacca il forzista Costa. Il Guardasigilli sta ultimando la bozza della riforma del Csm che porterà all’attenzione del premier Conte. Il presidente del Consiglio appoggia le idee del responsabile di via Arenula, si è limitato a chiedere che venga dato seguito all’appello del presidente della Repubblica. E così ci sarà una stretta alle “porte girevoli” tra politica e magistratura. Uno stop per mettere fine alle degenerazioni delle correnti e che coinvolgerà anche i magistrati fuori ruolo. Inoltre, i magistrati segretari non verranno designati attraverso meccanismi di cooptazione. Sul punto ci ha lavorato il sottosegretario Andrea Giorgis. Con il Pd che ha ottenuto che non ci sarà alcun divieto di ingresso nell’organo di autogoverno della magistratura per i politici. Al di là di qualche fibrillazione Pd, M5S, Iv e Leu hanno serrato i ranghi. Il segnale è arrivato ieri con il semaforo verde al decreto giustizia che proroga al 1 settembre il termine a partire dal quale la riforma della disciplina delle intercettazioni troverà applicazione. Sarà inoltre consentito alla polizia penitenziaria di utilizzare i droni per assicurare una più efficace vigilanza sugli istituti penitenziari e garantire la sicurezza al loro interno. Si chiude il caso delle scarcerazioni di alcuni boss mafiosi e di detenuti colpevoli di reati gravi, a seguito dell’emergenza coronavirus: la modifica apportata con il provvedimento consiste nella previsione di un parere obbligatorio che i giudici di sorveglianza devono richiedere al Procuratore antimafia in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto. “Vi è l’obbligo di revoca del provvedimento di ammissione alla detenzione domiciliare in deroga quando vengano meno le condizioni per le quali era stata concessa”. Per i detenuti viene confermata la possibilità di colloqui a distanza mediante apparecchiature e collegamenti e di poter vedere i propri congiunti almeno una volta al mese. Dal 1 luglio il sistema giudiziario tornerà alla normalità. Infine il decreto istituisce presso il ministero della Salute una piattaforma per il tracciamento dei contatti tra le persone che installino, su base volontaria, un’apposita applicazione per dispositivi di telefonia mobile complementare; è un sistema di allerta sulle persone che siano entrate in contatto stretto con soggetti risultati positivi al virus Covid-19. Giustizia, sì alla fiducia su intercettazioni e decreto antiscarcerazioni di Liana Milella La Repubblica, 25 giugno 2020 I tribunali ripartiranno dal primo luglio. Sulla separazione delle carriere si dividono Renzi e il Pd. Un voto di fiducia privo di ansia. Alla Camera finisce 305 contro 232 (con 2 astenuti) sul decreto “misto” che raggruppa il nuovo, ma questa volta definitivo rinvio della legge sulle intercettazioni, al primo settembre. Ma anche le norme sull’App immuni. Nonché i due decreti riuniti del Guardasigilli Alfonso Bonafede contro le 220 scarcerazioni di altrettanti boss mafiosi avvenute in una quarantina di giorni tra marzo e aprile. Il primo decreto è quello che obbliga i magistrati di sorveglianza a sentire il parere delle procure antimafia e anche del procuratore nazionale antimafia. Il secondo, peraltro già impugnato davanti alla Consulta da tre uffici giudiziari, è quello che obbliga le toghe a verificare le condizioni che hanno permesso i domiciliari. Tra le norme c’è anche quella che fa ripartire la giustizia il primo luglio, lasciandosi alle spalle il lockdown dovuto al Covid. Al via definitivo mancano solo - e sono previsti per domani - il voto sugli ordini del giorno e poi quello finale. Ma come antipasto sulla giustizia ecco che torna l’incubo, per Bonafede e la maggioranza giallorossa, della separazione delle carriere. Di buon mattino lo ributta in pista Matteo Renzi. Giusto alla vigilia, tra una decina di giorni, del voto alla Camera, prima in commissione Affari costituzionali e poi in aula, sul progetto di legge per separare le carriere. Che nasce come un’iniziativa di legge popolare delle Camere penali e poi viene sostenuta da un intergruppo trasversale a maggioranza e opposizione, dove a sostenere l’ipotesi di distinguere nettamente giudici da pm ci sono anche deputati del Pd. Sulle carriere separate, come sul rinvio della prescrizione del Guardasigilli Alfonso Bonafede (lo stop è in vigore dal primo gennaio) si realizza una trasversalità politica tra i renziani e Forza Italia. Un’alleanza non nuova, tant’è che anche domani, quando si voteranno gli ordini del giorno al decreto sulla giustizia, si potrebbe verificare una convergenza tra i due gruppi: ad esempio sulla prescrizione da rinviare al 2021 e su una nuova proposta del responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa che chiede di bloccare, fino alla fine del 2021, tutti gli incarichi extragiudiziari delle toghe. Ma torniamo alla separazione delle carriere, questione portata in Parlamento da Giandomenico Caiazza, il presidente delle Camere penali che Renzi ha imposto alla maggioranza come presenza obbligatoria al tavolo delle trattative sulla giustizia. Certo una richiesta non casuale vista la sua battaglia non solo sulle carriere, ma anche sullo stop alla prescrizione. Tutti temi che spaccano la maggioranza. A partire dalle carriere. Sostiene Renzi parlando con il Dubbio, il quotidiano delle Camere penali: “Per la prima volta da anni l’opinione pubblica non crede più al racconto: giudici eroi, politici ladri. La verità è più complessa e finalmente si sta facendo strada. Penso che presto si potrà iniziare a parlare civilmente anche di separazione delle carriere”. Ma su un altro giornale, il Riformista, ecco all’opposto la campana di Walter Verini, il responsabile Giustizia del Pd, che dice: “La separazione delle carriere non mi convince. Perché contiene il rischio della tentazione in qualcuno di dare un colpo all’indipendenza della magistratura”. Lo scontro non potrebbe essere più duro. E si materializzerà subito in commissione Affari costituzionali tra una settimana quando dovrà essere votata la legge per l’aula. La scadenza era quella del 29 giugno, già fissata da tempo nel calendario, ma è stata rinviata di una decina di giorni. Il relatore del provvedimento, il costituzionalista del Pd Stefano Ceccanti, le cui simpatie renziane sono note, non ha mai fatto mistero di essere favorevole alla separazione, ma non ha presentato emendamenti. Mentre lo ha fatto M5S per cancellare del tutto la legge. I numeri sono ballerini. In aula, se la maggioranza dovesse spaccarsi con un voto dei renziani e di una parte del Pd a favore della separazione, questo sarebbe un colpo su un argomento molto delicato. Soprattutto alla vigilia della legge sulla giustizia su cui il Guardasigilli Bonafede è ormai giunto alle battute finali. La riforma del Csm e dei criteri di nomina dei magistrati sono lì dentro. E se la maggioranza giallorossa si dividesse prima sulle carriere questo sarebbe un segnale molto negativo. I penalisti bocciano la riforma Bonafede: “Grande ipocrisia” di Angela Stella Il Riformista, 25 giugno 2020 Chiedono subito la separazione delle carriere: la legge di iniziativa popolare arriva in commissione alla Camera il 4 luglio. Appello alle forze politiche perché la approvino. Non c’è voglia di riformare l’ordinamento giudiziario, nessuno vorrà mai toccare temi quali, ad esempio, il distacco dei magistrati nei ministeri, c’è una grande ipocrisia che stiamo cercando di raccontare”: non fa giri di parole Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, durante la conferenza stampa convocata ieri per presentare le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario e della magistratura a cura dell’Ucpi, che saranno portate all’attenzione del Ministro Bonafede. Uno degli aspetti evidenziati è che “il ministero della Giustizia è fortemente influenzato dal Csm - e dalle correnti - dato che i suoi dirigenti sono tutti o quasi magistrati fuori ruolo. D’altra parte, lo stesso Csm è ormai da tempo controllato di fatto dalle correnti dell’Anm, cui in questi anni sono appartenuti tutti i componenti elettivi togati”. L’articolato documento illustrato dal Responsabile dell’Osservatorio Ucpi sull’ordinamento giudiziario, Rinaldo Romanelli, tocca anche altri temi che vanno “dal processo di reclutamento e valutazione delle capacità professionali dei magistrati che mostra gravi deficienze” alla “continua espansione del potere giudiziario ed in particolare del potere del pubblico ministero, dovuta anche al crescente affermarsi del populismo penale”. Su questi due punti Caiazza si è espresso duramente: “Le proposte di riforma, non soltanto quella del Ministro, toccano qualunque aspetto fuorché quello cruciale che si riferisce ad un aspetto proprio della sola magistratura italiana: non esiste un sistema di valutazione della professionalità del magistrato, non c’è più la promozione e quindi la distinzione per merito. Quando si concorre per una carica, i curriculum sono difficilmente distinguibili, come avvenuto per i concorrenti alla Procura di Roma. L’eliminazione di ogni valutazione di qualità nella progressione di carriera rappresenta una vera catastrofe per la magistratura italiana”. Non è un caso ha ricordato Romanelli se “ogni anno in Italia ci sono circa 250 ricorsi al Tar da parte di magistrati contro le nomine fatte dal Csm. Inoltre, oggi i controlli di professionalità non sono che dei meri riti, dato che nel 99% dei casi si traducono in un acritico giudizio positivo”. Se in Italia tutti i magistrati raggiungono il livello massimo di carriera, stipendio, pensione e trattamento di fine rapporto, in Germania solo un numero di magistrati pari ad una percentuale tra il 5 e 10% è valutato “eccellente”, mentre il Francia solo circa l’8% dei magistrati raggiunge il livello “fuori gerarchia”, comprensivo dei magistrati di Cassazione e dirigenti degli uffici più importanti. In questo, come riportato sempre nel documento, “non possono tacersi le responsabilità della magistratura associata che si è sempre di fatto opposta all’istituzione di serie valutazioni”. Inoltre, ha proseguito il presidente dei penalisti italiani, “ci troviamo di fronte ad uno squilibrio tra poteri nel nostro Paese. Il potere giudiziario ha acquisito una forza, una incidenza che va oltre i propri limiti costituzionali. E si è trasfigurato in un potere politico, in grado di orientare la vita delle istituzioni politiche, di esercitare scelte di politica criminale senza renderne conto a nessuno. E quando parliamo di questo potere parliamo in particolare della magistratura inquirente: gli uffici di Procura, iscrivendo o non iscrivendo quel sindaco o quel presidente di regione nel registro degli indagati, determinano per ciò stesso esiti di natura politica. Il giudizio successivo su quell’ipotesi accusatoria non interessa a nessuno e arriverà dopo molti anni”. Una soluzione alla crisi che sta investendo la magistratura è sicuramente la separazione delle carriere tra pm e giudici: la discussione in Commissione Affari Costituzionali della Camera della proposta di legge di iniziativa popolare su tale proposta di riforma è stata posticipata dal 29 giugno al 4 luglio. Come ha ricordato Eriberto Rosso, segretario dell’Ucpi, “il Movimento 5 Stelle ha presentato degli emendamenti soppressivi che, qualora approvati, affosserebbero il dibattito sulla proposta. Ciò ci sorprende perché proprio in passato il presidente della Camera Roberto Fico si era espresso positivamente sulle proposte di legge di iniziativa popolare”. Nei giorni scorsi l’Ucpi ha scritto una lettera indirizzata ai leader delle forze politiche - Vito Crimi (Movimento 5 Stelle), Nicola Zingaretti (Partito Democratico), Matteo Renzi (Italia Viva), Pietro Grasso (Liberi e Uguali) - affinché la proposta possa giungere all’attenzione dell’Aula. “Al momento - dice l’avvocato Rosso - nessuno ci ha ancora risposto. Per questo abbiamo deciso di rivolgerci nei prossimi giorni a tutti i deputati della commissione per investirli della questione”. Mentre il past president dell’Ucpi Beniamino Migliucci ha ribadito come sia “solo una leggenda metropolitana che con questa riforma il pm vada sotto il controllo dell’esecutivo” e ha sottolineato come “Giovanni Falcone viene sempre richiamato ma censurato nel rammentare la sua posizione favorevole alla separazione delle carriere”. Le riforme secondo Verini: “La politica non approfitti della debolezza della magistratura” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 25 giugno 2020 Walter Verini, deputato al cubo, è il responsabile Giustizia del Pd. Ma non è un giurista. Per 23 anni consigliere comunale nella sua Città di Castello, da dirigente Pci, poi Pds e da uomo di comunicazione, “riformista ma non migliorista, vicino a Veltroni ma fuori da ogni corrente”, è un tessitore paziente. “Da sempre cerco di lavorare su quel che unisce, più che su quanto divide”. Oggi la magistratura e la giustizia sono sotto accusa. Come porre rimedio? Con quattro grandi architravi: riforma del Csm, del processo penale, civile, dell’ordinamento penitenziario. Con un approccio radicalmente diverso da quello che ha dominato gli ultimi vent’anni di dibattito parlamentare. Lontano dai due opposti estremismi: il populismo giustizialista e il garantismo usa-e-getta. Con quale garantista ce l’ha? Si chiama garantista anche Salvini, che poi va a suonare i citofoni. Questo garantismo a due volti, quello garantista con gli amici e giustizialista con gli ultimi della terra, non mi piace. Marginalizziamo il populismo penale che ha fatto tanti danni. Proviamo a stabilire un terreno che non sia tossico, un terreno delle garanzie, sapendo che per gli imputati si deve assicurare serenità di giudizio fino all’ultimo grado. Come riformerebbe il processo penale? Il procedimento penale deve portare a un tetto di cinque/sei anni massimo la durata massimo del processo. Dopodiché finisce il procedimento. È una proposta già scritta dal Cdm, incardinata in Commissione giustizia, che la prossima settimana inizia il suo iter parlamentare. E anche il tema vero, reale della prescrizione diventa marginale. Perché la prescrizione è una tutela dell’imputato, ma se il processo penale dura 6 anni massimo, il problema è superato. Rimane un iter sballato, prima fate saltare la prescrizione e poi si corre ai ripari con il tetto. Concentriamoci sulle strade che ci uniscono. Gli avvocati dicono che è una ottima base di riforma. Faremo audizioni, ascolteremo le opposizioni. Vorremmo riprendere il tema che un relatore dei due da nominare sia della minoranza. Se invece si vuole usare la prescrizione come totem da agitare, non si rende un gran servizio. Divisione delle carriere: la sua posizione, che è anche quella del Pd, è contraria. Non mi convince. Vedo dei rischi: siamo molto più d’accordo nella previsione di rafforzare nel rito accusatorio le funzioni della difesa rispetto a quelle dell’accusa, che possono oggettivamente avere uno sbilanciamento. Va riequilibrato il peso dell’accusa e dunque quello delle Procure. Penso anche a un rafforzamento della distinzione delle funzioni tra magistratura giudicante e magistratura requirente. Nella riforma del Csm si prevede anche di dimezzare la possibilità di passare tra una carriera all’altra. Ma la separazione delle carriere contiene due rischi. Quali? Vedo la tentazione in qualcuno di dare un colpo all’indipendenza della magistratura. La politica non deve cogliere l’occasione per dare un colpo all’autorevolezza e alla credibilità della magistratura, con provvedimenti che rischiano di rallentare la possibilità di arrivare a conclusione delle riforme che dicevo: il penale, il civile, il Csm e l’ordinamento penitenziario. Quella che noi non riuscimmo, malgrado l’impegno di Orlando, a portare a termine. Poteri in conflitto. I magistrati hanno provato a sostituirsi al decisore politico? Non c’è dubbio che nel momento in cui la politica si è indebolita, e le forze politiche hanno perso peso presso l’opinione pubblica, la magistratura ha occupato uno spazio. E non è solo per una loro iniziativa. È che per il gioco delle parti, da un certo punto in poi, l’avviso di garanzia è diventato lo strumento di lotta politica contro gli avversari, come dicevamo. Lo dice a noi? Va detto a Bonafede. A Bonafede dico: sei il ministro della Giustizia, non sei il ministro dei Cinque Stelle. Proviamo a vedere se insieme riusciamo a fare una riforma seria che aiuti l’Italia a crescere. Come si cambia il Csm? Iniettando nella magistratura gli anticorpi per reagire. Rivediamo i collegi. Più avvocati nei consigli giudiziari, più donne, con una parità di genere obbligatoria. E la proposta di avocare all’ufficio del Csm la nomina di un posto vacante, se non si fornisce entro un mese il nominativo giusto. Tutta una serie di strumenti per cui la riforma del Csm darà alla magistratura la forza per sviluppare le sue difese immunitarie. Riforme ordinarie, senza toccare la Costituzione? L’unica cosa su cui vogliamo invece toccarla, come Pd, è un percorso parallelo per istituire un’Alta Corte, nominata dal Presidente della Repubblica, che tolga dal Csm il giudizio sui magistrati, sollevando la disciplinare come già Violante aveva ipotizzato. Pisapia: “Dopo il Covid diritti più deboli: destra e sinistra, salvateli con una svolta garantista” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 25 giugno 2020 “La pandemia acuirà povertà e diseguaglianze: per contrastare lo scivolamento delle garanzie serve una riforma bipartisan che renda la giustizia più celere e più efficiente. E tuteli i diritti. Cancelliamo lo stop alla prescrizione grillina: non ha capo né coda”. Avvocato e giurista, sindaco di Milano dal 2011 al 2016, già deputato di Rifondazione Comunista, Giuliano Pisapia siede oggi in Commissione Giustizia nel Parlamento Europeo, eletto con Campo Progressista nelle liste del Pd. Come ci cambierà il virus? Siamo tutti travolti. Ci sta cambiando tanto nella vita quotidiana quanto nelle prospettive per il futuro. Cambieranno modalità e tipologie di lavoro e anche i rapporti interpersonali. Per questo dobbiamo essere capaci di guardare al futuro. Come? Dobbiamo saper intercettare i cambiamenti necessari. Fare modifiche culturali, sociali, legislative che sono indispensabili. E di cui oggi sentiamo ancor più il bisogno. Quella della crisi che attraversiamo oggi è una occasione triste ma determinante per rimettere a punto il sistema-Paese. Anche per la giustizia, che deve essere più celere, efficace e garantista. Che posto hanno gli ultimi in una società spaventata e impoverita? Il rischio è quello che gli ultimi e i penultimi, categoria questa che si va estendendo di giorno in giorno, diventino sempre più maggioranza. E dobbiamo oggi sapere contrastare questo scivolamento con un sistema di regole e di tutele dei diritti anche per i soggetti più deboli. Nella terza fase vedo il rischio di una società con aumento di ingiustizie e povertà e diminuzione dell’uguaglianza e dei diritti individuali e collettivi. La giustizia subisce un altro virus, quello del potere, delle correnti… Gli anticorpi su quello non si formano facilmente. Ci vuole uno slancio e una prospettiva per mettere mano a una riforma complessiva della giustizia. Un tema che non riguarda i singoli ma tutta la collettività e il Paese. Servirebbe una coesione nazionale forte, una spinta alta… È indispensabile, perché se non capiamo il momento della storia in cui siamo, non saremo capaci di dare quelle risposte che sono oggi indispensabili. Il nostro Paese spesso non è credibile all’estero proprio perché la giustizia funziona male. E la giustizia è una cartina di tornasole che fa capire tanto a livello culturale, parla dell’idea di società, della qualità democratica, dello stato di diritto. Una radiografia profonda del sistema-Paese, perché il funzionamento della macchina giudiziaria incide sul lavoro, sull’economia, su tutto. Con il paradosso che l’urgenza di porre mano a una riforma radicale della giustizia deve fare i conti con le maggioranze che abbiamo oggi in Parlamento… Sulle maggioranze meglio non commentare. Credo però che in un momento delicato come questo si possa essere positivi. Guardi, al Ministero della giustizia devono esserci, depositati, tanti progetti e tante ipotesi di riforma di livello alto, da parte di commissioni, di giuristi di fama… perché non mettono insieme queste riforme e arrivano a un risultato condiviso, efficace, bipartisan? Si faccia leva su quel che c’è di pronto, e si vada in Parlamento per trovare un accordo rifondativo del sistema-giustizia. Con il Parlamento che c’è adesso? Guardi, alle volte le forze politiche, quando smettono di recitare la parte, di fronte all’emergenza, se capiscono bene di dover produrre una riforma indispensabile, la sanno fare. La si può portare a casa con le maggioranze che abbiamo oggi. I documenti di cui parlo sono stati messi insieme, negli anni, da governi di centrosinistra e governi di centrodestra. Ora è venuto il momento di fare la sintesi, che è il compito più alto della politica. Anche l’Europa raccomanda l’adozione di misure urgenti per la giustizia… Questo è un punto centrale e forse non sempre ben conosciuto. Il gruppo socialista e democratico di cui faccio parte ha lavorato per l’assegnazione di questi ingenti fondi europei. Sia chiaro che l’Europa non ci regala niente, ci seguirà con verifiche puntuali su giustizia e altri temi, con tempi precisi di approvazione. La mancata risposta alle esigenze di fare chiarezza sula giustizia può determinare anche il blocco dei fondi. Bisogna lavorare alla credibilità del nostro Paese su questo punto. Non tutti ricordano che il codice di Procedura penale porta proprio la firma di Pisapia Sr… Sì, e con tutte quelle modifiche risale al 1930. E il codice civile è del 1942. Il mondo è cambiato. Ed è vero che sono state fatte modifiche su molte tipologie di norme, ma manca una riforma complessiva. Il tema giustizia riguarda la credibilità dell’Italia, un passo essenziale per andare verso il futuro. Su questo mi sembra di poter raccogliere un suo appello… È venuta l’occasione: si trovi una strada comune, senza fare nuove commissioni. Si trovino le posizioni più avanzate e si uniscano le energie migliori, cercando di mettere insieme chi ha la fiducia di maggioranza e opposizione per rinnovare il processo civile e il processo penale, il Csm e il sistema carcerario. Una priorità? Va intanto messo mano alla riforma della prescrizione, che così com’è è sbagliata e controproducente, per il semplice fatto che contrasta con la Costituzione e con il principio di ragionevole durata del processo. Una riforma senza né capo né coda. Aumenterà il numero di processi aperti e allungherà la durata all’infinito. Speriamo almeno nel correttivo del tetto per la durata massima dei processi… Ma con questa maggioranza la vedo dura, bisogna convincere i Cinque Stelle, non sarà facile. E poi bisogna valutare secondo le diverse tipologie dei processi. Certamente vanno dati dei segnali concreti. Il tema delle carceri, esploso già prima e oggi ancor di più, con la crisi-Covid… Oggi scontiamo il fatto di vivere con questa visione imperante della giustizia panpenalistica, per cui tutto va riportato a condanna penale e ad esecuzione massima della pena. Basterebbe guardare a quel che si fa in Europa per capire che non c’è solo questo. Per i fatti meno gravi ci vogliono sanzioni immediate, ma non di carattere penale. Il timore di avere sequestrata l’auto è molto più efficace di molte fattispecie penali. Amnistia e indulto sarebbero utili… È inutile prenderci in giro, non c’è nessuna possibilità. Sarei molto più propenso a credere a un impegno per altre riforme complessive piuttosto che far sperare in un provvedimento che in questa fase storica non ha alcuna possibilità di successo e rischia di creare aspettative senza risultato concreto. Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà… Ma sono ottimista su altre cose, infatti. Le somme ingenti che ci sono a disposizione devono avere un progetto e una possibilità di raggiungere gli obiettivi. Dobbiamo dare ai cittadini un segnale forte e immediato, lo Stato c’è e sa che senza una giustizia efficiente non esiste ripresa economica, non esiste mercato del lavoro equo, non esistono diritti per nessuno. Il momento per una riforma complessiva della giustizia è arrivato. Non ci sarà un’altra fase così favorevole per il raggiungimento di obiettivi alti. Gli italiani hanno sempre dimostrato, in questi momenti, di saper tirare fuori il meglio. Franco Roberti sulle intercettazioni: “I magistrati siano responsabili” di Viviana Lanza Il Riformista, 25 giugno 2020 “C’era una prassi sbagliata a cui le Sezioni Unite hanno posto rimedio”. Così l’ex procuratore Franco Roberti, oggi europarlamentare ed ex assessore alla sicurezza della Regione Campania, commenta la sentenza della Corte di Cassazione che a gennaio ha posto un argine al dilagare delle cosiddette intercettazioni a strascico, ritenendole non valide quando riguardano reati diversi e senza alcuna connessione forte con quelli per i quali quella stessa attività investigativa è stata autorizzata. La Cassazione ha messo fine a un orientamento molto diffuso in questi anni. Lo condivide? “La Cassazione ha ristabilito quello che la legge già prevedeva. L’orientamento delle Sezioni Unite mi sembra corretto e sarà quello a cui dovranno attenersi i magistrati”. Ritiene che negli anni ci sia stato, da parte dei pubblici ministeri, un uso eccessivo delle intercettazioni come strumento investigativo? “La valutazione va fatta processo per processo perché ogni processo ha una storia a sé. Ma certo, l’uso corretto delle intercettazioni è prescritto dalla legge e le intercettazioni devono essere un mezzo di ricerca della prova. Quindi, una cosa è fare le indagini soltanto ed esclusivamente con le intercettazioni e un’altra è utilizzarle come uno dei più importanti strumenti di indagine. Perché le intercettazioni sono fondamentali ma non possono essere l’unico strumento di indagine. Non sono una prova, sono un mezzo per ricercare la prova di reati per i quali ci sono già indizi”. Il tema relativo alle intercettazioni conduce a un altro tema molto sentito: la ragionevole durata delle indagini preliminari. Secondo i dati del più recente report sulla giustizia, il 53% delle prescrizioni matura in fase di indagini preliminari e il 24% nel giudizio di primo grado. Come commenta questi dati? Si perde troppo tempo? “La prescrizione dipende dall’inefficienza del processo penale italiano, è il segnale della incapacità del sistema giudiziario di concludere indagini e processi entro un tempo ragionevole”. Cosa dobbiamo intendere per “ragionevole”? “Definisco ragionevole la durata di un processo che non ha tempi morti. È vero che ogni processo ha la sua storia e i suoi tempi, ma è importante che non si verifichino perdite di tempo inutili e questo deve ricadere nella responsabilità dei magistrati”. Significa sanzioni per i magistrati che si perdono in lungaggini? “Sì. Mi faccia dire questo: se la velocità con cui si concludono i processi penali e civili non è considerata parametro rilevante in sede di valutazione della professionalità di un magistrato, la tempestività di definizione non sarà mai percepita da ogni singolo magistrato come un valore e se non è percepita come un valore non avremo mai una giustizia efficiente e tempestiva. Responsabilizzare su questo i magistrati è tra le mie proposte di riforma, assieme a una grossa depenalizzazione e una diversa organizzazione del sistema giudiziario sia sul piano telematico sia per consentire lo snellimento dei processi”. Perché, secondo lei, una vera riforma della giustizia non è stata ancora attuata? “Perché manca la volontà politica, perché la giustizia no è considerata una priorità e quindi non si investe nella giustizia che continua ad essere la Cenerentola della spesa pubblica. Eppure ce lo chiede adesso anche l’Europa come condizione per il Recovery Fund. La pandemia ha svelato tutte le fragilità della giustizia che ora è letteralmente in ginocchio: è il momento di intervenire con riforme e risorse finanziarie, perché una giustizia civile e penale che funziona è condizione inderogabile per accedere a fondi dell’Unione europea e perché una giustizia efficace ed efficiente è la precondizione necessaria per lo sviluppo economico del Paese. Solo dove c’è una giustizia tempestiva ed efficiente si possono attirare investimenti”. La strega Palamara, capro espiatorio di un sistema conosciuto da tutti di Pietro di Muccio De Quattro Il Dubbio, 25 giugno 2020 Il nostro Maestro, dico Indro Montanelli, soleva dire che in tempo di caccia alle streghe il galantuomo sta con la strega. Non poteva immaginare che strega sarebbe diventato pure lui. A vent’anni dalla morte, maliarde e bruttone lo hanno riesumato. Sui giornali ne impiccano il fantoccio per crimini di guerra contro l’umanità, confessati però da lui stesso come “colpa” giovanile: un matrimonio coloniale. Il bello di questi emetici censori è che gli hanno giovato ricordandolo anziché nuocergli screditandolo. Negli anni finali, come suole chi ha combinato qualcosa nella vita, confidava ai lettori che sarebbe stato dimenticato. Invece, guarda un po’, ne hanno rinverdito la memoria le Erinni dalle chiome di serpi ravvivate dai parrucchieri alla moda e qualche posseduto dal “mostro con gli occhi verdi”. Montanelli, dunque, è il miglior viatico per la nostra dichiarazione solenne, un formale affidavit, in favore del magistrato Luca Palamara, inseguito dallo “strepitus fori” come la più pericolosa strega d’Italia. Inquisito dalla procura di Perugia con l’accusa di corruzione, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio ad opera del Consiglio superiore della magistratura, espulso dall’Associazione nazionale magistrati. Alla pubblicazione delle sue confidenze telefoniche, confermate e circostanziate sui media, noi lo giudicammo male, alla stregua del puparo della magistratura, che, dovendo essere indipendente, non poteva appunto dipendere da uno che ne muovesse di nascosto i fili dall’alto. Ed in verità nessuno vuol negare che il tapino esagerasse con le pubbliche relazioni. Quindi, a ragion veduta, fummo severi nel biasimarlo, ma senza acrimonia. La reazione del presidente della Repubblica, dei partiti, dell’opinione pubblica ci appare giusta e doverosa, se non sempre proprio virtuosa. I baci alla francese tra magistrati e con politici sono comuni e discreti, ma non un segreto di famiglia. Il “sistema”, così l’ha chiamato, essendo tale non poteva essere costituito da Palamara stesso e pochi suoi intimi adepti. Se era un sistema doveva per forza essere sistematico. Tutti sapevano, quelli che ne profittavano e quelli che lo tolleravano. Dopo, ignoranti ed indignati hanno individuato in Palamara l’uomo espiatorio sul quale trasferire i mali e le colpe del sistema, liberandosene. Sia come strega, sia come capro espiatorio Palamara, essendo uno, non può accollarsi tutto né può esserglielo accollato. Egli è vittima dell’estemporaneo antisistema che gli si rivolta contro. È un perseguitato dalla “giustizia”. È la strega che gl’inquisitori stanno processando essendone correi. Il “processo” a Palamara potrà servire al sistema per liberarsi di Palamara, ma non a purgarsi del suo metodo. Palamara non è un reprobo. Palamara non è un fungo velenoso spuntato tra meravigliosi porcini. Palamara “fa sistema” da vent’anni. L’esistenza di Palamara dimostra che i suoi “giudici”, togati e no, erano o indolenti o indulgenti o conniventi oppure tanto ingenui da dover essere preoccupati noi cittadini a ritrovarci con magistrati simili. Insomma noi adesso siamo con Palamara, non solo perché siamo vecchi garantisti veri oltre che veri garantisti vecchi, ma anche perché da galantuomini sappiamo riconoscere una strega. E Palamara lo è, perbacco, non solo perché le assomiglia. Mura nuovo procuratore generale di Roma. Ma al Csm è giallo sull’ex capo del Dap Basentini di Liana Milella La Repubblica, 25 giugno 2020 Il vecchio direttore del dipartimento penitenziario vuole tornare a fare il magistrato, ma l’ex M5S Giarrusso si oppone. In pensione il presidente della Cassazione Giovanni Mammone. Entro il 15 luglio la nomina del suo successore. Ecco chi è in corsa. La grande attesa è per le azioni disciplinari che partiranno dalla Cassazione (che per domani ha annunciato una conferenza stampa) e per gli eventuali trasferimenti per incompatibilità ambientale che proporrà il Csm per le toghe coinvolte nelle chat di Palamara. Le vecchie nomine sono tutte sulla graticola del correntismo e di eventuali anomalie e contestazioni. Come non bastasse, sempre al Csm, si affaccia il caso di Francesco Basentini, l’ex capo del Dap che si è dimesso il 30 aprile e ha chiesto di tornare a fare il pm. Ma poiché a Potenza, dove lavorava prima, non c’è posto, l’alternativa è Roma. Ma ecco che a sbarragli la strada arriva un esposto dell’ex M5S e senatore Mario Michele Giarrusso. Dovranno esaminarlo la prima e la terza commissione. Antonio Mura nuovo Pg di Roma - Ma lo stesso Csm deve comunque andare avanti con le nuove nomine. La macchina cammina e non può fermarsi. Ed ecco allora, dopo la scelta a maggioranza del procuratore di Perugia Raffaele Cantone la scorsa settimana, quella all’unanimità votata oggi per il procuratore generale di Roma, una carica vacante addirittura da novembre dell’anno scorso, quando Giovanni Salvi fu nominato Pg della Cassazione. Per Roma invece - e questa volta all’unanimità - il Csm ha scelto Antonio Mura, toga di Magistratura indipendente, con una brillante carriera alle spalle. Come ricorda l’Ansa ecco il suo curriculum: “In magistratura dal 1981, Mura è stato consigliere del Csm e dal 2014 al 2017 capo del Dipartimento per gli Affari di Giustizia in via Arenula. Nel dicembre 2017 è stato nominato Pg di Venezia, dove si è occupato dei ricorsi contro le dichiarazioni di insolvenza delle banche venete. Arrivava dal ruolo di sostituto procuratore generale in Cassazione e sul suo tavolo sono finiti tanti importanti processi. Tra i tanti quelli sugli omicidi di Maurizio Gucci, della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, dei giudici Ciaccio Montalto e Rosario Livatino. Un lungo elenco che vede anche i giudizi sulla morte del piccolo Samuele Lorenzi a Cogne e sul crack Parmalat e il processo all’ex capo del Sisde Bruno Contrada”. Cassazione, in pensione il primo presidente Mammone - Per una nomina all’unanimità, ce n’è un’altra nell’immediato futuro su cui non mancherà battaglia. È quella per il primo presidente della Cassazione, poiché sempre oggi ha annunciato il suo prossimo saluto l’attuale presidente Giovanni Mammone, un magistrato da sempre di Magistratura indipendente. “Ho cercato di fare il mio lavoro con serietà - ha detto Mammone davanti al plenum. Ho sempre lavorato con serietà e impegno, ho cercato di essere autonomo e indipendente, di fare la vita del buon magistrato senza alti e senza bassi: penso che debba essere questa la misura su cui ogni magistrato si deve modulare”. Lo hanno salutato il vicepresidente del Csm David Ermini e il Pg della Cassazione Giovanni Salvi. Il primo dicendogli grazie “per le cose che mi ha insegnato, per il lavoro fatto insieme anche in momenti non facili: i suoi consigli non mi sono mai mancati e sono sempre stati consigli molto saggi e molto utili”. Mentre Salvi ha ricordato come Mammone “abbia saputo fronteggiare l’emergenza Covid in Cassazione con grande fermezza e prontezza, con provvedimenti non facili adottati all’esito del dialogo e del confronto”. La lotta per la successione alla Suprema Corte - Ma è proprio sulla Cassazione che si giocherà la grande partita dell’estate a palazzo dei Marescialli. Ma ecco a seguire la corsa per chi prenderà il posto di Mammone che va definitivamente in pensione il 17 luglio. Per quella data il Csm dovrà aver votato il nuovo presidente perché la Suprema corte non può mai restare acefala. E qui la battaglia è tutta ancora da giocare, tra molti candidati, tra cui ci sono anche tre donne, Roberta Vivaldi e Camilla Di Iasi, già oggi presidenti di sezione della Suprema corte, e poi Margherita Cassano, presidente della Corte di appello di Firenze, ex del Csm per Magistratura indipendente. Ma le tre giudici dovranno vedersela con un agguerrito pool di colleghi, tutti già presidenti di sezione a piazza Cavour. La “bella” potrebbe essere giocata tra Pietro Curzio e Guido Raimondi che dalla sua vanta la presidenza delle Corte dei diritti umani di Strasburgo. Ma daranno filo da torcere Giovanni Diotallevi, Angelo Spirito, Francesco Tirelli, Bruno Paolo Antoni, Francesco Antonio Genovese. Gli stessi candidati sonno già stati ascoltati come candidati al posto di presidente aggiunto lasciato da Domenico Carcano. All’elenco di toghe che corrono anche per il vertice (tranne Roberta Vivaldi) va aggiunto il nome di Giacomo Fumu, che però potrebbe garantire solo un anno di copertura prima della pensione. Napoli. “Detenuti e agenti? Sono vittime. È il carcere a essere in crisi” di Antonio Averaimo Avvenire, 25 giugno 2020 Quando un detenuto evase dal carcere di Poggioreale, don Franco Esposito, cappellano del penitenziario più sovraffollato d’Italia divenuto simbolo di tutti i mali del sistema carcerario nazionale, usò parole provocatorie, che tornano in mente oggi rispetto ai fatti che nei giorni scorsi hanno scosso il carcere di Santa Maria Capua Vetere, in Campania. Prima c’è stata la clamorosa protesta degli agenti della Polizia penitenziaria, poi la rivolta dei detenuti di un padiglione. Disordini che sono seguiti a quelli che hanno coinvolto il penitenziario casertano a marzo, agli esordi dell’emergenza Covid-19, e la relativa inchiesta della Procura su presunti maltrattamenti sui carcerati ad opera delle guardie. “Non c’è da stupirsi delle rivolte dei mesi scorsi e di quella avvenuta recentemente nel carcere di Santa Maria - afferma il sacerdote, che è anche direttore del Centro di pastorale carceraria dell’arcidiocesi di Napoli. Nelle condizioni in cui versano, non si può immaginare che le carceri italiane abbiano un percorso sereno. A pagarne le conseguenze sono sia gli agenti di Polizia penitenziaria che i detenuti. Entrambe le categorie sono infatti vittime di un sistema che è in profonda crisi. Si pensi che, oltre ai tradizionali problemi del sovraffollamento e delle condizioni igieniche, da anni a Santa Maria vi è periodicamente quello della mancanza di acqua, tanto per rendere l’idea di quale sia la situazione...”. Secondo il cappellano, la scelta di sospendere le attività e i colloqui durante l’emergenza sanitaria ha fatto sì che gli eventi precipitassero, dando luogo alle tensioni che hanno attraversato negli ultimi mesi gli istituti di pena italiani. “Nei mesi della pandemia i detenuti sono stati chiusi in cella, e sono venute a mancare anche le normali libertà loro concesse. Questo ha esacerbato gli animi, in un ambiente già normalmente teso come è quello dei penitenziari italiani. Gli atti di violenza non possono trovare alcuna giustificazione, ma deve essere chiaro che sono il frutto di un sistema che non funziona. Non sono sereni gli stessi agenti della polizia penitenziaria, che già svolgono un lavoro “disumano”, come è quello di tenere carcerate le persone”. La soluzione andava cercata altrove, secondo don Franco. “Bisogna uscire dall’idea che il carcere sia la soluzione a tutto. Per esempio, avremmo potuto mandare a casa i detenuti che devono scontare ancora pochi anni, esclusi i boss mafiosi, alleggerendo la situazione. Sia chiaro che queste persone non sarebbero tornate libere, ma avrebbero scontato la pena diversamente”. Nel ragionamento del cappellano, il ricorso ai domiciliari e alle misure alternative al carcere non è solo una misura temporanea anti-Covid-19, ma la soluzione ai problemi strutturali del sistema carcerario italiano. “La nostra Costituzione non parla di carcere, bensì di pena. Il carcere non è la soluzione, è il problema. Se 1’80 per cento dei detenuti torna a delinquere, vuol dire che il carcere ha fallito. Bisogna invece puntare sulle pene alternative, al termine delle quali la recidiva scende in maniera vertiginosa (intorno al 10 per cento), lasciando la detenzione solo per i boss mafiosi più pericolosi e altri criminali”. Ma, per fare ciò, “bisogna uscire da un equivoco che dura da decenni, a cui l’opinione pubblica è stata abituata dai politici: la carcerazione come garanzia di ordine pubblico”. Venezia. “Udienze rinviate, gli avvocati non hanno colpe” Il Gazzettino, 25 giugno 2020 I penalisti replicano all’Anm: “Il processo da remoto viola tutti i diritti”. Si fa sempre più aspro lo scontro tra avvocatura e magistratura sulla situazione di crisi degli uffici giudiziari, aggravata dall’emergenza coronavirus e dalla forte riduzione dell’attività per le misure anti-contagio. Ad aprire la polemica sono stati i penalisti padovani, lamentando che la paralisi prosegue, anche ora che i processi dovrebbero riprendere, per colpa di continui rinvii delle udienze. La sezione veneta dell’Associazione nazionale magistrati ha replicato fornendo i dati delle molte sentenze emesse nei mesi scorsi (prova che l’attività non si è mai fermata) e lamentando che gran parte dei rinvii è chiesta dagli avvocati che non prestano il consenso “alla celebrazione dei processi in presenza e anche in modalità da remoto”, nonostante i protocolli siglati. “Nessun processo è stato rinviato per colpa degli avvocati”, sbotta Simone Zancani, vicepresidente della Camera penale veneziana, che ieri diramato una nota molto dura, nella quale si ricorda come le indagini di Perugia abbiano svelato il modo in cui l’Anm gestisce il sistema giudiziario “in modo autoreferenziale e pervasivo, per poi “attribuire ad altri le responsabilità” delle disfunzioni. Quanto al rifiuto degli avvocati di aderire alla proposta di celebrare da remoto tutti i processi, i penalisti rivendicano di aver difeso il processo penale “da una deriva pericolosissima”, impedendo che il giudizio penale “si tramutasse in un videogame” e difendendo “un diritto fondamentale (...) ci saremmo aspettati che la magistratura fosse al nostro fianco”. Il presidente di Anm Veneto, Vincenzo Sgubbi è sorpreso per l’attacco: “Ci eravamo limitati ad osservare che parte dei rinvii sarebbero stati evitabili se, nelle udienze che lo consentivano senza sacrificare diritti fondamentali, vi fosse stato il consenso alla celebrazione da remoto. Per esempio nei casi in cui i difensori nemmeno compaiono, lasciandosi sostituire da un collega di passaggio. La risposta della Camera penale conferma il dato e difende quella (rispettabilissima) opzione di netta chiusura”. A Venezia il protocollo abbozzato per cercare di definire le regole del processo da remoto durante il lockdown si limitava alle convalide di arresto e alle direttissime con detenuti: aveva l’adesione di avvocati e magistrati ma fu la Procura ad opporsi all’ipotesi che oltre al detenuto (che per decreto governativo deve comparire in videoconferenza dal carcere) anche avvocati e magistrati potessero non presentarsi fisicamente in udienza. Vasto (Ch). Detenuti in quarantena Covid, la Polizia penitenziaria fa sciopero della mensa Il Centro, 25 giugno 2020 Detenuti in quarantena Covid a Vasto: monta la protesta degli agenti della Polizia penitenziaria della Casa lavoro di Torre Sinello. I sindacati Sappe, Uil, Cnpp, Osapp e Cgil tornano a chiedere al provveditore regionale, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alle segreterie sindacali, la convocazione urgente di un summit. In caso contrario dallo stato di agitazione passeranno a proteste più clamorose. “Alcune informazioni”, spiegano in una nota i sindacati, “parlano dell’assegnazione a Vasto di una cinquantina di detenuti. Si tratta di persone arrestate in tutto l’Abruzzo che devono osservare un periodo di quarantena per il contenimento del Covid-19. La decisione trova tutte le organizzazioni sindacali contrarie. Il personale è in stato di agitazione. La protesta si traduce nell’astensione della fruizione della mensa di servizio, fino a quando non verranno adottati provvedimenti per tutelare gli operatori che già soffrono per la cronica carenza di personale”. Di recente si sono stati anche trasferimenti e chi è andato via non è stato sostituito. Un altro problema è l’accompagnamento dei detenuti in tribunale. L’organico del nucleo traduzioni è composto da 6 unità, un numero assolutamente esiguo. “La Casa lavoro”, ricordano i sindacati, “è deputata ad ospitare internati e non detenuti. Le ultime decisioni prese sono incompatibili con il decreto del capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria che sconsiglia la promiscuità fra i due tipi di ospiti dell’istituto. L’arrivo a Vasto di altri 50 detenuti modifica l’organizzazione del lavoro. È assolutamente necessario un confronto”. Le sigle sindacali della polizia penitenziaria non escludono iniziative più eclatanti qualora le loro richieste venissero ignorate. Monza. Carcere di via Sanquirico, di agenti “prigionieri” nella guardiola infernale di Marco Galvani Il Giorno, 25 giugno 2020 Niente aria condizionata, il sistema a riciclo è vietato dalle norme anti Covid. Nemmeno un lavandino e nel blocco carraio si toccano punte di 50 gradi. Chiusi in una guardiola blindata per sei ore di fila. Senza aria condizionata, senza ventilatore, senza neanche un lavandino dove potersi almeno rinfrescare la faccia. E senza nemmeno poter tenere aperta la porta per far correre l’aria. Perché quella guardiola è il varco di accesso al carcere di Monza. Quello che tecnicamente viene chiamato blocco carraio. È da lì che si deve passare prima di poter oltrepassare il cancello, a piedi o in auto. Il “filtro” che controlla chiunque ha necessità di accedere all’istituto di via Sanquirico. Agenti, avvocati, magistrati, educatori, volontari, fornitori, ma anche i parenti dei detenuti in occasione dei colloqui. In quella scatola di cemento armato, spessi vetri antiproiettile e porte blindate, lavorano gli agenti di guardia all’ingresso. Turni che vanno dalle 6 alle 8 ore. Ma se fino all’estate scorsa di problemi non ce ne sono stati, adesso con le disposizioni introdotte dall’emergenza coronavirus, “lì dentro è diventato un inferno”, denuncia Domenico Benemia della Uil penitenziari. “In base a quanto previsto, l’aria condizionata è possibile utilizzarla solo se non utilizza un sistema a ricircolo - spiega il sindacalista -. L’impianto dell’istituto, invece, ha proprio quel tipo di funzionamento e quindi non è possibile accenderlo. E per lo stesso motivo, il contenimento del virus, in quella stanza non è possibile accendere un ventilatore perché potrebbe spargere nell’aria il Covid”. Una situazione che ormai sta diventando “insostenibile”. Le temperature che si raggiungono dentro al blocco carraio in questi ultimi giorni sono “insopportabili”. “Il sole è a picco e i raggi che passano attraverso i vetri blindati sembra che creino ancora più caldo - lamenta Benemia. Lì dentro tocchi anche i 50 gradi quando fuori il termometro oscilla tra i 35 e i 40 gradi. È diventato un forno e non essendoci il bagno, i colleghi non hanno nemmeno la possibilità di rinfrescarsi al lavandino”. Condizione simile nella zona dei colloqui, dove i detenuti incontrano avvocati, magistrati e familiari: “Anche qui il sistema di condizionamento è a ricircolo e quindi non si può usare”. Certo, “la direzione si è attivata per cercare di risolvere il problema - riconosce il sindacalista - si stanno facendo dei preventivi per adeguare l’impianto di raffrescamento, tuttavia non possiamo nascondere che siamo in pesante ritardo. I tempi per scegliere il preventivo più conveniente, avviare e completare i lavori non saranno brevi. Eppure quando si è trattato di intervenire per andare incontro alle necessità dei detenuti è stato tutto semplice e veloce, i servizi per garantire (e potenziare) i colloqui con i familiari attraverso tablet e telefonini sono stati attivati immediatamente. Ora che abbiamo bisogno noi agenti è tutto più complicato”. Roma. All’Isola Solidale avvocati e magistrati si sfidano ai fornelli romasette.it, 25 giugno 2020 Al via gli eventi “Tutto fumo e niente arresto”, il 3 e 17 luglio, per riprendere a settembre. Tra enogastronomia, solidarietà e buone pratiche. Enogastronomia, solidarietà e buone pratiche: sono gli ingredienti di “Tutto fumo e niente arresto”, l’iniziativa organizzata da Isola Solidale e Semi di libertà, che prende il via il 3 luglio alle 18 nella sede dell’Isola Solidale, in via Ardeatina 930. L’obiettivo della prima serata: raccogliere fondi a favore del progetto “Uniti per l’Amazzonia” e delle altre iniziative delle due associazioni che organizzano il progetto, sostenuto anche da Centro agroalimentare di Roma (Car), dall’associazione Toghe e Teglie, da Economia Carceraria e dall’associazione O.R.T.O del Carcere di Viterbo. La serata prenderà il via con una sfida in cucina tra magistrati e avvocati, sotto la supervisione dello chef stellato Gaetano Costa. Due le squadre in gioco: la prima, “Toghe&Teglie”, è formata da un gruppo di avvocati amanti della buona cucina e della solidarietà o, come amano definirsi, “chef prestati all’avvocatura: la seconda è composta invece da una selezione di magistrati altrettanto appassionati. Il tutto “condito” dalla musica dal vivo del gruppo Jazz BenAres Trio. A condurre la serata sarà Marco Di Buono. A giudicare i piatti preparati dalle due squadre in gara invece sarà “in primo grado” il pubblico ed “in appello” i detenuti ospiti dell’Isola Solidale, una struttura che ospita e offre un domicilio a persone in esecuzione penale esterna o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari ed in stato di difficoltà economica. A “presiedere” la giuria dei detenuti, lo storico della cucina e giudice della trasmissione Rai “La prova del cuoco” Carlo Spallino Centoze. Il secondo appuntamento, il 17 luglio, vedrà invece la brigata dell’Isola Solidale sfidare quella della Casa di Leda. La squadra “residente” dell’Isola affronterà quindi quella composta dalle ospiti della Casa di Leda, una struttura protetta che accoglie donne detenute con i propri figli piccoli. Anche qui il giudizio “di primo grado” sarà affidato al pubblico ma “l’appello” spetterà a una giuria di chef e personaggi famosi. I vincitori della serata del 3 luglio e quelli del 17 luglio si sfideranno in finale il prossimo 18 settembre 2020. “Sarà un venerdì al “fresco” - assicura il presidente dell’Isola Solidale Alessandro Pinna -, negli splendidi giardini dell’Isola Solidale con aperitivo dalle 18.30, l’esposizione e vendita di prodotti dell’economia carceraria e la possibilità di visitare il nuovo laboratorio “A Piede Libero”. Il culmine della serata - prosegue - sarà alle 20.30, con la cena / contest culinario, una sfida epocale tra avvocati e magistrati davanti ai fornelli che vedrà come giudici gli stessi detenuti, con il cibo ad invertire i ruoli”. Per partecipare è necessario prenotarsi - “i posti sono limitati”, riferisce Pinna -, usando WhatsApp, al numero 320.3340039, oppure via mail a unitixamazzonia@gmail.com. Velletri (Rm). I detenuti diventano vignaioli, prodotto un buon vino rosso Il Messaggero, 25 giugno 2020 A Velletri i detenuti diventano vignaioli. Il “Rosso di Lazzaria”, è un vino rosso prodotto con le uve della grande tenuta agricola con vigna che si trova all’interno della struttura penitenziaria e infatti prende il nome dalla zona dove si trova la Casa Circondariale. Il vino è stato presentato nella cantina interna al carcere alla presenza del vescovo di Velletri, monsignor Vincenzo Apicella, del vice garante dei detenuti Sandro Compagnoni, dell’enologo che ha curato la produzione Sergio De Angelis e di numerosi altri ospiti ed esperti del settore. “È stata una battaglia vinta, ha detto la direttrice del penitenziario Donata Iannantuono, abbiamo rimesso in piedi la cantina, impegnato l’agronomo della struttura Marco De Biase, alcuni agenti di polizia penitenziaria e diversi detenuti che si sono offerti volontari. Alla fine è venuto fuori un prodotto eccellente, che va ad aggiungersi al pane di Lariano, prodotto nella Casa Circondariale di Rebibbia, con cui abbiamo stretto un’ottima collaborazione nel produrre i prodotti tipici locali, come anche l’olio d’oliva, che viene sempre prodotto qui da noi grazie ai nostri uliveti e alla collaborazione dei detenuti”. Almarina: la storia di un amore che nasce all’interno di un carcere di Maria Cristina Frosali lapoliticadelpopolo.it, 25 giugno 2020 Giovedì 2 luglio scopriremo chi sarà il vincitore del premio letterario più prestigioso e ambito d’Italia: il Premio Strega. Nella sestina finalista, subito dopo “Colibrì” di Sandro Veronesi e a pari merito con “La misura del tempo” di Carofiglio, si trova il romanzo di Valeria Parrella: “Almarina”. “Almarina” è la storia di un amore che nasce libero in uno spazio ostile, quello del carcere minorile di Nisida. È qui, in questa isola dove il mare si vede solo attraverso le sbarre, che Elisabetta Maiorano insegna matematica ad un gruppo di detenuti; ed è qui che un legame profondo e delicato la lega ad una sua giovane studentessa: Almarina. Valeria Parrella racchiude in poco più di cento pagine la storia di un amore rivoluzionario che sprigiona dall’incontro di due sguardi, di due anime sole che, insieme, decidono di salvarsi. Pagina dopo pagina, prende vita una di quelle storie che si può sperare di vivere solo se - come fa Elisabetta - si trova il coraggio di uscire dal sentiero battuto della vita, dai rigidi schemi dell’esistenza che vogliono convincerci che esista realmente un confine tra il bene e il male, tra una vita giusta e una sbagliata. Quando invece è proprio nelle sfumature, negli angoli bui dell’esistenza che si nasconde l’occasione che ti salva la vita. Perché ciò che è giusto lo decidiamo noi e “tutto ciò che scegliamo si rivelerà sbagliato se saremo tristi, e giusto se saremo felici”. Almarina è la storia di un incontro che rende straordinaria un’esistenza ordinaria. È la storia di un ponte, di una mano tesa tra il dentro e il fuori, tra Nisida e il mare che la circonda. Che poi, il mare siamo noi, e il destino di quei ragazzi - ma anche di tutta l’umanità detenuta - dipende proprio dalla nostra volontà di tendere la mano. L’inferno giudiziario e i suoi danni collaterali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 giugno 2020 L’ultimo romanzo di Pier Bruno Cosso ispirato a una storia vera. Capita spesso che molte persone finiscono stritolate negli ingranaggi della malagiustizia. Si sbatte il mostro in prima pagina e i soldi, se mai li avranno come risarcimento, non potranno mai sanare le ferite. In questi giorni è uscito un romanzo ispirato a una storia vera dal titolo “Solo danni collaterali”, pubblicato dalla Marlin, la casa editrice di Tommaso e Sante Avagliano (collana Il Portico, € 14,90 con promo sconto del 20% # Estate-ConUnLibroMarlin fino al 5 luglio 2020 solo sul sito www.marlineditore.it), disponibile già on line. Il quarto libro dello scrittore sardo Pier Bruno Cosso racconta di un onesto medico di famiglia vittima del delirio d’onnipotenza di un magistrato che lo trascina in un inferno giudiziario. Il tema non ha mai smesso di interrogare le coscienze dato che, ad esempio 37 anni fa, il 17 giugno 1983, veniva arrestato ingiustamente Enzo Tortora e solo nel 1986, e definitivamente nel 1987, un anno prima di morire, gli sarebbe stato restituito l’onore perduto. Ma torniamo al romanzo “Solo danni collaterali”. Di fronte ci sono due mondi che si scontrano: un magistrato e la sua vittima occasionale. Ma il prezzo altissimo dell’ingiustizia lo paga solo il perseguitato incolpevole perché il giudice in Italia, e questo è un tema su cui si dibatte da tempo, non risulta perseguibile per il suo cattivo operato. La vicenda, ambientata in Sardegna nel periodo attuale, inizia col protagonista che viene buttato giù dal letto all’alba di un sabato mattina e subisce una lunga perquisizione, senza spiegazioni e senza rispetto. Privato della libertà, del lavoro, dello stipendio, e infine degli affetti familiari, il medico, aiutato da un’amica giornalista, si lancia in un’indagine serrata per comprendere l’origine delle accuse infondate che lo opprimono. In questo romanzo, se le vicende giudiziarie sono ispirate alla realtà, i risvolti umani, gli amori e le passioni sono di pura invenzione, così come i nomi e i luoghi, che sono di fantasia. Cosso ha saputo costruire con abilità una storia drammatica, scavando nel profondo dell’animo umano. Più che una critica serrata alle strutture giudiziarie, la vicenda narrata vuol lanciare un grido d’allarme verso un sistema senza contrappesi adeguati. Ma come nasce il libro lo spiega l’autore. “Il vero protagonista, che mi onora della sua amicizia - racconta Pier Bruno Cosso -, un giorno mi telefonò, dicendomi che come scrittore avrei dovuto raccontare la sua storia, incredibile e avventurosa come un romanzo. Mi ha sorpreso e preoccupato: ho percepito la sua necessità di parlare e quella sua profonda amarezza, anche se era già tutto risolto. La sua testimonianza mi ha trasmesso quella sensazione profonda che lascia un segno, che ti fa precipitare alla tastiera come un’urgenza, come se fosse una chiamata. Ovvio che poi, anche per non renderlo riconoscibile, ho attinto dalla fantasia per ingarbugliare vicende umane, le passioni e i tradimenti. Alla fine ne è scaturita una storia con una voce sola, dove neppure io riesco più a separare la fantasia dalla realtà. E forse non ha neppure senso distinguere”. Finire come Floyd, in Italia di Luigi Manconi La Repubblica, 25 giugno 2020 Domenica scorsa, a Fidenza, il 63enne Antonio Marotta è stato fermato da agenti della Polizia Stradale mentre guidava la propria auto senza la cintura di sicurezza. Nelle confuse fasi successive l’uomo, mentre veniva ammanettato, è stato colto da un malore che ne ha causato la morte. Di fronte alle parole di un familiare che accostava il decesso di Marotta a quello di Floyd, il procuratore della Repubblica di Parma ha dichiarato non esservi circostanze “da cui desumere la fondatezza di quanto aprioristicamente riferito ad alcuni organi di stampa”; e ha annunciato l’apertura di un fascicolo per “accertare l’esatta dinamica dell’accaduto”. C’è da augurarsi che, al più presto, si arrivi a una ricostruzione attendibile, che dissipi qualsiasi sospetto, dal momento che sembra ritornare, anche in questa vicenda, un elemento che non può non inquietare. Ovvero una certa tecnica di fermo in operazioni di strada: come nel caso di George Floyd, del francese Cédric Chouviat e di tanti altri ancora. Una tecnica che sembra perseguire la punizione del trasgressore attraverso un atto di sottomissione: il corpo del fermato sopraffatto dal corpo in divisa. La modalità è la seguente: il fermato viene spinto a terra, in posizione prona, il viso schiacciato sul terreno, le braccia piegate dietro la schiena, i polsi ammanettati. Per impedire qualsiasi residua resistenza, l’agente grava sul corpo del fermato, premendo sul collo, sulle scapole o sulla regione sacro lombare. Quella stessa modalità ha conosciuto, anche in Italia, più di una tragica applicazione. Nel 2006 Riccardo Rasman, affetto da disagio psichico, viene immobilizzato da tre agenti nella sua abitazione. Il processo confermerà che “sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia” era stata esercitata “un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie”. Nella sentenza per la morte di Federico Aldrovandi, ai quattro poliziotti condannati viene attribuita la responsabilità di “un trauma a torace chiuso provocato da manovre pressorie esercitate sul soggetto costretto a terra prono e ammanettato dietro la schiena”. Nel caso di Riccardo Magherini, morto nel 2014, la “compressione toracica” viene esclusa dalle sentenze di assoluzione dei carabinieri responsabili del suo fermo. Ma, secondo molte testimonianze, Magherini sarebbe rimasto prono a terra, con i polsi ammanettati dietro la schiena e tre carabinieri a gravare sul suo corpo impedendogli di muoversi. L’autopsia di Bohli Kaies, morto nel 2013, rivelò “stress cerebrale dovuto a una compressione violenta della cassa toracica” (gli autori del fermo sono stati assolti); mentre per Arafet Arfaoui, deceduto in circostanze simili nel febbraio scorso, è stata disposta la prosecuzione delle indagini. E la “compressione toracica” risulta dagli atti relativi alla morte nel 2014 di Vincenzo Sapia. Vicende molto diverse, con esiti processuali differenti, ma accomunate da quel soffocamento indotto dallo schiacciamento dell’apparato respiratorio. A tal punto questa tecnica risulta strutturalmente pericolosa che, nel 2014, una circolare del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, raccomandava: “L’immobilizzazione deve avvenire con modalità che scongiurino i rischi derivanti da prolungate colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona”. In una nota esplicativa, veniva chiarito che “la compressione toracica può costituire causa di asfissia posturale”. Come si vede, si tratta di un documento di notevole importanza perché rivela la consapevolezza, da parte dei vertici dei Carabinieri, della pericolosità di quella particolare tecnica. E il fatto che essa possa costituire una micidiale arma impropria nelle mani dei militari. Ma una simile manifestazione di saggezza non durò molto e, nel 2016, quella circolare venne abrogata. Ora, negli Usa, un certo numero di Stati e molte città hanno interdetto il ricorso a quella tecnica di fermo e in Francia è in atto un interessante dibattito sulla riforma della polizia. In Italia, tutto tace: non si considera, evidentemente, che il rapporto tra cittadini e apparati dello Stato, specie quelli titolari dell’uso legittimo della forza, costituisce un test essenziale per la qualità della nostra democrazia. Amnesty: “Discriminazioni e abusi della polizia nel lockdown” di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 giugno 2020 Il rapporto “Sorvegliare la pandemia”, scritto a partire dal monitoraggio di 12 stati europei nell’applicazione delle misure anti-Covid, ha fatto infuriare i sindacati di polizia. In Bulgaria utilizzati aerei per “disinfettare” un quartiere abitato da rom. Che la quarantena non fosse uguale per tutti si sapeva, che l’azione delle forze di polizia europee abbia discriminato alcuni gruppi sociali e presenti numerosi episodi di abusi lo ha detto ieri Amnesty International. “Sorvegliare la pandemia” è l’ultimo rapporto indipendente dell’organizzazione, che ha monitorato tra marzo e aprile le misure anti-contagio adottate da 12 stati europei. L’analisi è stata condotta in: Belgio, Bulgaria, Cipro, Francia, Grecia, Italia, Romania, Serbia, Slovacchia, Spagna, Regno Unito e Ungheria. Amnesty denuncia dinamiche sistemiche di “razzismo istituzionalizzato e discriminazioni”. Tre i campi di indagine: controlli rafforzati su migranti e rom; uso illegale della forza e violazioni della polizia; impatto sproporzionato delle sanzioni sui senza fissa dimora. “I Rom che vivono negli insediamenti informali, i rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti che vivono nei campi, hanno subito misure discriminatorie per contrastare la pandemia”, scrive Amnesty. Invece di garantire dispositivi di protezione individuale, accesso all’acqua e beni di prima necessità a fronte dell’obbligo di restare a casa, in diversi luoghi le autorità hanno schierato eserciti e polizia per isolare gli insediamenti. A Jambol, in Bulgaria, sono stati utilizzati aerei per “disinfettare” un quartiere rom dove era presente un focolaio. In Francia, nel campo di Calais, la polizia ha continuato a vessare i rifugiati che vivono nell’accampamento anche durante il lockdown. Il presidente serbo ha schierato i militari per pattugliare Belgrado e mantenuto i rifugiati in un regime speciale anche dopo la fine dell’emergenza nazionale. Discriminazioni nell’applicazione delle misure anti-contagio sono registrate anche in Grecia, Ungheria, Slovacchia e a Cipro. Amnesty ha documentato episodi di uso illegale della forza e abusi di polizia in sei paesi. Nella Francia scossa nei giorni scorsi dalle mobilitazioni che chiedono giustizia per Adama Traoré, soffocato durante un fermo nel 2016, l’organizzazione ha verificato 15 video di violenze o ingiurie razziste o omofobiche tra il 18 marzo e il 20 aprile, denunciando tra gli altri il caso di una 19enne nera fermata da otto agenti per un controllo e colpita al torace con il taser in modalità “stordimento”. Ad Atene la celere ha attaccato con i lacrimogeni dei ragazzi che sostavano nella piazza del quartiere Aghia Paraskevi. Due gli episodi in Italia: a Catania il 14 aprile un uomo è stato buttato a terra e manganellato mentre cercava di prendere un autobus; a Milano il 25 aprile dei ciclisti che, osservando il distanziamento, si stavano recando a omaggiare un monumento ai partigiani sono stati malmenati dagli agenti. Altri casi riguardano Belgio, Romania e Spagna. L’Ong ha anche criticato l’applicazione di misure punitive ai senza fissa dimora in assenza di provvedimenti sociali destinati a garantire loro un rifugio in cui osservare la quarantena. Diversi episodi di multe comminate a persone che non hanno una casa sono documentati anche in Italia. Il rapporto ha fatto infuriare i sindacati degli agenti. “Sconcertante si possa accusare impunemente la polizia”, dichiara Valter Mazzetti, segretario Fsp. Di “partito anti-polizia” parla Gianni Tonelli del Sap, che chiede “telecamere per difenderci dalle calunnie”. “Finita l’emergenza siamo tornati a essere i “punching ball” tra le istituzioni democratiche e chi cerca lo scontro con chi rappresenta lo stato”, sostiene Felice Romano del Siulp. A queste dichiarazioni ha replicato in serata Amnesty affermando di “non comprendere la foga e i toni di alcuni sindacati di polizia frutto probabilmente di una lettura incompleta del rapporto”, che riguarda l’operato delle polizie di 12 paesi europei e “anche singoli episodi relativi all’Italia”. Migranti. Ora la Libia promette di rispettare i diritti umani di Leo Lancari Il Manifesto, 25 giugno 2020 Il ministro Di Maio: “Tripoli apre alle nostre richieste di modifica del Memorandum”. Per ora siamo ancora nella fase del “sembra”, accompagnata dalla sottolineatura che “dobbiamo approfondire bene i contenuti della proposta” ma per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, tornato ieri da una missione a Tripoli, il documento ricevuto dal premier libico Fayez al Serraj rappresenta un successo: “Il presidente Serraj ha consegnato la proposta libica di modifica del Memorandum d’intesa del 2017 in materia migratoria riformulata dall’Italia”, dice il titolare della Farnesina appena sbarcato all’aeroporto di Ciampino. “Da una prima lettura sembra vada nella giusta direzione recependo la volontà italiana di rafforzare la piena tutela dei diritti umani”. Il Memorandum è l’accordo siglato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni con il Paese nordafricano per fermare i barconi carichi di migranti in fuga dalla Libia, operazioni rese possibili finanziando ed equipaggiando la cosiddetta Guardia costiera libica. Migranti che poi vengono riportati indietro e rinchiusi nei centri di detenzione gestiti da Tripoli dove finiscono per subire violenze e torture. Trascorsi i previsti tre anni di durata, al momento del rinnovo lo scorso mese di febbraio l’Italia anziché disdire l’accordo ha chiesto che venisse permesso l’ingresso di Unhcr e Oim nei centri di detenzione a tutela delle persone che vi sono richiuse. Nel documento di sette pagine consegnato ieri da Serraj a Di Maio, non si farebbe cenno alle due organizzazioni dell’Onu ma le autorità libiche garantirebbero il rispetto dei diritti umani: “La Libia - assicurerebbe infatti uno dei passaggi - si impegna nell’assistere i migranti salvati nelle sue acque, a vigilare sul pieno rispetto delle convenzioni internazionali attribuendo loro protezione internazionale così come stabilito dalla Nazioni unite”. Resta da vedere che garanzie possa davvero offrire un Paese che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra e il cui governo sopravvive grazie all’aiuto offerto dalla Turchia. Il 2 luglio si riunirà la commissione italo-libica che ha il compito di formalizzare le modifiche. Nel frattempo, per quanto si tratti di due provvedimenti indipendenti l’uno dall’altro, il Memorandum finisce inevitabilmente per intrecciarsi con la discussione sul decreto missioni all’esame delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato riunite dove proprio oggi è atteso Di Maio. Sarà l’occasione per esaminare i costi delle missioni internazionali, compresa quella in Libia cresciuti fino a toccare i 10 milioni di euro. Nel decreto è prevista l’addestramento della Guardia costiera, ma anche la missione a terra con 200 uomini e un ospedale militare nella città di Misurata. Eventuali forniture di mezzi alla Guardia costiera fanno invece parte del Memorandum e vengono rese operative dal governo attraverso specifici decreti. L’ultimo, per la fornitura di 12 motovedette servite a bloccare e riportare indietro i migranti, venne firmato dal primo governo Conte. “Si sono violati diritti umani con il sostegno e i finanziamenti dei nostri governi”, ha commentato ieri il dem Matteo Orfini. “Oggi chi ha violato quei diritti dice che non lo farà più. Capiamoci subito: non si pensi di confermare con questa fragile scusa il finanziamento alla Guardia costiera libica”. Coronavirus, 28 migranti della Sea Watch positivi. Il Viminale: garantita la sicurezza di Carlotta De Leo Corriere della Sera, 25 giugno 2020 Tamponi a tutte le 211 persone recuperate in acque internazionali dalla Ong tedesca. Ora sono in isolamento sulla nave-quarantena. La sindaca di Porto Empedocle: “La mia comunità è stata esposta al pericolo di un’epidemia”. Sono 28 i migranti risultati positivi al Covid-19 tra i 211 salvati in acque internazionali dalla nave della Ong tedesca Sea Watch. Le persone sono state trasferite sul traghetto-quarantena Moby Zazà in rada a Porto Empedocle (Agrigento) e sono state tutte sottoposte a tampone. A far scattare l’allarme è stato il ricovero avvenuto subito dopo lo sbarco dalla Sea Watch di uno dei migranti, originario del Camerun, nel reparto malattie infettive dell’ospedale “Sant’Elia” di Caltanissetta dove i medici hanno scoperto la sua positività. In seguito, anche un altro migrante è stato portato in ospedale: si attende il risultato del test sul Covid-19. “Le procedure adottate garantiscono la piena tutela della sicurezza sanitaria del Paese” spiegano fonti del Viminale, precisando che “tutti i migranti sono stati sottoposti fin dal loro arrivo alle procedure previste dalle linee guida sul sistema di isolamento protetto elaborate dal ministero della Salute”. Mantenuta la distanza di sicurezza - I 28 migranti risultati positivi sono stati spostati in una sezione isolata nel mezzo della nave Moby Zazà. Al momento i positivi sono asintomatici o con sintomi del tutto lievi e non sono previste evacuazioni mediche. “Per l’intero periodo di quarantena - spiegano fonti del Viminale - sono state adottate misure di isolamento totale per i singoli, con la garanzia del mantenimento della distanza di sicurezza interpersonale sempre e comunque. I pazienti confermati e sospetti per il Covid-19 sono stati alloggiati in ponti isolati della nave: come previsto dalle linee guida, è stata istituita a bordo una “zona rossa” in cui il personale può accedere unicamente con dispositivi di protezione individuali completi”. Controlli sanitari e zona rossa - Per tutti gli altri 181 migranti ancora a bordo del traghetto Moby Zazà - fa sapere il Viminale - è attivo un servizio di sorveglianza che prevede uno screening individuale due volte al giorno per la ricerca di eventuali sintomi, con particolare attenzione a quelli respiratori. Fra due giorni verranno sottoposti ad un nuovo test rino-faringeo per scoprire eventuali altri contagi. Al termine del periodo di quarantena obbligatoria, tutti i migranti verranno sottoposti ad un ultimo accurato screening per garantire la piena tutela della salute pubblica al momento dello sbarco. Anche la Croce Rossa, con il coordinamento della prefettura e delle autorità sanitarie, continua a monitorare la situazione. Sulla nave quarantena - - dove fino ad ora non si erano registrati casi di Covid-19 - si trovano in sorveglianza sanitaria altri 47 migranti arrivati in precedenti sbarchi a Lampedusa. Sea Watch: coscienti del pericolo ma il nostro dovere è salvare vite - L’equipaggio di Sea Watch resta in isolamento all’interno della nave. La Ong tedesca ha chiesto di effettuare il tampone ai membri dell’equipaggi e ribadisce di aver seguito il “protocollo anti Covi-19”. “Siamo coscienti di operare in un contesto pandemico e ci siamo preparati per mesi per sviluppare e adattare le relative procedure sanitarie, non possiamo però sottrarci al dovere, che dovrebbe essere dei governi europei, di soccorrere queste persone e portarle in salvo” spiega Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch. La Ong è stata protagonista, un anno fa, di un duro braccio di ferro con l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini dopo che la capitana Carola Rackete aveva forzato il blocco per attraccare a Lampedusa e portare in salvo 40 migranti. “Il soccorso attraverso navi organizzate con personale medico e procedure idonee costituisce una garanzia di sicurezza rispetto agli arrivi incontrollati” aggiunge Linardi. La sindaca: “Perché sono scesi in banchina?” - In attesa dei controlli sanitari, scoppia la polemica. “Voglio andare fino in fondo, capire cosa è avvenuto. Perché a una nave Ong è stato concesso di sbarcare a Porto Empedocle, che fino a poco tempo fa era considerato un porto non sicuro. Perché i migranti non sono stati trasbordati sulla nave-quarantena a largo, invece di arrivare sulla banchina. La mia comunità è stata esposta al pericolo di un’epidemia” dice la sindaca di Porto Empedocle Ida Carmina. “La nave in rada a Porto Empedocle è una soluzione che con caparbietà abbiamo preteso il 12 aprile scorso dal governo centrale per evitare che si sviluppassero focolai sul territorio dell’Isola, senza poterli circoscrivere e controllare. Oggi si capisce meglio quella nostra richiesta. E chi ha vaneggiato accusandoci quasi di razzismo, oggi si renderà conto che avevamo ragione. Nelle prossime ore andranno adottati provvedimenti sanitari importanti al principio della precauzione. Voglio sperare che a nessuno venga in mente di non coinvolgere la Regione nelle scelte che dovranno essere assunte” avverte su facebook Nello Musumeci, governatore della Regione Sicilia. Undici polizie del mondo contro la ‘ndrangheta La Stampa, 25 giugno 2020 Il progetto “I Can” ideato dall’Italia con l’Interpol contro la mafia presente in 32 Paesi, di cui 17 europei. Arricchire il bagaglio di conoscenze del fenomeno criminoso e concertare iniziative, perché la “‘ndrangheta si può sconfiggere lavorando assieme”. È il senso delle dichiarazioni rese dai vertici delle forze di polizia dei 10 Paesi, oltre all’Italia, che oggi pomeriggio hanno preso parte alla videoconferenza “I Can” contro la ‘ndrangheta. La ‘ndrangheta è “un punto di riferimento internazionale per il traffico degli stupefacenti e la Direzione Nazionale Antimafia italiana è impegnata quotidianamente con le forze di polizia di molti Paesi nel mondo. La ‘ndrangheta parla tutte le lingue ed è capace di mimetizzarsi e di essere ovunque. Colonizza i territori e richiama su quei territori i propri uomini”, così Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Malgrado sia infiltrata in più di 30 Paesi nel mondo, le organizzazioni non sono autonome, ha spiegato de Raho, “esiste un organismo centrale che disciplina i rapporti e risolve gli attriti tra le strutture territoriali. Queste concorrono alla formazione dell’organismo centrale, ma non ne conoscono l’intera struttura di vertice, per evitare che eventuali collaborazioni con gli investigatori possano minare il sistema”. Il procuratore ha sottolineato che nel periodo delle stragi di mafia degli Anni 90, la ‘ndrangheta aveva iniziato a collaborare con Cosa Nostra eseguendo alcuni attentati, “per fare dopo poco un passo indietro evitando ripercussioni negative per i propri affari economici”. Tra le attività più pericolose, “l’infiltrazione nelle economie legali. In particolare costituendo società in Paesi dai sistemi giuridici più vulnerabili e meno collaborativi, in cui è più facile riciclare denaro sporco”. I tentacoli in Australia - “È difficile smantellare la ‘ndrangheta da soli. In Australia sono in atto numerose operazioni di polizia con la ‘ndrangheta ma dobbiamo lavorare insieme con un approccio innovativo anche per superare i disallineamenti normativi”, ha esordito il Capo della Polizia Federale australiana (Afp), Reece Kershaw. Poi è stata la volta di Timothy Shea, Amministratore della Dea (Drug Enforcement Administration) e Calvin Shiver dell’Fbi (Federal Bureau of Investigation) per gli Usa: “Consapevoli della pericolosità della ‘ndrangheta, anche se non possiediamo una conoscenza completa di questo fenomeno criminale, così complesso e strutturato. Il nostro obiettivo è arricchire le conoscenze e condividere le informazioni che possediamo”. L’America Latina - Per l’Argentina, il Capo della Polizia Federale, Juan Carlos Hernandez, ha sottolineato che continueranno i proficui rapporti con l’Italia che verranno estesi anche a livello multilaterale: “Ci aspettiamo brillanti risultati già nel breve periodo”. Carlos Henrique Oliviera De Sousa, Direttore Generale della Polizia Federale brasiliana, ha segnalato “la penetrazione della ‘ndrangheta nel settore immobiliare a San Paolo e a Rio de Janeiro. Dal 2010 esiste un link tra la ‘ndrangheta e le organizzazioni criminali sudamericane, lo testimoniano le numerose operazioni condotte negli ultimi dieci anni e la confisca di 10 tonnellate complessive di cocaina”. Oscar Atehortua, Direttore Generale della Polizia Nazionale colombiana, ha detto che “I Can è un’iniziativa formidabile per una lotta integrata contro la ‘ndrangheta. In Colombia le note di ricerca Interpol hanno contribuito ad arrestare pericolosi criminali”. Per Diego Fernandez Vallarino “in Uruguay è importante sensibilizzare la Polizia ma soprattutto la politica sui rischi di infiltrazione della ‘ndrangheta. L’Uruguay non è un Paese produttore di droga ma una piattaforma di esportazione verso l’Africa, l’Europa e l’Asia di sostanze stupefacenti e il grosso flusso di denaro in entrata alza il rischio di corruzione”. L’Europa - Frederic Veaux, Direttore Generale della Polizia Nazionale francese, ha spiegato che il suo Paese “conosce poco la ‘ndrangheta, ma sappiamo che è tra le più pericolose, strutturate ed estese organizzazioni criminali del mondo. Dalle informazioni in possesso sembra attiva a Parigi e nell’Est della Francia: I Can arriva, dunque, al momento giusto e ci incontreremo presto”. Martina Link, Vice Presidente del Bka Germania, ha osservato: “Cooperazione stretta con l’Italia, ma I Can rappresenta un salto di qualità per la cooperazione di polizia multilaterale. La Germania è un Paese che ospita da tempo la ‘ndrangheta, dal 1995 sono stati arrestati 185 appartenenti alla ‘ndrangheta”. A chiudere Nicoletta Della Valle, secondo cui “la Svizzera è un partner molto interessato. La mafia italiana è presente dagli Anni 50 e la ‘ndrangheta è l’organizzazione con il maggior numero di appartenenti in Svizzera”. Kosovo. L’Aja incrimina Hashim Thaqi, l’alleato Nato: “100 omicidi” di Alessandra Briganti Il Manifesto, 25 giugno 2020 La notizia arriva mentre il presidente kosovaro è in volo per Washington: la Corte penale lo condanna per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, inclusi l’uccisione, la sparizione forzata di persone, la persecuzione e la tortura. Una sentenza che pone fine allo scellerato accordo voluto dagli Usa con la Serbia. Il Serpente - è il soprannome dell’ex leader dell’Uck kosovaro-albanese Hashim Thaqi - è caduto e con lui lo scellerato accordo vaneggiato da Trump per mettere fine alla disputa tra Serbia e Kosovo. La notizia è arrivata ieri nel pomeriggio. Il presidente dell’ex provincia serba Hashim Thaqi è in volo per Washington. Il Tribunale per speciale per i crimini commessi dall’Esercito di liberazione nazionale (Uck) lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità. Insieme a lui anche il leader del Partito democratico del Kosovo (Pdk) e suo braccio destro Kadri Veseli, e altre otto persone, “responsabili - recita il comunicato stampa della Corte - di quasi 100 omicidi” oltre che di “una serie di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, inclusi l’uccisione, la sparizione forzata di persone, la persecuzione e la tortura”. I crimini - si legge ancora - “riguardano centinaia di vittime tra albanesi kosovari (considerati collaborazionisti ndr), serbi, rom e altre etnie, e includono gli oppositori politici”. Un comunicato stampa durissimo quello pubblicato dalla Corte. Il rinvio a giudizio, si specifica, è stato presentato il 24 aprile, ma la procura ha ritenuto necessario pubblicare l’incriminazione “a causa dei ripetuti tentativi di Thaqi e Veseli di ostacolare e minare il lavoro della Corte”. Nel comunicato poi si fa riferimento a una “campagna segreta” che sarebbe stata condotta dai due per ribaltare la legge che istituisce la Corte e ostacolarne il lavoro per assicurarsi l’impunità. “Con queste azioni, conclude il comunicato, Thaqi e Veseli hanno messo i loro interessi personali dinanzi alle vittime dei loro crimini, allo stato di diritto e a tutto il popolo del Kosovo”. Un epilogo che Thaqi temeva da tempo. Da quando nel 2010 venne pubblicato il rapporto redatto dal senatore svizzero Dick Marty - più volte intervistato su questo dal Manifesto - su mandato del Consiglio d’Europa dopo due anni di indagini. Interrogatori, detenzioni, omicidi e, più grave di tutti, espianto e traffico di organi a danno di civili serbi durante e dopo la guerra del Kosovo: sono le accuse del Rapporto. L’immagine di Thaqi che emerge dal rapporto è ben lontana da quella del guerrigliero che lotta per la liberazione del Kosovo al fianco della Nato che intanto bombardava “umanitariamente”. La formazione di cui è a capo, il gruppo di Drenica, trafficava armi, droga, organi. Un traffico quest’ultimo che passava dalla clinica di Fushe Kruje, la cosiddetta casa gialla, situata in Albania, a 20 km da Tirana. Qui venivano espiantati gli organi dei prigionieri, organi che erano poi rivenduti a cliniche private straniere. Una storia denunciata precedentemente anche da Carla del Ponte, ex procuratore del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia nel suo libro La caccia - Io e i criminali di guerra. Alla pubblicazione del rapporto scoppiarono le proteste in Kosovo: l’Uck, organizzazione terroristica divenuta mito fondativo del Kosovo dal 2008 unilateralmente indipendente, non si tocca. Thaqi riesce a farla franca. Ma sulla scorta di quel rapporto viene prima istituita una task force e dopo la Corte speciale per i crimini commessi dall’Uck. Un tribunale di giudici internazionali ma creato con una legge approvata dal Parlamento del Kosovo e che Thaqi cerca invano di sabotare insieme a Veselj e a Ramush Haradinaj, ex premier dimessosi l’estate scorsa dopo la convocazione anche lui all’Aja. Che l’ora del verdetto per Thaqi si stesse avvicinando era noto. Il suo nervosismo è emerso con tutta evidenza nell’estate del 2018 per le incessanti le voci di un accordo sullo scambio di territori (e popolazioni) tra Belgrado e Pristina per mettere fine alla disputa tra i due Paesi. Un accordo che avrebbe consentito a Thaqi di presentarsi come l’uomo della pace e che soprattutto gli avrebbe garantito ancora una volta l’impunità: secondo indiscrezioni, tra i punti dell’accordo ci sarebbe proprio l’amnistia per i crimini di guerra. Il delitto era perfetto: sembravano tutti convergere su questo piano, il presidente serbo Vucic, l’ex alto rappresentante Federica Mogherini, il presidente russo Putin e il suo omologo americano Trump. Ma l’Ue non aveva fatto i conti con l’opposizione tedesca e Trump aveva sottovalutato la forza del deep state americano e dei suoi interessi in Kosovo. Un errore fatale che potrebbe costare caro a Thaqi. Già, perché l’incriminazione dovrà essere confermata dal giudice preliminare. Un altro passo falso e il Serpente si troverà alla sbarra.