L’ergastolo ostativo forse sta per scomparire di Piero Sansonetti Il Riformista, 24 giugno 2020 La Cassazione si rivolge alla Consulta perché ritiene “non infondata l’ipotesi che sia incostituzionale”. Una sentenza del 1974 diceva che l’ergastolo è legittimo purché non sia ergastolo. Siamo a un passo dalla fine dell’ergastolo ostativo. La Corte di Cassazione ha rimandato alla Corte Costituzionale la decisione, dopo il ricorso di un detenuto che reclamava la liberazione condizionale che gli era stata negata dalla Corte d’appello in quanto detenuto in regime ostativo. La Cassazione ritiene che questa decisione dell’Appello possa essere incostituzionale. La decisione definitiva ora spetta alla Corte Costituzionale. Ma la decisione della Corte Costituzionale è praticamente scontata dal momento che la stessa Corte, in ottobre, ha emesso una sentenza nella quale giudica incostituzionale il rifiuto di concedere permessi premio a un detenuto in regime ostativo. Le norme attuali prevedono che i benefici penitenziari possano essere concessi ai detenuti per i reati di mafia e altri reati di pericolosità sociale, solo se il detenuto ha collaborato attivamente con la giustizia. In caso contrario zero benefici e quindi niente liberazione anticipata. La Corte Costituzionale in ottobre si era trovata a decidere sul ricorso di un detenuto che chiedeva i permessi premio sebbene non avesse collaborato con la Giustizia. La Corte poteva decidere solo sui permessi premio. E sentenziò che non era costituzionale negare i permessi premio ai non pentiti e dunque diede ragione al detenuto. La sentenza però non poteva riguardare anche l’ergastolo ostativo perché la sentenza della Consulta può toccare solo le questioni sollevate da chi ricorre. Ora la Cassazione ha affrontato l’argomento decisivo. Quello dell’ergastolo. Rivolgendosi alla Corte Costituzionale perché ritiene “non infondato” il ricorso del detenuto che chiede, dopo aver scontato più di trent’anni di carcere, la liberazione anticipata sulla base della buona condotta e del ravvedimento (è stato condannato per due omicidi). La Corte d’Appello aveva negato la scarcerazione perché il detenuto non è pentito. Se la Consulta accetterà la richiesta della Cassazione si chiuderà finalmente una delle vicende che più ha ferito, in tutti questi anni, la civiltà giuridica italiana. La questione dell’ergastolo - del fine pena mai - è molto vecchia. Già nel 1974 la Corte Costituzionale fu chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’ergastolo. Cioè della prigione senza speranza, che ovviamente esclude la rieducazione (non ha senso rieducare se la pena è infinita) e probabilmente è anche un trattamento inumano e degradante. La Consulta in quell’occasione sostenne la tesi che l’ergastolo fosse legittimo, proprio perché la legislazione prevedeva regimi di premio che concedevano, anche agli ergastolani, la possibilità di essere liberati dopo almeno 26 anni di prigione. Quindi che non fosse vero ergastolo. Poi però, nel fuoco dello scontro con la mafia, nacquero le leggi e i regolamenti speciali e spuntò l’ergastolo ostativo. Che è una pena davvero inumana. Prevede che tu non possa godere di nessun beneficio penitenziario, nessun permesso, nessuna scarcerazione anticipata. Ti murano vivo. Se vuoi uscire dall’ergastolo ostativo devi collaborare con la giustizia, cioè diventare un “pentito” e accusare qualche tuo complice. Molti detenuti, non solo della mafia, non hanno mai accettato questo ricatto (difficile definirlo in modo diverso) e sono rimasti per decenni chiusi da muri e sbarre. Finalmente la decisione sull’ergastolo ostativo arriva alla Consulta e tutto lascia immaginare che la soluzione sarà la più logica: quella di ristabilire il diritto e la legalità e tornare alla decisione della Consulta del 1974. Del resto in questa direzione erano già andate alcune sentenze della Corte europea e diverse dichiarazioni di prestigiosissimi giuristi, compresa l’attuale presidente della Corte Marta Cartabia. Il problema, forse, sarà quello della reazione che ci potrà essere da parte della politica, del giornalismo e di pezzi di magistratura. In questi anni il mito delle “leggi speciali” è stato una specie di “spilla” da mettere sulla giacca per dichiarare la propria anti-mafiosità Doc. Chi prova a sostenere che un mafioso è una persona e non un avanzo putrido dell’umanità viene solitamente additato come complice. Non solo dai grandi giornali, in genere alla coda del Fatto. Ma anche da settori consistenti della magistratura e da quasi tutti i partiti politici. Basta dare un’occhiata a quel che è successo quando i giudici di sorveglianza hanno scarcerato per motivi sanitari e umanitari un vecchio detenuto ottantenne, malato gravemente di cancro, privo di reati di sangue, condannato a 18 anni di carcere per estorsione e che aveva già scontato 17 anni e mezzo in cella. Gli mancavano sei mesi, e se avesse potuto godere dei benefici penitenziari neanche quelli (ma non poteva goderne, appunto, perché condannato per mafia e non collaboratore di giustizia). Giornali e partiti si indignarono, spiegarono che era un boss, che era il vice di Provenzano, che era uno smacco per la giustizia, per l’Italia, per la patria e non so per cos’altro. E la stessa cosa è successa per Zagaria, fratello di un boss della camorra. E per tanti altri poveretti per i quali il ministro, spinto dai giornali, si affrettò a varare un decreto urgentissimo, probabilmente del tutto incostituzionale, che toglieva poteri alla magistratura di sorveglianza e moltiplicava i poteri già esagerati delle Procure. E poi andò a vantarsi in Parlamento: li ho fatti riarrestare quasi tutti. Vedrete che succederà qualcosa di simile. La cultura di massa in Italia è profondamente intrisa di manette. Il giornalismo e la politica sono del tutto subalterni al partito delle Procure. Resta, nel campo garantista e del diritto, solo una parte assolutamente minoritaria dell’intellettualità, qualche scampolo di politica e i settori più avanzati (e malvisti) della magistratura. La subdola nostalgia del manicomio giudiziario di Michele Passione e Franco Corleone Il Manifesto, 24 giugno 2020 Come nel romanzo di fantascienza di Damon Knight, nel quale si installava in soggetti psicopatici una figura di riferimento che ordinasse loro di non commettere crimini, il Gip di Tivoli ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, lamentando che il Ministro della Giustizia sia stato espropriato del potere di curare l’esecuzione della misura di sicurezza provvisoria detentiva in Rems. Le 18 pagine del giudice Aldo Morgigni riceveranno in altra occasione la puntuale disamina tecnica, in questa sede ci limitiamo ad alcune considerazioni: la prima attiene al reato contestato, minaccia a pubblico ufficiale (nella sua forma attenuata), avendo l’interessato detto ad un sindaco: “Te meno perché se te do ‘na pizza il primario dove stavo m’ha detto che c’ho ragione…per poi lanciargli contro un cartoccio di vino senza colpirlo”. Viene davvero da chiedersi se fosse necessaria una risposta coercitiva di questo tipo, sol che si tenga conto, di quanto aveva proposto la Commissione Pelissero, che nell’ambito della delega ricevuta con L.n.103/2017 aveva previsto che detta misura potesse applicarsi solo per reati puniti con pena minima non inferiore a cinque anni. Il Gip ha sollevato la questione dopo che era già stata esercitata l’azione penale, il mese prima, ciò che comporta la competenza in capo al Tribunale. L’ipotesi che essa si determini invece in favore di chi ha ancora la materiale disponibilità del fascicolo, oltre che in contrasto con la lettera della legge, consentirebbe al pm di “scegliersi” il suo giudice, e dunque è lecito dubitare della correttezza della decisione. Nel merito, è sin troppo facile rilevare che la pretesa di rinvenire nell’art.117, comma 2 della Costituzione, senza peraltro indicare quale parametro sia violato, oltre che nell’art.110 (sic!), lo spazio di intervento del Ministro della Giustizia sia assai zoppicante. Infine, il giudice non chiarisce cosa dovrebbe poter fare il Ministro: ordinare a una Rems di accogliere un paziente anche quando il numero massimo è raggiunto? L’inammissibilità della questione risulta evidente. È sufficiente leggere l’ordinanza per comprendere come in realtà si invochi un ritorno al passato, cancellando il principio innovativo dell’esclusiva gestione sanitaria delle Rems e della competenza del Servizio Sanitario, superando quella del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Come è accaduto per altre sollecitazioni alla Corte Costituzionale ci si può affidare con serenità alla sagacia della Consulta che dovrà decidere ancora una volta tra cura e sicurezza. Il motivo più serio per occuparci della questione è dovuto alla presentazione di Marco Paternello, magistrato di sorveglianza a Roma pubblicata recentemente su Questione giustizia. Il titolo è accattivante: “Le Rems, uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni”. L’autore attribuisce il proverbio a Karl Marx, ma la asserita lucidità del pensatore di Treviri non si trasferisce alle sue argomentazioni. La critica al funzionamento delle Rems è legata alla presenza di una lunga lista d’attesa e alla supposta carenza di posti. Sono argomenti stantii che non fanno i conti con i problemi reali che sono determinati dall’abuso di misure di sicurezza provvisorie e dal numero eccessivo di decisioni sulla base di perizie che stabiliscono l’incapacità di intendere e volere. A nostro parere i 631 posti sarebbero più che sufficienti se la legge 81 fosse applicata con intelligenza. Paternello auspica un impegno senza risparmio di risorse per reperire un numero di posti vagamente comparabile alle esigenze concrete. Quanti posti? Più di quelli degli Opg? L’obiettivo pare quello di un manicomio diffuso con una forza di polizia per la sicurezza interna. I problemi esistono e sono state presentate proposte legislative per eliminare il doppio binario del Codice Rocco. Su queste soluzioni radicali è l’ora del confronto. Dl carceri, alla Camera il governo pone la fiducia. Domani il voto La Repubblica, 24 giugno 2020 Proteste da parte delle opposizioni dopo l’annuncio del ministro D’Incà. Anche al Senato l’approvazione del decreto era arrivata con la stessa procedura. Dopo il Senato, ora tocca alla Camera. Ancora una volta il governo ha posto la questione di fiducia sull’approvazione di un provvedimento legislativo, in questo caso il decreto carceri. L’annuncio è arrivato nel primo pomeriggio dal ministro ai Rapporti con il Parlamento, Federico d’Incà, ma le sue parole sono state accompagnate dalle proteste dei deputati dei partiti di opposizione. Anche a Palazzo Madama il governo aveva deciso di porre la fiducia per arrivare all’approvazione del decreto. Subito dopo si è riunita la conferenza dei capigruppo, che ha stabilito che la votazione si terrà entro le 14 di giovedì 25. Il decreto carceri, che scade a fine mese, raggruppa i due provvedimenti varati dal governo durante la prima fase emergenziale del Covid-19 in merito all’ambito della giustizia. In primo luogo, proroga al 1 settembre l’entrata in vigore della riforma Orlando sulle intercettazioni (che doveva essere attuata a partire dal 1 maggio) e in secondo luogo riguarda il decreto Bonafede per il rientro in carcere dei boss mafiosi scarcerati durante l’emergenza Coronavirus. Dall’emergenza all’eccezione permanente. I rischi di un carcere bloccato nella Fase 2 di Luigi Romano napolimonitor.it, 24 giugno 2020 Le dichiarazioni del magistrato Nino Di Matteo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo, sulla presunta trattativa tra stato e mafia durante la rivolta al carcere di Salerno lo scorso 7 marzo, rappresentano un clamoroso tentativo - condiviso in queste settimane con alcune “correnti” vicine al mondo dell’antimafia - di riscrittura dei fatti che hanno riguardato le prigioni del paese durante i primi mesi dell’emergenza Coronavirus. La campagna mediatica ha coinvolto i principali quotidiani e periodici italiani, ma gli eventi andarono diversamente da come si prova ora a raccontarli. Appena ricevuta notizia della sollevazione, infatti, entrammo personalmente nel carcere di Fuorni insieme al Garante dei detenuti campano, per monitorare lo stato delle garanzie in quel frangente estremamente delicato. A differenza di quanto si è detto nei talkshow televisivi (sede attuale del dibattito sulla “questione penitenziaria”) ci venne riferito che soltanto i detenuti comuni avevano preso parte alla sommossa, spaventati per la corsa inarrestabile dei contagi e per l’improvvisa interruzione dei colloqui con i familiari (notizia ricevuta dai telegiornali). Il famoso “papello” che secondo Di Matteo sarebbe prova della trattativa, conteneva la semplice richiesta di evitare trasferimenti punitivi. Quella notte invece, dopo l’intervento dei corpi antisommossa, furono trasferiti in tanti. L’istituzione carceraria ha come caratteristica un tempo di assimilazione particolare rispetto alle trasformazioni del mondo esterno, dettata soprattutto da esigenze contenitive (come, quando, chi recludere). Mentre le nostre città si orientano verso la normalizzazione delle interazioni economiche e sociali seguendo prassi contraddittorie di “convivenza con il virus”, il carcere è ancora fermo alla Fase 2. L’ultima disciplina risale al decreto legge n. 29 del 10 maggio, e dispone il ripristino dei colloqui in presenza con i familiari a partire dal 18 maggio, attraverso ingressi in “forma contingentata” (due colloqui al mese) la cui gestione è affidata alle direzioni degli istituti, di concerto con le autorità sanitarie. Il processo di ristrutturazione dell’istituzione penitenziaria che in questi giorni ha portato alla nuova nomina di Petralia (altro pubblico ministero) alla guida del Dap, ha sicuramente influito sulla lentezza dei processi decisionali. All’inizio dell’estate i colloqui in presenza sono ancora pochissimi e la ripresa delle attività trattamentali è ancora lontana. Di fatto in carcere entra quasi esclusivamente il personale in divisa. Nel frattempo, la chiusura delle indagini per la mattanza di Santa Maria Capua Vetere, con cinquantasette indagati tra gli agenti in servizio, ha provocato la scontata reazione dei sindacati autonomi di polizia penitenziaria: “Non siamo né picchiatori né torturatori, ma garantiamo la sicurezza nelle carceri italiane, e lo facciamo nell’esclusivo interesse dei cittadini”, è stata la flebile linea di difesa di sei sigle riunitesi compatte, assecondata dai partiti e dai gruppi parlamentari di destra. L’aggressione del 12 giugno ad alcuni agenti in servizio da parte di due detenuti sofferenti psichici è stata il pretesto per riprendere il braccio di ferro tra gli organi di polizia e la direzione civile del potere penitenziario, al suono delle solite parole d’ordine: rispetto e autonomia del corpo di polizia, mezzi di contenzione più efficaci, chiusura dei reparti. Dentro il carcere di Santa Maria, però, si respira ancora tensione, soprattutto per la stretta convivenza tra indagati e denuncianti, elemento che potrebbe avere una ripercussione negativa sul processo penale (già lungo di per sé), soprattutto nella fase dibattimentale. Per ora le notizie che arrivano dall’istituto non sono rassicuranti, tanto più che per sopperire alla “carenza di personale” sono stati chiamati in causa nuclei dei Gruppi operativi mobili, personale in divisa con una spiccata formazione militare, impegnato già nella gestione della caserma di Bolzaneto durante i fatti del G8 di Genova nel 2001. In generale, le carceri del paese sono ancora confinate nel limbo del lockdown, con alcune aree destinate alla socialità ancora chiuse e solo pochissime attività collettive organizzate a distanza, tramite videochiamata. Dal nuovo comando del Dap non arrivano linee guida, l’unica circolare emanata fin ora riguarda la revoca delle disposizioni del 21 marzo che, per evitare il contagio, invitavano le direzioni degli istituti a indicare i detenuti con più di settant’anni e affetti da patologie mediche. La motivazione a supporto di questa revoca riguarda la diminuzione del rischio di contagio, ragioni che non sembrano avere la stessa forza argomentativa per ristabilire il quotidiano detentivo pre-Covid. L’iniziativa di alcuni provveditorati regionali, come quello della regione Veneto, o di alcune direzioni, come Pozzuoli, di “ripianificare” (per difetto) il piano delle attività, segnala ancora una volta la scomposizione del sistema, completamente scollato dai centri ministeriali. Proprio alla luce di ciò, questa presunta nuova fase impone un’osservazione attenta delle scelte istituzionali e dei movimenti interni alle catene di comando. È necessario comprendere quali saranno le trasformazioni, e di seguito le eccezioni permanenti prodotte dalla pandemia. I rischi sono sotto gli occhi di tutti e raccontano di ristrutturazione della socialità e limitazione di pratiche come la sorveglianza dinamica, maggiore discrezionalità per gli istituti nella gestione dei rapporti tra i detenuti e i loro familiari, autonomia più marcata per le forze di polizia penitenziaria, impermeabilizzazione e chiusura ulteriore dell’universo carcerario rispetto al mondo esterno. Siamo ancora sotto shock, dobbiamo ancora raccogliere il peso specifico dell’implosione, ma ignorare quello che sta succedendo potrebbe essere estremamente pericoloso. Si suicidò in cella, 19 anni dopo la Cedu condanna l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 giugno 2020 Dopo 19 anni dal suicidio in carcere, tra procedimenti penali conclusi con l’assoluzione degli imputati, è giunta la condanna all’Italia da parte della Corte Europea di Strasburgo (Cedu). Parliamo della morte nel carcere di Gazzi a Messina del detenuto Antonio Citraro, avvenuta il 16 gennaio del 2001. Verso le 19.15 di quel tragico giorno, un agente penitenziario lo trovò appeso con un lenzuolo del letto alla grata della cella. Quando il personale del carcere riuscì a entrare per fornire le prime cure a Citraro, quest’ultimo non reagì, trasportato d’urgenza all’ospedale civile, fu dichiarato morto al suo arrivo. Esattamente un anno fa la Cedu ha riaperto il caso, dopo un ricorso presentato dall’avvocato di Messina Giovambattista Freni. Antonio Citraro, 31 anni, figlio di un imprenditore messinese e in attesa di giudizio, più volte aveva chiesto di essere trasferito dal carcere di Messina per motivi che non erano stati approfonditi. Dopo le denunce della famiglia il Gup di Messina dispose il rinvio a giudizio per il direttore del carcere, due agenti di custodia e il sanitario del tempo, con le accuse di favoreggiamento, falso per soppressione, omicidio colposo, abuso dei mezzi di correzione e lesioni personali. Il Tribunale e la Corte di Appello pronunziarono sentenza di assoluzione per gli imputati e anche la Cassazione decise di confermare il verdetto. I genitori però non si sono arresi e hanno presentato ricorso (Causa Citraro e Molino c. Italia) alla Corte Europea per i Diritti dell’uomo. La Cedu, dopo aver verificato i sistemi di tutela dei detenuti nelle carceri italiane, ha condannato lo Stato italiano al risarcimento di 32.900 euro per la violazione dell’elemento materiale dell’articolo 2 della Convenzione. Parliamo del diritto alla vita che obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Tale obbligo sussiste, ancora di più, dal momento in cui le Autorità penitenziarie siano a conoscenza di un rischio reale e immediato che la persona detenuta possa attentare alla propria vita. Nel caso in questione, l’Amministrazione penitenziaria era perfettamente a conoscenza dei disturbi psichici e della gravità della malattia di cui era affetto il detenuto, degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio che aveva posto in essere, dei suoi gesti e pensieri suicidi e dei segnali di malessere fisico o psichico: aveva completamente distrutto la cella, impedendo l’ingresso al personale, e faceva discorsi deliranti e paranoici. Ma casi come questi non sono isolati. Tanti, troppi detenuti si suicidano quando vengono messi in isolamento perché affetti da disturbi psichici. L’attivista calabrese Emilio Quintieri ricorda particolarmente quella di Maurilio Pio Morabito, 46 anni, avvenuta il 29 aprile 2016, a poche settimane dal suo fine pena (30 giugno 2016), mentre era detenuto presso la Casa circondariale di Paola. Morabito, come Citraro, si è impiccato nella cella n. 9 del reparto di isolamento, dopo aver posto in essere diversi atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, rifiutato di assumere i farmaci per timore di essere avvelenato ed anche di recarsi a colloquio con i propri familiari. La vicenda all’epoca denunciata da Quintieri è stata riportata su Il Dubbio. Aveva incendiato e distrutto, ripetutamente, le altre celle in cui era precedentemente allocato e per tale ragione era stato posto per diversi giorni in una cella liscia (cioè priva di ogni suppellettile), sporca e maleodorante, senza nemmeno essere sorvegliato a vista, lasciandogli addosso solo le mutande ed una coperta. Proprio utilizzando quest’ultima, che è stata annodata a forma di cappio alla grata della finestra della cella, di notte, è riuscito a togliersi la vita. Per la vicenda di Morabito, i familiari, non hanno ottenuto giustizia in sede penale, in quanto il procedimento è stato archiviato dal Gip del Tribunale di Paola su conforme richiesta avanzata dalla Procura della Repubblica. Recentemente però, assistiti dagli avvocati Corrado Politi e Valentino Mazzeo del Foro di Reggio Calabria, hanno citato in giudizio il ministero della Giustizia per sentirlo condannare al risarcimento dei danni. La causa attualmente è in corso presso il Giudice civile del Tribunale di Reggio Calabria e proprio Emilio Quintieri che portò alla luce questo suicidio è tra le persone che verranno sentite in merito dall’Autorità Giudiziaria. La difficile gestione in carcere di chi ha problemi psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 giugno 2020 Molti detenuti danno in escandescenza e sono messi in isolamento. Il caso di Antonio Cetraro, il detenuto con problemi psichiatrici suicidatosi 19 anni fa e di cui, solo oggi, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea a pagare il risarcimento, pone nuovamente il problema di quella moltitudine di suicidi nelle patrie galere senza che lo Stato abbia adottato misure per prevenire e quindi proteggere chi è sotto la sua custodia. Parliamo dei suicidi dei detenuti con problemi psichici, di quelle morte annunciate perché i reclusi avevano già dimostrato di farla finita. Molti di loro, a causa delle loro turbe mentali, vanno in escandescenza, distruggono le celle e aggrediscono gli agenti. E vengono puniti, in cella di isolamento. Il problema dell’isolamento come sanzione disciplinare è stato molto discusso nel passato, soprattutto in merito all’utilizzo delle cosiddette “celle lisce”. Si chiamano così perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari, né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso, però, risulta anche deleterio visto i casi di suicidio proprio all’interno di esse. L’associazione Antigone, spesso, ha messo in luce queste problematiche. Per questo motivo, allo scopo di prevenire i suicidi in carcere, ha presentato l’anno scorso una proposta di legge che puntasse, tra le altre cose, a una riforma complessiva del regime dell’isolamento. La prevenzione dei suicidi, secondo Antigone, richiede l’approvazione di norme che assicurino maggiori contatti con l’esterno e con le persone più care, un minore isolamento affettivo, sociale e sensoriale. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Ma il problema della cura dei detenuti psichici resta un nodo irrisolto. Troppe poche le articolazioni per la salute mentale presenti nelle carceri (solo in 32 istituti su 191) e quelle poche che ci sono rischiano di riprodurre quella logica manicomiale del passato che ancora non è del tutto superata nonostante la riforma Basaglia e il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Però, senza nemmeno un’articolazione adibita per la cura, la questione diventa più difficile. Facciamo l’esempio del carcere di Modena, uno degli istituti protagonisti delle rivolte carcerarie di marzo e, soprattutto, dove ci sono scappati i morti. Prima della rivolta il 64,9% dei reclusi era straniero, il 35% tossicodipendente e ben il 55% in osservazione psichiatrica dove non c’era, e non c’è, un’articolazione per la salute mentale. Molto spesso, in mancanza di tale articolazione, i detenuti con disagi psichici vengono ricoverati in infermeria o messi in cella di isolamento. Ciò non fa che peggiorare la situazione psichica del detenuto e, come purtroppo accade, portarlo alla morte. Non per ultimo c’è il discorso della presa a carico del detenuto da parte delle aziende sanitarie locali. Secondo il recente rapporto del comitato bioetico bisognerebbe rafforzare i servizi di salute mentale in carcere. Bisognerebbe fare in modo che i servizi funzionino come parte integrante di “forti” Dipartimenti di Salute Mentale, capaci di individuare le risorse di rete territoriale per la cura delle patologie gravi al di fuori dal carcere e di collaborare a tal fine con la magistratura di sorveglianza. Insegnare in carcere: un’ipotesi di competenze del docente di Ada Maurizio* educationduepuntozero.it, 24 giugno 2020 Quali competenze deve avere un docente che lavora in carcere? Occorre una formazione specifica o è sufficiente imparare sul campo, magari sostenuti dai colleghi più esperti? Negli ultimi cinque anni ho incontrato molti professori che insegnano in carcere, molti colleghi dirigenti e altrettanti educatori e agenti. Ho visitato molti penitenziari italiani e ho conosciuto i direttori, i comandanti e gli educatori. Nel carcere operano molte figure professionali che appartengono a organizzazioni pubbliche e private diverse tra loro. Quali competenze deve avere un docente che lavora in carcere? Occorre una formazione specifica o è sufficiente imparare sul campo, magari sostenuti dai colleghi più esperti? Negli ultimi cinque anni ho incontrato molti professori che insegnano in carcere, molti colleghi dirigenti e altrettanti educatori e agenti. Ho visitato molti penitenziari italiani e ho conosciuto i direttori, i comandanti e gli educatori. Nel carcere operano molte figure professionali che appartengono a organizzazioni pubbliche e private diverse tra loro. Oltre agli educatori e agli agenti, ci sono i volontari, gli operatori del terzo settore, i medici, gli infermieri e gli psicologi della Asl, i cappellani e i ministri di altri culti religiosi. Chi entra in carcere per insegnare deve innanzitutto essere consapevole di entrare in un universo composito e complesso, dove la maggior parte delle regole non è scritta e non è sempre chiara. Circa tre anni fa ho intervistato, per il mensile Dirigere la scuola, Edoardo Albinati, docente di lettere nel carcere romano di Rebibbia, sceneggiatore e scrittore, vincitore del premio Strega 2016. Mi colpì una sua riflessione: “chi lavora nella scuola in carcere mette alla prova in condizioni estremamente disagiate le proprie capacità umane e le competenze professionali. È una sperimentazione costante, di metodi e di contenuti e delle energie umane che occorre mettere in campo per renderli disponibili agli studenti. In una professione alla lunga frustrante come quella dell’insegnante, si può essere attratti dall’idea che lavorare in carcere permetta di vivere un’esperienza più intensa o più autentica. Ma forse si tratta di un’idea retorica”. Molti docenti si ritrovano a insegnare in carcere per caso e l’impatto iniziale può essere faticoso e stressante. Capita che in assenza di una formazione specifica, i colleghi più ‘anziani’ siano un modello di comportamento da seguire ma occorre fare attenzione. Chi lavora in carcere da molto tempo potrebbe aver acquisito atteggiamenti stereotipati e poco coerenti con il proprio ruolo. Mi è capitato più volte di osservare docenti che, più o meno consapevolmente, si sentivano più parte del personale interno degli istituti penitenziari che della scuola e agivano di conseguenza. Non dimentichiamo che nella storia dell’istruzione in carcere, che nasce in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, è recentissimo il riconoscimento del settore e la sua collocazione nei CPIA. La formazione specifica, poi, ha di fatto ignorato, da oltre trent’anni, la categoria dei docenti ‘carcerari’, salvo qualche isolata iniziativa. Non è difficile, quindi, comprendere l’assenza di una identità specifica del docente che insegna in carcere. La costruzione di un’identità - Nel 2017 ho coinvolto gli insegnanti della casa circondariale di Regina Coeli e dell’Istituto Penale Minorile Casal del Marmo di Roma in un percorso formativo che fosse il primo passo nella costruzione di un’identità, a partire dalla definizione di un profilo di competenze. Con Elena Zizioli, ricercatrice dell’Università Roma Tre - Creifos ed Elisabetta Colla, funzionario della Direzione Generale della formazione del Ministero della Giustizia, abbiamo progettato e condotto un percorso di formazione, consapevoli che non sarebbe stata proponibile ed efficace una modalità solo frontale: “a favore di un’utopia che trasforma il quotidiano, durante l’esperienza, ci si è dati il compito di provare a costruire, dopo una necessaria opera di decostruzione, un nuovo modello di scuola in carcere e di docente; perciò a lezioni più tradizionali sono seguite lezioni laboratoriali in cui è stato chiesto, attraverso attività mirate, di mettersi in gioco per elaborare i vissuti professionali e risignificare il proprio ruolo, privilegiando le dinamiche gruppali che quando si è chiamati ad operare in contesti deprivati fanno la differenza”. Il primo obiettivo che ci siamo posti è stato quello di esplorare il sistema di relazioni dove si svolge l’azione educativa per: “individuare falsi miti, stereotipi, ma anche resistenze e criticità che inevitabilmente condizionano chi è chiamato ad operare in contesti così complessi. Ne è uscito un quadro sfaccettato e articolato che ha ben messo in luce le difficoltà e le contraddizioni di chi è chiamato a un mandato educativo e didattico tra le sbarre”. Il passo successivo per la costruzione dell’identità è stato il lavoro sul bisogno inespresso di riconoscimento per arrivare a ipotizzare un modello di scuola in carcere dove il docente abbia un ruolo determinante nella relazione educativa. È interessante la riflessione emersa durante il laboratorio esperienziale sulla giustizia riparativa, un approccio nuovo nel mondo della giustizia: il docente può avere un ruolo attivo nella predisposizione di comportamenti di tipo risarcitorio e compensatorio da parte di chi ha commesso un reato. Il percorso di formazione ha prodotto una nuova ed embrionale visione della scuola in carcere che - come hanno ben evidenziato le formatrici: “ha molti debiti con la migliore tradizione pedagogica internazionale (in primis Dewey), con la Pedagogia popolare (Freinet) e con tutte quelle esperienze che nella seconda metà del Novecento hanno creato scuole alternative, vere e proprie scuole di “seconda opportunità” per chi proveniva da contesti di disagio e marginalità” (Melazzini, 2011). Quali competenze? - Quali competenze sono state individuate come necessarie per costruire un profilo coerente con il proprio ruolo di docente che lavora in carcere? La formazione esperienziale dei docenti di Regina Coeli e di Casal del Marmo è stata il punto di partenza per iniziare a dare una risposta. Nella letteratura e nella ricerca accademica non ci sono studi che abbiano indagato il profilo del docente che insegna in carcere. Con Paolo Di Rienzo, Paolo Serreri e Adele L’Imperio dell’Università degli Studi di Roma Tre, Laboratorio di Metodologie Qualitative nella Formazione degli Adulti, abbiamo ideato e sviluppato un percorso di ricerca azione con l’obiettivo di definire un profilo di “competenze trasversali considerate strategiche per gestire la peculiarità nonché la complessità dell’insegnamento all’interno delle istituzioni carcerarie”. Il Centro di Ricerca, Sperimentazione e Sviluppo del Lazio ha finanziato il progetto pionieristico che ha coinvolto i docenti in servizio nei penitenziari del Lazio. Il primo passo è stata la definizione di un set di competenze ritenute necessarie e strategiche: resilienza, problem setting/solving, competenze sociali, andragogiche, personali, di rete, affettivo-relazionali, di equipe, di diversity management, deontologiche di contesto. Le singole competenze sono state descritte attraverso alcuni comportamenti. È stato elaborato un questionario somministrato in forma anonima al quale hanno risposto oltre un centinaio di docenti. A loro è stato chiesto di valutare sia il livello di importanza attribuito ai vari ‘agiti’, sia il livello di realizzazione nel contesto di lavoro. Sul podio troviamo le competenze affettivo-relazionali, quelle personali e quelle andragogiche. Fin qui nessuna sorpresa. Il risultato meno prevedibile è l’importanza marginale attribuita alle competenze di equipe e a quelle di rete che si collocano rispettivamente al settimo e all’undicesimo posto. In un contesto caratterizzato dalla complessità e dal disagio, ci si sarebbe aspettati che il gioco di squadra, la cooperazione tra diverse figure professionali, la condivisione del lavoro, così come la ricerca congiunta di soluzioni e la ricerca di sinergie per raggiungere obiettivi comuni, fossero ritenute competenze strategiche fondamentali. Una prima ipotesi avanzata dai ricercatori per leggere il dato che è che la scarsa importanza attribuita alle due competenze sia in parte dovuta agli scarsi spazi di agibilità a esse riservati dai Cpia stessi. È evidente il contrasto tra il compito formalmente attribuito ai Cpia e la realtà del loro funzionamento. È come se la scuola in carcere non sia ancora riuscita a emergere dal cono d’ombra dove da sempre è relegata. In generale, la ricerca ha evidenziato lo scarto tra l’importanza attribuita alle singole competenze e la valutazione dell’effettiva realizzazione e praticabilità dei comportamenti a esse correlati. Il dato si può leggere da un punto di vista positivo: gli insegnanti sono in grado di valutare la loro situazione professionale in termini oggettivi e propositivi, di sapere fare un’analisi lucida e propositiva degli spazi di miglioramento e di crescita professionale. Di contro, emerge la constatazione che il patrimonio delle competenze effettivamente agite è assai limitato. Ciò genera inevitabilmente la frustrazione professionale, “l’idea retorica” di cui parlava Albinati. I risultati dell’indagine sono stati pubblicati nel Rapporto di ricerca sul sito del Centro di ricerca, Sperimentazione e Sviluppo del Lazio. Le visite - L’isolamento e la chiusura sono dimensioni dominanti nel vissuto di chi insegna in carcere e ne condizionano la percezione esterna, persino da parte dei colleghi dei Cpia. Le visite programmate in alcuni istituti del Lazio, nell’ambito della ricerca azione hanno rappresentato un’occasione per conoscere e confrontarsi tra addetti ai lavori. Nei mesi di maggio e giugno 2019 abbiamo incontrato docenti e personale della casa circondariale di Velletri e di quella di Civitavecchia. Era la prima volta che un gruppo di insegnanti del carcere si spostava dalla propria sede di lavoro per visitarne un’altra ma è stata anche la prima volta che ai direttori degli istituti è arrivata una richiesta simile. Per un giorno un gruppo di docenti è uscito dal carcere e un altro gruppo ha aperto le porte delle proprie aule per accoglierli. Voglio sottolineare un aspetto poco evidente che ha dato all’esperienza delle visite un valore aggiunto: la collaborazione e il dialogo interprofessionale. Mi spiego meglio: per chi conosce il carcere, ogni piccolo cambiamento nell’organizzazione può diventare un grande problema. Nell’organizzazione rigida e statica degli istituti, tollerare un giorno senza lezioni laddove i docenti si sono spostati e aprire le porte a un gruppo di circa venticinque persone da parte di chi ci ha ospitati, non sono aspetti trascurabili. Abbiamo dimostrato che si può fare e che ne vale la pena. Nei limiti di un’esperienza priva di continuità e dei requisiti necessari per definirla una vera e propria pratica formativa, si può dire che l’idea abbia funzionato. Per renderla efficace, sarebbe necessario strutturare momenti di formazione simili, sul modello dello job shadowing, una breve esperienza di osservazione partecipativa presso un’altra organizzazione simile. Gli obiettivi sono molteplici e riconducibili alla formazione del personale attraverso la condivisione di buone pratiche e lo scambio di conoscenze e di esperienze. *Dirigente scolastico del Cpia3 di Roma Bonafede e il caso Palamara: “Non riguarda una persona” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 24 giugno 2020 Il Guardasigilli: emerso un sistema, le istituzioni devono reagire. E vede il Csm sulla riforma. “Si sbaglia a circoscrivere tutto a una persona”. Dopo giorni di assoluto silenzio il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, titolare dell’azione disciplinare sulle toghe, commenta il caso Palamara e la deriva morale “che fa perdere credibilità alla magistratura”. Lo fa intervenendo in memoria del giudice Mario Amato ucciso dai Nar 40 anni fa. Sottolineando “le doti morali, il contegno deontologicamente irreprensibile, modello a cui tutti dovrebbero ispirarsi”. Non entra nel merito delle manovre per pilotare le nomine degli uffici giudiziari. Il ministero, dice, “sta facendo le sue valutazioni. È evidente che la vicenda fa venire fuori un sistema rispetto al quale le istituzioni devono reagire. Ma si sbaglia a fare di tutta l’erba un fascio, perché dobbiamo tutelare e proteggere la stragrande maggioranza dei magistrati”. “Bisogna che le istituzioni sappiano reagire”, dice. La reazione da tutti invocata sono le riforme. Che possano spazzare via quello che ieri il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra (M5S) definiva un “sistema marcio del quale Palamara era consapevole”. A che punto sono le riforme? “C’è una bozza in stato avanzatissimo. In dirittura d’arrivo”, assicura Bonafede. Il ministro conta di portarlo in Consiglio dei ministri la prossima settimana. Già valutato in incontri con maggioranza e opposizione, con l’Anm e, ieri, con il Csm, il provvedimento prevede la riforma delle elezioni del Csm, senza sorteggio, ma con collegi più piccoli e l’ipotesi del ballottaggio e che chi rientra dal Parlamento non può tornare a esercitare una funzione requirente o giudicante, ma solo incarichi fuori ruolo. “Una riforma - spiega il sottosegretario alla giustizia Andrea Giorgis -, sia chiaro, non contro la magistratura e la sua autonomia, pensata e predisposta all’esclusivo fine di preservarne credibilità e autorevolezza”. L’urgenza è scandita dalle rivelazioni di Palamara che a Radio 1 in Viva Voce, spiega: “Le telefonate servivano a individuare e scegliere il miglior candidato”. E rivendica che nei posti migliori “c’era impegno di tutti per selezionare il migliore. E la scelta che è stata fatta sui posti più importanti è una scelta adeguatamente e attentamente ponderata per valorizzare il più bravo”. Ma poi ammette: “E innegabile che chi non faceva parte del sistema delle correnti sia stato fortemente penalizzato”. Intanto gli avvocati sono scesi in piazza in tutta Italia per protestare contro “i ritardi che stanno caratterizzando la ripresa dell’attività giudiziaria”. Riforma del Csm, Salvi e le toghe di sinistra bocciano il maggioritario di Bonafede di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 24 giugno 2020 Il nuovo sistema elettorale immaginato dal ministro per l’elezione di giudici e pm nel Consiglio superiore si avvicina al varo, ma piace sempre meno ai diretti interessati. Area, la corrente di sinistra, dice no al “bipolarismo nella magistratura”. E il pg della Cassazione Salvi definisce il metodo “totalmente da espellere”. “Il Consiglio superiore della magistratura non è un piccolo parlamento. È un organo deputato all’amministrazione della giustizia, non deve governare secondo maggioranza”. E dunque “il principio maggioritario è totalmente da espellere”. Bocciatura più netta del nuovo sistema elettorale per i magistrati nel Csm non poteva arrivare, A firmarla è direttamente il procuratore generale della Cassazione, il primo magistrato dell’accusa nel nostro sistema, Giovanni Salvi. Anche lui ex componente del Csm, Salvi è intervenuto ieri a una giornata di riflessione sulla riforma del Consiglio superiore organizzata da Area democratica per la giustizia, la corrente di sinistra delle toghe. E ha lanciato il suo avvertimento: “C’è il rischio che le modifiche possano enfatizzare i problemi che si vogliono risolvere”. Le modifiche sono quelle che stanno nella bozza che il ministro Bonafede da settimane porta con sé in riunioni di maggioranza o in incontri con i rappresentanti degli avvocati penalisti e dei magistrati. Il progetto di riforma del Csm, rimandato a febbraio ma poi recuperato a maggio su richiesta del Pd in risposta alle nuove puntate delle intercettazioni di Palamara, per il ministro della giustizia è ormai alle battute finali. Annunciato per il Consiglio dei ministri di inizio giugno, dovrebbe arrivarci effettivamente entro la fine del mese. Al centro ha la nuova legge elettorale per la componente togata del Csm, che con l’occasione passa da sedici a venti magistrati, abbandonando il sistema a collegio unico nazionale per un sistema uninominale maggioritario con venti collegi (18 territoriali più due per Cassazione e fuori ruolo). Il sistema dovrebbe in teoria penalizzare il ruolo delle correnti. Neanche la magistratura associata - di fronte allo scandalo delle nomine barattate su cui indaga la procura di Perugia - ormai contesta più l’obiettivo. Ma lo strumento sì. Il sistema pensato da Bonafede riceve nuove critiche ogni giorno che si avvicina il momento del varo ufficiale in Consiglio dei ministri. Dovrebbe avvantaggiare i raggruppamenti maggiori, favorendo un bipolarismo destra (Magistratura indipendente) - sinistra (Area), ma ieri proprio le “toghe rosse” hanno articolato la loro contrarietà. “No alla bipolarizzazione della magistratura”, ha detto il segretario di Area Eugenio Albamonte. Contro si è già espressa la corrente di Davigo. Pesa il precedente, la riforma del centrodestra che nel 2002 proprio nel segno del maggioritario si proponeva di stroncare le correnti. Fallì immediatamente. La proposta Bonafede mette insieme uninominale, doppio turno (se nessun candidato raggiunge il 65%) e multi preferenze (fino a tre). Una “miscela esplosiva”, ha detto il costituzionalista Imarisio ieri al convegno di Area. “I magistrati non sono molti, in ogni collegio i votanti saranno circa 450 - ha aggiunto il costituzionalista Grosso - il rischio notabilato è altissimo”. A difendere la riforma e anche il sistema elettorale - “il doppio turno è più convincente” - il vice segretario del Pd ed ex Guardasigilli Andrea Orlando. Raggiunto l’accordo con i 5 Stelle sul nodo dei consiglieri laici - i grillini hanno rinunciato a pretendere l’ineleggibilità dei membri del parlamento, norma valida per il futuro ma che avrebbe messo in forte imbarazzo l’attuale vice presidente del Csm Ermini, appunto ex deputato Pd - i democratici sostengono la riforma Bonafede. “Non è contro la magistratura ma per preservare la credibilità e l’autorevolezza”, ha spiegato il sottosegretario Giorgis. Per Orlando la sezione disciplinare, quella che si occupa di giudicare i magistrati per le violazioni deontologiche e di condotta, dovrebbe uscire dalla giurisprudenza “domestica” del Csm. Dove ha dato prove “non entusiasmanti”. Non se ne parla, invece, secondo il pg Salvi. Anche perché per farlo andrebbe riformato l’articolo 105 della Costituzione. Se via Arenula è nelle mani delle toghe resiste la tesi dell’autoriforma del Csm di Francesco Damato Il Dubbio, 24 giugno 2020 A Palazzo dei Marescialli pensano di aver risolto il problema espellendo Palamara. Ma la politica non riesce a rialzare la testa. La “guerra per bande togate” - che è un’espressione forte usata non dal Dubbio di Carlo Fusi di fronte ai clamorosi sviluppi della vicenda di Luca Palamara ma dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, non certamente sospettabile di pregiudizio o animosità verso la magistratura- rimanda un po’ al vecchio proverbio sul lupo che perde il pelo ma non il vizio. I peli nel nostro caso sono quelli dello stesso Palamara - appena espulso per violazione del codice etico dall’associazione nazionale dei magistrati, di cui fu anche presidente prima di approdare al Consiglio Superiore nel Palazzo dei Marescialli- e degli altri uomini in toga che hanno partecipato con lui alla gestione correntizia delle carriere. Alcuni dei quali - una ventina- sono già sotto osservazione al Consiglio Superiore e potrebbero incorrere in guai disciplinari e persino giudiziari. Il vizio, sempre nel nostro caso, è quello dell’associazione, o sindacato, dei magistrati di reclamare praticamente autoriforme della magistratura, quando ne esplodono i problemi, considerando quelle elaborate nella sola sede legittima, che è il Parlamento, una prevaricazione, una punizione, o una “resa dei conti”, come ha scritto Giancarlo Caselli, fra la politica che vuole riprendersi il primato perduto e le toghe che glielo hanno in qualche modo sottratto. Della permanenza di questo vizio, o tentazione, deve essersi accorto il vice presidente del Consiglio Superiore Davide Ermini, vice di Sergio Mattarella nel Palazzo dei Marescialli, se ha tenuto a ricordare nei giorni scorsi, in una intervista al Corriere della Sera, che “come azzerare il peso delle correnti all’interno del Csm è decisione che spetta al governo e al Parlamento”, non quindi all’associazione composta dalle correnti e convinta - par di capire - di avere fatto tutto il necessario e possibile espellendo Palamara: cosa che il già citato Caselli ha definito “colpo di reni”. Temo che a far maturare nel vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura il sospetto che ancora una volta le toghe pensino non a una riforma ma a un’autoriforma sia stata la fretta con la quale, mentre l’associazione espelleva Palamara, il presidente Luca Poniz le rivendicava il merito di essersi guadagnato il consenso del ministro della Giustizia a buona parte delle proposte da essa formulate. E ciò a cominciare, naturalmente, dal veto ad ogni forma di sorteggio per la designazione dei consiglieri togati, neppure per una preselezione di candidati da sottoporre poi all’elezione di cui parla esplicitamente, e vincolativamente, l’articolo 104 della Costituzione, tanto decantato e difeso dagli organismi rappresentativi dei magistrati. Purtroppo la forza delle resistenze ad una riforma vera della magistratura e, più in generale, del sistema giudiziario, capace di sradicare brutte abitudini e quant’altro, non sta solo nell’associazionismo correntizio e parapolitico quale è maturato negli almeno ultimi trent’anni, ma nel fatto che il Ministero della Giustizia, a dispetto della natura tutta o prevalentemente politica di chi lo guida di volta in volta, nella successione dei governi e delle relative maggioranze, è di fatto nelle mani dei magistrati. La burocrazia, o l’alta burocrazia di quel dicastero è tutta giudiziaria. E non vi è ministro che possa resisterle più di tanto. Immagino già una smorfia di dissenso del guardasigilli in carica Alfonso Bonafede. Nei cui riguardi non mi fa velo - glielo assicuro - uno scambio, diciamo così, forte di opinioni avuto nella scorsa legislatura, nel Transatlantico di Montecitorio ancora aperto alla stampa parlamentare, per avere egli sostenuto la sera prima in un salotto televisivo che noi giornalisti, specie quelli pensionati, fossimo dei “lobbisti”, in grado meglio di altri di rappresentare gli interessi di aziende, settori e quant’altri, fra le anticamere delle commissioni e dell’aula, nel traffico di emendamenti, sub-emendamenti e varie a leggi finanziarie e provvedimenti specifici. Non ci lasciammo nel migliore dei modi, in quell’occasione, perché l’allora semplice deputato Bonafede mi disse che avrebbe ribadito le sue convinzioni alla prima occasione che gli fosse capitata. Lui è fatto così: combattivo, diciamo. Ebbene, con la mia purtroppo vecchia esperienza professionale e di rapporti personali, vorrei assicurare Bonafede di avere visto condizionati inconsapevolmente dalla burocrazia giudiziaria del suo dicastero fior di ministri con esperienze universitarie e forensi alle spalle maggiori delle sue per ragioni quanto meno anagrafiche. Penso, per esempio, al compianto Giuliano Vassalli. Che da ministro della Giustizia, tra l’autunno del 1987 e i primi mesi del 1988, propose e fece approvare rapidamente dalle Camere una legge di disciplina della responsabilità civile dei magistrati che vanificava di fatto la via libera a quella responsabilità data a larghissima maggioranza dagli elettori in un referendum promosso dai radicali e sostenuto con particolare vigore dal Psi - il partito dello stesso Vassalli sull’onda della vicenda di Enzo Tortora. Che era stato sbattuto in galera, in una retata di centinaia di camorristi poi risultati più presunti che veri, ed aveva dovuto subire il supplizio di un processo destinato a restituirgli dopo anni l’onore ma non la salute. Egli morì di tumore proprio nel 1988, pochi mesi dopo l’approvazione della legge Vassalli, all’ombra della quale molti altri errori giudiziari sarebbero stati compiuti senza danni, o quasi, per i loro responsabili. Veleni Csm: ricorso per la nomina al vertice della Procura di Roma di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 24 giugno 2020 Rischia il terremoto la procura di Roma. I grandi esclusi alla corsa alla scrivania che fu di Giuseppe Pignatone, impugnano la nomina dell’attuale numero uno dei pm capitolini, Michele Prestipino, di fronte al Tar. Marcello Viola procuratore generale a Firenze e Giuseppe Creazzo procuratore capo a Firenze sperano in un ribaltamento. Puntano, e non solo, sui loro titoli direttivi che valutano essere superiori rispetto a quelli di Prestipino e che il Csm non avrebbe adeguatamente soppesato. Il tribunale amministrativo del Lazio potrebbe esprimersi in un anno, sei mesi se venisse data la priorità al fascicolo. La battaglia al Tar è l’effetto collaterale delle chat di Luca Palamara. Il magistrato espulso dall’Anm, sospeso dalle sue funzioni dal Csm, perché indagato per corruzione e coinvolto l’anno scorso nelle trame all’hotel Champagne con 5 consiglieri del Csm, proprio per la nomina del procuratore capo a Roma. Dalle chat, in generale, emergono gli accordi tra correnti, a discapito del merito dei candidati per ricoprire posizioni nei ministeri, nelle procure e nei tribunali. Per questo molti togati si preparano a presentare ricorsi. Prima dello scandalo Palamara, il Csm pareva orientato a nominare proprio Viola in corsa con Creazzo e Francesco Lo Voi. Viola, però, mai finito implicato nelle conversazioni con Palamara, pagò il fatto di essere il candidato designato dallo stesso pm. Il terremoto delle chat determinò le dimissioni a catena di diversi consiglieri di Mi in seno a Palazzo dei marescialli. L’ala conservatrice delle toghe, allora maggioranza al Csm, che spingeva proprio per Viola, membro della stessa corrente. Le dimissioni comportarono un ribaltamento degli equilibri dentro Palazzo dei marescialli a favore del fronte progressista. Andiamo con ordine. Il 23 maggio la V Commissione esprime al plenum del Csm tre candidati: Viola con 4 voti (D’Avigo di A&I, Gigliotti, laico 5 Stelle, Lepre di Mi e Basile laico della Lega), uno per Creazzo (Morlini di Unicost) e uno per Lo Voi (Suriano di Area). La perquisizione, il 30 maggio a Palamara, cambia radicalmente lo scenario. I consiglieri di Mi Cartoni, Lepre e Criscuoli e Morlini di Unicost, si dimettono. Il Csm cambia assetto. Viola esce dai radar, l’outsider è Prestipino, fedelissimo di Pignatone, magistrato di grande esperienza ma senza precedenti incarichi direttivi, come ritengono i legali di Viola e Creazzo. Ad ogni modo nella seduta del 14 gennaio 2020 la V Commissione formula tre nuove proposte: Lo Voi sostenuto da Micciché di Mi e da Cerabona, laico di Forza Italia, Creazzo da Mancinetti di Unicost e Prestipino da D’Avigo di A&I. Il 4 marzo 2020 in plenum, a seguito di un doppio ballottaggio, nomina Prestipino sostenuto da cinque togati di Area, la corrente di sinistra tre di Unicost, i centristi, tre di Autonomia e Indipendenza, due laici del M5S e dal procuratore generale della Cassazione Salvi.Gli avvocati di Viola, Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, sostengono che il Csm da un lato ha ammesso come fosse acclarato il “mancato coinvolgimento” di Viola rispetto al procedimento di Perugia e che lo stesso fosse “parte offesa rispetto alle macchinazioni o aspirazioni di altri”; ma dall’altro lato ha “illegittimamente - sottolineano i legali - revocato l’originaria proposta a favore di Viola”. Il Csm - aggiungono gli avvocati - avrebbe valorizzato il radicamento territoriale di Prestipino nella Procura di Roma, senza condurre correttamente il giudizio comparativo e omettendo di valutare i numerosi titoli e le importanti esperienze vantate da Viola”. Riformare, abolire? C’è una terza via per il reato fantasmatico dell’abuso d’ufficio di Giovanni Fiandaca e Andrea Merlo Il Foglio, 24 giugno 2020 Riformare o abolire l’abuso d’ufficio, cioè un reato un po’ fantasmatico modificato già tre volte dai legislatori di turno con poco successo (nel 1990 e nel 1997 nella struttura, e nel 2012 solo per elevare la pena detentiva da tre a quattro anni)? La tentazione di riformare precedenti riforme, che come una coazione a ripetere rivela e comprova la grave e persistente nevrosi politica italiana, riemerge ciclicamente appunto anche rispetto a questo controverso reato. Ad esempio, nel maggio dello scorso anno col governo gialloverde ancora in carica, il pentastellato Di Maio respingeva moralmente sdegnato una proposta abolitrice del leader leghista con queste parole: “Quando un ministro come Salvini dice che vuole abolire l’abuso d’ufficio e ha un governatore indagato per quel reato (…) sta dando un pessimo segnale al paese”. Con l’attuale governo giallorosso, la sollecitazione a intervenire in materia proviene invece da una fonte ben più rassicurante e qualificata anche sotto l’aspetto tecnico: alludiamo al recente “annuncio” del presidente Conte di un possibile intervento sull’abuso d’ufficio, finalizzato - come egli ha spiegato in una lettera al Corriere della Sera - a ridurre il rischio penale gravante sui pubblici funzionari e a prevenirne, di conseguenza, quegli atteggiamenti di cautela autodifensiva che inibiscono il buon funzionamento della Pubblica amministrazione (si veda su questo giornale l’articolo di Antonucci del 28 maggio scorso). Considerata la maggiore autorevolezza e credibilità di Conte, è bastato questo suo semplice annuncio a stimolare un dibattito tra esperti che va proseguendo su vari giornali. Se esiste una convinzione comune, questa risiede nella presa d’atto che l’attuale gestione giudiziaria dell’abuso d’ufficio risulta assai poco soddisfacente: per cui i costi individuali e sociali dell’applicazione (assai più tentata che portata a compimento!) di questa fattispecie criminosa sopravanzano, di gran lunga, i potenziali vantaggi in termini repressivi e preventivi. Lo dicono le statistiche e lo conferma la voce dei magistrati che indagano o giudicano. In sintesi, si concorda sull’enorme sproporzione tra il numero delle indagini avviate dalle procure e le condanne effettive: ad esempio, secondo l’Istat, nel 2017 a fronte di oltre 6.500 procedimenti aperti sono state soltanto in numero di 57 le persone condannate con sentenza irrevocabile (cfr. per ulteriori dati il Sole 24 Ore del 15 giugno 2020). Nello spiegare questo impressionante divario, i pubblici ministeri sono soliti porre l’accento sulla difficoltà di prova, e ciò riguardo sia alla condotta abusiva sia all’elemento soggettivo (costituito in questo caso - per espressa previsione legislativa - dalla forma più intensa di volontà colpevole, cioè il dolo cosiddetto intenzionale). Rileva, non a caso, il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo: “L’atto del pubblico ufficiale può anche essere illegittimo ma senza quel ‘dolo intenzionalè di arrecare un vantaggio a un terzo l’accusa crolla”; e, come lo stesso Ielo nota, non basta riscontrare in un atto una qualsiasi forma di illegittimità per diagnosticare un abuso punibile (Intervista al Sole 24 Ore, 15 maggio 2020). Ed è proprio questo il punto nodale sul piano del cosiddetto elemento oggettivo del reato di abuso: è sufficiente la più piccola illegittimità amministrativa anche di natura procedimentale, o basta il noto vizio dell’eccesso di potere a integrare una condotta rilevante anche penalmente? La tormentata storia del reato di abuso d’ufficio è stata per lungo tempo attraversata da interrogativi e dubbi di questo tipo, con risposte tutt’altro che certe e univoche da parte degli interpreti dottrinali e giurisprudenziali. Fino a quando la riforma del 1997 ha tentato di risolvere il problema in un modo che sembrava tagliare la testa al toro: precisando cioè che le modalità di realizzazione di un abuso punibile devono consistere nella “violazione di norme di legge o di regolamento” (con questa puntualizzazione il legislatore dell’epoca intendeva circoscrivere la discrezionalità valutativa della magistratura, escludendo che potesse costituire reato un esercizio pur distorto del potere amministrativo che non derivasse, però, dalla inosservanza di una specifica disposizione legislativa o regolamentare). Quale ne fu la ricaduta sul piano giudiziario? In un primo tempo, la giurisprudenza obbedì al legislatore, applicando l’abuso nei limiti voluti da quest’ultimo. Gradualmente, l’obbedienza andò regredendo per effetto di progressive forzature ermeneutiche della fattispecie, e questo sino ad arrivare a una sua sostanziale riscrittura grazie a un ricercato aggancio alla Costituzione. Cioè la Cassazione, mossa dalla preoccupazione di lasciare impunite forme di esercizio a suo giudizio arbitrarie della discrezionalità amministrativa, ha finito col restaurare e aggiornare una tesi - invero preesistente rispetto alla riforma del 1997 - riassumibile così: l’abuso punibile può anche derivare da un contrasto tra la condotta tenuta dal pubblico funzionario e i principi generali di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., così come interpretati beninteso dagli stessi giudici nei casi concreti, e ciò nonostante la mancanza - appunto - di norme esplicite e specifiche che obblighino ad agire nel senso ritenuto corretto (una dettagliata ricostruzione di questo percorso giurisprudenziale, evolutivo o involutivo a seconda dei punti di vista, è rinvenibile nel recente libro di A. Merlo, “L’abuso di ufficio tra legge e giudice”, Giappichelli, 2019). Ora, tenendo conto della ricorrente tendenza della magistratura a dilatare per via interpretativa i limiti testuali delle norme prodotte dal potere politico-legislativo, una ulteriore modifica del testo dell’art. 323 del codice parrebbe sconsigliabile: nulla può infatti garantire in anticipo che una nuova riscrittura del reato di abuso non venga tradita da future letture giurisprudenziali a carattere manipolativo. Meglio abolirlo del tutto, allora? È questa la strada suggerita da qualche autorevole esperto, come ad esempio l’ex procuratore di Roma Pignatone: il quale propone però di sostituire l’abuso d’ufficio con figure criminose più specifiche, volte a incriminare condotte illecite in particolare in materia di appalti, o a tutela della concorrenza, che in atto vengono riversate nel genericissimo contenitore del reato di abuso a causa della mancanza di più puntuali figure criminose (cfr. la Stampa del 14 giugno). Pur trattandosi di una proposta che ha un senso sotto l’aspetto tecnico, un’obiezione di fondo rimane questa: perché contrastare le condotte illecite con il continuo incremento delle fattispecie di reato, che finisce con l’aggravare l’obesità già gravissima della legislazione penale, mentre si dovrebbero più opportunamente incrementare le forme di controllo e di sanzionamento extra penali? Ipotizzando l’abolizione secca dell’abuso, incombe tuttavia una preoccupazione che si riconnette, al di là dei risvolti più strettamente tecnico-giuridici, agli orientamenti politico-culturali di fondo di una parte almeno della magistratura italiana. Se cioè persistesse anche in futuro (come sembra, allo stato, prevedibile) la tendenza a esercitare il cosiddetto controllo di legalità sull’esercizio dei pubblici poteri in forme intense e pervasive, diventerebbe concreto un rischio: vale a dire, che il vuoto repressivo lasciato dall’abolito reato di abuso venga riempito attraverso una reinterpretazione in chiave estensiva di fattispecie ben più gravi, come ad esempio il reato di corruzione (cfr. l’articolo di Fiandaca pubblicato su queste colonne il 9 giugno 2020 a proposito, ad esempio, della controvertibile ipotizzabilità del reato di corruzione nel caso della spartizione concordata dei giudizi di idoneità a professore universitario). In effetti, come ha ben rilevato anche Tullio Padovani (cfr. il Riformista del 30 maggio 2020), dietro la dibattuta vicenda dell’abuso d’ufficio non ci sono solo questioni interpretative derivanti dalla formulazione legislativa del reato: c’è il problema forse più decisivo del contingente modo d’atteggiarsi dei rapporti tra magistratura (specie d’accusa) e soggetti titolari di poteri politico-amministrativi; un problema dunque, più che tecnico, di cultura e politica della giurisdizione! Così stando le cose, se mutasse la cultura di fondo della maggioranza dei pubblici ministeri e dei giudici, potremmo forse anche lasciare l’abuso d’ufficio nella veste normativa attuale: potrebbe essere sufficiente non coltivare le notizie di reato più labili e incerte, limitare le indagini ai casi di condotta illegittima evidente sin dall’inizio e, soprattutto, recuperare quell’orientamento interpretativo - manifestatosi subito dopo la riforma del 1997 e poi abbandonato - che, in conformità alle indicazioni del legislatore, circoscriveva la punibilità ai soli casi in cui l’abuso nascesse dalla inosservanza di precise disposizioni legislative o regolamentari disciplinanti l’assetto sostanziale degli interessi in gioco. Ma, verosimilmente, pretendere inversioni di tendenza motivate da sopravvenuto - per dir così - ravvedimento ermeneutico, a vantaggio di un più equilibrato rapporto tra i poteri e di un più efficace funzionamento della pubblica amministrazione, è a tutt’oggi illusorio: equivarrebbe a rinunciare all’uso dello strumento penale per scopi di moralizzazione collettiva. Siamo pronti per questo recupero di democrazia liberale? Una giornata per Tortora e le altre vittime di Franco Dal Mas Il Riformista, 24 giugno 2020 In Senato c’è un disegno di legge per istituirla. L’iter è iniziato il 17 giugno scorso, a 37 anni esatti dall’arresto del giornalista. Una iniziativa necessaria: ogni anno mille persone risarcite per essere finite in carcere da innocenti. “Gli innocenti non finiscono in carcere, gli innocenti non finiscono in carcere”. La stessa frase ripetuta due volte, non è dato sapere se per ribadire il concetto o autoconvincersi. A pronunciarla, i l 24 gennaio scorso il ministro del l a Giustizia Alfonso Bonafede. Perché rispolverare una del le uscite più improvvide del Guardasigilli? Perché il 17 giugno scorso - esattamente 37 anni dopo l’arresto di Enzo Tortora - in Senato è iniziato l’iter per l’istituzione della giornata delle vittime degli errori giudiziari. Un disegno di legge che parte da una storica battaglia radicale e che nascerà sulla scorta di due proposte, tra loro molto simili, presentate dai senatori Ostellari (Lega) e Faraone (Iv). Una convergenza che fa ben sperare in vista di una rapida e unanime approvazione, così che il 17 giugno del 2021 si possano ricordare ufficialmente Enzo Tortora e tutte le vittime di errori giudiziari. Era necessario mettere i l sigillo dello Stato istituendo una solennità civile? La risposta è nell’articolo 27 della Costituzione - la presunzione di non colpevolezza (che per qualcuno dalle parti della magistratura e del governo, sembra un principio obliterato) e i numeri: su circa 60mila detenuti nelle sovraffollate carceri italiane quasi 10mila sono in attesa di primo giudizio e poco più di novemila non hanno ricevuto una sentenza definitiva; nel 2018 sono state pronunciate 257 sentenze di assoluzione nei confronti di imputati per cui era stata disposta la misura cautelare in carcere; ogni anno - ricordano i creatori del progetto “errori giudiziari” Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone - si registrano circa 1000 casi di riparazioni per ingiusta detenzione. A questi vanno aggiunti i relativamente pochi (ma anche uno è di troppo) casi di persone - una media di cinque ogni anno - per le quali la revisione del processo ha portato a un annullamento della sentenza definitiva di condanna. Numeri impressionanti che meri tano una giornata di riflessione e, come ha ricordato l’avvocato Franco Coppi, l’impegno a cancellare dal vocabolario della politica espressioni come “marcire in carcere” o “buttare via la chiave”. Ma non basta: servono anche e soprattutto radicali (la scelta dell’aggettivo non è casuale) interventi normativi: le forze politiche stanno balbettando di riforma del processo penale e civile, di riforma del Csm, di separazioni delle carriere, di revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Tutto giusto, ma forse, per iniziare, basterebbe porre fine ad una riforma, quella della prescrizione, in vigore da gennaio di quest’anno che di fatto consegna una delega di potere in bianco all’autorità giudiziaria che fa sprofondare l’imputato nell’abisso delle impugnazioni. Né quest’ultimo né gli altri interventi saranno con ogni probabilità realizzati da un governo e da una maggioranza in cui la golden share è di un movimento che fa del populismo giustizialista e del furore normativo i suoi mantra e del la tendenza a risolvere la complessità con la complicatezza la linea d’azione. Nonostante la non unanimità di visioni che si registra anche nel centrodestra, Forza Italia proseguirà le sue battaglie sulla giustizia con coerenza. Il problema di fondo, come ha giustamente ricordato Silvio Berlusconi in una recente intervista rilasciata al Riformista, è lo status della Magistratura da trent’anni a questa parte: non un ordine, come prevede l’articolo 104 della Costituzione, ma un vero e proprio potere che ha strabordato approfittando della debolezza della politica sin dagli anni di Tangentopoli: la conferenza stampa del pool di Mani Pulite contro il decreto legge “Conso”, poi non controfirmato dal presidente della Repubblica Scalfaro, la presentazione a favore di telecamere di una proposta di legge redatta dal pool stesso, le agguerrite dichiarazioni dei magistrati quali “rivoltare l’Italia come un calzino” sono lì a ricordarcelo. Le cronache ci dicono che a distanza di quasi trent’anni le cose non sono cambiate e le tecnicalità sull’elezione dei membri togati del Consiglio superiore della Magistratura potrebbero diventare orpelli, inutili imbellettamenti che non vanno ad incidere sul problema: la mutazione di un ordine autonomo e indipendente in autentico potere che come tale deve essere trattato. No al sequestro conservativo applicato senza motivazione sulla necessità di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione III Penale - Sentenza 23 giugno 2020 n. 19058. Il sequestro conservativo è legittimamente applicato se è necessario a garantire il futuro pagamento della pena pecuniaria, delle spese di giudizio o di altra somma che risulti dovuta all’Erario da parte del condannato. In assenza di tali esigenze di garanzia la misura cautelare reale risulta applicata in modo illegale. Per tali motivi la Corte di cassazione penale con la sentenza n. 19058, depositata ieri, ha annullato con rinvio la decisione di condanna emanata a seguito di patteggiamento per la detenzione di oltre due etti di marjuana, proprio sul punto del sequestro. Presupposti - È, infatti, necessario che il giudice che dispone la confisca del denaro dia sufficiente motivazione in armonia con la norma dell’articolo 316 del Codice di procedura penale che reca appunto i presupposti dell’applicazione del sequestro conservativo. Nel caso in esame era stata sottoposta - in assenza di specifica motivazione - a sequestro la cifra di oltre 5mila euro a fronte di una condanna patteggiata comprensiva della multa di circa 6mila euro. Ma il fatto che sia dovuta la sanzione pecuniaria non è di per sé presupposto sufficiente, va appunto dimostrata la sussistenza del rischio del non pagamento legato alle condizioni personali ed economiche del condannato Roma. Gli avvocati celebrano il funerale della Giustizia “Avete ucciso i diritti” di Simona Musco Il Dubbio, 24 giugno 2020 La giustizia è “morta”, vittima di una politica che non le riconosce il suo ruolo fondamentale nella società, ovvero quello di “sistema sanitario” della legalità del Paese. E per manifestarlo, decine di avvocati si sono ritrovati ieri davanti alla Cassazione, con tanto di bare e manifesti funebri, per celebrarne il funerale e chiedere al Governo un impegno concreto per far ripartire veramente la Giustizia. È questo il senso del flash mob di ieri, organizzato dall’Ordine degli avvocati di Roma e partecipato dalle associazioni forensi, che si sono riunite per mandare un segnale forte, esponendo lo striscione col motto “# non ti posso difendere” e sottolineare che “è morta la tutela dei diritti e delle libertà di milioni di cittadini”, come recita l’annuncio funebre esibito dagli avvocati. Una manifestazione che ha rappresentato l’urlo degli avvocati italiani, “stanchi di promesse non mantenute, di vedere i diritti dei cittadini relegati all’ultimo posto dell’agenda di governo, di udienze rinviate, di processi telematici farraginosi”, ha spiegato il presidente del Consiglio dell’Ordine Antonino Galletti. Parlando a nome del “popolo degli avvocati”, Galletti si è rivolto direttamente a Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede, chiedendo “una maggiore attenzione per il comparto della Giustizia”, che in tre mesi di lockdown ha incassato lo stop dell’80% dei processi civili e penali. “Noi siamo il fanalino di coda della ripartenza del nostro Paese, non possiamo permettercelo perché noi avvocati vogliamo tutelare i diritti e le libertà dei cittadini stando al loro fianco e i nostri studi costituiscono tanti presidi di legalità sul territorio”, ha sottolineato. Ma nonostante ciò, i tempi della Giustizia sono ancora imbrigliati in miriade di linee guida - circa 500 -, assunte dai vari capi degli uffici giudiziari per volere proprio del Governo, che nella gravosa gestione dell’emergenza ha di fatto delegato ai singoli la gestione di uno dei settori fondamentali della società. “Il ministro deve assumersi la responsabilità politica delle scelte - ha affermato Galletti - e adottare delle linee guida uniformi su tutto il territorio. È necessario che le udienze ricomincino a volgersi in condizioni normali. Riteniamo si possa ripartire in sicurezza con il rispetto delle norme sanitarie”. La situazione è difficile in tutto il Paese, ma Roma vale come esempio delle difficoltà strutturali, che precedono l’emergenza e che oggi, con i processi praticamente fermi, diventano ancora più evidenti: nella Capitale, infatti, gli uffici giudiziari si trovano per lo più in caserme inadatte, nonostante esistano strutture già individuate ma ferme da anni, con piante organiche sguarnite. E servono strumenti informatici, senza i quali ogni opzione di processo da remoto - pur respinta dall’avvocatura - risulta impossibile. “Non abbiamo nessun particolare piacere a entrare nelle cancellerie, rischiando di infettarci e infettare, vogliamo fare tutto per via telematica e andare in tribunale solo per fare le udienze, nel posto che compete all’avvocatura”, ha aggiunto Galletti. In un mondo sempre più informatizzato, dove tutto è possibile con un click, la Giustizia risulta infatti ferma alla preistoria anche per questioni semplici, come ottenere le copie di un atto. “Non è più accettabile”, ha ribadito il presidente del CoA, spalleggiato da Giovanni Malinconico, a capo dell’Organismo congressuale forense. Che ha ribadito la battaglia “unitaria” dell’avvocatura affinché sia possibile “la tutela dei diritti di tutti”, ricordando come la Giustizia non sia solo il processo dal grande clamore mediatico. “Ci si dimentica che nei nostri tribunali sono ostaggio di un sistema inefficiente i diritti dei cittadini, delle imprese e del sistema Italia. Non c’è ripresa del Paese se non riprende la Giustizia”, ha urlato dal palco. Per questo, ha spiegato Malinconico, l’avvocatura ha chiesto al Governo “un piano straordinario per il rilancio della Giustizia, ma finora non abbiamo ricevuto risposte. Speriamo che questa manifestazione sia un segnale che il ministro Bonafede possa intendere, al quale in caso contrario seguiranno altre iniziative forti”. Palermo. Gli avvocati protestano: “Giustizia ferma, riapriamo sul serio i tribunali” di Francesco Patane La Repubblica, 24 giugno 2020 In due mesi rinviati oltre diecimila processi penali. L’ordine degli avvocati di Palermo, il coordinamento regionale dell’avvocatura e la cassa forense in videoconferenza. “In Italia solo le scuole e i tribunali pare siano a rischio contagio, il resto delle attività produttive e dei luoghi di svago sembrano essere immuni” commentano gli avvocati palermitani, esasperati dalle condizioni di lavoro nei palazzi di giustizia siciliani. L’ordine degli avvocati di Palermo, che, assieme ai rappresentanti del coordinamento regionale dell’avvocatura e della cassa forense, hanno tenuto una conferenza stampa in videoconferenza, denunciano come l’attività forense sia ripartita solo sulla carta e che l’osservatorio creato con giudici, avvocati e personale amministrativo, fino ad ora abbia solo registrato criticità nella gestione della ripartenza. Un dato su tutti: dal 9 marzo all’11 maggio solo nel settore penale sono stati rinviati 10.800 processi. “La proiezione che facciamo - ha detto il presidente dell’ordine, Giovanni Immordino - è di ventimila giudizi che salteranno entro luglio”. Nel settore civile i numeri sono addirittura peggiori e una stima fissa a quasi 30 mila procedimenti che slitteranno al 2021. Sono aperti dunque solo sulla carta i tribunali siciliani, mentre nella realtà sono enormi le difficoltà per svolgere l’attività forense: “Per notificare un atto siamo in coda alle 4 del mattino e non è detto che riusciamo a farlo - commenta l’avvocato Giuseppe Di Stefano - Se viene superato il numero massimo prima del nostro turno, tutto è stato inutile. Un po’ come all’ufficio di collocamento”. Sul punto il presidente dell’ordine Immordino ha sottolineato come “non sia degno di un Paese civile che per far notificare gli atti si debba andare a mettersi in coda alle 4 del mattino all’ufficio notifiche”. Una situazione che penalizza soprattutto i giovani avvocati, quelli che lavorano molto con il gratuito patrocinio e quelli che guadagnano sulla quantità di procedimenti. Il 50 per cento degli avvocati siciliani ha chiesto i 600 euro del reddito di emergenza. Si tratta di 3.000 professionisti a Palermo, 15.000 in Sicilia. Tutti con redditi inferiori ai 30mila euro annui. Pietro Alosi, rappresentante della cassa forense, ha ribadito che la situazione dei giovani avvocati è un problema che va affrontato a livello nazionale: “140 mila avvocati su 250 mila in Italia hanno dovuto fare ricorso ai famosi 600 euro che ha anticipato la cassa previdenziale degli avvocati, ma se la giustizia non riparte in maniera concreta oltre la metà degli avvocati si ritroveranno in grave difficoltà”. I rappresentanti dei legali chiedono un intervento a livello ministeriale, per “una riapertura vera e immediata - ha detto l’avvocato Accursio Gallo - non quella finta che c’è stata finora”. Al ministero di Giustizia è stato creato un tavolo tecnico per predisporre un protocollo unico di riapertura di tutti i tribunali con regole e prescrizioni uguali che permettano la ripresa delle attività. L’obiettivo è riaprire i tribunali con la ripresa dei processi nelle aule e la normale attività di cancelleria l’1 luglio. La mancanza di un provvedimento unico nazionale e la decisione del ministero della giustizia di demandare ai presidenti dei tribunali e delle corti d’appello la scrittura dei protocolli di comportamenti ha infatti generato ben 80 diversi sistemi di accesso ai tribunali in tutta la Sicilia. Solo nel tribunale di Palermo sono sei i protocolli, varati dal presidente del tribunale, dal presidente della corte d’appello, dal presidente delle misure di prevenzione e da altri responsabili degli uffici. Gli avvocati sono in stato di agitazione e lamentano, col presidente del coordinamento siciliano, Giuseppe Di Stefano, “la mancanza di decisioni uniche che rendono quanto mai variegata la situazione non solo da città a città, ma da sezione a sezione di uno stesso tribunale”. Genova. Udienze rinviate di un anno e aule vuote: “tribunale attivo al 15%, è la paralisi” di Marco Grasso Il Secolo XIX, 24 giugno 2020 Corridoi semivuoti. Udienze rinviate da un anno all’altro. Sfratti ed esecuzioni spesso posticipati senza una nuova data. Bloccati i processi che prevedono la presenza di testimoni. Avvocati che lamentano di essere trattati da intrusi in tribunale, costretti a prendere appuntamento per ordinarie visite in cancelleria e a contattare magistrati via mail. Cancellieri che, a loro volta, esclusi dallo smart-working, rivendicano sicurezza. E, nel caso in cui la macchina dovesse recuperare il tempo perduto, propongono un tavolo per discutere gli straordinari. “Da febbraio l’attività giudiziaria è paralizzata - accusa il presidente dell’Ordine degli avvocati genovesi Luigi Cocchi - questa situazione sta causando gravissimi danni a noi avvocati, essenziali alla giustizia, ma soprattutto ai cittadini e al Paese. Funziona solo il 15% dell’attività ordinaria. E questo ulteriore ritardo graverà su un sistema che già prima del Covid impiegava 2700 giorni per arrivare a una sentenza civile d’appello. Una giustizia ritardata non è giustizia”. Al netto dalle misure di sicurezza anti-Covid (termo scanner all’ingresso, mascherine obbligatorie, distanziamento sociale), le fasi 2 e ora 3 della giustizia sembrano assomigliare da vicino alla 1 più che al ritorno alla normalità. Ed è proprio questo vegetare che ha fatto saltare il tavolo fra i legali e il ministro Alfonso Bonafede, che ha tentato fino all’ultimo di bloccare la protesta. I rappresentanti del Foro attendevano un cambio di rotta che non è arrivato e ieri, a Genova in tutte le città d’Italia, si sono mobilitati: “Eravamo già da tempo in stato di agitazione - spiega Alessandro Vaccaro, tesoriere dell’Organismo congressuale forense ed ex presidente dell’Ordine genovese - non siamo qui a lamentarci perché non lavoriamo, ma perché così viene minata la credibilità dell’Italia. Le imprese con un credito non sono più in grado di chiederle in tempi accettabili. Un penalista, oggi espulso dal palazzo di giustizia, non può trattare un patteggiamento via mail. I cancellieri non sono in condizioni di fare smart working e i giudici di pace, davanti ai quali arriva il 40% delle pratiche, hanno un contratto con Teams, ma sono senza computer e connessioni. In tutto questo, il Ministero vuole prolungare l’emergenza al 31 dicembre 2021. Noi non ci stiamo. Un giorno qualcuno ci spiegherà perché sono tornati a lavorare ristoranti, estetisti, bar, mentre giustizia e scuola sono fermi”. I vertici della magistratura genovese sono stati assorbiti dal gravoso impegno di trovare una nuova casa ad alcuni maxi- processi, come quello sul crollo della Torre Piloti e l’incidente probatorio del Ponte Morandi (una prima tranche estiva si svolgerà alla Fiera, mentre in autunno si riprenderà ai Magazzini del cotone). La grande preoccupazione, tuttavia, riguarda la ripresa dell’attività ordinaria. Sulla carta congelata fino al 31 luglio, di fatto a settembre considerando la pausa estiva e coronavirus permettendo. Il senso d’incertezza che si respira in tribunale è tutto raccontato da un aneddoto, singolare ma non così raro in questi giorni. Il 10 giugno si doveva celebrare una delle udienze conclusive del processo per la frana di Arenzano, lo smottamento che provocò il blocco per mesi della via Aurelia, l’isolamento del Comune e che per poco non uccise due passanti. Il processo è scampato ai rinvii d’ufficio perché era praticamente finito, ma sull’udienza pendeva un’ultima incognita: se l’unica imputata - la titolare degli stabilimenti balneari cui spettava la manutenzione del versante - si fosse presentata in aula, ci sarebbe stato il serio rischio che il numero delle parti eccedesse rispetto alle direttive sanitarie imposte dalla Asl (senza entrare troppo nei dettagli, s’impone un limite di assembramento sotto le dieci persone). Il caso si è risolto positivamente nel senso che l’imputata non era in aula e quindi si è potuto celebrare l’udienza, poi rinviata per repliche. L’adozione del processo telematico ha consentito la prosecuzione per esempio delle direttissime, ma si è arenata in un terreno di scontro. Buona parte dell’avvocatura avversa l’utilizzo di strumenti come Microsoft Teams, programma adottato dal ministero della Giustizia per le teleconferenze, ritenendolo una compressione del diritto alla difesa. Un’avversione che ha prodotto cortocircuiti considerati dai magistrati “colpi bassi”, come la leggina che ha imposto ai giudici civili di connettersi da remoto unicamente dal proprio ufficio. I nervi sono tesi e lo dimostra la zuffa online fra alcuni cancellieri e il consigliere dell’Ordine degli avvocati Aurelio Di Rella. Incidente diplomatico ricucito dai vertici e terminato con scuse reciproche, che ha riproposto ancora una volta i due spettri con cui si ha a che fare questa fase: il timore d’una ripresa dei contagi e la crisi economica che assedia gli studi legali, costretti all’inattività. La partita, in ogni caso, si gioca in gran parte su tavoli nazionali. E non è semplice: uno è quello appena saltato. Reggio Calabria. Il Garante metropolitano: “Sportello di consulenza Inps per i detenuti” ilreggino.it, 24 giugno 2020 In questo anno è stato implementato uno Sportello di consulenza Inps tramite il patronato Enepa, sono stati sviluppati seminari ed è in corso l’attuazione del poliambulatorio specialistico. A distanza di poco più di un anno dall’insediamento dell’Ufficio del Garante Metropolitano per i diritti delle persone private o limitate della libertà personale della Città Metropolitana di Reggio Calabria, vengono riassunte le attività poste in essere dallo stesso Ufficio presieduto da Paolo Praticò e composto dagli Avv.ti Arfuso M. Cristina, Giuseppe Gentile, Giovanni Montalto e dalla Dott.ssa Valentina Arcidiaco. È stato un anno intenso quanto carico di emozioni. Il ruolo assegnato al Garante e ad ognuno dei componenti l’Ufficio è senz’altro uno dei più delicati nell’ambito della Società penitenziaria, volto all’accertamento della pratica della giustizia e della non violazione dei diritti basilari, che ad ogni soggetto - indipendentemente dal luogo in cui egli si trovi - devono essere riconosciuti e garantiti. Al di là di qualsiasi situazione giudiziaria. Ma è al contempo un ruolo gratificante, in quanto rappresenta un contributo alla condivisione e alla risoluzione - spesso - dei problemi che porta con sé il sistema carcerario e che affliggono molti detenuti. Il compito attribuito all’Ufficio - che seppur svolto in maniera del tutto gratuita, per come sancito dall’Avviso di nomina redatto dalla Città Metropolitana - mira anche e soprattutto ad una diffusione della cultura del rispetto dei diritti perché è solo con una sana condivisione e presa di coscienza che sia la Società tutta sia le istituzioni possono costruire insieme una Società più giusta e più ossequiosa dei diritti, soprattutto di coloro che in un determinato momento della propria vita si trovano in una condizione più vulnerabile e più debole. Nell’ambito di questo nobile compito attribuitogli, l’Ufficio del Garante Metropolitano ha nel corso dell’anno svolto numerosi incontri con i detenuti nelle diverse Carceri della Città Metropolitana (i due plessi di Reggio Calabria, Palmi, Locri e Laureana di Borrello) intervenendo con successo in molte problematiche inerenti il diritto alla salute dei detenuti stessi ed altre importanti condizioni relative al rispetto della dignità della persona. È stato implementato uno sportello di consulenza Inps tramite il patronato Enapa, che consente ai detenuti di usufruire di quei servizi essenziali erogati senza dover chiedere l’intervento dei familiari o di terzi, in tempi normali. È stato svolto un seminario sul tema dei diritti umani, il 10 dicembre 2019 proprio in occasione della giornata internazionale, con la prestigiosa presenza di relatori di alto rango. L’Ufficio ha garantito, ancora, la possibilità di autentica delle firme, grazie al contributo del comandante della polizia metropolitana, che si reca periodicamente insieme al Garante ed ai componenti presso le strutture carcerarie. Infine, è in corso l’attuazione del poliambulatorio specialistico, per il quale vi è già l’adesione, volontaria, di molti medici. Il poliambulatorio è rivolto ai familiari dei detenuti, soprattutto i meno abbienti, così come il centro d’ascolto per le famiglie e i minori, consulenza psicologica e assistenziale. L’attività dell’Ufficio prosegue ininterrottamente e nel rispetto - in questo periodo di emergenza sanitaria - dei protocolli previsti dagli Istituti. Certi della sensibilità della Città Metropolitana e del suo Sindaco, Avv. Giuseppe Falcomatà, si rivolge un invito alla collaborazione con l’Ufficio attesa la complessità e l’onerosità del compito attribuito. Per qualsiasi esigenza e/o informazione inerente l’Ufficio è possibile usufruire dei seguenti indirizzi mail e pec: garantempl@cittametropolitana.rc.it -garantempl@pec.cittametropolitana.rc.it. Padova. Rinnovato il Protocollo d’intesa per affidare lavori di tinteggiatura ai detenuti padovanews.it, 24 giugno 2020 Provincia, Casa di Reclusione e associazione Onlus “Gruppo operatori carcerari volontari” (Ocv di Padova) rinnovano il protocollo d’intesa per consentire ai detenuti del carcere di fare lavori di tinteggiatura e piccola manutenzione negli edifici scolastici di competenza provinciale. Il documento che rientra nel progetto “Detenuti per la Scuola” e resterà valido per due anni, è stato firmato oggi dal presidente della Provincia di Padova Fabio Bui, dal consigliere provinciale all’Edilizia scolastica Luigi Bisato, dal direttore della Casa di Reclusione di Padova Claudio Mazzeo e dalla vice presidente dell’Ocv di Padova Chiara Fuser. “È un progetto - ha spiegato il presidente Bui - che ci ha dato grande soddisfazione per il messaggio positivo e di rigenerazione verso chi sta scontando una pena in carcere e verso gli studenti che poi utilizzano le classi ridipinte. Ma è anche un’iniziativa che oggi assume ancora più valore visto che gli edifici scolastici hanno bisogno di interventi e migliorie continue per dare ai ragazzi ambienti salubri e curati. L’emergenza sanitaria credo abbia fatto capire a tutti che bisogna avere a cuore la propria comunità e fare ognuno la propria parte per tenere in piedi i servizi e i luoghi pubblici. Ci siamo improvvisamente accorti di quanto importante sia avere una scuola moderna e rinnovata, oltre ad ospedali, strade, mezzi e tecnologie. Ringrazio il direttore del carcere e i volontari carcerari perché credono nel recupero delle persone e nell’importanza di dare una chance anche a chi sbaglia inserendoli in progetti di valenza locale. È una visione che condividiamo e che come Provincia volentieri promuoviamo”. Si tratta di un’iniziativa che viene rinnovata per la terza volta dopo le aule ridipinte dai carcerati al Belzoni nel 2018 e al Fermi nel 2019. Il progetto rientra infatti tra gli obiettivi pedagogici che la Casa di Reclusione porta avanti per offrire, mediante il lavoro all’esterno, opportunità di formazione professionale e di esperienze utili al reinserimento sociale. L’accordo prevede che la direzione del carcere selezioni i detenuti idonei alle attività da svolgere su base volontaria, a titolo gratuito e tra coloro che hanno effettuato il corso di formazione. Il programma del trattamento viene poi vagliato dal Magistrato di Sorveglianza che concede ai carcerati di uscire per recarsi sul luogo di lavoro. La Casa di reclusione effettua i controlli, fornisce i dispositivi di sicurezza e rimborsa i detenuti di eventuali spese sostenute (biglietto del bus, pranzo) nei limiti del contributo erogato dalla Provincia. “Come amministrazione - ha spiegato il consigliere all’Edilizia scolastica Luigi Bisato - saremo noi ad individuare l’Istituto scolastico dove saranno svolti i lavori, oltre ad approvare il piano delle opere da fare. Si partirà già attorno a luglio e l’Istituto dovrebbe essere il Curiel di Padova. Le due edizioni precedenti sono state un successo, i detenuti hanno fatto anche più di quanto era stato assegnato con grande professionalità e dedizione. Sicuramente anche quest’anno troveremo collaborazione e molta voglia di fare, sono persone che hanno sbagliato, ma che meritano una chance di riscattarsi di fronte alla comunità. Come Provincia effettueremo anche dei controlli e ci impegniamo a segnalare a terzi i detenuti che si sono distinti nell’attività per eventuali possibilità di lavoro”. L’Istituto scolastico individuato accoglierà giornalmente i detenuti, consegnerà materiali e attrezzature, oltre a seguire lo sviluppo dei lavori. La scuola predisporrà un foglio presenza e comunicherà eventuali problemi nello svolgimento delle opere. “Si tratta di un’iniziativa che negli anni scorsi ha trovato grande entusiasmo anche tra i carcerati - ha spiegato il direttore Mazzeo - per questo abbiamo voluto renderla più stabile nel tempo. Infatti adesso il progetto durerà due anni, dunque avremo la possibilità di fare anche qualche lavoro in più. È un’iniziativa importante perché oltre alla funzione rieducativa, ha anche il merito di responsabilizzare i detenuti come hanno peraltro testimoniato loro stessi sia lo scorso anno che quello precedente”. L’associazione Ocv di Padova assisterà i detenuti e curerà i rapporti tra l’area educativa del carcere, la Provincia e la scuola per far sì che tutta l’attività sia svolta al meglio. Ogni ente seguirà, per la propria parte, anche i vari procedimenti burocratici come previsto nell’accordo. Frosinone. I testi di De Andrè e il laboratorio teatrale, nonostante tutto di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 giugno 2020 Nel teatro della Casa Circondariale di Frosinone, alla fine dello scorso mese di marzo, sarebbe dovuto andare in scena “Personaggi con autore”, evento conclusivo del progetto teatrale “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. A fine febbraio il copione - basato su testi di Fabrizio De Andrè, rivisitati nel corso di un laboratorio multi espressivo - era pronto e la scenografia era in allestimento. Poi nel periodo buio caratterizzato dall’emergenza Covid-19 e dalle rivolte che hanno investito il mondo penitenziario, nell’istituto ciociaro (così come nelle altre carceri italiane) è stato disposto il blocco dei colloqui e delle attività. Uno “stop traumatico” - così viene definito dagli organizzatori del laboratorio - che però non ha impedito un momento di riflessione e confronto: operatori e detenuti coinvolti hanno deciso con determinazione di continuare, in qualche modo, i lavori. Ha preso così vita una sorta di laboratorio diffuso nelle stanze di pernottamento dei detenuti. L’educatrice responsabile del progetto ha distribuito testi poetici, brani letterari, articoli di stampa che hanno ispirato disegni e altre realizzazioni grafiche mentre, per la narrazione teatrale, sono stati utilizzati i soli mezzi espressivi consentiti dal lockdown: immagini, voci e suoni registrati. Si è venuto a delineare così un nuovo canovaccio, frutto, ancora una volta, di una narrazione collettiva il cui titolo “La riscrittura di un copione: In direzione ostinata e contraria. Letture di questi nostri giorni” evoca, non a caso, l’antologia postuma di Fabrizio De Andrè dal titolo, appunto, In direzione opposta e contraria. Tutto il materiale artistico è stato trasposto in un audio-video destinato a un pubblico virtuale costituito da studenti di due istituti scolastici che collaborano da tempo con il carcere. Il video descrive un percorso accidentato ma mai interrotto e, soprattutto, come sottolinea Stefania Patrì, insegnante e ideatrice del progetto: “Si racconta la fedeltà all’impegno preso camminando, ancora una volta, in direzione ostinata e contraria, verso la meta”. Premio giornalistico “Piazza Grande” assegnato a Federica Tourn di Laura Bellomi Famiglia Cristiana, 24 giugno 2020 Il riconoscimento per un reportage sulla discriminazione religiosa all’interno delle carceri italiane. Il Piazza Grande Religion Journalism Award è organizzato dall’Associazione internazionale dei giornalisti religiosi con il sostegno della Fondazione per le scienze religiose. Il premio è stato assegnato durante i lavori della European Academy of Religion. “Una storia potente sulla discriminazione religiosa e il ruolo della religione nelle carceri italiane, con un forte messaggio sulla libertà e il pluralismo religioso”. Con questa motivazione l’inchiesta Dio dietro le sbarre di Federica Tourn, pubblicata sul mensile Jesus, ha vinto il Piazza Grande Religion Journalism Award. “È una storia d’impatto, positiva, che va al cuore di ciò che significa vivere e non solo predicare il dialogo interreligioso. Non è solamente una critica al sistema attuale, ma presenta anche una possibile via per riformare il sistema carcerario”, ha commentato la giuria internazionale. Pubblicata lo scorso luglio sul mensile di cultura e attualità religiosa della Periodici San Paolo, l’inchiesta fa il punto sulla discriminazione nelle carceri italiane dove l’assistenza religiosa è garantita per legge solo dai cappellani cattolici. Ma oggi quasi metà dei detenuti professa altre fedi: il 36,1% è infatti musulmano, il 4,3% si dichiara cristiano ortodosso e “solo” il 55,75% cattolico - una maggioranza decisamente risicata rispetto a qualche decennio fa, quando in carcere c’ erano pochi immigrati. “I ministri di culto delle altre religioni possono accedere solo su richiesta e dopo un iter complesso. Per gli imam, in mancanza di un’intesa con lo Stato, è ancora più difficile”, dice Federica Tourn, 49 anni, torinese, collaboratrice di Jesus - per il quale segue le notizie di Ecumenismo - e Famiglia Cristiana. Una situazione complessa dove al tema della libera espressione di una dimensione chiave dell’umano, del dialogo interreligioso e dell’ecumenismo, si affianca anche quello del rischio radicalizzazione. “Le carceri oggi sono realtà multi-religiose e coltivare la fede con una guida spirituale può essere un antidoto alla radicalizzazione”, dice l’autrice dell’inchiesta, che ha conosciuto da vicino le realtà le carcerarie del Milanese, dove la diocesi nel 2017 ha avviato il progetto Simurgh per la conoscenza e la promozione del pluralismo religioso negli istituti di pena, e di Roma. “Spesso sono i cappellani che si fanno carico anche della cura pastorale dei detenuti di altre religioni, ma c’ è tanto da fare, a partire - ad esempio - dalla formazione delle guardie carcerarie”. Un’ inchiesta tutta da leggere in cui le voci autorevoli - come quella di monsignor Pier Francesco Fumagalli, professore di Lingua e cultura cinese all’ Università Cattolica e docente del progetto Simurgh, o di Hamid Distefano, della Commissione affari giuridici della Comunità religiosa islamica italiana - sono integrate con dati e statistiche. A illustrare il servizio, il reportage fotografico di Isabella Beatrice De Maddalena, che ha indagato il tema del diritto al pluralismo religioso alla Casa circondariale di Monza e quello delle donne in carcere nella Casa circondariale di San Vittore a Milano e all’Istituto di custodia attenuata per detenute madri (Icam), sempre a Milano. Il Piazza Grande Religion Journalism Award, quest’anno alla prima edizione, è promosso dall’Associazione Internazionale dei Giornalisti della Religione (Iarj) e dalla Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII (Fscire). La società del lamento universale e suoi antidoti di Alessandro Campi Il Messaggero, 24 giugno 2020 Viviamo ormai nella società del lamento permanente, petulante e universale: uno dei lasciti peggiori della pandemia, anche se la tendenza al piagnisteo con richiesta di risarcimento urgente era già chiara da tempo. Tutti chiedono, tutti pretendono, tutti vogliono, tutti recriminano. Tutti hanno diritti da esigere: per sé, qui e ora, senza preoccuparsi di ciò che vuole o desidera il prossimo e senza pensare che i diritti, a furia di sommarsi, possono finire per elidersi tra loro. Il mio dolore e i miei problemi sono per definizione più grandi e insopportabili dei tuoi. E meritano quindi un riscontro immediato, una soddisfazione pronto cassa. Accade in campo economico sotto l’incalzare della crisi. Ogni categoria ritiene, in questo momento, di dover accedere agli aiuti prima degli altri, di avere più motivi per lagnarsi rispetto al vicino. Prima noi industriali, dicono gli industriali. Prima noi commercianti, dicono i commercianti. Ma il problema è che la stessa cosa dicono i lavoratori dello spettacolo, gli operatori sanitari, gli agricoltori, i disoccupati, i precari, i pensionati con pensioni da fame, i professionisti che hanno perso i clienti, i ristoratori, ecc. Un po’ è un inevitabile gioco delle parti, un po’ è l’incapacità a pensare che siamo una totalità composta da molti segmenti. Molti segmenti nessuno dei quali, per piccolo e influente che sia, per grande e prepotente che sia, può considerare le proprie pretese come oggettive, prioritarie e irrinunciabili. Ma accade anche nella sfera sociale sotto l’incalzare della cultura pseudo-rivoluzionaria, dissacratoria e dissolutrice, che tanto piace in questo momento agli intellettuali benpensanti che presto ne rimarranno vittima come in tutte le pseudo-rivoluzioni che si rispettino. In questo caso la lamentazione viene da gruppi, fazioni e minoranze che ritengono ognuna (e tutte insieme) di aver subito odi star subendo torti e danni incalcolabili, vecchi e nuovi, comunque insopportabili, per i quali è venuto il momento che qualcuno paghi. E pazienza se in nome della libertà propria si metta a repentaglio quella altrui e si faccia scempio della storia, ridotta ormai ad una partita tra buoni e cattivi, tra bene e male. O se per dare soddisfazione alla propria identità ferita o offesa si feriscano e si offendano, oltre che il buon senso e la ragionevolezza, le sensibilità, i sentimenti e l’amor proprio di chi al dunque ha solo la colpa statistica (che ormai è una colpa storica e politica da espiare nell’immediato sulla base di processi sommari) di non far parte di alcuna minoranza, ovvero di essere un oppressore proprio perché membro di una maggioranza all’interno della quale le differenze, individuali e di gruppo, dovrebbero poter convivere invece che diventare motivo di lotta e di polemica. Perché è questo il problema: se tutti, individui e gruppi, si lamentano - spesso per spirito di risentimento più che per passione di giustizia - se tutti chiedono e pretendono, se tutti contestano a avanzano rivendicazioni, siano compensazioni economiche, politiche o simboliche, quanto manca prima che una qualunque società, dinnanzi a quest’affollarsi di richieste e pretese, si disgreghi o si avviti nella spirale di interminabili conflitti? Il pluralismo, cioè la molteplicità di interessi e punti di vista, di aspettative e valori, è una realtà tipica di tutte le società, specie quando sono complesse e articolate come le attuali. La democrazia è stata inventata proprio per governare e tutelare il pluralismo, considerato un fatto in sé benefico, laddove l’omogeneità e il conformismo sono il tratto fondante dei regimi oppressivi. Ma le troppe differenze rischiano di essere laceranti e distruttive se non c’è qualcosa (o qualcuno) che abbia la forza di unire e tenere insieme: ex pluribus unum. Ma chi riesce più ad assicurare, ai giorni nostri, solidarietà politica e coesione sociale nel rispetto, per quanto possibile pacifico, delle diversità? Una volta si sarebbe detto che il sentimento religioso, o comunque il rispetto di una certa tradizione storica d’ispirazione religiosa, era sufficiente ad assicurare lo spirito d’aggregazione necessario alla vita di qualunque comunità, anche la più litigiosa o differenziata al suo interno. Ma questa condizione sembra venuta meno, soprattutto in quella parte di mondo che chiamiamo occidentale. La cristianità come modello o patrimonio culturale se non è finito come fonte condivisa d’ispirazione (che anche per i non credenti è stata storicamente tale), non può essere più evocato nella dimensione pubblica. Resta il cristianesimo come culto ufficiale di quella parte di società che sembra però destinata a diventare una minoranza e che psicologicamente già si considera tale. Intorno a cosa o a chi ci si può dunque oggi riunire come collettività? La politica, che per definizione dovrebbe essere l’arte del ricondurre le diversità a sintesi, è screditata e impotente, sopraffatta da processi storici- la tecnologia colonizzatrice della sfera quotidiana, la finanza come propulsore della ricchezza in luogo dell’economia basata sulla produzione-che semplicemente non governa. Le leggi e le regole costituzionali sono certo un fattore unificante, ma il loro rispetto formale difficilmente può rendere compatta e solidale una comunità che abbia imboccato la strada della dissoluzione. Quanto agli altri possibili fattori unificanti, i leader politici sono ormai al seguito delle masse che dovrebbero condurre, ispirare o motivare. I media sono alla mercé degli umori collettivi che si limitano ad amplificare anche al prezzo di sacrificare l’informazione al sensazionalismo. I partiti - un tempo definiti d’integrazione di massa- non esistono più: se prima erano “piglia tutti” in termini sociali ed elettorali oggi al massimo si limitano ad arraffare le risorse pubbliche che li tengono in vita e a contendersi votanti che cambiano idea ad ogni turno elettorale. Il mito della nazione è appannato e visto con sospetto. Lo Stato, come massima delle istituzioni, dà ormai l’impressione di vessare i cittadini invece che tutelarli. I social, divenuti il motore delle relazioni sociali nell’età contemporanea, sono dal canto loro uno straordinario strumento di divisione più che di civile confronto: polarizzano i sentimenti e alimentano i pregiudizi delle tante tribù che compongono le società odierne. Interessi materiali inconciliabili, valori in lotta permanente, lamentazioni diffuse e incrociate, rivendicazioni di minoranze, richieste quotidiane di risarcimento, particolarismi sociali e affermazioni identitarie di singoli e gruppi, un passato storico nel quale collettivamente non ci si riconosce più. Ciò che drammaticamente manca è esattamente la compensazione o composizione tra ciò che divide, il bilanciamento o compromesso, la conciliazione che sola rende possibile la convivenza. Perché se tutti vogliono tutto, se tutto viene messo in discussione o contestato, non essendoci la possibilità materiale di dare a tutti ciò che ognuno chiede o di assecondare ogni pretesa, alla fine vincono o comunque prevalgono, in mancanza di mediazione o sintesi, quelli meglio organizzati, quelli più ricchi, quelli più scaltri e spregiudicati, quelli più arroganti e determinati, quelli che riescono a far coincidere il proprio tornaconto con l’interesse generale o che pensano che il loro modo di vedere il mondo (per definizione parziale) sia il modo con cui tutti debbono obbligatoriamente vedere il mondo. Dalle richieste in nome della giustizia e della libertà si rischia di scadere facilmente nella discriminazione e nell’intolleranza: esercitate paradossalmente non più dai molti sui pochi ma dai pochi sui molti. Nella società del lamento vincono insomma quelli che del lamento quotidiano e generalizzato, a sostegno esclusivo della propria causa, riescono a fare una forma di propaganda capillare e martellante. Rivendicazioni economiche delle categorie e richieste di riconoscimento pubblico da parte d’ogni possibile minoranza (etnica, sessuale, religiosa). Sembra aspettarci, tra sensi di colpa spesso indotti e paure collettivi sempre sul punto di esplodere, una conflittualità endemica e diffusa, molecolare e pervasiva, che per il futuro delle nostre società e dei nostri sistemi politici non promette nulla di buono. Il Covid e gli “altri” spariti dai tg: disabili, stranieri, parliamone please di Paolo Foschini Corriere della Sera, 24 giugno 2020 Ricerca dell’associazione Diversity e dell’Osservatorio di Pavia: per quattro mesi i media tv hanno dedicato all’emergenza virus il 54% delle notizie e solo lo 0,4 ai disabili, l’1,3 alle donne, il 3,4 alle etnie, lo 0,04 alla comunità Lgbt+. Che per quattro mesi l’emergenza Covid abbia monopolizzato oltre metà dello spazio dei tg lo hanno visto tutti: non si può non notare un elefante in soggiorno, come si dice. La cosa grave, proprio perché in questi casi non si nota, è tutto ciò che dai telegiornali in questi mesi è scomparso: intere fasce della popolazione appartenenti a cinque aree della “diversity” - Generazioni, Generi, Disabilitò, Etnia, Lgbt - le cui istanze e problematiche sono state “quasi ridotte al totale silenzio” per tutto questo periodo. La cosa ancora più importante, se tradotta in volontà positiva, è che ora “bisogna prenderne atto e recuperare il tempo perduto”. È quanto emerge dalla ricerca “Diversity Media Report - Special edition Covid-19” che l’associazione Diversity e l’Osservatorio di Pavia hanno presentato agli Stati generali post-Covid nell’ambito dell’evento “Welcome to the New Era - Diversity & Inclusion”. L’indagine si è concentrata sui sette principali tg nazionali italiani, in cui tra il primo gennaio e il 30 aprile 2020 sono passate in totale 15.156 notizie: 8.209 delle quali (il 54 per cento) sono state dedicate al Covid19 “veicolando principalmente un’informazione di tipo emergenziale” concentratasi “sugli aspetti medico-sanitari e sui numeri della pandemia, sulle conseguenze per la popolazione in termini di limitazioni e restrizioni e, solo negli ultimi due mesi, anche sugli aspetti economici dell’emergenza”. Anche all’interno delle notizie comunque dedicate al tema Covid le aree della diversità sono state toccate solo nel 14,6 per cento dei casi, con percentuali che hanno penalizzato in modo particolare le persone con disabilità (32 notizie in tutto, lo 0,4 per cento), le donne (1,3 per cento con 106 notizie), le etnie (280 notizie, il 3,4 per cento), le persone Lgbt+ (3 notizie, corrispondenti allo 0,04 per cento). Un’attenzione maggiore è stata data alle generazioni (778 notizie, il 9,5 per cento) di cui il 55 per cento riguardanti giovani e bambini, soprattutto per via della chiusura delle scuole, e il 46,9 per cento la fascia degli anziani per la loro vulnerabilità al virus e in riferimento alla mala gestione socio-sanitaria dell’emergenza (la somma di queste ultime percentuali è superiore a 100 perché uno stesso servizio può aver trattato entrambe le categorie). “Per quattro mesi - spiega Francesca Vecchioni, presidente di Diversity - l’emergenza sanitaria ha monopolizzato l’agenda mediatica, rendendo di fatto invisibili interi gruppi sociali e le loro difficoltà. Non si è parlato dello straordinario sforzo delle donne, in particolare delle lavoratrici, divise tra lavoro “agile”, lavoro di cura e supporto alla didattica a distanza; si è parlato della chiusura delle scuole ma non dell’impatto che questa ha avuto sulla vita dei bambini; si è parlato dei decessi degli anziani ma non del loro isolamento durante la quarantena; si è parlato dei cinesi in quanto portatori del virus, ma pochissimo dei problemi delle minoranze etniche nel nostro Paese; nessuna attenzione è stata data alle persone disabili e alle loro caregiver mentre le tematiche Lgbt+ sono praticamente scomparse. Oggi dobbiamo assolutamente recuperare questo racconto “dimenticato”: aver reso invisibili tutte queste persone significa non considerare delle ferite che se non vengono affrontate non ci permetteranno di ripartire. La responsabilità dell’informazione - conclude la presidente di Diversity - è proprio quella di aprire i nostri occhi sulla realtà e con questo evento ci immaginiamo che le tutte le persone non siano considerate un problema, bensì un grande potenziale”. I risultati mostrano anche come l’attenzione per le 5 diversity all’interno degli 8.209 servizi sul Covid-19 è stata addirittura più bassa (-2,5 per cento) rispetto a quella che hanno ottenuto nell’agenda complessiva dello stesso periodo (15.156 notizie totali). L’attenzione nei loro confronti si è ridotta anche rispetto all’informazione ordinaria del 2019, con diminuzioni drastiche in particolare per le categorie dei giovani e bambini (-35,5 per cento rispetto al 2019); donne (-6,5 per cento); persone di etnie diverse (-5,9 per cento). Fa eccezione solo la generazione anziane/i che ha visto un significativo innalzamento dell’attenzione rispetto all’informazione ordinaria del 2019 (+35,1 per cento): un’attenzione che tuttavia si concentra prevalentemente ad aprile con i servizi dedicati a contagi, decessi e inchieste che hanno interessato le Rsa. Privacy, il Garante tra Covid, invasione dei dati e sicurezza di Vincenzo Vita Il Manifesto, 24 giugno 2020 La relazione annuale del Garante dei dati personali Antonello Soro è avvenuta quest’anno con una cerimonia ridotta alla camera dei deputati, a causa delle misure antivirus. Il discorso, introdotto da un saluto non formale del presidente dell’assemblea Roberto Fico, ha toccato con discrezione anche il tema della prolungata proroga (è in corso la quarta edizione della serie) dell’istituzione medesima. Con l’auspicio che si chiuda un ciclo non commendevole di rinvii, rompendo finalmente gli indugi. Tutto ciò riguarda, ancor più, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, da tempo ondeggiante in uno stato incerto, né liquido né gassoso. A fronte di simili colpevoli scivolamenti dovuti al mancato accordo politico sulla nuova composizione degli organismi in questione, è lecito domandarsi se non si sia manifestato un rigetto nei riguardi di un altro potere: contiguo ma diverso rispetto a quelli tradizionali. Nell’accentrarsi dei riti decisionali, forse il sogno della terzietà, costitutivo delle autorità indipendenti, è rimasto un pio desiderio o si è trasformato in un incubo. Non è il caso dell’ufficio del Garante dei dati personali, che ha fatto bene e conclude il mandato con molta dignità. La conferma è arrivata dalla relazione di ieri, basata su di una seria intelaiatura analitica. Soro ha opportunamente citato Stefano Rodotà e Giovanni Buttarelli (il profetico giurista innovatore e il primo segretario generale, divenuto poi responsabile europeo), purtroppo entrambi scomparsi. Tuttavia, proprio a loro si deve la strutturazione della normativa, a partire dalla legge quadro n.675 del dicembre 1996 e dalla paziente costruzione dell’edificio regolamentare. La relazione ha sottolineato come la pandemia abbia riportato con i piedi per terra l’ordine degli addendi. Virtuali sì, ma sotto il segno della fisicità, intaccata in modo analogico dal virus. E, però, la stessa fase del lockdown ha accelerato la transizione all’età digitale e reso consueto nominare parole come smart working, e-learning, contact tracing, algoritmi o intelligenza artificiale. Siamo di fronte ad un “fatto sociale totale”, è vero. Ma con enormi rischi. La pervasività e l’intrusione (magari a fin di bene) violano non tanto e non solo la nostra riservatezza borghese, bensì la fisiologia dell’io-digitale, della cui fisionomia noi stessi non siamo consapevoli. Lo dimostra, ad esempio, il numero elevato di istanze rivolte al Garante sui profili identitari ricavati in rete e non rispettosi dell’effettiva biografia: ben 8.092. Come sono aumentati (del 91,5%) gli attacchi di malware, e triplicati gli atti di spionaggio/sabotaggio. E lungo il “pendio scivoloso” ritornano in scena i pericoli connessi al riconoscimento facciale, sulla cui applicazione si chiede con l’Europa una moratoria; al ricorso eccessivo alle intercettazioni o ai trojan; all’esasperata circolazione di fake news. I valori delle libertà e dell’umanesimo vanno custoditi gelosamente, applicando i principi di cautela e proporzionalità nell’adozione delle pur necessarie misure emergenziali, quali quelle volte a contrastare la diffusione del Covid-19. Interessante la proposta al governo e al parlamento di investire in un’infrastruttura cloud pubblica, avvolta in stringenti misure di protezione. È un passo fondamentale per aprire la strada al tema dei temi: la proprietà pubblica dei dati, oggi impropriamente posseduti dagli Over The Top: da Google, a Facebook, ad Amazon, a Microsoft, a Twitter. Anzi. Proprio la lotta alla pandemia richiederebbe l’acquisizione del bagaglio di conoscenze immagazzinato dagli oligarchi della rete: oltre la scelta alquanto fragile dell’App Immuni. Ecco, la relazione di Soro non ha toccato tali punti strategici, ancorché ne abbia messo le fondamenta sollecitando il regolamento attuativo del d.lgs n.51 del 2018, vale a dire la trasposizione della direttiva europea 2016/680, che all’articolo 20 contiene in nuce il transito dalla cultura privatistica a quella pubblica nel trattamento dei dati. Un altro capitalismo. Soro lancia l’allarme: “I trojan possono diventare mezzi di sorveglianza di massa” Il Dubbio, 24 giugno 2020 Per il Garante della privacy, Antonello Soro: “Le straordinarie potenzialità intrusive dei captatori informatici (trojan) impongono garanzie adeguate”. Attenzione all’utilizzo del trojan. L’allarme è stato lanciato ieri dal Garante della privacy, Antonello Soro, in occasione della presentazione alla Camera della Relazione 2019 sull’attività dell’Authority. “Le straordinarie potenzialità intrusive” dei captatori informatici impongono garanzie adeguate per impedire che essi, da preziosi ausilii degli inquirenti, degenerino in mezzi di sorveglianza massiva o, per converso, in fattori di moltiplicazione esponenziale delle vulnerabilità del compendio probatorio”, ha esordito Soro, evidenziando subito la necessità di garantire una cornice di sicurezza dei server utilizzati, in particolar modo quelli “delocalizzati anche al di fuori dei confini nazionali”. Il trojan, il virus informatico che trasforma il telefono cellulare in un microfono sempre aperto, è uno strumento d’indagine che ha avuto negli ultimi mesi un forte sviluppo. Il suo uso, inizialmente previsto per i reati di mafia e terrorismo, è stato esteso dal dl c. d. “Spazza corrotti”, fortemente voluto lo scorso anno dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, anche ai reati contro la Pubblica amministrazione. Nell’indagine per corruzione a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, ad esempio, si è fatto largo uso di tale strumento investigativo. E proprio a tal riguardo, prosegue Soro, “abbiamo auspicato un supplemento di riflessione in ordine alla progressiva estensione dell’ambito applicativo del trojan, che dovrebbe invece restare circoscritto’. La vicenda Palamara sul punto è significativa, essendo state ascoltate e trascritte decine di conversazioni che nulla avevano a che vedere con il reato oggetto di contestazione da parte dei pm. Ma non solo. “Va sottolineata l’intrinseca diversità, rispetto alle intercettazioni tradizionali, di quelle mediante captatori, propria della loro capacità invasiva e dell’attitudine a esercitare una sorveglianza ubiquitaria, con il rischio peraltro di rendere più difficile il controllo ex post sulle operazioni compiute sul dispositivo- ospite”. Per evitare abusi, per Soro è necessario allora “un rigoroso rispetto del principio di proporzionalità, a tutela del ‘ generale diritto alla libertà del cittadino nei confronti dello Stato”. Il principale elemento di “criticità” del trojan risiede nel fatto che viene attivato dalla polizia giudiziaria. Un potere immenso nelle mani della pg che decide dunque cosa ascoltare o cosa non ascoltare. “È significativo - ha osservato Soro - che la Corte costituzionale tedesca abbia censurato la disciplina di tale tipo d’intercettazioni, sia pure preventive, per violazione non solo della riserva di giurisdizione ma anche del principio di proporzionalità”. “In questo senso - ha poi concluso il Garante - è indifferibile una revisione organica della disciplina della conservazione dei dati di traffico, i cui termini - sei anni - appaiono difficilmente compatibili con la necessaria proporzionalità delle limitazioni della privacy rispetto alle esigenze investigative, posta dalla Corte di giustizia a fondamento della declaratoria di illegittimità basata su un termine massimo di due anni”. Migranti. Accoglienza e sicurezza: questa è la vera riforma di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 24 giugno 2020 Strutture da quadruplicare, togliendo ai sindaci il peso dell’impopolarità. Però gli irregolari non possono continuare a bivaccare nelle nostre città. Uno Sprar in ogni Comune, un Cie in ogni Regione. Certo, è uno slogan: ma non sarebbe così difficile da spiegare, coniugando solidarietà e sicurezza. Gli italiani non meritano di essere trattati come bambini. Invece sembrano relegati in una sorta di eterna minorità dall’alone di esoterico imbarazzo che avvolge le manovre per modificare i controversi decreti Sicurezza voluti da Matteo Salvini e tramutati in legge dalla precedente maggioranza Lega-Cinque Stelle. Mentre l’immigrazione va riacquistando potere evocativo e carica divisiva, rinviare tutto a settembre non aiuta: sembra un po’ la tattica del pallone calciato in tribuna. La nuova maggioranza del governo Conte 2 non riesce a liberarsi di questa ombra lunga, dovuta all’inconciliabilità di due posizioni: quella del premier e dei Cinque Stelle che, avendo varato i decreti assieme a Salvini, hanno comprensibili difficoltà nel cancellarli con un tratto di penna; e quella dei democratici che, per bocca del loro segretario Zingaretti, avevano posto a settembre dello scorso anno i due decreti in cima alla lista nera, promettendone prima l’abrogazione, poi una profonda riforma e, via via, un più prudente ritocco che seguisse i pur prudenti rilievi formulati dal presidente Mattarella al momento della loro conversione in legge. Diciamolo, dunque: il fardello della chiarezza, in questo caso, non può incombere sulla prima componente dell’alleanza, quella pentastellata. Per le suddette ragioni psicologiche e per le contraddizioni che il tema apre nella base dei Cinque Stelle, divisa tra un’anima nostalgica del rapporto con il “Capitano” leghista e una più dichiaratamente vicina alle istanze dem. Tocca (e conviene) all’altra parte dell’alleanza accendere la luce su un tema così grande e dirimente. Come? Prima di tutto strappandolo al sottoscala dell’accordicchio tra fazioni che pare l’abbia risucchiato. È sul segretario del Partito democratico (o, in caso di afasia protratta, su chi volesse farne le veci) che incomberebbe l’onere di levarsi in piedi e di formulare a voce alta in una sede pubblica una proposta chiara e articolata, un progetto onnicomprensivo sulla questione delle migrazioni, degli sbarchi, dell’accoglienza e della nostra convivenza pacifica che, almeno agli occhi di moltissimi italiani, vi appare connessa. Non è impossibile fare meglio di Salvini. Il suo primo decreto Sicurezza, cancellando la protezione umanitaria senza prevederne gli effetti e senza preparare un adeguato piano di rimpatri tramite accordi bilaterali coi Paesi di origine, ha prodotto nuova irregolarità anziché diminuirla, accrescendo di almeno trentamila invisibili la quantità di sbandati che s’aggirano per le periferie italiane. Il suo secondo decreto è nato proprio per mascherare i guai del primo: spettacolarizzando i blocchi in mare dei pochi profughi salvati dalle navi Ong per distogliere l’attenzione dalle centinaia di migliaia di irregolari che l’allora ministro degli Interni non riusciva neppure a rintracciare. Per riformare quei decreti converrebbe partire dal territorio, cioè proprio dove Salvini ha fallito. E se ha fallito è perché ha depotenziato gli Sprar, l’accoglienza di secondo livello basata su piccoli numeri facili da integrare. Il sistema aveva già una sua debolezza intrinseca: reggendosi sui Comuni, era facoltativo, con la conseguenza che solo duemila amministrazioni su ottomila vi avevano aderito, rendendo gli Sprar fragili e insufficienti. La prima vera riforma è prevedere Sprar obbligatori, quadruplicandoli, togliendo ai sindaci il peso dell’impopolarità che l’accoglienza può comportare e incentivando le comunità con opportune compensazioni. Al tempo stesso, i migranti non possono continuare a bivaccare nei ghetti delle nostre città, chi non ha titolo per stare tra noi deve essere contenuto in strutture dignitose ma sicure: i Cie (o come li si voglia chiamare), centri dove gli irregolari restino fino all’eventuale rimpatrio, sono pochi; vanno riorganizzati in misura di uno per Regione, come sosteneva Marco Minniti nella sua stagione al Viminale, mantenendo per ora invariato il periodo massimo di trattenimento (occorre tempo per definire posizioni e destini di ognuno). La protezione umanitaria era il cerotto con cui coprire chiunque non avesse diritto ad altre forme di protezione ed è stata di certo abusata: non si tratta solo di ripescarla con un nome diverso, ma di darle paletti che ne evitino l’abuso. Gli italiani devono percepire insomma una via intermedia tra la posizione “di cuore” e quella “di pancia”, come scriveva Alessandro Rosina in un dossier della Fondazione Moressa: e questa è la via della ragione, “lo scenario di testa”. Trovato un equilibrio visibile tra solidarietà e sicurezza, una riforma di sistema deve sciogliere infine l’equivoco su cui da trent’anni si è avvitato il dibattito, confondendo le figure dei profughi e dei cosiddetti migranti economici. I primi dobbiamo salvarli per restare umani (salvo redistribuirli in una Europa capace di condividere non solo l’emergenza Covid), dei secondi abbiamo bisogno per restare competitivi. Svitandoci dall’immagine dei barconi, abbandonando la guerra alle Ong, andando a cercare in Africa accordi bilaterali che sostengano il futuro di chi viene rimandato indietro e promuovano le competenze di chi ha titolo per partire. La fine del proibizionismo segnò il tramonto dei boot-legger in America: non è difficile spiegare agli italiani cosa occorra davvero per battere i contrabbandieri di uomini nel Mediterraneo. Basta il coraggio di dirlo. Niente visite, isolamento e telefonate di Lucio Palmisano linkiesta.it, 24 giugno 2020 Come gli Stati europei hanno gestito le carceri durante la pandemia. Tutti i paesi dell’Unione hanno ridotto i diritti delle persone recluse durante la crisi del coronavirus. Ma i focolai non sono comunque mancati. Il problema maggiore è stato il sovraffollamento delle prigioni. Sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie spesso difficili, poche precauzioni. Una situazione, comune a molte carceri europee, che sembrava essere il preludio alla trasmissione del coronavirus anche dietro le sbarre. Eppure, come evidenzia il report del Parlamento Europeo, in questo periodo i Paesi dell’Unione Europea hanno cercato di tutelare in ogni modo gli oltre 491 mila carcerati (dati del 2018 del rapporto sullo stato delle carceri europee dell’Osservatorio Antigone) dal rischio di contagio. Non sono mancati i focolai, nati soprattutto in Spagna, Francia e Italia, ma le misure adottate hanno cercato di alleviare lo stato di reclusione per molti detenuti, spesso privati delle loro attività di svago e di interazione con gli altri durante l’epidemia. Sull’argomento si è espresso anche il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, stabilendo che le misure restrittive adottate devono essere “necessarie, proporzionate, rispettose dei diritti umani e limitate nel tempo” e raccomandando pene alternative alla detenzione, come richiesto anche dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet. L’epidemia di Covid-19 ha obbligato i Paesi europei ad adottare una serie di misure per tutelare sia la polizia penitenziaria sia i carcerati dal rischio di contagio. Tra le precauzioni prese ci sono l’utilizzo di mascherine e guanti, obbligatorie per detenuti e staff come previsto in Belgio, Repubblica Ceca e Baviera, e il controllo della temperatura per i visitatori, come in Bulgaria e in Ungheria. Per evitare la trasmissione del virus, molti Stati hanno previsto aree speciali all’interno delle carceri o degli ospedali carcerari per i malati di Covid-19, come in Portogallo, e anche per gli over-70, separati dal resto dei detenuti come è avvenuto in Finlandia. Una divisione avvenuta anche con i nuovi arrivi, spesso tenuti in isolamento per 14 giorni prima di essere mandati nelle loro celle come è successo in Grecia e Lettonia. Per alcuni Stati il problema maggiore è stato il sovraffollamento delle prigioni, risolto in alcuni casi favorendo misure alternative alla detenzione e posticipando l’esecuzione delle pene ridotte, come in Francia e in Spagna. Una politica seguita da quasi tutti i membri dell’Unione, tranne che da Ungheria, Romania, Slovacchia e Bulgaria che su questo fronte non hanno fatto significativi passi in avanti mentre Paesi come Italia e Grecia hanno dovuto far fronte alle rivolte dei carcerati che chiedevano migliori condizioni di detenzione. Il periodo di epidemia ha significato per tutti i carcerati una riduzione dei propri diritti. In alcuni casi si è trattato di una momentanea sospensione, come le visite dei familiari diventate virtuali, in altri è stato necessario istruire un rigido protocollo da seguire, come nel caso del colloquio con il proprio avvocato permesso in presenza in Danimarca e Germania. Molti detenuti hanno partecipato ai processi non in presenza ma online, come avvenuto in Croazia, mentre molte attività ricreative, come l’ora d’aria, ed educative sono state spesso annullate o divenute virtuali, per esempio in Estonia e Lettonia. Anche nelle poche occasioni di svago collettivo, come il pranzo, sono state spesso adottate misure restrittive per mantenere il giusto distanziamento sociale, come per esempio è avvenuto in Spagna. In questo periodo sono anche stati garantiti molti più benefici ai detenuti. Infatti, molte carceri hanno dato la possibilità ai loro ospiti di effettuare chiamate e videochiamate più lunghe verso parenti e amici per ovviare alla mancanza di visite in presenza. Si va dalle tre chiamate concesse in Portogallo, ai 40 euro di credito previsti in Francia (anche se nel conto è prevista anche la tv a pagamento) e ai 20 minuti permessi in Slovacchia, mentre in Svezia sono state consentite anche le chiamate internazionali, ma solo verso numeri autorizzati. Ai detenuti è stata inoltre data la possibilità di seguire alcuni corsi online ma non sono mancate le attività in presenza come nelle carceri della Repubblica Ceca, dove sono state fabbricate maschere e divisori in plexiglas da usare sia nelle prigioni sia negli ospedali, e dell’Austria, dove invece hanno continuato le loro attività rieducative orientate verso il mondo del lavoro. In Polonia molti ospiti del carcere hanno avuto un migliore accesso a tv, radio e giornali, mentre in Estonia hanno ricevuto materiale utile per svolgere attività solitarie, come il disegno o lo yoga. Infine, in Irlanda è stato perfezionato un sistema per rendere più semplice il trasferimento di denaro sugli account dei detenuti. Il “lockdown” in Europa, tra pregiudizio e discriminazione da parte delle forze di polizia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 giugno 2020 Sin dall’inizio di quella che in Italia abbiamo conosciuto come “fase 1”, ossia quella del “restate a casa”, Amnesty International ha svolto ricerche sull’attuazione delle misure di contrasto alla pandemia da Covid-19, in particolare su quelle relative al confinamento domestico. In Italia, l’organizzazione per i diritti umani ha prodotto un notiziario (quotidiano fino alla fine di maggio, poi settimanale) che, accanto alle buone prassi, ha denunciato sovente la sproporzionalità e la discriminazione nell’applicazione di quanto stabilito nei primi decreto di marzo. Il rapporto definitivo uscirà a luglio. A livello internazionale, un primo rapporto su 12 stati europei (Belgio, Bulgaria, Cipro, Francia, Grecia, Italia, Regno Unito, Romania, Serbia, Slovacchia, Spagna e Ungheria) è stato diffuso oggi. Da tre mesi di ricerche, è emerso un quadro desolante, fatto di violenze delle forze di polizia contro minoranze etniche e altri gruppi vulnerabili, controlli d’identità discriminatori, multe esorbitanti e altro ancora. Nulla di nuovo per quanto riguarda le attitudini discriminatorie della polizia in alcuni paesi, che altro non sono se non l’applicazione di politiche infarcite di pregiudizio e di narrative stigmatizzanti e divisive, portate avanti soprattutto sui social media da non pochi esponenti di partiti. Ecco alcune situazioni denunciate nel rapporto odierno di Amnesty International. In Francia sono stati effettuati 20 milioni di controlli (ossia, su un terzo della popolazione) ed è stato multato un milione di persone. Nel dipartimento di Seine-Saint-Denis, il più povero del paese non considerando i dipartimenti d’oltremare e dove la maggioranza degli abitanti è costituita da neri e da nordafricani, il numero delle multe per violazione del “lockdown” è stato tre volte superiore al resto del paese. Il Regno Unito è uno dei pochi stati europei che registra gli interventi delle forze di polizia disaggregati per base etnica. Tra marzo e aprile, la polizia di Londra ha effettuato il 22 per cento di controlli d’identità in più e, all’interno di questo dato, la percentuale di neri fermati per accertamenti è aumentata di circa un terzo. Il governo della Slovacchia ha imposto la quarantena obbligatoria negli insediamenti rom, addirittura inviando l’esercito per farla rispettare. Lo stesso provvedimento è stato adottato anche dalle autorità della Bulgaria, dove oltre 50.000 rom sono stati completamente isolati dal resto del paese. Nella città di Burgos hanno inventato il sistema del drone munito di sensori per misurare la temperatura a distanza, in quella di Yambol è stato usato un aereo per sanificare un campo rom in cui erano stato riscontrati dei positivi. Richiedenti asilo, rifugiati e migranti sono stati oggetto di quarantene mirate in Germania, Cipro e Serbia (anche in quest’ultimo caso con l’impiego delle forze armate a vigilare sul rispetto del provvedimento), mentre in Francia e in Grecia sono stati segnalati sgomberi. In Francia, Spagna e Regno Unito decine e decine di persone sono state multate perché trovate fuori casa, per il mero fatto che una casa non ce l’avevano. Per quanto riguarda l’Italia, viene citato il dato dell’Ong Avvocato di strada che ha registrato almeno 17 casi del genere. A dare una mano alle ricerche sono stati anche gli esperti dell’Evidence Lab di Amnesty International, che hanno validato 34 video di uso eccessivo della forza - in alcuni casi del tutto immotivato - da parte della polizia, in particolare in Spagna e in Francia. Stati Uniti. La strage degli sceriffi, uccisi anche 14 bambini di Marica Fantauzzi Il Riformista, 24 giugno 2020 Nel 2019 i morti, causati dalle forze dell’ordine americane, sono stati 1798. La maggior parte di questi omicidi resta impunito. Cambierà la mentalità dopo le proteste? Black Lives Matter. Le vite dei neri contano. Ma anche quelle dei bianchi e dei latinos. Se infatti è certo che nella polizia americana il razzismo e la mano pesante nei confronti delle minoranze siano merce comune è altrettanto comprovato che esiste un problema di violenza e grilletto facile che travalica la linea del colore. Il quadro emerge nitido dai dati raccolti dall’associazione Nessuno tocchi Caino, che da anni ormai pubblica un report annuale sugli omicidi ascrivibili alle forze dell’ordine, incrociando i dati ufficiali diffusi dall’Fbi con quelli di molti altri istituti di ricerca, come Fatal Encounters, il più preciso e dettagliato o Fatal Force, del Washington Post, spesso anche sensibilmente diversi. I morti per diversi tipi di “Incontri Fatali” con le forze dell’ordine sono stati nel 2019, secondo Fatal Encounters e secondo i dati riportati da Nessuno Tocchi Caino, 1798. All’11 giugno di quest’anno le vittime erano 928. La grande maggioranza è stata colpita da armi da fuoco: 1.346 persone l’anno scorso, 670 quest’anno. La seconda voce in ordine di letalità recita un laconico “Veicolo” e rinvia di solito agli inseguimenti: 361 morti nel 2019, 212 quest’anno. Ha mietuto vittime anche il Taser, l’arma elettronica che dovrebbe limitarsi a stordire: 31 perone uccise l’anno scorso, 14 nei primi mesi del 2020. La divisione delle vittime per gruppo etnico è meno semplice: nel 2019 i bianchi son stati 628, i neri 424, i latinos 233. Ci sono vittime di diverse origini etniche, ma in quantità poco rilevante mentre i 455 morti “di razza non specificata” incidono sulla possibilità di trarre conclusioni inoppugnabili. La stessa cosa si verifica del resto nell’anno in corso: i bianchi sono 292, i neri 184, i latinos 88 ma le vittime “non specificate” sono ben 349. Anche in mancanza di dati completi sembra possibile affermare che la percentuale di neri uccisi e senza dubbio esorbitante, essendo questi ultimi solo l11% della popolazione totale ma anche che nel complesso la tendenza delle forze dell’ordine a uccidere non si arresta infatti ai confini dei ghetti neri o latini. La fascia d’età nella quel si contano più casi di incontri fatale è quella fra i 31 e i 50 anni seguita da quella tra i 22 e i 30 anni ma l’anno scorso son stati uccisi anche 14 bambini al di sotto dei 12 anni. La sproporzione tra machi e femmine, nel macabro Body Count, è massiccia: nel 2019 sono periti 1606 maschi e 176 femmine, quest’anno, per ora, 828 maschi e 88 femmine. Nonostante casi sporadici di vittime delle quali la polizia non ha comunicato il genere e di un paio di transgender, il dato è in questo caso definitivo ed esaustivo. Un numero così esorbitante di persone uccise dalla polizia non sarebbe possibile senza il tacito appoggio alla politica del pugno duro da parte di una percentuale alta della popolazione, tanto più che negli Usa i comandanti della polizia, come i Procuratori, cioè i rappresentanti dell’accusa, sono elettivi. Dunque non stupisce che il numero degli agenti inquisiti e condannati per questi omicidi sia inversamente proporzionale a quello delle vittime. Tra il 2008 e il 2018 sono stati accusati di omicidio 54 agenti. Tra questi 23 sono stati assolti, 12 condannati e 19 sono in attesa di giudizio. Per i condannati, la pena media è stata di 4 anni. Nessuno tocchi Caino cita anche la ricerca del sito mappingpoliceviolence.org, secondo cui nel 99% dei casi di uccisioni da parte della polizia non viene intentata alcuna azione legale. Tra gli inquisiti finisce con la condanna una causa penale su 4. Sulla base di questi dati si possono trarre due conclusioni certe. La prima è che all’origine dell’uso spregiudicato delle armi e della violenza da parte della polizia c’è una sensazione fondata di impunità. La seconda è che senza la complicità di una parte importante della popolazione questa impunità non potrebbe aver luogo a procedere. Le manifestazioni di queste settimane sembra abbiano almeno incrinato, ma con il forte rischio di una parentesi destinata a richiudersi una volta spenti gli incendi. Ma la questione decisiva è la seconda e da questo punto si vedrà presto se le manifestazioni, come già successo negli anni 60, incideranno sulla mentalità diffusa e di conseguenza sulla licenza di uccidere per la polizia. Libia. Nuovo scontro tra Macron e Erdogan di Francesco Battistini Corriere della Sera, 24 giugno 2020 Parigi contesta il ruolo di Ankara a Tripoli: “Così la Nato è morta”. La Turchia arresta “spie” dei francesi. “Sirianizzazione”. Brutta la parola, giusta l’idea. L’aveva già usata un mese fa il ministro degli Esteri francese, spaventato dalla deriva. La ripetono in queste ore un po’ tutti: sì, la Libia sta diventando sempre più uno scatolone-regalo per due, la Turchia e la Russia, le stesse che comandano in Siria e che qui armano l’una il governo tripolino di Fayez al-Sarraj, l’altra il generale cirenaico Khalifa Haftar. La guerra civile è a una svolta. E dallo scorso inverno, da quando Erdogan ha portato a Tripoli i miliziani siriani, i rapporti di forza si sono rovesciati: Sarraj stravince, Haftar si ritira, Ankara gode. Può durare? Il primo a cui sono saltati i nervi è Emmanuel Macron, sostenitore di Haftar, già furioso perché la settimana scorsa le sue fregate che pattugliano il Mediterraneo s’erano imbattute in un cargo turco pieno d’armi, e s’era sfiorata la battaglia navale. Oltre che una crisi diplomatica: “La Turchia sta giocando una partita pericolosa”, dice il presidente francese. “Il gioco pericoloso” lo fate voi, la risposta di Erdogan: “Stando col golpista Haftar e creando il caos”. Per essere più chiaro, il Sultano ha fatto arrestare un’ex guardia del consolato francese a Istanbul e tre turchi, tutti accusati d’essere spie a libro paga di Parigi dentro il mondo degli islamisti. C’era una volta la Nato. La stessa che nove anni fa cacciava Gheddafi, a suon di bombardieri francesi, e oggi si ritrova due Paesi membri l’un contro l’altro armato. “È la morte cerebrale dell’Alleanza atlantica”, riconosce l’Eliseo: “Ma bisogna dire ai turchi: è ora di fermarsi. Non tollereremo il vostro ruolo. Avete raggiunto l’obbiettivo di capovolgere la situazione militare: basta così”. Il concetto è stato ripetuto da Macron in una telefonata a Donald Trump, uno che finora si preoccupava della Libia solo per il petrolio o per il terrorismo, e invece lunedì ha mandato il capo del Pentagono in Africa, Townsend, a negoziare una tregua militare. È in parte anche la posizione dell’Italia, che gioca sui due tavoli: Luigi Di Maio è stato in Turchia, ora va a Tripoli e tiene aperto il canale Haftar, perché la crisi “riguarda la nostra sicurezza nazionale” e “non possiamo permettere nessuna partizione” (leggasi: sirianizzazione). L’ultima cosa di cui ha bisogno la Libia sono nuovi interventi dall’estero, ha detto ieri mattina un portavoce Onu. E invece troppi si stanno agitando: con la Francia, al fianco di Haftar, ecco schierarsi l’Egitto. “C’è una linea rossa” che i turchi non possono superare, avverte il presidente Al Sisi: questa linea va da Sirte, la simbolica città natale di Gheddafi già liberata dall’Isis, e arriva alla base aerea d’Al Jufra, 250 km a sud, dove i russi hanno piazzato i Mig-29, i Su-24 e le migliaia di mercenari dell’esercito privato Wagner, tutti in appoggio della Cirenaica. Se Sirte cadrà, come sembra, la marcia dei turchi verso Est potrebbe arrivare fino a Bengasi e ai grandi pozzi petroliferi di Ras Lanuf. “Inaccettabile”: parlando ai suoi soldati, Al Sisi non ha escluso un intervento armato in nome della sicurezza nazionale - “tenetevi pronti” - e ha ricevuto l’applauso di sauditi, emiratini, della Lega araba tutta, perché “l’Egitto ha il diritto di difendere i suoi confini”. Di mezzo ci sono naturalmente le vecchie ruggini con Erdogan, che nel 2013 finanziava i Fratelli musulmani al Cairo come ora dà soldi agli islamici di Tripoli. Ma c’è soprattutto l’alleanza francese ed egiziana con Putin. Quello che dice di volere un cessate il fuoco e sul fuoco, finora, ha spesso soffiato. Come in Siria. La Tunisia schiera l’esercito contro i disoccupati traditi di Stefano Mauro Il Manifesto, 24 giugno 2020 Proteste. Tatatouine, tra le regioni più povere del paese, si infiamma a tre anni dalla promessa non mantenuta di posti di lavoro. Duri scontri tra manifestanti e polizia, lunedì sciopero generale del sindacato. Resta alta la tensione a Tatatouine, nel sud delle Tunisia, dopo i violenti scontri di domenica tra i manifestanti e le forze di polizia che hanno sparato gas lacrimogeni per disperdere le proteste a cui è seguito lo sciopero generale di lunedì. Decine gli arresti con i manifestanti che hanno risposto con lancio di pietre, blocchi stradali e l’assalto con molotov a una stazione di polizia. In un consiglio straordinario di ieri, presieduto dall’attuale primo ministro Elyes Fakhfakh, il governo ha deciso di schierare l’esercito in tutta la regione, anche se ha dichiarato che “le proteste del movimento El Kamour (dal nome del sito di produzione petrolifera) sono legittime, ma devono rientrare in manifestazioni non violente nel rispetto della legge” e che “farà di tutto per attuare l’accordo siglato”. Da diverse settimane sono riprese le proteste e i sit-in con gli abitanti che richiedono l’attuazione dell’accordo, concluso dopo mesi di lotte nel 2017 (scontri, decine di arresti e la morte di un giovane, Anouar Sakrafi, investito da un veicolo della Guardia nazionale), che prevede l’impiego di migliaia di lavoratori disoccupati della regione, tra le più povere del paese con un tasso di disoccupazione che sfiora il 40%. La scintilla è scattata quando le autorità hanno arrestato Tarek Haddad, leader del movimento, nella notte tra sabato e domenica con l’accusa di “attentato contro lo Stato”, su richiesta del governatore di Tataouine, Adel Ouerghi, che considera le proteste “illegali, violente e dannose perché bloccano la produzione”. Nel 2017 per risolvere la crisi l’allora governo di Youssef Chahed aveva chiesto aiuto al Sindacato generale del lavoro tunisino (Ugtt) per trovare un compromesso con i manifestanti. L’accordo, siglato nel giugno 2017, prevedeva “il finanziamento del fondo di sviluppo e investimento di 80 milioni di dinari all’anno (24 milioni di euro, ndr), l’assegnazione di 1.500 persone nelle compagnie petrolifere e l’integrazione di 3mila lavoratori, secondo un calendario in tre fasi, alla Società tunisina per l’ambiente”. Dopo tre anni, nessuno dei termini dell’accordo è stato rispettato. Lo stesso Haddad, intervistato su una radio locale, aveva affermato che “solo 60 persone erano state assunte” e che, per il movimento, “era necessario mobilitarsi nuovamente con tutti i mezzi per recuperare la ricchezza usurpata dalle lobby”. La filiale Ugtt di Tatatouine ha convocato “uno sciopero generale” in tutta la regione e ha accusato il governo locale di aver usato “una forza eccessiva e ingiustificata”, condannando l’incarcerazione di Haddad. Il sindacato ha attaccato il partito islamista Ennahdha, che in questa regione ha uno dei suoi feudi, di “aver usato le proteste a fini elettorali e di aver perso la fiducia dei residenti”. “Il governo ha infranto i suoi impegni con i manifestanti (…) Lo abbiamo spinto ad attuare i termini dell’accordo del 2017, ma dopo tre anni ancora niente”, ha affermato il rappresentante locale dell’Ugtt, Adnen Yahyaou. “L’accordo - ha aggiunto Yahyaou - deve essere una priorità per il governo Fakhfakh perché la situazione può peggiorare, soprattutto in questo periodo di difficoltà economiche e sociali aggravate dall’epidemia di Covid-19”. Egitto. Arrestata l’attivista Sanaa Seif, è accusata di “incitamento al terrorismo” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 24 giugno 2020 Sorella del blogger Alaa Abdel Fattah, anche lui in prigione, la loro è la famiglia di attivisti più famosa del Paese. Portata via in un minibus bianco, è riapparsa alla procura della Sicurezza di Stato due ore dopo. L’attivista egiziana Sanaa Seif, 26 anni, è stata portata via, dentro un minibus bianco ieri alle 2 del pomeriggio di martedì 23 giugno, “rapita in strada da agenti in borghese” mentre si trovava davanti all’ufficio del procuratore del Cairo. Due ore dopo è apparsa davanti alla procura della Sicurezza di Stato che - scrive il sito Mada Masr - ha ordinato la sua detenzione preventiva per 15 giorni, con l’accusa di incitamento al terrorismo, diffusione di notizie false e uso improprio dei social media, secondo il suo avvocato Khaled Ali. Le stesse accuse che hanno raggiunto, tra gli altri, Patrick Zaki. Famiglia di attivisti - “Un calvario”, così Riccardo Noury di Amnesty Italia ha definito sui social la vicenda di Sanaa. Quella di cui fa parte la ragazza è la famiglia di attivisti più famosa dell’Egitto. Seif è la sorella di Alaa Abdel Fattah, carismatico blogger della rivoluzione del 2011 (ma assai noto già prima), che si trova in prigione con l’accusa di aver organizzato proteste contro il regime di Abdel Fattah el-Sisi. È stato più volte arrestato, l’ultima nel settembre 2019, pochi mesi dopo essere stato liberato in seguito a cinque anni di detenzione. Sanaa, la madre Laila e la sorella Mona per due giorni hanno dormito davanti al carcere in attesa di ricevere una lettera di Alaa, che le guardie si erano dette disponibili a consegnare. Non lo vedono da marzo, le visite sono state vietate durante la pandemia. Ma nella notte le tre donne erano state aggredite e derubate da persone che ritengono siano state mandate dal ministero dell’Interno a intimidirle. Erano andate tutte e tre in procura, insieme agli avvocati, per fare denuncia e mostrare i lividi, quando Sanaa è stata rapita. Sanaa è la più giovane figlia dell’avvocato dei diritti umani Ahmed Seif Al Islam, a sua volta imprigionato quattro volte sotto la presidenza di Sadat e poi quella di Mubarak, e di un’attivista e docente di matematica, Laila Soueif, sorella della scrittrice Ahdaf Soueif. Mona, la sorella maggiore di Sanaa, è stata la leader della campagna contro i processi militari ai quali l’esercito dal febbraio al dicembre 2011 sottopose almeno 1.200 civili. Lei e suo fratello Alaa non erano presenti quando il padre settantatreenne è morto nel 2014, poiché erano entrambi in prigione per aver manifestato contro una legge che vietava di manifestare. Dopo la morte di Giulio Regeni, Mona Seif scrisse su Facebook: “Se sei uno straniero, per favore, per favore, non venire in Egitto”. Messico. Il modello della polizia comunitaria: un’alternativa di giustizia e sicurezza di Vittoria Romanello La Repubblica, 24 giugno 2020 Sembra essere la tendenza in risposta alla violenza che spesso la polizia mostra nel reprimere il crimine. Il concetto di polizia comunitaria è ispirato dall’idea di ripristinare un rapporto civile e giusto laddove la sfiducia nei pubblici poteri da parte dei cittadini, e dove i diritti civili più elementari umani non vengono rispettati. La polizia comunitaria è una riforma della polizia implementata in vari angoli del mondo per rispondere agli abusi di potere, mancanza di efficacia, scarsa fiducia del pubblico e dubbi sulla legittimità della polizia. Un approccio preventivo verso la criminalità mirato alle cause del crimine e violenza. Una riscoperta, in America Latina. Non si tratta di un’invenzione, piuttosto di una riscoperta di principi enunciati nel mondo anglosassone che risalgono al secolo scorso. Una teoria che si distingue per un controllo preventivo a livello locale, e per l’attitudine ad imbastire rapporti, quanto più possibile stretti, la comunità dove la polizia opera. Im America Latina ci sono storiche relazione conflittuale con la polizia, che spesso tende ad assumere comportamenti ostili e repressivi, e che ha adattato questo modello in vari paesi, come in Colombia, ad esempio, dove il piano di trasformazione e miglioramento culturale ha prodotto di fatto, sebbene con lentezza, una professionalizzazione attraverso di processi educativi permanenti e lo sviluppo del programma “Municipalità sicura”. L’altro esempio dell’Ecuador. Durante la grave crisi economica e politica degli anni 90 il problema della sicurezza pubblica è esploso e una proposta per risolvere l’annoso problema è stata inserita nella Costituzione del 2008, per rafforzare un modello di concentrazione del potere nazionale. La polizia in Ecuador è stata militarizzata, con un passato legato a gravi accuse per il non rispetto dei diritti umani. Dalla metà degli anni 90, sono state proposte misure, non necessariamente accettate dalle autorità politiche, ma che si sono conquistate uno spazio d’autonomia soprattutto a livello statale, come le operazioni cittadine di brigate del quartiere, la polizia della comunità (Upc). Il “vigilantismo” e il caso del Messico. È importante sottolineare che la polizia comunitaria non va confusa con il cosiddetto “vigilantismo”, che consiste nella realizzazione di turni di cittadini di pattugliamento o sorveglianza. Nel “vigilantismo” la comunità può pericolosamente assumere un ruolo di giustiziere, degenerando nella caccia violenta o addirittura il linciaggio. In Messico esiste una proposta per una strategia regionale in cui la riduzione del crimine è dovuta al costante pattugliamento contrariamente all’attuazione della strategia di comando centrale che Enrique Peña Nieto ha cercato di imporre in tutto il Paese. Un esempio viene proprio dal municipio di Aquila, dove il direttore della sicurezza creò gli accordi necessari affinché ci fosse un coordinamento tra le forze di sicurezza dei comuni limitrofi di Coahuayana e Chinicuila. Questo interruppe i tentativi dei criminali locali di riprendere le rotte del traffico di droga e lo sfruttamento illegale delle miniere clandestine, oltre che il contrabbando di diversi materiali. Le montagne della regione di Guerreo. Non esiste solo Michoacan, un’ulteriore realtà è quella della Polizia comunitaria di Guerrero (Pc) - e la Coordinazione regionale delle autorità comunitarie (Crac-Pc è uno degli esempi più avanzati riguardanti la costruzione di alternative di giustizia e sicurezza. La storia racconta come dopo un periodo oscuro in cui il crimine governava la regione di Guerrero, la presenza di organizzazioni sociali - come il Consiglio indigeno dei 500 anni di resistenza - e alcune organizzazioni contadine - come l’Associazione rurale di interesse collettivo (Aric) - ha elaborato un processo comunitario per risolvere collettivamente i casi di furto, stupro, furto di bestiame e omicidi. Dopo aver verificato la collusione della polizia municipale, queste comunità nei comuni di Malinaltepec e San Luis Acatlán si incontrarono e crearono una polizia comunitaria. Da allora, per circa 15 anni, l’istituzione della comunità ha lavorato in modo unitario e il progetto di sicurezza e giustizia ha ridotto bruscamente i livelli di violenza. Da dove vengono le armi? Un ulteriore problema è rappresentato dalle armi: in Messico, nessuno sa con certezza quante armi esistono. I calcoli vanno da 15 a 20 milioni, ma potrebbero essercene molte di più, disponibili ovviamente nel mercato nero. Negli Stati Uniti, la cultura del possesso delle armi è così profondamente radicata da essere sancita come un diritto costituzionale. Nel 2018 le armi negli Usa erano circa 393 milioni per 327 milioni di abitanti. In diversi Paesi latinoamericani, questi strumenti di morte e il loro commercio hanno segnato la storia nazionale. In Colombia, la presenza di armi nella vita pubblica è normalizzata; nel Salvador, il paese più violento dell’America Latina, nel 2019 sono state uccise 2.389 persone. La cifra è enorme per un Paese di poco più di sei milioni di abitanti. L’80% di questi decessi coinvolge un’arma da fuoco. Questi sono solo alcuni esempi del flusso di armi che mostrano una mappa continentale contraddistinta da una vita quotidiana attraversata da proiettili, che arrivano percorrendo la rotta panamericana.