Anche i criminali hanno diritto alla speranza di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 giugno 2020 Per la prima volta la Cassazione utilizza una espressione - “diritto alla speranza” - sinora abbozzata solo in una serie di studi sull’ergastolo nel diritto penale costituzionale. Le parole pesano sempre. Figurarsi se per la prima volta in bocca alla Cassazione che sottopone alla Consulta la possibile incostituzionalità delle norme che prevedono che un ergastolano per delitti di mafia o volti ad agevolare la mafia, pur avviato a un percorso di “sicuro ravvedimento”, non possa essere ammesso alla “liberazione condizionale” (comunque dopo almeno 26 anni già espiati in carcere) qualora non abbia collaborato con la giustizia. Per la prima volta, infatti, la Cassazione utilizza una espressione - “diritto alla speranza” - sinora abbozzata solo dalla dottrina, ad esempio dai professori Dolcini-Galliani-Pugiotto in una serie di studi del 2019 sull’ergastolo nel diritto penale costituzionale. Preclusioni assolute alla liberazione condizionale - scrive ora la I sezione della Cassazione, presidente Antonella Mazzei e relatore Giuseppe Santalucia, nel mandare alla Corte Costituzionale il ricorso di un ergastolano duplice omicida contro il diniego oppostogli dal Tribunale dell’Aquila - sono “trattamento inumano e degradante soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la risocializzazione, perché in tal modo il detenuto viene privato del diritto alla speranza”. Che, come ha messo in luce nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo nella sentenza “Vinter contro Regno Unito”, “inerisce strettamente alla persona umana”, sicché “anche gli individui responsabili dei crimini più odiosi conservano la loro umanità e quindi la possibilità di cambiare e di reinserirsi nella società aderendo al sistema di valori condiviso”. Dunque, “se si impedisse a costoro di coltivare la speranza di un riscatto dall’esperienza criminale che li ha consegnati alla pena perpetua, si finirebbe col negare un aspetto fondamentale della loro umanità, si violerebbe il principio della dignità umana e quindi li si sottoporrebbe ad un trattamento degradante”. “Malato e punito due volte: papà è un condannato a morte” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2020 “È entrato in carcere quando aveva 24 anni, ora ne ha 60”. Parla la figlia di Vincenzo Stranieri, recluso dal 1984 e internato dal 2016. “Il mio è un padre condannato a morte, non parla più perché per il tumore alla laringe gli hanno tolto le corde vocali, rifiuta da mangiare, si sta lasciando morire. Sono 4 anni che non riesco più a vederlo, perché lui stesso non vuole più vedermi”. Sono le parole strazianti di Anna, figlia di Vincenzo Stranieri, recluso ininterrottamente al 41bis dal 1992, anno nel quale fu istituito il carcere duro. Anna lo fa intervenendo durante il consiglio direttivo dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. Quando ha varcato per la prima volta le porte di un carcere, l’11 febbraio del 1975, Stranieri non aveva ancora quindici anni. La sua vita è stata segnata all’età di ventiquattro anni quando, nel giugno del 1984, le porte del carcere si sono chiuse dietro di lui senza più riaprirsi. Quando entrò in carcere, la figlia Anna aveva solo cinque anni. Eppure Vincenzo Stranieri, il “boss di Manduria”, che per la magistratura è stato il numero due della Sacra Corona Unita, non è un ergastolano, non ha condanne per omicidio, eppure ha già totalizzato - tra reati fuori (dall’associazione mafiosa al sequestro di persona) e quelli dentro (per almeno sei volte ha distrutto la sua cella) - una pena complessiva di 36 anni di carcere. Anni e anni di 41bis gli hanno causato anche problemi di tipo psichiatrico. “Questa mia testimonianza - spiega Anna intervenendo in diretta al direttivo di Nessuno Tocchi Caino - può essere paragonata a quello di una figlia alla quale oramai lo Stato ha ammazzato il padre, perché dopo decenni di isolamento al 41bis un padre normale non potrò più riaverlo. Se dovessero liberarlo non potrà vivere da me, perché a causa dei suoi problemi fisici e psichici dovrà essere ricoverato, come spero, in una struttura adeguata”. Teoricamente la sua pena sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma invece di farlo uscire dal carcere gli è stata applicata una misura di sicurezza detentiva che lo costringe a stare chiuso in una casa agricola e sempre in regime di 41bis. Sì, perché da noi esiste la figura degli internati. Ufficialmente non scontano una pena detentiva, perché hanno già pagato il loro conto con la giustizia. Per questo motivo, nel glossario del diritto penitenziario, tali figure vengono definite “internati”, per distinguerli dai “detenuti”. In sintesi, sono i reclusi che, dopo aver scontato una pena, non vengono liberati perché considerati pericolosi. L’internamento è una misura che risale al codice fascista Rocco, non a caso diversi giuristi lo definiscono “reperto di archeologia giuridica”. Reperto che ha anche una definizione ben precisa, “il doppio binario”, ovvero un doppio sistema sanzionatorio caratterizzato dalla compresenza di due categorie di sanzioni distinte per funzioni e disciplina: le pene, ancorate alla colpevolezza del soggetto per il fatto di reato e commisurate in base della gravità di quest’ultimo, e le misure di sicurezza, imperniate sul concetto di pericolosità sociale dell’autore del reato e di durata indeterminata. La Corte Europa ci bacchettò su questo punto specifico. Sentenziò che non si può giustificare l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva solo in ragione della funzione preventiva dalla stessa svolta, se poi di fatto la sua esecuzione non si differenzia da quella di una pena. Proprio perché anche le misure di sicurezza hanno carattere afflittivo, è necessario assicurare che la differenza di funzioni tra pene e misure di sicurezza si traduca anche in differenti modalità esecutive, così da garantire i supporti riabilitativi e risocializzativi necessari a consentire al soggetto di interrompere quanto prima l’esecuzione della misura. Ma Vincenzo Stranieri è uno di quei casi che sconfessano la finalità di questa misura che, ribadiamo, esegue sempre in 41bis. È ridotto ad una larva umana, senza aver mai usufruito di un affidamento terapeutico, senza nessuna attività risocializzante. Quale pericolosità sociale può avere un soggetto che è entrato in carcere quando aveva 24 anni, ora ne ha 60, ed è malato terminale e pure con una grave patologia psichiatrica? Ma qui si pone anche la questione del 41bis. Ha avuto senso per lui visto che nasce per evitare che un boss dia ordini alla propria organizzazione criminale e che, di fatto, lo ha portato, negli ultimi anni, a perdere il lume della ragione? Anna Stranieri parla di tortura, anzi paragona il 41bis alla pena di morte. Non si può darle torto. Il nido dietro le sbarre di Roberta Schiralli Corriere Nazionale, 23 giugno 2020 Il problema dei bambini detenuti in carcere con le madri è un tema spesso dimenticato e relegato nel silenzio delle celle dove i piccolissimi imparano a dire “apri” prima che “mamma o papà”; dove nessun bambino dovrebbe essere costretto a vivere e a scontare una pena non sua. Purtroppo non è una realtà inventata: è una amara realtà che esiste in molti istituti di pena del nostro paese. I bambini ospiti delle “patrie galere” sono quasi tutti figli di stranieri, e quasi sempre di etnia rom, ultimi fra gli ultimi nella nuova scala sociale della solitudine e dell’emarginazione. Negli anni la normativa dell’ordinamento penitenziario, ha affrontato il problema in modo diverso e più articolato, ma segnato ancora dall’ideologia tradizionale nei confronti delle madri detenute. Strutture penitenziarie pensate per gli adulti, con problemi di sovraffollamento, che si sono dovute adattare per piccoli “ospiti”, modificando le celle in nidi: malinconiche figure di Topolino e Principesse Disney che impattano su muri grigi, spazi gioco improvvisati, nessuna divisa nelle sezioni che accolgono i bambini. Insomma, parvenze di normalità. La normativa sulle detenute madri può brevemente riassumersi in pochi passaggi normativi, frutto di una sterile evoluzione basata su esigenze punitive e di sicurezza, vano tentativo di arginare il problema dei piccoli detenuti. La legge n. 354 del 26 luglio 1975 “Ordinamento Penitenziario” all’art. 11 comma 9 prevedeva che alle detenute madri fosse consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini l’Amministrazione penitenziaria organizzava appositi asili nido secondo le modalità indicate dall’art. 19 del Regolamento di esecuzione - D.P.R. 30 giugno 2000. L’art. 47 ter della citata legge prevedeva, tra le misure alternative alla detenzione, che le detenute madri di bambini di età inferiore ai tre anni conviventi potessero espiare la pena presso la propria abitazione od in altro luogo pubblico di cura o di assistenza, entro i limiti consentiti dalla legge. Nel 1998 la legge n. 165 (Simeone - Saraceni) all’art. 4 estese la possibilità di usufruire della detenzione domiciliare alle detenute madri di bambini di età inferiore ai dieci anni, sempre che non dovessero scontare pene per gravi reati di cui agli art. 90 e 94 del testo unico 309/90. La legge 8 marzo 2001 n. 40 - la c. d. legge Finocchiaro - introducendo modifiche al all’art. 146 e 147 c.p., ha ampliato l’ambito di operatività degli istituti del differimento e del rinvio obbligatorio della pena, introducendo i nuovi istituti della detenzione domiciliare speciale e dell’assistenza all’esterno dei figli minori (artt. 21bis e 47 quinquies dell’ordinamento penitenziario). Tuttavia questa legge non ha risolto il problema a causa della rigidità dei requisiti per la concessione dei benefici, subordinata all’assenza del pericolo di commissione di nuovi reati, requisito quasi sempre insussistente trattandosi di condanne a carico di donne recidive, in particolare per reati connessi allo spaccio di stupefacenti e contro il patrimonio. Viene da sé che da questi benefici è restata esclusa una notevole percentuale di donne, per lo più straniere, senza fissa dimora e gravate da numerosi precedenti penali. Nel 2011 la legge n. 62 è stata vista come un “faro di speranza”, perché ha ampliato la possibilità di espiazione della pena, fuori dalle mura carcerarie, da parte della madre, in presenza di figli con età compresa tra zero e sei anni (il limite era 3 anni), così da facilitare l’accesso delle madri alle misure cautelari alternative e privilegiando di contro strutture alternative e più consone allo sviluppo psicofisico del minore. Anche questo scoglio non pare superato poiché soprattutto in presenza di donne straniere o senza fissa dimora, l’esiguità di strutture come gli ICAM (istituti di custodia attenuata) e delle case protette, ha di fatto reso impossibile l’attuazione della legge, mantenendo inalterata la presenza dei minori negli istituti penitenziari. Secondo il XV rapporto sulla detenzione dell’Associazione Antigone “al 30 aprile 2019 sono 55 bambini di meno di tre anni d’età che vivono in carcere con le loro madri, alle quali non è stata concessa, per decisione del giudice, la possibilità di accedere alle misure alternative dedicate proprio alle detenute madri. Ad essere recluse con i propri figli sono 51 donne, 31 straniere e 20 Italiane. Un numero nuovamente in calo, dopo il picco di 70 bambini in carcere raggiunto a metà 2018. In particolare, i bambini si trovano negli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per detenuti Madri) di Lauro (13), Milano San Vittore (10), Torino (8), Venezia Giudecca (5), nell’istituto femminile di Rebibbia (8) e nelle sezioni femminili di Firenze Sollicciano (3), Milano Bollate (3), Bologna (2), Messina (1), Forlì (1) e Avellino (1). Per quanto la cosa possa apparire di marginale importanza, non può ignorarsi l’effetto che la carcerazione indotta, determina sui bambini che soffrono di disturbi derivanti dal sovraffollamento e alla mancanza di spazio, condizionando lo sviluppo della sfera emotiva e cognitiva, provocando irrequietezza, facilità al pianto, difficoltà di sonno, inappetenza, apatia. A questo si aggiunga, dato non meno importante, che al compimento del sesto anno di età, il bambino viene “scarcerato” ed affidato, se privo di affetti familiari, a case famiglia o ad altre soluzioni ritenute idonee per lui. Un distacco dalla madre che cm’è intuibile aggrava enormemente la sfera psicologica ed emotiva, già fortemente compromessa Recentemente la cronaca ha rappresentato il caso del piccolo Edward, che dopo un isolamento di due anni nel carcere di Rebibbia con la madre, sarà affidato ad una struttura per minori perché i suoi genitori sono stati dichiarati non idonei a ricoprire il ruolo, per la lunga lista di condanne riportate. Non resta che sperare in un intervento normativo che si uniformi alle molteplici Raccomandazioni Internazionali sul tema minori e carcere e dia attuazione concreta ai progetti per l’ampliamento di strutture per madri e bambini, rispettose delle esigenze di custodia, ma certamente più idonee alla piccola popolazione carceraria. Lavori di pubblica utilità, prosegue la collaborazione tra Italia e Messico di Marco Belli gnewsonline.it, 23 giugno 2020 La pandemia non ferma i rapporti di collaborazione e cooperazione internazionale fra Italia, Messico e Nazioni Unite. Si è svolta infatti ieri, attraverso videoconferenza, una riunione sul programma di lavori di pubblica utilità e sul lavoro penitenziario a Città del Messico per fare il punto sullo stato di avanzamento del progetto, rallentato a causa dell’emergenza sanitaria. Attorno al tavolo virtuale offerto dalla piattaforma Zoom erano seduti responsabili e sostenitori del programma: l’ambasciatore italiano in Messico Luigi De Chiara, il nuovo responsabile dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine (Unodc) Kristian Holge (danese, succeduto all’italiano Antonino De Leo), il direttore esecutivo del lavoro penitenziario a Città del Messico Aaron Sanchez Castañeda, il senior advisor di Unodc in Messico Claudio La Camera e il responsabile dell’area Messico di Enel Green Power (partner strategico del progetto) Paolo Romanacci; in collegamento dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria erano presenti il nuovo Capo del Dap Bernardo Petralia e il responsabile dell’Ufficio centrale per il lavoro dei detenuti Vincenzo Lo Cascio. Dopo la firma del Memorandum di intesa, fra Nazioni Unite, Segreteria di Governo di Città del Messico e Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per l’implementazione nel sistema penitenziario dello Stato messicano del Progetto ‘Lavori di pubblica utilità’ sulla base del modello italiano, avvenuta ad inizio agosto 2019, e le successive linee guida del programma, sottoscritte nel dicembre scorso nella sede del Gobierno de la Ciudad de México, il progetto è entrato nella fase esecutiva. Proprio a seguito della firma di questi ultimi Acuerdos, sono stati selezionati duecento detenuti, successivamente formati a operare interventi di manutenzione alle aree verdi sia all’interno che all’esterno del carcere, adeguatamente dotati di divise e strumenti per la loro attività di giardinieri e pronti ad uscire dall’istituto per svolgere il loro lavoro in alcune zone della città. A causa della pandemia di Covid-19, le autorità penitenziarie di Città del Messico in collaborazione con l’Unodc hanno attivato, parallelamente alla originaria attività di pulizia del verde, un programma di produzione di dispositivi di protezione individuale per affrontare l’emergenza sanitaria. Circa 15mila mascherine a settimana saranno distribuite ai 25mila detenuti e alle quasi 8mila unità di personale dei tredici istituti penitenziari di Città del Messico. Attualmente si sta pensando di estendere il programma anche in altri Stati del Messico, non appena la situazione sanitaria lo consentirà. “Nonostante sia alla guida del Dap da poco più di un mese - ha sottolineato Petralia - ho già avuto modo di conoscere questo programma assolutamente lusinghiero e molto interessante che vede Italia, Messico e Nazioni Unite lavorare insieme nell’esportazione di un’attività virtuosa come il lavoro di pubblica utilità”. Il Capo del Dipartimento ha definito il lavoro di pubblica utilità “un fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, particolarmente importante dal punto di vista trattamentale e del contrasto alla criminalità organizzata, perché in grado di recuperare persone facendole volgere al bene sociale e perché costituisce un ponte di collegamento con quello che avverrà dopo il carcere”. Petralia ha infine assicurato la sua “costante attenzione e condivisione del progetto, che consentirà ad entrambe gli Stati un risultato di grande rilievo internazionale”. “Anche diversi Paesi europei hanno chiesto di conoscere e approfondire questo modello italiano in vista di una possibile esportazione nel loro sistema penitenziario”, ha detto il Responsabile dell’Ufficio centrale per il lavoro dei detenuti Lo Cascio, sottolineando l’importanza di “una esperienza che va ora rafforzata lavorando insieme al nuovo direttore dell’Unodc in Messico”. Dal canto suo, il nuovo responsabile dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine (Unodc) Holge ha espresso l’auspicio che “presto possa essere superata l’emergenza sanitaria per poter riprendere tutti insieme un cammino già avviato con successo”. Conte: “Scarcerazioni dei boss? Sono certo dell’operato di Bonafede” adnkronos.it, 23 giugno 2020 “Nessun atto del governo ha portato alla scarcerazione dei boss”. Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, durante un’intervista a Il Fatto quotidiano. “Quei giorni sono stati difficili - ha proseguito il premier - perché c’è stata una situazione epidemiologica e quindi chi doveva garantire condizioni di sicurezza aveva precise responsabilità. Tutto è passato attraverso dei passaggi ordinari, non credo affatto alle elucubrazioni che ci sono state e soprattutto è stato poi affidato al vaglio finale dei magistrati a cui spetta l’ultima parola”. “Da questo punto di vista sono assolutamente sicuro e certo dell’operato del ministro Bonafede. È stato tirato in ballo per evidente soggezione nei confronti di alcuni boss malavitosi: io su questo - ha concluso Conte - posso dormire sonni tranquilli, per come lo conosco io, se andava fatto qualcosa di più severo per combattere la criminalità organizzata, non lo farebbe domani, l’avrebbe fatto ieri”. Il Csm alla resa dei conti di Giulia Merlo Il Dubbio, 23 giugno 2020 Ermini annuncia un’analisi a tappeto delle intercettazioni: “Valutiamo incompatibilità ambientali e trasferimenti”. Magistrati contro, tra dita puntate e accuse. È quasi uno scenario di guerra, quello del Csm: un tutti contro tutti in cui vale la regola del sospetto di chi ha ricevuto favori da chi e perchè. È la vendetta di Luca Palamara, che non ci sta ad essere l’unico a rotolare nella polvere e ora punta a squarciare ogni velo su quello che - a suo dire - è il meccanismo che guida le nomine dei togati. In questo contesto da resa dei conti è intervenuto il vicepresidente dell’Organo di autogoverno della magistratura, David Ermini: con una durezza che non gli è propria, sulla falsariga degli ultimi ammonimenti del Capo dello Stato e presidente del Csm, Sergio Mattarella. “Tutti gli organi che hanno delle loro specifiche competenze stanno esaminando atto per atto, chat per chat, intercettazione per intercettazione, tutto quello che è accaduto”, è il preambolo che fa presagire una partita ancora lunga da giocare. Inoltre, “il procuratore generale presso la Corte di Cassazione che ha istituito un gruppo di lavoro per esaminare tutti gli atti e verificare se ci siano illeciti disciplinari su tanti magistrati che compaiono sulle intercettazioni, negli atti e nelle chat. In più, dentro il Csm, la prima Commissione del Consiglio sta esaminando se ci siano questioni che possano creare situazioni di incompatibilità ambientale o professionale per i vari consiglieri che compaiono nelle chat e nelle intercettazioni per eventualmente disporre anche dei trasferimenti”. L’avvertimento nelle parole di Ermini è chiaro: nessuno si senta di averla fatta franca, anche a costo di inficiare le nomine fatte negli ultimi anni. Il punto, però, sono sempre le correnti, le stesse che acquisirono potere quando, “tra il 2006 e il 2008 si tolsero i paletti fissi sulle nomine e venne data ampia discrezionalità al Csm”, in modo che potesse “scegliere sul merito”. La scelta venne fatta per evitare un nuovo caso Falcone, bocciato dal Csm per la carica di capo del tribunale di Palermo per nominare un magistrato più anziano, “Ma la scelta sul merito è stata un fallimento perché spesso si è preferito scegliere sulla base dell’appartenenza, quindi la discrezionalità è stata usata male perché non si è mai reciso quel cordone ombelicale tra le correnti, tra quelle che sono la struttura dell’associazione nazionale che è il sindacato, e il Consiglio Superiore”. In sintesi, le correnti hanno distorto il meccanismo delle nomine legandole all’appartenenza politica e permettendo così che si creasse il cosiddetto sistema Palamara. Invece, “Una volta che le correnti, che anche i gruppi parlamentari che indicano i non togati all’interno del Consiglio, hanno scelto i loro rappresentanti, devono recidere quel cordone e quindi i consiglieri devono assolutamente liberi e non vincolati da nessun tipo di rapporto. Bisogna tutelare in tutti modi coloro che non appartengono alle correnti o che non fanno vita associativa perché non è giusto che solo chi appartiene alle correnti abbia la possibilità di avere dei successi personali”. Ormai, dunque, non regge più nemmeno la teoria della mela marcia e del fatto che Palamara possa essere stato una devianza isolata nel complesso meccanismo delle nomine. Cosa questo significhi, in concreto, per l’organizzazione del Csm è ancora presto per dirlo. Esiste la dimensione più impellente: come risanare un’immagine pubblica della magistratura fortemente inquinata, ma anche come gestire le responsabilità disciplinari a carico di altri togati, che potrebbero sorgere ad un ulteriore approfondimento delle intercettazioni di Palamara. Esiste poi anche il piano più politico. Dopo anni di duri contrasti tra politica e magistratura, oggi che le toghe stanno vivendo una parabola discendente è la politica a dover mettere mano alla riforma del sistema. La bozza della riforma è ancora sulla scrivania di Bonafede e, se i tratti salienti sono noti, mancano ancora certezze. Eppure, il nodo da sciogliere è quello del correntismo e le sue degenerazioni: in pochi confidano nel fatto che basti modificare il sistema elettorale del Csm per risolverlo. La domanda vera, poi, rimane il non detto che spaventa: fino ad ora il trojan nel cellulare di Palamara è costato la carriera a cinque membri del Csm, un procuratore generale di Cassazione e un capo di gabinetto di Via Arenula. Ma quanti altri nomi - e soprattutto a che livello - sono rimasti impigliati nella rete a strascico delle captazioni informatiche e quanti, a loro volta, verranno trascinati dal meccanismo d’indagine nell’indagine anticipato da Ermini? La stagione dei veleni è ben lontana dall’essere conclusa e c’è la concreta ipotesi che la rifondazione della magistratura auspicata dal Capo dello Stato nei fatti avvenga attraverso un azzeramento dei suoi vertici, oltre che ad una riforma di sistema. Cosimo Ferri: “Palamara sa molto di più di quanto ha detto” di Tommaso Labate Corriere della Sera, 23 giugno 2020 Il deputato coinvolto nelle intercettazioni: “All’Anm dovevano farlo parlare”. “La verità è che adesso non c’è trojan che tenga. Il pallino è in mano a lui. Resta da vedere se e che cosa Palamara avrà voglia di ricostruire, di dire, di raccontare. Francesco Cossiga, che non l’aveva in grande simpatia, lo chiamava Tonno Palamara. Se fosse vivo oggi, il presidente emerito magari avrebbe iniziato a stimarlo e a spingerlo ad andare avanti con le sue picconate… Sa, le sue rivelazioni magari aiuterebbero sia la magistratura che la politica a procedere verso una vera separazione dei poteri. Chissà se lo farà. Certo, le cose che ha iniziato a dire e i nomi che ha iniziato a fare? Non serve grandissimo fiuto per capire che non siamo neanche all’inizio”. La chiacchierata con Cosimo Maria Ferri era iniziata sotto ben altri auspici. Il deputato di Italia Viva - il terzo nome del tridente, insieme a Palamara e Luca Lotti, finito nelle intercettazioni del 2019, all’alba della grande inchiesta i cui rivoli stanno mettendo in subbuglio la magistratura - usa un tono fermo e cortese per scandire che “io interviste non ne faccio; e poi, mi scusi, ma sto scappando in commissione Giustizia”. Dalle ultime dichiarazioni in ordine cronologico dell’ex presidente appena espulso dall’Associazione nazionale magistrati - ieri mattina a Omnibus, su La7 - sono passate poche ore. Nomi e nomine, nomine e nomi. Pedine su una scacchiera di cui Ferri è stato una pedina importante: giovanissimo membro del Csm dal 2006, poi leader di Magistratura indipendente, quindi recordman tutt’ora imbattuto di preferenze alle elezioni dell’Anm del 2012, poi sottosegretario alla Giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni. Se Palamara iniziasse a fare i nomi, difficile che… “Alt, qui la fermo. Palamara stesso ha chiarito che col sottoscritto c’era un rapporto di amore e odio. La parte relativa all’odio, glielo confesso, mi incuriosisce. Se parlasse e facesse i nomi, per esempio, chiarirebbe perché nel 2012 hanno mandato me, che pure ero stato il più eletto della storia dell’Anm, all’opposizione”, ribatte Ferri. Unicost e Area, che con i rispettivi leader Palamara e Cascini avevano guidato l’associazione nel quadriennio precedente, rinnovano il patto ed eleggono Rodolfo Sabelli. Certo, visto che le loro conversazioni negli anni successivi sarebbero tornate ad essere tante e continue - de visu al ristorante o in chat - avrebbe potuto chiederglielo. “Eh no”, ribatte il magistrato deputato di Italia Viva, “certe cose non si chiedono. Però sarei curioso di sapere le cose che Palamara avrebbe voglia di raccontare su quel periodo… Visto che, ripeto, io venni spedito all’opposizione dell’Anm”. La domanda delle domande rimane quasi sospesa nell’aria, mentre Ferri accelera il passo verso l’appuntamento con la seduta della commissione Giustizia. Palamara parlerà oppure no? Siamo all’alba di uno scandalo di proporzioni indefinite oppure nel bel mezzo di un grande bluff? “Questa, in effetti, è una bella domanda”, risponde Ferri. Che, per esempio, avrebbe concesso all’ex presidente dell’Anm la facoltà di potersi difendere prima dell’espulsione. “Hanno scelto di cacciarlo senza consentirgli di poter parlare. E adesso sono problemi…”. Secondo lei, per paura di quello che poteva dire? “Io non ho una risposta a questa domanda. Di certo Palamara di cose ne sa, e parecchie. Molte ma molte di più di quelle che ha iniziato a dire. Vede, adesso all’Anm si trincereranno dietro lo statuto per giustificare la scelta di non consentirgli di difendersi. Ma da un giudice ci si aspetta che usi il buon senso e la terzietà anche andando oltre lo statuto. Parlo da cittadino, non da magistrato o deputato: io l’avrei fatto parlare. E comunque, che ci sia stata un’accelerazione nella scelta di espellerlo è fuori di dubbio. Da quando ha iniziato a parlare in tv e sui giornali, c’è stata una grande accelerazione”. C’è anche una questione che riguarda l’uomo, prima ancora che il magistrato. “La famiglia, il dolore che possono procurare le intercettazioni sui giornali. Io ho tre figli. Di tredici, undici e otto anni”, scandisce Ferri. “Ovvio che leggevo i giornali con una certa apprensione, la mattina. La cosa che fa paura a me è la stessa che temo oggi per lui. La famiglia”. Poniz: “Sì, la carriera ha fuorviato alcuni magistrati: ma basta ipocrisie dalla politica” di Errico Novi Il Dubbio, 23 giugno 2020 “Sì, non c’è alcuna difficoltà a dirlo: ci sono stati magistrati che sembrano aver ceduto una parte della loro autonomia e indipendenza al loro referente, in modo da avere vantaggi”. Luca Poniz, presidente dell’Anm da poco più di un anno, destinatario di un peso gigantesco che nessun altro leader della magistratura associata si era mai visto scaricare addosso, ha il pregio della chiarezza. Al punto da disarmare. Non cerca scorciatoie. Non elude la crisi della magistratura con sofisticate ellissi. È “la degenerazione dell’uso del potere”. Chiaro, semplice. Presidente Poniz, mi permetto di tradurre in forma un po’ brutale: ci sono stati magistrati che hanno barattato la loro autonomia pur di fare carriera? “Sì ma mi permetta di dire che su una analisi simile il sottoscritto ha avuto il “torto”, devo consideralo tale, di esprimersi con atti documentabili ben prima dell’indagine di Perugia. Non ho mai negato, certo, che siamo di fronte alla degenerazione dell’uso un potere, quando si parla di vicende come quelle emerse con l’inchiesta di Perugia. Ed è altrettanto chiaro che si tratta di un fenomeno generale, di cui il “caso Palamara” è una espressione, ma che non riguarda evidentemente solo lui”. Ma c’è un “ma”, presidente Poniz? C’è da chiedersi una cosa. I tanti incarichi fuori ruolo da chi vengono assegnati? Dov’è la politica che sceglie i magistrati per i ruoli nei ministeri? Possibile ricevere l’accusa di un eccessivo ricorso alle funzioni extra-giurisdizionali da chi quelle funzioni chiede di assumere? Premesso che la cessione di autonomia di cui sopra è categoria a cui va ricondotto anche il magistrato che confida in una raccomandazione per essere impiegato in una struttura ministeriale, ma vogliamo ricordarci o no che c’è qualcuno, rappresentante del governo o di altra istituzione, che ha scelto e voluto quel magistrato? Niente ipocrisie dalla politica, giusto. Ma nella crisi attuale della magistratura vede analogie con la crisi dei partiti di inizio anni Novanta? C’è un filo rosso tra le due vicende? No, non ci sono analogie. In quel caso si è trattato di gravi responsabilità penali accertate. L’indagine di Perugia offre la proiezione di possibili responsabilità, ma su un piano molto diverso. Ma il Paese ha ragione di chiedersi perché anche un segmento autorevole di classe dirigente qual è la magistratura sia finito in un labirinto? Ogni volta in cui un “potere dello Stato” viene scosso da una crisi si pone un problema di fiducia da parte dell’opinione pubblica. Dobbiamo certamente farci carico di questo smarrimento. L’accostamento con la crisi del 92- 93 è inappropriato quanto alla consistenza delle diverse questioni, ma può senz’altro esserci una assimilazione nell’idea che si radica tra i cittadini. Noi magistrati siamo però esposti al pericolo di una grave confusione. A cosa si riferisce? Al fatto che la crisi ora riguarda l’organo di governo autonomo della magistratura, mentre io vedo estendersi una sorta di anatema generalizzato anche alla giurisdizione e alla vita associativa dei magistrati. Due dimensioni che non sono propriamente investite dal fenomeno di cui si parla. Se non fossi stato certo che la correttezza dell’esercizio della giurisdizione non è stata compromessa dai comportamenti scorretti relativi alle nomine, non avrei mai accettato di assumere la presidenza dell’Anm. E le correnti? Mi sorprendono considerazioni violente sulla necessità di eliminarle, scioglierle. Il problema è casomai di restituirle alle loro essenziali funzioni. C’è il rischio che la magistratura associata ripieghi nel silenzio, nella rinuncia alla propria funzione culturale, nella speranza di allontanare sguardi e intenzioni distruttivi? È un rischio da non sottovalutare. Io sono convinto che siamo chiamati a fare esattamente il contrario. A ritrovare la forza di elaborazione culturale da cui l’associazionismo giudiziario ha tratto origine. L’inveramento del modello di giudice costituzionale è un frutto straordinario offerto dalle correnti alla cultura giuridica. Perché dovremmo abbandonare una strada simile? Il protagonismo di pochi ma assai mediaticamente celebrati pm è una complicazione rispetto all’idea di apporto culturale che l’Anm vorrebbe offrire? Ci risiamo. Si tratta di un paradosso analogo all’eccessivo numero di incarichi fuori ruolo. Lo stesso sistema mediatico che insegue alcuni magistrati inquirenti come se fossero delle star, estende all’intera magistratura le loro posizioni. Se alcuni hanno posizioni poco garantiste, li si prende a esempio per sostenere che l’intera magistratura è poco sensibile alle garanzie. Non vede qualcosa di discutibile? È una specie di trappola? A volte si ha l’impressione di un effetto studiato a tavolino. D’altra parte, al nostro ultimo congresso, a Genova, sono state elaborate analisi molto interessanti, rigorose, ma i media hanno dato rilievo solo a quanto detto a proposito della prescrizione, e in modo del tutto improprio. Tra quegli approfondimenti ce n’era uno dedicato alla separazione delle carriere, in chiave negativa... Sul punto la posizione mia e della giunta è chiara, nota, trasparente. Di separazione delle carriere o di altre riforme relative al Csm che abbiano rilievo costituzionale non si discute perché lo stesso ministro Bonafede considera ora prioritaria la tempestività di un intervento normativo. È un errore, secondo lei, accantonare per esempio l’ipotesi di laici nominati direttamente da avvocatura e accademia solo perché si dovrebbe intervenire sulla Carta? Il ministro ha sempre detto, almeno negli incontri tenuti da quando ho assunto la presidenza, che avrebbe voluto modificare sia i meccanismi per l’elezione dei togati sia quelli relativi ai laici. Io credo che in una fase simile la tempestività dell’intervento costituisca un fattore non trascurabile. Ma mi sembra anche che ad orientarsi verso la scelta di consiglieri laici provenienti dalla politica, anziché dall’accademia e dall’avvocatura, sia stato il Parlamento. Si può decidere, senza modificare l’articolo 104 della Costituzione, di tornare all’autentico spirito del dettato costituzionale: completare la funzione dell’autogoverno attraverso figure in grado di portare un valore in termini di cultura giuridica. Non è necessario riformare la Costituzione. Crede che un riconoscimento esplicito, in Costituzione, del ruolo dell’avvocato possa contribuire a una più solida autonomia dell’intera giurisdizione dalla politica? Avremmo affrontato il tema, in incontri già programmati, se non fosse arrivata l’emergenza sanitaria a travolgere tutto. Conosciamo l’aspirazione coltivata dall’avvocatura come istituzione, e molti magistrati non avrebbero alcuna specifica avversione a un richiamo esplicito, nella Carta, sulla figura dell’avvocato. È evidente anche che la centralità della difesa è valore essenziale della giurisdizione, ne deve essere convinto ogni magistrato. Va però evitato l’equivoco di un pendant all’autonomia della magistratura. Non ce n’è bisogno, in questo senso; ma siamo pronti a riaprire la discussione sul ruolo dell’avvocatura come espressione anche simbolica del ruolo della difesa, essenziale nel modello costituzionale di giurisdizione. Recuperare la fiducia dell’opinione pubblica: è impresa possibile? Sarà indispensabile che ciascuno abbia il coraggio di assumersi le proprie responsabilità, politica compresa. A inizio 2018 un misterioso emendamento ha cancellato la norma con cui era preclusa la nomina per funzioni direttive, semi-direttive e incarichi fuori ruolo del magistrato appena reduce da un mandato al Csm. Dopo due anni e mezzo ancora non si conosce il parlamentare fautore di quella modifica. Se sapremo discutere in modo chiaro, la crisi sarà rapidamente messa alle spalle. Cassese: “Le procure sono il quarto potere, la rovina della magistratura” di Angela Stella Il Riformista, 23 giugno 2020 Il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, non si sbilancia sulla recentissima nomina di Raffaele Cantone a capo della Procura di Perugia, critica chi ha già condannato Palamara prima di una sentenza, e ritiene ineludibile una riforma del Csm, bocciando la soluzione del sorteggio. Non risparmia giudizi severi nei confronti delle Procure della Repubblica, ormai diventate un quarto potere dello Stato. Professor Cassese, il Presidente Sergio Mattarella ha usato parole molto forti nei confronti dello scandalo che ha investito il Csm. Qual è il suo parere in merito al discorso del Capo dello Stato? Valutazione severa ed equilibrata. Giudizi pertinenti. Suggerimenti (impliciti) condivisibili. Occorre che Csm stesso e Parlamento diano un seguito alle parole del Presidente. Il Presidente è anche tornato sui limiti dei poteri del Capo dello Stato: i partiti hanno il potere di modificare l’attuale sistema del Csm nelle due Camere. Cosa ne pensa? Il Parlamento può, anzi deve modificare l’attuale assetto legislativo del CSM, non la struttura e i compiti definiti dalla Costituzione, che ha configurato il Csm come uno scudo per assicurare che, attraverso l’amministrazione delle carriere dei magistrati, il governo non potesse influenzare l’esercizio della funzione giudicante. Purtroppo, su questa base è poi invalsa nella pratica e nell’uso linguistico l’idea che il Csm sia “organo di autogoverno” della magistratura, come se questa fosse un corpo che si auto-amministra. Ritiene condivisibile procedere per sorteggio per la nomina dei componenti del Csm? Il sorteggio è stato sperimentato al posto della elezione politica, ma con poco successo, in epoche e luoghi diversi (Atene, Venezia) e considerato negli Stati Uniti, alla fine del ‘700. Ma sempre in luogo delle elezioni politiche. Applicarlo a un organo tecnico come il Csm sarebbe un errore, perché lì vanno scelte persone in relazione a specifiche capacità, non a caso. Tra il meccanismo odierno, nelle mani delle correnti, e il sorteggio, vi sono molte soluzioni migliori, come quella di cambiare il sistema elettorale, in modo che il voto venga dato sulla persona, non sul rappresentante della corrente. Se non erro, vi è una proposta in tal senso presentata in Parlamento da Stefano Ceccanti, che è anche un serio studioso di diritto pubblico. Né si può vietare l’organizzazione in correnti, perché va rispettato il diritto di associazione e perché le correnti hanno in passato svolto un utile ruolo culturale. È giusto pensare che alcune procure abbiano un eccessivo potere? Le procure sono diventate un potere indipendente dalla stessa magistratura, un quarto potere dello Stato, grazie al compito che si sono arrogate di “naming e shaming”, cioè di additare al pubblico ludibrio. Un attento esame compiuto da un magistrato, qualche tempo fa mise in luce che solo un numero molto limitato delle accuse si rivelavano fondate. Ma intanto, rese pubbliche, avevano già “condannato” gli accusati. Oggi il dottor Luca Palamara sarà sentito dall’Anm e cercherà di scongiurare la sua espulsione. Secondo Lei è il capro espiatorio di un sistema che oggi si sente ricattato da quanto potrebbe rivelare? Non so risponderle e penso che anche il dottor Palamara abbia diritto di non essere condannato dalla opinione pubblica con quel meccanismo che ho appena criticato. Secondo Lei la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con due Csm distinti e separati, potrebbe essere una soluzione alla degenerazione all’interno della magistratura? Penso che, giunti a questo punto, sia semplicemente la codificazione di una situazione di fatto, essendosi tanto distaccati poteri, “modus operandi”, stile dei due corpi. Le procure sono il luogo nel quale è nata la politicizzazione endogena della magistratura. Basti vedere da quale esperienza provengono i magistrati che sono “entrati in politica” o che si esprimono più spesso sui mezzi di comunicazione. Non penso che i magistrati debbano esser degli “stiliti”, quei monaci anacoreti che vivevano su una piattaforma in cima a una colonna. E non penso che i magistrati debbano “parlare solo con le sentenze”. La società ha bisogno dell’opinione anche dei magistrati. Ma c’è un problema di misura, di temi che vanno evitati, di sovraesposizione. In tutto questo il Csm stesso è stato molto carente. Così come è stato carente nel definire i criteri della scelta dei titolari degli uffici direttivi. Tra applicare la sola regola dell’anzianità e lasciare che dominino le correnti, ci sono molte soluzioni intermedie, come quella di udire i candidati, di “misurare” e valutare la loro pregressa attività, di acquisire opinioni degli uffici giudiziari. Come giudica la nomina del dottor Cantone al vertice della Procura di Perugia? Ricordo che quando Raffaele Cantone ricopriva il ruolo di Zar dell’Anticorruzione il suo giudizio sull’operato dell’Anac fu molto spesso negativo... Ho più volte espresso un giudizio negativo sull’Anac e sulla sua guida, perché ritengo che abbia spaventato i dipendenti pubblici e rallentato l’azione amministrativa, senza tuttavia ridurre la corruzione. Ma non ho elementi per giudicare la bontà della scelta fatta dal Csm, non conosco la “performance” dell’attività svolta dal dottor Cantone quale magistrato, e non conosco neppure quella del suo concorrente. Finirei per giudicare - in modo parziale - solo sulla base della mia grande stima e simpatia personale per il dottor Cantone. Il Ministro della Giustizia Bonafede è in grande difficoltà dopo le accuse che gli ha lanciato contro il dottor Antonino Di Matteo dal salotto di Giletti prima e in commissione antimafia poi per la questione relativa al vertice del Dap. Qual è il suo giudizio su questo? Che alla base ci sia un’altra anomalia istituzionale. I magistrati fanno parte dell’ordine giudiziario, che è uno dei poteri dello Stato. Perché occupano il Ministero della giustizia, che è parte di un diverso potere dello Stato, quello esecutivo? Pongo questa domanda perché la vicenda alla quale fa riferimento è la prova della contraddizione che ne deriva: i magistrati che siedono ai vertici del Ministero debbono eseguire le direttive del ministro, come tutti i funzionari, oppure operare in maniera indipendente, come hanno titolo di fare per il loro “status” di magistrati? Negli studi che ho fatto, alcuni anni fa, sulla storia dello Stato, ho mostrato come questo connubio è nato e perché oggi non ha ragion d’essere. Giustizia, è l’ora di una vera riforma di Giuliano Pisapia Corriere della Sera, 23 giugno 2020 “Inostri cittadini hanno diritto a poter contare sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità della sua applicazione rispetto ai loro comportamenti”: caro direttore, è questo uno dei messaggi chiave dell’intervento del Presidente della Repubblica tenuto il 18 giugno. La riforma della giustizia è non solo urgente, ma indifferibile; non è urgente perché ci viene sollecitata da qualcuno, ma perché non è più possibile procedere con una babele legislativa rivelatasi farraginosa, complicata, inconcludente per non dire spesso contraddittoria. Il costo molto limitato di una riforma complessiva della giustizia dovrebbe generare - tanto più se si tiene conto delle somme ingenti che potrebbero arrivarci dall’Europa - l’attenzione del legislatore superando minuetti non più giustificabili. I vantaggi sarebbero innegabili. Una giustizia che funzioni rappresenta uno dei cardini della nostra convivenza civile ed è una garanzia per i diritti individuali e collettivi. Non solo ma è anche uno dei presupposti per la credibilità internazionale del nostro Paese: troppo spesso chi intende investire in Italia si blocca a causa di un sistema giudiziario incapace di garantire tempi certi ed esiti prevedibili. Né si può ignorare che i fondi del Recovery Fund ci arriveranno solo se ci saranno riforme credibili ed efficaci. I ritardi del sistema giudiziario costano al Paese 2,5 punti di Pil, come ricorda uno studio Cer Eures. La ricerca evidenzia come si potrebbe avere un recupero di 40 miliardi se la nostra giustizia civile viaggiasse alla stessa velocità di quella tedesca. 40 miliardi sono una cifra monstre superiore a quella di qualsiasi manovra di finanza pubblica. E ancora, l’osservatorio dei Conti pubblici guidato dal professor Carlo Cottarelli mette in luce come siano 2.949 giorni (8 anni e 29 giorni) i tempi necessari in Italia per una sentenza definitiva in sede civile procedimento civile giunto al terzo grado di giudizio. E negli altri Stati? 1.216 in Francia, 976 in Spagna e 799 in Germania. L’Italia è ultima per i tempi di giudizio di ultima istanza, penultima dopo la Grecia per il secondo grado. Oggi occorre porre al centro della riforma complessiva della giustizia un forte intervento di depenalizzazione trasformando in sanzioni amministrative e pecuniarie molte fattispecie che ora prevedono la reclusione. È provato come siano più temute e più efficaci per i fatti non gravi sanzioni amministrative, pecuniarie, pene interdittive e prescrittive che pene carcerarie soltanto teoriche. Punto fondante di una vera riforma deve essere l’abbandono della logica “panpenalistica” il cui fallimento è davanti agli occhi di tutti. Con coraggio bisogna imboccare un reale percorso volto a favorire il reinserimento lavorativo e sociale del detenuto. Solo così - ce lo confermano i dati e la realtà quotidiana - si può abbattere la recidiva e si ottiene quella sicurezza sociale che i cittadini giustamente reclamano. I tribunali del Paese sono stritolati da milioni di cause per reati di modesta entità: si pensi al reato di clandestinità che è una assurdità giuridica che riempie le Procure di fascicoli senza nessuna incidenza nel contrasto della criminalità. Servono riti alternativi più efficaci e celeri, al dibattimento vadano solo i processi su fatti controversi o di reale gravità. Una estensione dei riti alternativi e del patteggiamento sono fondamentali per processi più celeri, diminuzione della carcerazione preventiva e più rapido risarcimento del danno alle vittime di reati. La prescrizione come prevista dalla riforma Bonafede non risolve alcun problema, al contrario li amplifica; la prescrizione è solo una piccola parte di un mosaico che dovrebbe essere composto da una vera riforma del sistema giustizia. Al momento il progetto di cambiamento più volte annunciato è avvolto da nebbia fittissima. È stato proposto di aumentare i giudici monocratici per rendere più rapidi i processi; può essere una soluzione che però adotterei solo in primo grado e non in appello. Il giudizio di merito definitivo non può essere preso da una sola persona. La giustizia civile è arrivata al capolinea; occorre una maggiore specializzazione dei tribunali con più sezioni dedicate alle imprese o al diritto del lavoro. Il processo telematico deve essere incrementato e ancora più promosso. La tecnologia - come in tutti gli ambiti professionali - si rivela, oggi più che mai, un alleato prezioso anche e soprattutto per i tribunali. Per questo occorre favorire la digitalizzazione eliminando le perdite di tempo e i costi derivanti da migliaia di atti cartacei. Nel giudizio civile sarebbe utile rendere stabile la possibilità delle udienze in videoconferenza, come è avvenuto in questo periodo di emergenza, tenendo ovviamente conto della tipologia del processo. Altro tema delicato, quello della Giustizia amministrativa. C’è chi propone l’eliminazione del Tar. Non è una soluzione anche se corrisponde al vero che ci sono troppi ricorsi infondati che bloccano la realizzazione di piccole e grandi opere. Anche su questo un intervento legislativo non è più procrastinabile. Si sta molto discutendo della riforma del Csm; ridurre le circoscrizioni e potersi candidare senza l’indicazione delle correnti sarebbe certamente un passo avanti. Le correnti hanno avuto un ruolo di discussione all’interno della magistratura, ma la degenerazione è evidente, e non da oggi. Il Csm deve però essere libero di nominare in autonomia i vertici delle sedi giudiziarie, qualunque sia il sistema della sua elezione, anche se non credo che la soluzione possa essere il sorteggio. La differenza la farà sempre la correttezza delle persone chiamate a decidere. Il governo, il Parlamento, la maggioranza di governo - ma anche l’opposizione più responsabile - hanno oggi un’occasione irripetibile. Sarebbe un errore grave sprecarla; è tempo perché si realizzi quella “buona politica” tanto attesa dai cittadini e dall’intero Paese. Senza la necessità di dire che “ce lo chiede l’Europa”. Fuorviante invocare la “questione morale”. Per cambiare la giustizia servono riforme di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 23 giugno 2020 Le deviazioni correntizie della magistratura che vedono Luca Palamara come protagonista con l’intero ordine giudiziario e lo scontro tra Di Matteo e il ministro della giustizia hanno messo finalmente in evidenza la differenza che c’è tra la questione morale e la questione giudiziaria che da molto tempo viene negata o trascurata ed è fonte di tanti pericolosi equivoci. Assistiamo da anni allo scontro tra garantisti e giustizialisti con polemiche vivaci tra di loro, ma alla fine si scopre che ognuno è alternativamente garantista e giustizialista a seconda della convenienza: così avviene a tutti livelli e la questione morale viene appannata. Enrico Berlinguer negli anni 90 pose in maniera forte e drammatica la “questione morale” come problema sociale e istituzionale: lo fece in presenza della crisi del comunismo sovietico e della sua liquidazione per dare una linea politica al suo partito e per riscattarlo dai soprusi e dai finanziamenti sovietici. Operò questa scelta senza denunziare i “peccati” del Pci, per contestare il potere dei partiti della maggioranza che in quel periodo governavano. La questione morale divenne prontamente questione penale perché Tangentopoli affidò il “controllo” alla magistratura con le modalità ormai note anche nei dettagli. La magistratura o meglio le Procure si impegnarono a processare il “sistema” più che a indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili; e il giudice, nonostante le innumerevoli sentenze di assoluzione, acquistò le caratteristiche del valutatore etico che condanna il male per fare vincere il bene! Il confondere la “morale” con il “penale” ha quindi determinato tanti lutti e forse oggi vi può essere un chiarimento nell’interesse della vita sociale e dell’efficacia delle istituzioni. Il tribunale di Perugia stabilirà se Palamara è responsabile di reati penali, riferiti alla sua persona che debbono avere una fattispecie precisa e specifica, ma le deviazioni drammatiche del correntismo che si afferma sopra ogni altro principio, non hanno valore penale ma appartengono al comportamento scorretto dei singoli e dell’organo di autogoverno (Csm), al funzionamento scorretto delle situazioni, al non rispetto dell’indipendenza della magistratura, in una parola alla questione morale che interessa tutti e passa per ognuno di noi. Palamara ha ragione nel dire che non può essere solo lui il responsabile di un metodo che è un andazzo da sempre, noto a tutti e con la partecipazione di tutti. Nessuno può dichiararsi estraneo neanche quelli che magari timidamente o per salvarsi la coscienza hanno denunziato il sistema ma è risultato egualmente agevolato e resta convinto di avere ricevuto le agevolazioni (cioè la promozione) perché più bravo! E per questa ragione che desta ilarità il ripetuto esempio fatto da Davigo che sostiene di non volere più rapporti con chi invitato a cena ha rubato l’argento che è pur sempre un furto e quindi un reato. Il dottor Davigo non è consapevole che in questo caso non è stato rubato l’argento ma l’oro dell’indipendenza della magistratura come valore istituzionale per tutti cittadini, e quindi siamo di fronte ad una questione morale e istituzionale per la quale ognuno deve sentirsi responsabile. Non siamo in presenza di reati ma di una distorsione istituzionale che coinvolge tutti. Con molta acutezza è stato detto che non bisogna osservare la “mela marcia” ma l’albero da cui quella mela proviene. E l’albero, diciamolo con chiarezza, è stato piantato negli anni 70 quando il Parlamento ha approvato la “progressione automatica e per anzianità’ per cui tutti i magistrati sono bravi, anzi ognuno è più bravo dell’altro! E se tutti sono bravi come si fa ad assegnarli o promuoverli se non con un requisito in più: l’appartenenza alle correnti. Agli atti della Camera sono registrati gli interventi di chi avvertì il pericolo per l’indipendenza della magistratura che con quella legge si voleva tutelare burocraticamente! Contesto per questa ragione che la magistratura adoperi un metodo mafioso secondo una dichiarazione di stupefacente superficialità fatta da Di Matteo che è spiegabile soltanto per la sua deformazione professionale occupandosi ossessivamente di antimafia. D’altra parte è stato proprio Giancarlo Caselli a dire che Di Matteo essendo reattivo al solo ascolto della parola “trattativa” in una trasmissione televisiva ha reagito! Si tratta come vediamo in queste ore di un metodo anche più grave sul piano istituzionale ma non mafioso perché manca la costrizione, l’assoggettamento, l’intimidazione come condizione, essendo tutti, ma proprio tutti d’accordo. Rispetto a questi eventi il giustizialista chiede le dimissioni di chi appare il responsabile e il garantista invece invoca un cambiamento di regole e pretende riforme adeguate che non sono il ridicolo sorteggio dei membri togati per il Csm o il cambio del sistema per le elezioni dell’organo che non servono assolutamente. Basta ricordare a questi riformatori che all’inizio degli anni 90 i partiti già da allora in crisi, per evitare le correnti o l’aumento fittizio di altri partiti, cambiarono il sistema elettorale da proporzionale a uninominale e i partiti da 11 che erano diventarono 111, senza riuscire a contarli tutti. Abbiamo detto tante volte che una riforma vera deve tenere conto del ruolo del magistrato che è profondamente diverso da quello disciplinato dai Costituenti e non è più un potere “diffuso” ma individuale: perciò il vestito vecchio non va più bene, è stretto e si strappa continuamente: con sofferenza per le istituzioni. Le soluzioni le abbiamo elencate dagli anni 70 e i magistrati illuminati le conoscono, ma non le vogliono perché la cappa del corporativismo e del potere irresponsabile è troppo forte, e invece solo quelle riforme possono far rigenerare una istituzione come la magistratura e potenziare il suo ruolo destinato altrimenti a non essere più espressione del popolo italiano. Per onorare la questione morale dunque non bisogna dimettersi come punizione auspicata ossessivamente da Davigo, ma accettare fino in fondo le riforme che eliminano davvero l’andazzo perverso finora adottato. La stessa questione morale riguarda lo scontro tra il ministro di giustizia e Di Matteo il quale ha dato notizia, seppure in maniera incerta ed equivoca, di un reato che vede coinvolto il ministro come vittima e come autore del reato per il quale si attendono le decisioni della procura della Repubblica. Ma inaspettatamente Di Matteo nell’audizione resa alla Commissione Parlamentare antimafia ha dichiarato che teneva ad assumere il ruolo di capo del Dap perché quelle competenze potevano essere utili per accertare le responsabilità della trattativa tra lo Stato e la mafia. Ho sempre sostenuto che il ministro non è tenuto a dare risposte trattandosi di una sua personale scelta, ma Di Matteo si è dato da solo la risposta: non può dirigere il Dap chi vuole ricercare in tutti modi, anche fuori dall’esclusiva attività giudiziaria, elementi a favore di una tesi, per ora smentita dalle sentenze. Ecco, questo appartiene alla sfera morale, alla “questione morale” che questa sì deve essere invocata e attuata ad ogni piè sospinto e distinta da quella penale. In ogni caso la cultura morale viene prima di quella giurisdizionale. Sulle intercettazioni i pubblici ministeri hanno finito di giocare di Viviana Lanza Il Riformista, 23 giugno 2020 “C’era una prassi sbagliata a cui le Sezioni Unite hanno posto rimedio”. Così l’ex procuratore Franco Roberti, oggi europarlamentare ed ex assessore alla sicurezza della Regione Campania, commenta la sentenza della Corte di Cassazione che a gennaio ha posto un argine al dilagare delle cosiddette intercettazioni a strascico, ritenendole non valide quando riguardano reati diversi e senza alcuna connessione forte con quelli per i quali quella stessa attività investigativa è stata autorizzata. La Cassazione ha messo fine a un orientamento molto diffuso in questi anni. Lo condivide? “La Cassazione ha ristabilito quello che la legge già prevedeva. L’orientamento delle Sezioni Unite mi sembra corretto e sarà quello a cui dovranno attenersi i magistrati”. Ritiene che negli anni ci sia stato, da parte dei pubblici ministeri, un uso eccessivo delle intercettazioni come strumento investigativo? “La valutazione va fatta processo per processo perché ogni processo ha una storia a sé. Ma certo, l’uso corretto delle intercettazioni è prescritto dalla legge e le intercettazioni devono essere un mezzo di ricerca della prova. Quindi, una cosa è fare le indagini soltanto ed esclusivamente con le intercettazioni e un’altra è utilizzarle come uno dei più importanti strumenti di indagine. Perché le intercettazioni sono fondamentali ma non possono essere l’unico strumento di indagine. Non sono una prova, sono un mezzo per ricercare la prova di reati per i quali ci sono già indizi”. Il tema relativo alle intercettazioni conduce a un altro tema molto sentito: la ragionevole durata delle indagini preliminari. Secondo i dati del più recente report sulla giustizia, il 53% delle prescrizioni matura in fase di indagini preliminari e il 24% nel giudizio di primo grado. Come commenta questi dati? Si perde troppo tempo? “La prescrizione dipende dall’inefficienza del processo penale italiano, è il segnale della incapacità del sistema giudiziario di concludere indagini e processi entro un tempo ragionevole”. Cosa dobbiamo intendere per “ragionevole”? “Definisco ragionevole la durata di un processo che non ha tempi morti. È vero che ogni processo ha la sua storia e i suoi tempi, ma è importante che non si verifichino perdite di tempo inutili e questo deve ricadere nella responsabilità dei magistrati”. Significa sanzioni per i magistrati che si perdono in lungaggini? “Sì. Mi faccia dire questo: se la velocità con cui si concludono i processi penali e civili non è considerata parametro rilevante in sede di valutazione della professionalità di un magistrato, la tempestività di definizione non sarà mai percepita da ogni singolo magistrato come un valore e se non è percepita come un valore non avremo mai una giustizia efficiente e tempestiva. Responsabilizzare su questo i magistrati è tra le mie proposte di riforma, assieme a una grossa depenalizzazione e una diversa organizzazione del sistema giudiziario sia sul piano telematico sia per consentire lo snellimento dei processi”. Perché, secondo lei, una vera riforma della giustizia non è stata ancora attuata? “Perché manca la volontà politica, perché la giustizia non è considerata una priorità e quindi non si investe nella giustizia che continua ad essere la Cenerentola della spesa pubblica. Eppure ce lo chiede adesso anche l’Europa come condizione per il Ricovery Fund. La pandemia ha svelato tutte le fragilità della giustizia che ora è letteralmente in ginocchio: è il momento di intervenire con riforme e risorse finanziarie, perché una giustizia civile e penale che funziona è condizione inderogabile per accedere a fondi dell’Unione europea e perché una giustizia efficace ed efficiente è la precondizione necessaria per lo sviluppo economico del Paese. Solo dove c’è una giustizia tempestiva ed efficiente si possono attirare investimenti”. Il Senato cancella (tra i dubbi) il carcere per i giornalisti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2020 Sparisce il carcere per i giornalisti. Ma non è affatto detto che la soluzione che si sta prefigurando sia più rispettosa della libertà di stampa. La commissione Giustizia del Senato, infatti, che oggi pomeriggio ne riprende l’esame, ha approvato, nell’ambito dei lavori sul disegno di legge di riforma del reato di diffamazione, un emendamento che, nel cancellare la previsione, abbastanza residua, del carcere per i giornalisti colpevoli, irrobustisce in maniera significativa le sanzioni sempre penali, ma di natura “solo” pecuniaria. Infatti, nei casi più lievi di diffamazione si applica la pena da 5mila a 10mila euro, mentre per quelli più gravi, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto falso, la cui diffusione è avvenuta nella consapevolezza della sua falsità, allora l’importo della multa sarà compreso tra un minimo di 10mila euro e un massimo di 50mila. Troppo, sottolinea l’avvocato Caterina Malavenda, tra i massimi esperti di diritto penale dell’informazione, perché in questo modo a una pena detentiva che solo assai di rado è stata applicata (fece storia, per molti versi, il caso di Alessandro Sallusti, che scontò alcuni giorni di arresti domiciliari, prima che il Presidente della Repubblica gli commutasse la pena) se ne sostituirebbe una, di natura economica, ma assai afflittiva. Il giornalista sanzionato, infatti, dovrebbe pagare di tasca propria cifre non certo banali, potrebbe godere solo una volta della sospensione della pena e, in caso di conversione della misura pecuniaria in libertà vigilata o lavoro sostitutivo, si tratterebbe di modalità di difficile compatibilità con il lavoro giornalistico. Malavenda sottolinea come la piena consapevolezza della falsità del fatto oggetto della condotta di diffamazione si presta a un duplice e opposto rischio: quello di volere estendere l’area della consapevolezza sino farla sconfinare in quella della presa in carico di una possibilità di falsità della notizia, quello che la prova di una piena conoscenza sia del tutto impossibile da provare. Oggi la norma del Codice penale abbina alla pena detentiva che, nei casi più gravi, può arrivare sino tre anni, la possibilità di una multa fino a 2.065 euro. Pochi giorni fa, la Corte costituzionale chiamata in causa proprio per decidere della compatibilità con la Costituzione, anche alla luce delle conclusioni ormai consolidate della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha dato 12 mesi di tempo al Parlamento per trovare una soluzione, lasciando però trasparire il fatto che, nell’inerzia di Camera e Senato, il punto di arrivo finale sarà verosimilmente la cancellazione della pena detentiva. La prima mossa dei senatori, successiva alla scelta della Consulta, è stata appunto l’approvazione dell’emendamento, ma il disegno di legge andrà poi pesato nel complesso, visto che interviene su altri aspetti cruciali come la rettifica che, a determinate condizioni, può azzerare il profilo penale. Strasburgo condanna l’Italia per la morte di un detenuto di Emilio Quintieri emilioquintieri.com, 23 giugno 2020 Strasburgo condanna ancora l’Italia. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Prima Sezione, riunita in un Comitato composto da Armen Harutyunyan, Presidente, Pere Pastor Vilanova e Pauliine Koskelo, Giudici, nella causa promossa da Santo Citraro e Santa Molino contro Italia (Ricorso n. 50988/13), dopo aver deliberato in Camera di Consiglio il 28 aprile 2020, con Sentenza del 4 giugno 2020, ha dichiarato, all’unanimità, la Repubblica Italiana responsabile della violazione dell’elemento materiale dell’Articolo 2 della Convenzione condannandola anche al risarcimento dei danni (32 mila euro per danno morale e 900 euro per le spese, oltre alla maggioranza dovuta per eventuali imposte ed interessi) da versare, entro tre mesi, in favore dei ricorrenti. I ricorrenti, signori Citraro e Molino, il 24 luglio 2013, introdussero un ricorso alla Corte di Strasburgo contro l’Italia, ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione Europea, lamentando la violazione degli Articoli 2 e 3 della Convenzione, ritenendola responsabile del suicidio per impiccagione del loro figlio Antonio Citraro, 31 anni, di Terme Vigliatore, avvenuto nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 2001, mentre era detenuto nella cella n. 2 del reparto “sosta”, presso la Casa Circondariale di Messina. All’epoca dei fatti, la morte di Citraro, in un primo momento venne etichettata come un suicidio e subito dopo, grazie alle denunce della famiglia, come omicidio colposo: il Gup del Tribunale di Messina dispose il rinvio a giudizio del Direttore dell’Istituto, di sei Agenti della Polizia Penitenziaria e del Medico Psichiatra per i reati di favoreggiamento, falso per soppressione, omicidio colposo, abuso dei mezzi di correzione e lesioni personali. Ma gli imputati, in tutti i gradi di giudizio, vennero assolti da ogni accusa. I genitori del giovane detenuto però non si arresero e, dopo aver esaurito i rimedi giurisdizionali interni, assistititi dall’Avvocato Giovambattista Freni del Foro di Messina, proposero ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nei giorni scorsi, dopo 19 anni, ha finalmente condannato l’Italia per le sue responsabilità. In particolare, i ricorrenti, lamentavano la violazione dell’Articolo 2 della Convenzione sostenendo, tra l’altro, che l’Amministrazione Penitenziaria, per mancanza di precauzioni e per negligenza, non avesse adottato le misure necessarie e adeguate idonee a impedire il suicidio del loro figlio, affetto da disturbi psichici, tant’è vero che in precedenza aveva più volte posto in essere atti di autolesionismo compresi tentativi di suicidio, che avevano portato il Magistrato di Sorveglianza di Messina a disporre il suo ricovero nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, provvedimento rimasto inevaso (solo pochi minuti prima del decesso di Citraro dal Ministero della Giustizia arrivò l’ordine di traduzione presso l’Opg). Ebbene, la Corte di Strasburgo, ha deciso di condannare la Repubblica Italiana ritenendola responsabile in quanto l’Art. 2 della Convenzione obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Tale obbligo sussiste, ancora di più, dal momento in cui le Autorità Penitenziarie siano a conoscenza di un rischio reale e immediato che la persona detenuta possa attentare alla propria vita. Nel caso in questione, l’Amministrazione Penitenziaria, era perfettamente a conoscenza dei disturbi psichici e della gravità della malattia di cui era affetto il giovane detenuto, degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio che aveva posto in essere, dei suoi gesti e pensieri suicidi e dei segnali di malessere fisico o psichico (aveva completamente distrutto la cella, impedendo l’ingresso al personale, e faceva discorsi deliranti e paranoici). Per tali motivi, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha ritenuto che le Autorità Penitenziarie non abbiano adottato le misure ragionevoli che erano necessarie per assicurare l’integrità del detenuto Antonio Citraro. Infatti, nella sentenza, i Giudici Europei scrivono chiaramente che “… le Autorità si sono sottratte al loro obbligo positivo di proteggere il diritto alla vita di Antonio Citraro. Pertanto, vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’Articolo 2 della Convenzione.” La vicenda della morte di Antonio Citraro è analoga a quella di tanti altri detenuti, parimenti affetti da disturbi psichici, verificatasi negli Istituti Penitenziari d’Italia. Tra le tante morti similari, ricordo particolarmente quella di Maurilio Pio Morabito, 46 anni, avvenuta il 29 aprile 2016, a poche settimane dal suo fine pena (30 giugno 2016), mentre era detenuto presso la Casa Circondariale di Paola. Morabito, come Citraro, si è impiccato nella cella n. 9 del reparto di isolamento, dopo aver posto in essere diversi atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, rifiutato di assumere i farmaci per timore di essere avvelenato ed anche di recarsi a colloquio con i propri familiari. Aveva finanche incendiato e distrutto, ripetutamente, le altre celle in cui era precedentemente allocato e per tale ragione era stato posto per diversi giorni in una cella liscia (cioè priva di ogni suppellettile), sporca e maleodorante, senza nemmeno essere sorvegliato a vista, lasciandogli addosso solo le mutande ed una coperta. Proprio utilizzando quest’ultima, che è stata annodata a forma di cappio alla grata della finestra della cella, di notte, è riuscito a togliersi la vita. Per la vicenda di Morabito, i familiari, non hanno ottenuto giustizia in sede penale, in quanto il procedimento è stato archiviato dal Gip del Tribunale di Paola su conforme richiesta avanzata dalla Procura della Repubblica. Recentemente però, assistiti dagli Avvocati Corrado Politi e Valentino Mazzeo del Foro di Reggio Calabria, hanno citato in giudizio il Ministero della Giustizia per sentirlo condannare al risarcimento dei danni. La causa attualmente è in corso presso il Giudice Civile del Tribunale di Reggio Calabria (ed io sono tra le persone che verranno sentite in merito dall’Autorità Giudiziaria). Venezia. Magistrati contro avvocati: “Troppi rinvii? Colpa vostra” di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 23 giugno 2020 La giustizia in Veneto non si è mai fermata, neppure durante il periodo del lockdown, e non è colpa dei magistrati se molti processi continuano ad essere rinviati. La sezione veneta dell’Associazione nazionale magistrati scende in campo per difendere l’attività degli uffici giudiziari regionali di fronte agli attacchi degli avvocati, in particolare quelli di Padova, che qualche giorno fa hanno diffuso una nota per lamentare il “sostanziale azzeramento dell’attività di udienza”. I rinvii “in larghissima parte sono dipesi dal mancato consenso dei difensori alla celebrazione dei processi in presenza e anche in modalità da remoto, nonostante fossero stati siglati con gli Ordini degli Avvocati di quasi tutti i Circondari appositi protocolli”, sottolinea il sindacato veneto delle toghe, che addebita alla “scarsa disponibilità dei difensori” il differimento anche di “processi che si sarebbero potuti altrimenti celebrare”. Per dimostrare l’attività giudiziaria è proseguita, seppure con il rallentamento dovuto all’emergenza coronavirus, l’Anm fornisce alcuni dati relativi ai provvedimenti definiti: la Corte d’Appello ha emanato 754 provvedimenti solo nella fase 1, allorché l’attività giudiziaria era ridotta ai minimi termini; il Tribunale di Venezia ha definito, nelle fasi 1 e 2, 922 procedimenti civili (senza considerare l’attività della Sezione Imprese e della Sezione Protezione internazionale) ed emesso 293 sentenze penali; il Tribunale di Padova, nella sola Fase 1, ha definito oltre 1200 procedimenti; il Tribunale di Verona ha depositato 614 sentenze nella prima fase, definendo 3.019 procedimenti, ed altre 738 sentenze tra l’11 maggio e l’8 giugno, definendo 3.253 procedimenti; il Tribunale di Rovigo ha definito nelle fasi 1 e 2 oltre 900 procedimenti; e il Tribunale di Belluno, nella sola fase 1, ha definito oltre 200 procedimenti. A cui si aggiungono 264 sentenze penali depositate nel Tribunale di Vicenza, 314 sentenze penali emesse nel Tribunale di Treviso nella sola fase 1 e 2911 provvedimenti definitori emessi dal Gip di Venezia. Nessun intento polemico da parte della Giunta esecutiva dell’Anm Veneto (composta dal presidente Vincenzo Sgubbi, dal segretario Raffaella Marzocca e dai consiglieri Roberto Terzo, Silvia Ferrari, Caterina Zambotto, Alberto Barbazza e Roberto Piccione) che conclude il suo intervento “con l’auspicio che l’attività giudiziaria possa riprendere al più presto a pieno regime, in condizioni di sicurezza sanitaria per tutti”. Terni. Il Garante in visita al carcere di vocabolo Sabbione: “struttura sovraffollata” La Nazione, 23 giugno 2020 Nel carcere ternano sono presenti 490 detenuti a fronte di 411 posti regolamentari. Visita nel penitenziario di vocabolo Sabbione del Garante regionale dei detenuti, Stefano Anastasìa, accolto dal comandante della Polizia penitenziaria, Fabio Gallo, e dal dottor Marozzo, responsabile sanitario. Il Garante si è anche intrattenuto a colloquio con alcuni detenuti per parlare delle condizioni carcerarie. “Nella Casa circondariale di Terni sono disponibili 411 posti regolamentari - fa sapere la Regione. Da inizio emergenza Covid-19 la popolazione detenuta è diminuita fino a 490 detenuti, per effetto delle misure alternative disposte dalla magistratura, ma nell’ultimo periodo sono ripresi i trasferimenti. Da qualche settimana è ripresa l’attività dei volontari Caritas. Ad oggi risultano messe in atto le misure essenziali per la prevenzione della diffusione del virus. Tutto il personale che accede in Istituto viene sottoposto a misurazione corporea”. Da 19 maggio è nuovamente possibile svolgere i colloqui con i familiari in presenza, ma resta la possibilità di svolgere colloqui in videoconferenza. “Tra le principali criticità riscontrate - aggiunge la Regione - emerge la mancanza di un’adeguata assistenza psichiatrica, di specialisti e la necessità di riprogrammare le visite e gli interventi nelle strutture ospedaliere. Il Garante si augura la dovuta attenzione da parte della Usl 2”. Cassino (Fr). La denuncia del Garante: “penitenziario sovraffollato e fatiscente” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2020 Venerdì scorso il Garante regionale delle persone private della libertà Stefano Anastasìa si è recato alla Casa Circondariale di Cassino dove ha visitato l’istituto e incontrato il direttore Francesco Cocco, interloquendo con alcuni detenuti sulle loro condizioni di detenzione. I problemi principali dell’istituto, secondo quanto rilevato dal garante, rimangono il sovraffollamento e la fatiscenza delle strutture. Attualmente nel carcere vi sono 203 detenuti a fronte di 130 posti effettivamente disponibili, con un sovraffollamento del 156%. Anastasìa sottolinea che il sovraffollamento è concentrato nella II sezione, dove, a seguito della chiusura nel marzo 2019 della III sezione dichiarata inagibile, quasi tutte le stanze hanno 7 letti e dove risulta spesso impossibile aprire/ chiudere del tutto la finestra. “Si tratta di condizioni intollerabili che ho già rappresentato al Provveditore regionale e per le quali mi auguro ci sia un’immediata azione di riduzione delle presenze”, dichiara a tal proposito il Garante. Osserva che l’alto tasso d’affollamento è determinato anche dal trasferimento presso il carcere di Cassino di detenuti provenienti da altri istituti. Inagibile anche l’unica palestra dell’istituto e inaccessibile il campo di calcio perché per accedervi è necessario transitare sotto la III° sezione nella palazzina dichiarata inagibile. Continua ovviamente il protocollo anti Covid-19 e spiega che dal 29 maggio i nuovi ingressi vengono sottoposti a tampone, finora risultati tutti negativi. Le sale colloqui sono state attrezzate per consentire i colloqui familiari quattro postazioni con il divisorio in plexiglass così come prevede la “fase 2” all’interno delle carceri. Nota positiva è la riapertura alle attività di soggetti esterni, come la Caritas e l’Università di Cassino, che già da qualche settimana hanno ripreso ad incontrare i detenuti per attività di sostegno sociale, diritto allo studio e informazione legale. Dato importante visto che, come recentemente riportato da Il Dubbio, la ripresa delle attività trattamentale è fondamentale per eliminare quella “desertificazione” provocata dal lockdown che ha coinvolto ovviamente anche le patrie galere. Il riferimento è alla riapertura delle attività disposte da una circolare del provveditore reggente dell’Amministrazione penitenziaria per il Veneto - Friuli Venezia Giulia - Trentino Alto Adige, Gloria Manzelli, che ha emanato il 16 giugno per i direttori delle carceri. Non è roba di poco conto, ma di vitale importanza sperando che anche altri provveditori seguano questo esempio. Mentre noi, società libera, abbiamo riaperto gradualmente le attività, in carcere i detenuti ancora vivono senza corsi, laboratori e altre attività trattamentali che non rendono la misura punitiva esclusivamente afflittiva e, quindi, rieducativa. Senza nemmeno dimenticare che le attività trattamentali servono anche per compensare le inevitabili tensioni se i detenuti non vengono impegnati. Mentre noi ci avviamo alla fase tre, nelle carceri ancora si vive la fase due e sono ancora chiuse ai volontari, figure vitali per la finalità rieducativa della pena. Un carcere non può rimanere chiuso a queste presenze, altrimenti il malessere si amplifica nuovamente e a rimetterci è tutta la popolazione carceraria, polizia penitenziaria compresa. Livorno. Da detenuti a viticoltori: Gorgona, il vino della libertà di Laura Petreccia losservatore.com, 23 giugno 2020 Il progetto ha luogo sull’isola-carcere. Da detenuti a viticoltori: Gorgona il vino della libertà. Il progetto ha luogo sull’isola-carcere dell’Arcipelago toscano, nella vigna gestita dalla famiglia (e azienda) Frescobaldi e punta a riabilitare i condannati a pene lunghe attraverso il lavoro tra i filari. La massima espressione dell’impegno sociale di Frescobaldi è data dal progetto Gorgona, in un momento in cui il carcere stava per chiudere per mancanza di fondi, un progetto che ha visto i suoi albori nel 2012 e che nel corso di questi otto anni ha suscitato l’interesse in un numero crescente di persone. Frescobaldi è stata l’azienda che ha risposto all’appello. La piccola isola dell’arcipelago toscano, che già si vede ad occhio nudo dalla Terrazza Mascagni di Livorno, è un’isola carceraria. Dal 1869, qui è infatti insediata una colonia penale all’aperto che rappresenta oggi un esempio felice di come i detenuti possano poco a poco reintegrarsi nella società con attività non solo socialmente utili, ma anche economicamente importanti. Stiamo parlando del vino Gorgona, un vino nato grazie all’impegno dei detenuti dell’isola supervisionati dagli agronomi ed enologi Frescobaldi. A partire dal 2011 i viticoltori dell’azienda toscana hanno affiancato i detenuti prima in un processo di formazione teorica e poi di pratica sul campo, in un vigneto riparato dal vento marino, che in Gorgona spira forte. Frescobaldi ha in affitto un terreno sull’isola di Gorgona con un vigneto in parte esistente ed in parte impiantato. La vigna fu piantata nel 1999, in quanto gli agronomi Frescobaldi avevano iniziato a mostrare interesse per il concentrato di biodiversità vegetali della Gorgona e a continuare una viticoltura nata sull’isola già molti anni prima. Ciò che colpisce del territorio della più piccola isola dell’arcipelago toscano è il verde che predomina sul 90% della sua area ed il suo microclima unico, con il vento che quotidianamente modella il portamento delle sue piante. Le potenzialità agricole dell’isola vennero già decantate sul finire dell’800 dall’allora (e primo) direttore del carcere, Angelo Biagio Biamanti. Il merito dell’avvio della viticoltura in Gorgona si deve a lui, il direttore Biamanti che nel 1872 mise a dimora quasi 3000 piante di vite e diede vita ad un’attività unica e gratificante. La natura selvaggia dell’isola l’ha sempre resa perfetta per la coltivazione delle uve, caratteristica che è rimasta immutata nel tempo. Grazie a un armonioso rapporto tra l’uomo e la natura, dopo tutto questo tempo l’isola ha mantenuto le sue peculiarità e la viticoltura in questi territori è un’esperienza senza eguali, che regala soddisfazioni, soprattutto a coloro che stanno qui scontando l’ultimo periodo di detenzione e si impegnano in attività che mirano al loro reinserimento nella società. Con il progetto Gorgona i detenuti imparano un mestiere che potrebbe essere loro utile quando finiranno di scontare la loro pena. Ma soprattutto, scrivono un nuovo capitolo della loro vita. Il vino rappresenta quindi un riscatto sociale, ma anche una storia nuova fatta di apprendimento e sacrifici. Da sempre l’agricoltura è un’attività che unisce le persone, le lega tra di loro e crea al contempo un legame importante con la natura e per quanto comporti dei sacrifici, li ripaga. Per questo il vino Gorgona Frescobaldi profuma di libertà e riscatto. In questi anni l’azienda ha formato 50 detenuti e molti adesso sono assunti e lavorano con regolare contratto di settore. Al Gorgona Bianco, prodotto con uvaggio di Vermentino e Ansonica affinato 7 mesi che si è cominciato a produrre nell’isola Gorgona dal 2012, dal 2015 si è aggiunto, grazie all’ampliamento dei vigneti di proprietà Frescobaldi, il Gorgona Rosso, con uvaggio di Sangiovese con una piccola percentuale di Vermentino Nero. Entrambe le colture, del Gorgona Bianco e del Gorgona Rosso, sono di tipo biologico e i vini raccolgono in loro le caratteristiche che li rendono unici. Si tratta di vini piacevoli, mai scontati, in continua evoluzione. Il bianco ha un profumo delicato e complesso al tempo stesso, profuma del rosmarino, del timo e del ginepro tipici della macchia mediterranea e trattiene in sé anche i sentori della pesca bianca matura, del cedro e dell’ananas. La sua gradazione alcolica è importante, ben bilanciata con l’acidità, la mineralità e la sapidità che parlano di uve esposte costantemente da venti di mare. Il Gorgona rosso invece profuma di sottobosco, ha un colore ed un gusto più intensi: rosso rubino che al palato comunica acidità e tostatura sapientemente sfumate con delle spezie dolci. Questo è affinato in anfora in coccio pesto. Napoli. “Liberi di raccontare. Oltre le sbarre”, il libro da un laboratorio di scrittura creativa agensir.it, 23 giugno 2020 “Liberi di raccontare. Oltre le sbarre”: è il titolo del libro della Pastorale carceraria della diocesi di Napoli, presentato nei giorni scorsi. Il volume è a cura di Paola Romano, volontaria dell’Associazione Liberi di Volare onlus della Pastorale carceraria diocesana, con la prefazione di don Franco Esposito, direttore della Pastorale carcercaria diocesana. “Le pagine di questo libro - spiega una nota della Pastorale carceraria diocesana - sono il frutto di un laboratorio di scrittura creativa rivolto ai detenuti ospedalizzati del padiglione San Paolo all’interno del carcere di Poggioreale. Il ricavato della vendita del libro sarà devoluto in beneficenza all’associazione Liberi di Volare Onlus a sostegno dei carcerati e delle loro famiglie”. “Quanta ricchezza in queste pagine, in ogni storia, in ogni riflessione, in ogni scritto di chi, pur essendo privato della libertà e non solo, non ha perso la capacità di riflettere sulla vita, sulle persone care, sugli affetti, sui propri sbagli. Da questa riflessione che si fa parola donata in questo testo, traspare tutta la bellezza di una vita che, anche quando si rivela in tutta la sua drammaticità, è sempre vita aperta alla speranza, al nuovo, all’imprevedibile, a un futuro diverso”, scrive nella prefazione don Franco Esposito. I nuovi naufragi e i barconi dimenticati. Nel Mediterraneo si continua a morire di Nello Scavo Avvenire, 23 giugno 2020 Nessuno riesce più a tenere il conto delle stragi di migranti in mare. La settimana scorsa il corpicino di una bimba di 5 mesi è stato rinvenuto su una spiaggia libica. E sabato la nave Mare Ionio di Mediterranea ha incrociato e fotografato il cadavere di un migrante nel Canale di Sicilia. Negli stessi giorni, dalla Tunisia arrivava la conferma di almeno venti stranieri annegati, mentre sempre in Libia oltre una decina di profughi affogava meno di un’ora dopo essere salpata. L’unica certezza è che nel Mediterraneo si muore senza soccorsi e nel silenzio. Ieri si è avuta conferma di un’altra strage, avvenuta sabato. Una ventina di migranti è stata messa in salvo da alcuni pescatori, ma stando alle prime informazioni, almeno il doppio potrebbero essere affogati. Ancora una volta da Tripoli non arriva nessun chiarimento. E anche le agenzie Onu sul campo faticano a mettere insieme le scarne informazioni. Tanto più in quest’ultimo caso i superstiti non sono stati riaccompagnati in un centro di detenzione ufficiale, ma in un campo di prigionia clandestino, facendone perdere le tracce. Ancora una volta sapremo poco di quanto accade. Solo i cadaveri che fortuitamente riemergono e la corrente talvolta consegna alle spiagge, permettono di avere qualche indizio. Dal 30 aprile non si ha notizia di un altro barcone. I parenti di tre migranti assicurano che i loro congiunti erano salpati, ma se ne sono perse le notizie e neanche i torturatori chiedono altro denaro alle famiglie. Inghiottiti nel nulla mentre gli aerei di Frontex e delle forze europee, come documenta quotidianamente Radio Radicale con i tracciati registrati da Sergio Scandura, pattugliano l’area con ricerche a bassa quota senza che mai venga comunicato cosa stiano cercando. Intanto il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu ha approvato una risoluzione che indagherà sulle violazioni dei diritti umani in Libia durante la guerra civile dall’inizio del 2016. La risoluzione presentata dal Burkina Faso a nome di 9 Stati africani è stata approvata per consenso, senza necessità di voto, e chiede all’Ufficio Diritti Umani guidato da Michelle Bachelet di istituire una missione d’inchiesta formata da due esperti. La missione, che durerà un anno, dovrà “documentare le presunte violazioni dei diritti umani e gli abusi” commessi dalle due parti che in Libia si combattono dal 2014, dopo la caduta di Muhammar Gheddafi. Le organizzazioni per i diritti umani e gli esperti delle Nazioni Unite hanno ripetutamente denunciato violazioni e abusi, come gli attacchi armati contro i migranti nei centri di detenzione. In apparenza l’Italia sembra intenzionata a cambiare rotta quantomeno nelle relazioni con le navi del soccorso umanitario civile. Nella giornata di sabato erano salite a bordo della Sea Watch 3 le autorità sanitarie e le forze dell’ordine e soltanto domenica è arrivato l’atteso esito, negativo, di un tampone, che aveva rallentato il trasferimento sulla nave quarantena “Moby Zazà” dei 211 migranti giunti in mattinata a Porto Empedocle. Nel frattempo, altre 67 persone soccorse dalla nave Mare Ionio di Mediterranea sono potute approdare direttamente a terra, a Pozzallo sabato. Mentre ha ripreso il mare anche la nave umanitaria Ocean Viking dopo tre mesi di stop a causa dell’emergenza coronavirus. L’imbarcazione della Ong “Sos Mediterranée” si sta dirigendo verso le acque della Libia. Invece, restano sotto fermo amministrativo (a Palermo, dal 5 maggio scorso) la Alan Kurdi, della tedesca “Sea Eye”, che aveva continuato il soccorso in mare durante il periodo del contenimento da Covid e la Aita Mari, la nave della Ong spagnola Proyecto Maydayterraneo. Gli equipaggi di entrambi le navi erano stati sottoposti a quarantena dopo il rientro dalle operazioni di soccorso. Migranti. Decreti sicurezza, fumata nera. I 5 Stelle bloccano le modifiche di Emilio Pucci Il Messaggero, 23 giugno 2020 Il punto di caduta potrebbe essere quello di arrivare a due interventi separati. Accogliere i rilievi del Capo dello Stato in un primo momento con un decreto immigrazione e poi rinviare le altre modifiche ai dl Salvini in un successivo provvedimento che potrebbe anche essere un disegno di legge. Perlomeno è questo il compromesso al quale pensano i vertici del Movimento 5 stelle che sui decreti sicurezza non vogliono aprire un varco agli affondi della Lega. Ieri al tavolo che si è tenuto al Viminale era presente il presidente della Commissione affari costituzionali della Camera Brescia, non il capo politico pentastellato Crimi. Brescia ha sottolineato la necessità di un rinvio a dopo l’estate, anche perché le Camere sono ingolfate di decreti da convertire. Ma il fronte Pd-Iv-Leu vuole fare presto. In particolar modo il capogruppo renziano al Senato Faraone ha rilanciato la necessità di presentare un testo già nel prossimo Cdm. Anche il Pd con Mauri è per “tempi brevi”. Il ministro Lamorgese ha spiegato che occorre aspettare qualche giorno, raccogliere le proposte della maggioranza (M5s presenterà le sue entro la settimana), probabilmente ci sarà una bozza diversa da quella attuale che prevede, oltre all’azzeramento delle multe alle Ong, lo stop alla possibilità di confisca delle navi, il reintegro della protezione umanitaria e la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe dei comuni. Nel nuovo testo ci sarà anche il ritorno dello Sprar, Il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. “Occorre afferma Mauri riportare il modello dell’accoglienza diffusa, necessario per un vero processo di integrazione”. Alla riunione (ce ne sarà un’altra martedì prossimo) Italia viva ha portato avanti anche la battaglia per lo Ius culturae. Quindici le proposte dei renziani. Iv propone, tra l’altro, la possibilità di “consentire l’iscrizione al sistema sanitario nazionale nei casi di accoglienza per motivi umanitari” e l’abrogazione dell’articolo del Decreto sicurezza bis che prevede “l’arresto obbligatorio in flagranza per i delitti contro le navi da guerra”. Inoltre sottolinea la necessità di “rivedere l’aumento della pena durante le manifestazioni per il semplicemente fatto che il reato venga commesso durante una manifestazione in luogo pubblico o aperto al pubblico”. Pd, Leu e Iv sono d’accordo anche sul fatto di prevedere che “i permessi di soggiorno dovranno essere convertiti in permessi di lavoro laddove ci sia attività regolare” Al di là della battaglia sui tempi i Cinque stelle sono disposti ad aprire solo sull’ok al ripristino del sistema dello Sprar, oltre che a recepire le indicazioni del presidente della Repubblica. “Dovranno essere poche modifiche e circoscritte”, il punto di vista anche dell’ala che fa riferimento al presidente della Camera, Fico. M5S su questo tema rischia di spaccarsi, il punto di equilibrio è quello di non abrogare del tutto i decreti Salvini e di pensare anche all’opportunità di evitare un’accelerazione. “Ad agosto la linea di Crimi ci sarà un aumento degli sbarchi. Non possiamo pensare di mandare segnali sbagliati”. C’è poi il tema dei fondi, sottolineano i Cinque stelle. Mentre Pd, Leu e Italia viva ricordano come sia stato proprio il presidente del Consiglio Conte ad indicare la necessità di agire subito. “Abbiamo compiuto un passo avanti”, il parere del Partito democratico che però invita a rispettare il dibattito interno ai pentastellati per evitare che poi si risolva tutto in un nulla di fatto. Migranti. Decreti sicurezza, la ministra Lamorgese: “Convergenza su molti punti” di Carlo Lania Il Manifesto, 23 giugno 2020 Presentate le modifiche della maggioranza al testo preparato dalla ministra dell’Interno Lamorgese. “Convergenza su molti punti”. La parola d’ordine sembra essere “ottimismo”. “Abbiamo fatto dei passi avanti, adesso bisogna accelerare per cancellare le distorsioni provocate dai provvedimenti propagandistici di Salvini”, dice il viceministro dell’Interno Matteo Mauri (Pd) al termine del secondo incontro che si è tenuto al Viminale per modificare i decreti sicurezza dell’ex ministro leghista. Incontro che, a giudizio unanime dei partecipanti, si sarebbe svolto in clima reso più disteso anche dalla constatazione che, contrariamente al passato, la possibilità di raggiungere un accordo condiviso a questo punto sembra essere davvero reale. Assente per impegni di lavoro il viceministro dell’Interno 5 Stelle Vito Crimi, a sostituirlo è stato chiamato il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia, vicino al presidente Roberto Fico ma soprattutto da sempre particolarmente sensibile alle questioni legate all’immigrazione. Quello di ieri è stato il giorno in cui i rappresentanti della maggioranza dovevano presentare gli emendamenti alle modifiche preparate dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ai due dl sicurezza, modifiche che sono andate ben oltre i rilievi presentati a suo tempo dal Quirinale. Al ministero LeU si è presentata con in mano un testo già tradotto in norme pronte, se accettate, a essere inserite in un futuro provvedimento. Norme che, hanno spiegato i due capigruppo di Senato e Camera, Loredana De Petris e Federico Fornaro, puntano tra l’altro a ridurre dagli attuali 180 a 90 giorni i tempi di detenzione nei Centri per i rimpatri (Cpr), al ripristino del sistema Sprar per l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati e al riconoscimento della protezione umanitaria. Sprar, protezione umanitaria e riduzione dei tempi per il riconoscimento della cittadinanza (riportati a 24 mesi dai 48 previsti con il primo decreto sicurezza) sono invece le tre proposte avanzate dal Pd attraverso il responsabile sicurezza Carmelo Miceli. Molto meno stringate le richieste di Italia viva, forte di un pacchetto di 15 modifiche che, come ha spiegato il capogruppo al Senato Davide Faraone “cambiano radicalmente i decreti sicurezza”. Tra queste anche l’introduzione dello ius culturae, la riforma della cittadinanza attesa da circa un milione di giovani nati in Italia da genitori immigrati sulla quale in parlamento esistono già diversi disegni di legge e che appare difficile possa essere inserita in un decreto. Tutti d’accordo infine sull’abolizione delle maxi multe per le navi delle ong. A frenare sono come sempre i 5 Stelle. Innanzitutto sui tempi, ma anche sui contenuti. Sui primi il Movimento preferirebbe far slittare tutto a dopo l’estate. Ufficialmente per motivi tecnici: “Troppi decreti da convertire, rischiamo di ingolfare il parlamento”, avrebbe spiegato Brescia. In realtà dietro la richiesta di rinvio ci sarebbe la paura che la Lega possa approfittare dell’inevitabile aumento degli sbarchi durante l’estate per la propria propaganda. Anche nel merito il presidente della I commissione si è mantenuto cauto, rispettando il mandato che avrebbe ricevuto dal Movimento che vuole limitare le modifiche ai soli rilievi avanzati dal presidente Mattarella. “La revisione dei decreti sicurezza non dovrà essere un’operazione di cancellazione del passato”, ha avvertito insieme alla capogruppo 5 Stelle in Commissione Affari costituzionali della Camera Vittoria Baldino. L’idea prevalente è che comunque siano stati fatti dei progressi. Il prossimo appuntamento è fissato adesso per martedì 30 giugno alle 10 quando la ministra Lamorgese presenterà un nuovo testo con una parte delle modifiche discusse ieri. Armi nucleari americane in Europa: scontro Russia-Polonia di Yurii Colombo Il Manifesto, 23 giugno 2020 Russia e Ue. La portavoce di Lavrov: “L’Europa sarebbe più sicura senza quelle testate”. Il dibattito apertosi in Germania sull’ipotesi baluginata da alcuni leader del Spd di liberarsi dell’arsenale atomico Usa in quanto “residuato della guerra fredda” ha avuto immediatamente una ricaduta ad est. Il 16 maggio Georgette Mosbacher, ambasciatrice Usa a Varsavia, ha dichiarato che la Polonia potrebbe schierare armi nucleari Usa sul suo territorio qualora il governo tedesco decidesse di ridurre il suo arsenale. “Se la Germania vuole ridurre le armi nucleari e indebolire la Nato, allora forse la Polonia, che paga la “sua giusta quota”, che comprende i pericoli e si trova sul fianco orientale dell’Alleanza, “potrebbe collocare sul suo territorio queste armi”, ha scritto la diplomatica. Parlando di “giusta quota” della Polonia, l’ambasciatore avrebbe inteso rudemente segnalare a Berlino che a differenza sua il governo Morawieck adempie all’obbligo atlantico di allocare il 2% del Pil per le spese militari. Seppur con toni più sfumati, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg in un articolo pubblicato dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, aveva ribadito che l’alleanza avrà un arsenale nucleare fintanto che tali armi esisteranno. “Un mondo in cui Russia, Cina e altri Stati possederanno armi nucleari, ma non la Nato, non sarà sicuro “ha affermato Stoltenberg. Di fronte a tanta irruenza non poteva certo mancare una replica russa, giunta per bocca della portavoce di Sergey Lavrov, Marya Zacharova. In una nota diffusa l’altro ieri la funzionaria ha osservato che tale decisione costituirebbe una violazione “dell’Atto istitutivo sulle relazioni reciproche, la cooperazione e la sicurezza tra Russia Nato del 1997”. In tali disposizioni ha ricordato Zacharova si affermava che “gli Stati membri della Nato confermano di non avere intenzioni, piani o motivi per dispiegare armi nucleari nel territorio di nuovi membri”. E sulla base di questo richiamo la rappresentante del governo russo ha poi voluto portare il suo affondo. L’Europa sarebbe più sicura se gli Usa “facessero tornare le proprie testate a casa a propria”. Un appello che può essere letto come un invito ai molti paesi occidentali sempre più riluttanti di fronte all’egemonismo americano ad abbandonare la gabbia dell’Alleanza. La ripresa della polemica della socialdemocrazia tedesca nei confronti dell’alleato Usa potrebbe essere da mettere in relazione anche alle difficoltà che incontra il completamento del gasdotto russo-tedesco North Stream 2 a cui Usa e Polonia si sono sempre nettamente opposte e su cui anche tra i democristiani tedeschi da tempo serpeggiano dubbi. Solo tre giorni fa è arrivato un duro colpo per le ambizioni di Gazprom di portare a termine la realizzazione di North Stream 2, proprio da un ente tedesco. Il regolatore dell’energia tedesco, il Bundesnetzagentur, ha respinto la domanda russa di esonero dalle nuove norme Ue affermando “che le deroghe ai requisiti normativi della direttiva avrebbero potuto essere concesse solo per le condotte completate prima del 23 maggio 2020”. Serve più Italia in Libia di Marta Dassù La Repubblica, 23 giugno 2020 Chiudersi dentro i confini di casa o semplicemente dentro i confini è parte della sindrome Covid. Anche dopo la fine del lockdown. È un’attitudine mentale che, dicono gli psicologi, sembra destinata a continuare a lungo. Con le sue conseguenze economiche e sociali ma anche con effetti geopolitici: chi ha voglia, nel mondo di Covid, di occuparsi di politica estera? Chi pensa, nel mondo di Covid, che convenga investire sulla difesa militare invece che sulla spesa sanitaria? La politica estera e di difesa sembra così candidata a diventare una vittima secondaria del virus. Il punto è che non possiamo permettercelo. Prendiamo come caso di studio la Libia. La tentazione di rimuovere il problema è molto forte. Nessuno sembra essersi accorto, un mese fa, che i missili sparati dalle milizie del Maresciallo Haftar nel centro di Tripoli cadevano a pochi metri dalla sede dell’ambasciata italiana, l’unica sede diplomatica europea rimasta aperta durante i mesi più duri della strana guerra di Libia. E mentre noi ascoltavamo i dibattiti dei virologi, senza ascoltare invece le richieste di aiuto di Tripoli, il presidente del governo riconosciuto dall’Onu, al-Serraj, decideva che l’Italia non era un alleato affidabile e che a Tripoli conveniva accettare l’aiuto militare della Turchia. Risultato: l’uomo solo apparentemente forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, ha dovuto battere in ritirata, la Tripolitania è ormai sostanzialmente controllata da Ankara (con il sostegno finanziario del Qatar) e la Cirenaica resta sotto l’influenza della Russia e dell’Egitto, paese confinante con un ruolo-chiave. Si profila così una divisione della Libia, già peraltro divisa, in aree di influenza: una spartizione di fatto fra potenze regionali, alcune di loro con ambizioni neo-imperiali. La Turchia pattuglia le coste con le sue navi, stringe accordi sull’energia del Mediterraneo orientale e pareggiai conti con la storia. Espulsa per mano italiana dalla Libia ne11911, sta facendo un grande ritorno, ideologicamente venduto da Recep Erdogan come la difesa della Fratellanza musulmana dai regimi schierati sull’altro fronte della guerra: Egitto ed Emirati Arabi Uniti, assieme a una Russia che, dopo la vittoria di Siria, si conferma in modo opportunistico come potenza mediterranea. Voi direte: So what? E allora? E allora il problema è che abbiamo forti interessi in gioco. Ricordiamoli molto rapidamente. Primo, gli interessi energetici gestiti da Eni, l’unica compagnia petrolifera europea ad avere un contratto con la Noc, la compagnia libica, per la distribuzione dell’energia nel Paese. Fino a questo momento siamo riusciti bene o male a difenderli; ma diventerà sempre più difficile con l’Italia fuori dai giochi. E la tensione si sta allargando alle nuove risorse del Mediterraneo orientale. Secondo, l’interesse al controllo dei flussi migratori, tema che tornerà ad esplodere con il sovraccarico di Covid: il ruolo acquisito dalla Turchia sulle coste libiche implica che finiremo per lasciare ad Ankara non solo la gestione dei flussi migratori dall’Anatolia ma anche dal Nord Africa. Vedremo a che prezzo. Terzo, lo scenario di una nuova competizione fra Nato e Russia spostata verso il Nord Africa, di cui l’Italia sarebbe il fronte. Nella guerra fredda del secolo scorso eravamo il fronte esposto verso Est, adesso lo siamo a Sud. Se la base aerea di Al Jufra diventerà l’avamposto militare della Russia in Nord Africa, il perimetro difensivo dell’Italia diventerà a sua volta un posto davvero caldo, con le basi militari americane e Nato in Sicilia e con i russi sull’altra sponda del Mediterraneo. Come si vede, occuparsi di Libia non è un’eredità obbligata della storia e non è neanche una scelta; è una priorità ineludibile di politica estera. Esiste ancora uno spazio di reazione? Risponderei di sì, perché lo scenario appena descritto è in via di formazione ma non è facile da costruire, come dimostrano le tensioni continue fra Ankara e Mosca e la difficoltà di controllare attori mobili (tribù e milizie) sul terreno. Partiamo da un dato sicuro, confermato dall’intervista di al-Serraj a Repubblica: interesse del governo di Tripoli è di bilanciare il peso della Turchia, sottraendosi a un abbraccio soffocante. E questo, almeno potenzialmente, rimette in gioco l’Italia: la decisione di assistere Tripoli nello sminamento delle aree abbandonate dai miliziani di Haftar è una prima inversione di tendenza, per piccola che sia. Potrà seguire un’iniziativa diplomatica: il peso dell’Italia deve essere rafforzato, per contare, dal coinvolgimento dell’Europa, che per ora gestisce una missione scassata relativa all’embargo delle armi. L’indebolimento del Maresciallo della Cirenaica potrà modificare i calcoli della Francia, che aveva scommesso sulla sua vittoria, rendendo possibile una convergenza europea durante la presidenza tedesca dell’Ue. Infine, la Russia potrebbe avere sbagliato i suoi calcoli, risvegliando l’interesse degli Stati Uniti per una Libia considerata “periferica”. I giochi non sono fatti. Tirando fuori la testa dalla sindrome Covid, vedremo nella Libia un banco di prova obbligato per l’Italia e per l’Unione “geopolitica” di cui parla Ursula von der Leyen. Per ora l’Europa è molto lontana dall’essere tale. Ma è un lusso da secolo scorso. La strana guerra di Libia è un campanello di allarme: o l’Italia e l’Europa riusciranno ad occuparsi dell’instabilità ai confini o scopriranno molto presto di non riuscire a difenderli. Siria. L’appello dell’Acnur: “Dopo 9 anni di guerra il mondo non dimentichi Idlib” Avvenire, 23 giugno 2020 Dall’inizio del conflitto metà della popolazione è fuggita di casa almeno una volta. Milioni i profughi in Turchia, Libano, Giordania, Iraq, Egitto. A Nordovest da dicembre sfollati almeno un milione Bambini siriani sfollati da Idlib in un campo ad Azaz. Quando la crisi in Siria è ormai entrata nel suo decimo anno, il popolo siriano continua a essere vittima di una tragedia immane. A denunciare l’immutata gravità della situazione è l’Acnur, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. “Da quando il conflitto è iniziato nel marzo 2011, uno ogni due uomini, donne o bambini sono stati costretti, spesso più di una volta, alla fuga. Oggi, quella siriana è la popolazione rifugiata di dimensioni più vaste su scala mondiale”. Nonostante la maggior parte dei rifugiati presenti nei Paesi limitrofi viva al di sotto della soglia di povertà, i siriani fuggiti “fanno tutto il possibile per guadagnarsi da vivere e investire in un futuro per sé e per le proprie famiglie: i rifugiati conservano la speranza di far ritorno a casa, ma si impegnano per contribuire alle economie dei Paesi che li accolgono con generosità”. Nella Siria nordoccidentale, da dicembre 2019 gli scontri hanno causato la fuga di almeno un milione di persone, attualmente in condizioni disperate”. Molte delle aree che ospitano campi profughi, allestiti con tende, sono da tempo sotto la neve. “Gli ultimi nove anni - afferma l’Acnur - hanno rappresentato anche una storia di eccezionale solidarietà. I governi e le popolazioni di Turchia, Libano, Giordania, Iraq, Egitto, nonché di alcuni Paesi al di fuori della regione, hanno assicurato ai siriani protezione e sicurezza aprendo loro scuole, ospedali, e le proprie case. Grazie ai generosi contributi di governi donatori, del settore privato e dei singoli cittadini, gli aiuti hanno potuto essere intensificati. A quella che era cominciata come una risposta umanitaria si è aggiunto l’impegno di attori chiave per lo sviluppo, come la Banca Mondiale, che assicura sostegno strutturato a governi e istituzioni dei Paesi di accoglienza, rafforzando le capacità di resilienza delle comunità di accoglienza e dei rifugiati”. Dal 2012 a oggi, oltre 14 miliardi di dollari hanno finanziato il Piano regionale di risposta alla crisi di rifugiati e per la resilienza (Refugee Response and Resilience Plan), implementato da una coalizione di oltre 200 partner e coordinato dall’Acnur e daUndp. Numerosi altri interventi sono stati assicurati mediante accordi di cooperazione bilaterale e altri meccanismi multilaterali. “La crisi entra ormai nel suo decimo anno e desidero esortare tutta la comunità internazionale a non dimenticare coloro che continuano a restare sfollati all’interno della Siria - dichiara Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati - e quanti sono stati costretti a fuggire oltre confine. È nostro dovere riconoscere e sostenere la generosità mostrata dai Paesi limitrofi, essendosi trattato di uno dei più grandi gesti di solidarietà degli ultimi decenni. Tuttavia, dobbiamo continuare a garantire il nostro sostegno. Sono necessari sforzi ulteriori”. In questi nove anni, afferma l’Acnur, “la sfida maggiore è stata quella di riuscire a mantenere ed espandere il sostegno a tutta la regione”. A fronte di una richiesta di 5,4 miliardi di dollari, “il Piano 3RP per il 2019 è stato finanziato per il 58 per cento. Il divario tra esigenze reali e risorse disponibili si allarga inarrestabilmente. La carenza di aiuti e l’accesso limitato a servizi sanitari e istruzione generano un aumento dei costi giornalieri e rischiano di spingere le famiglie rifugiate in un’irreversibile spirale di vulnerabilità. Per la disperazione, alcuni rifugiati sono costretti a ritirare i propri figli da scuola per farli lavorare. Altri riducono il numero di pasti. Altri ancora si danno alla prostituzione, contraggono matrimoni precoci, cadono vittime di lavoro minorile”. Sostegno è inoltre necessario per quanti desiderino usufruire del diritto di fare ritorno a casa. Il Global Compact sui Rifugiati, approvato dalle Nazioni Unite nel dicembre 2018, offre a governi e settore privato un modello per l’approccio di tutta la società alle crisi di rifugiati, mediante l’attuazione di una risposta più efficiente e un’equa condivisione di responsabilità. Le vite dei rifugiati siriani e delle comunità che li accolgono dipendono da tali misure. Tunisia. Un olivo per Lina Ben Mhenni nel Giardino dei Giusti di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 23 giugno 2020 L’ambasciata italiana ha deciso di dedicare un albero alla giovane blogger, attivista e simbolo della Rivoluzione del 2011, scomparsa nel gennaio scorso a soli 36 anni. Lina Ben Mhenni è fra i giusti, “quelli che hanno scelto il bene”: così la ricorda l’ambasciata italiana di Tunisi, che ha deciso di dedicare alla blogger protagonista della Rivoluzione tunisina un olivo nel Giardino dei Giusti eretto all’interno della rappresentanza diplomatica, in accordo con il Comitato internazionale Gariwo. Lina è scomparsa nel gennaio scorso, a 36 anni appena, dopo aver dedicato la vita all’impegno politico e sociale. Docente di Linguistica all’università, attivista e figlia di un militante socialista imprigionato da Ben Ali, la giovane è diventata famosa grazie al suo blog “A Tunisian Girl”, capace di esprimere nei giorni della rivolta tutta la rabbia di un’intera generazione, profilandosi quasi come un manifesto della gioventù maghrebina nei momenti in cui la stampa tradizionale restava debole e auto-censurata. Dopo la fuga di Ben Ali, Lina non si è accontentata, impegnando in battaglie civili tutte le forze che una grave malattia le concedeva. Non c’era un’occasione in cui la giovane rinunciasse ad aggiungere la sua voce a quelle dei più deboli, sfruttando la notorietà ottenuta nel 2011 per segnalare che il lavoro avviato con la Rivoluzione era tutt’altro che compiuto. Dalla richiesta di giustizia per le vittime di abusi della polizia alla raccolta di libri per i detenuti, dalle denunce contro la corruzione all’attenzione per l’ambiente, Lina riusciva a trovare energie anche mentre il corpo le ricordava la sua fragilità. Ed è stata proprio la sua generosità a conquistarle l’affetto profondo dell’Italia. A esprimerlo ancora una volta è stato l’ambasciatore Lorenzo Fanara: “Lina è stata e continua ad essere un esempio positivo autentico, per i giovani e per tutti coloro che non si arrendono di fronte alle difficoltà, che non cedono alla frustrazione, ma uniscono gli sforzi e investono le energie e la loro passione per migliorare la condizione umana”. Per il rappresentante del nostro Paese, “nelle sue battaglie Lina è stata una fonte inesauribile di ispirazione, per tutti quelli che credono nei principi della democrazia”. Il Giardino dei Giusti dell’ambasciata, inaugurato nel 2016, è il primo del genere in un Paese arabo: ogni anno accoglie un albero dedicato a chi si è battuto, anche a rischio della vita, per difendere valori di umanità e solidarietà. Fra gli altri, accoglie alberi dedicati a Mohamed Bouazizi, l’ambulante di Sidi Bouzid che si immolò per protesta dando il via alla Rivoluzione, a Mohamed Naceur ben Abdesslem, la guida che salvò un gruppo di turisti durante l’attacco al museo del Bardo, a Khaled Al Asaad, archeologo siriano assassinato dall’Isis per non aver voluto consegnare i tesori dell’antica Palmira, a Khaled Abdul Wahab, “lo Schindler tunisino” che salvò diversi ebrei perseguitati dai nazisti.