Sanità penitenziaria: “L’indignazione non basta, la riforma del 2008 deve essere applicata” di Viviana Lanza Il Riformista, 22 giugno 2020 Recuperare “una cultura del carcere” e investire per rimediare a una riforma della medicina penitenziaria “che è una riforma tradita, purtroppo violentata nello spirito più concreto di applicazione”. Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria, già direttore del centro clinico di Pisa quando questo era un’eccellenza che veniva presa a modello anche a livello internazionale e presidente del Consiglio internazionale dei servizi medici penitenziari, accetta di commentare con Il Riformista un tema centrale e delicato come quello della salute in carcere. “La riforma del 2008 prevedeva il passaggio totale delle competenze dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale. Ed è stato allora che sono cominciati i problemi”, spiega Ceraudo. “Vi era la piena consapevolezza di trovarci di fronte a una riforma epocale, che avrebbe prodotto finalmente risultati importanti e significativi assicurando la tutela della salute della popolazione detenuta. Una tappa di civiltà attesa da anni, anche in aderenza alle direttive emanate ripetutamente dalla Comunità Europea”. E invece? “Invece dopo dodici anni registriamo con viva preoccupazione risultati fallimentari - dice con amarezza - La riforma della medicina penitenziaria, che era basata su principi molto seri, è fallita nel modo più assoluto. In tutte le regioni”. Puntando la lente sulla Campania, il professor Ceraudo osserva: “In una regione difficile e da prima linea come la Campania, con il presidente De Luca che ha dovuto fare le corse per ripianare i debiti della sanità, si è in condizioni di investire seriamente nella medicina penitenziaria?”, si interroga. E dal tono si intuisce una risposta negativa. “È crollato tutto - aggiunge - perché oggi gli operatori hanno paura, preferiscono una medicina difensiva a una medicina di opportunità e di iniziativa. In alcuni istituti mancano addirittura farmaci salvavita, talvolta persino il carburante per gli automezzi della polizia penitenziaria per accompagnare un detenuto in ospedale e alcuni centri clinici dell’amministrazione penitenziaria che dovevano gestire determinate quote di patologia medica sono andati in tilt”. Perché? Secondo Ceraudo, “non c’è stata la cultura del carcere da parte delle Asl e la sanità penitenziaria risulta gestita da gente che non ha mai messo piede nel carcere”. “La cosa grave - osserva - è che i medici penitenziari, che avevano portato la medicina penitenziaria in una posizione ambita in tutto il mondo, ora sono in posizione marginale, non contano più nulla e la maggior parte ha sbattuto la porta ed è andata via. Attualmente c’è un turnover spaventoso perché in queste condizioni non vuole lavorare più nessuno”. Una soluzione c’è? “Bisogna necessariamente cambiare passo - afferma Ceraudo. D’altra parte registriamo un’amministrazione penitenziaria in grande affanno, arroccata a difendere oltre ogni limite il concetto esasperante della sicurezza senza cogliere l’occasione irripetibile della riforma per avviare un processo di modernizzazione e di riqualificazione delle proprie strutture”. Cultura del carcere e investimenti, ecco la proposta. “Di fronte al dramma carcere non basta l’indignazione a placare le inquietudini e le ansie della nostra coscienza, ma occorre agire concretamente. La riforma della medicina penitenziaria - aggiunge Ceraudo - per essere credibile deve essere realizzata con i medici e gli infermieri penitenziari e tanto meglio funzionerà quanto più sarà condivisa. La riforma deve essere applicata, indietro non si può tornare”. Madri e figli in carcere, Cittadinanzattiva: “Case famiglia protette al posto delle sbarre” di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 22 giugno 2020 Al 31 maggio 2020 nel circuito penitenziario risultavano presenti 30 detenute mamme con 34 figli: 11 madri e 12 bambini sono rinchiusi nelle sezioni nido delle case circondariali, il resto si trova negli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). L’appello alla politica per una presa di posizione concreta dopo che un emendamento al dl 28/2020 è stato declassato ad atto di indirizzo. “Fuori i bambini e le loro madri dalle carceri”. A lanciare questo appello è Antonio Gaudioso, il segretario generale di Cittadinanzattiva che ha scritto con don Luigi Ciotti, Nando dalla Chiesa, don Gino Rigoldi, padre Alex Zanotelli, Giovanni Moro, Alessandro Bergonzoni, Sergio Staino, Patrizio Gonnella, Fabrizio Barca, Chiara Saraceno e tanti altri una lettera ai ministri della Giustizia e dell’Economia, Alfonso Bonafede e Roberto Gualtieri, ma anche al presidente della Camera Roberto Fico e all’onorevole Francesca Businarolo a capo della commissione Giustizia della Camera. Al 31 maggio 2020 nel circuito penitenziario risultavano presenti 30 detenute mamme con 34 figli: 11 madri e 12 bambini sono rinchiusi nelle sezioni nido delle case circondariali, il resto si trova negli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Proprio in occasione dell’epidemia del Covid 19, Cittadinanzattiva ha sollevato la questione richiamando l’attenzione delle istituzioni sulla condizione dei bambini ristretti nelle strutture penitenziarie. Una presa di posizione che ha smosso anche la politica. In occasione della discussione in Senato del Decreto legislativo 28/2020, infatti, le senatrici del Partito Democratico Monica Cirinnà, Valeria Valente e Anna Rossomando hanno presentato un emendamento in commissione Giustizia che prevedeva la realizzazione di nuove case famiglia protette, idonee a ospitare madri e bambini provenienti dalle carceri, attraverso apposite convenzioni tra il ministero e gli enti locali. “L’approvazione della proposta - scrivono i firmatari dell’appello - avrebbe presentato una prima soluzione concreta, sia nell’emergenza che al di là di essa, per consentire percorsi del tutto alternativi alla detenzione dei bambini e delle loro madri. Tuttavia, l’emendamento, con nostro grande rammarico, è stato successivamente ritirato e trasformato in un ordine del giorno che come noto, rappresenta un semplice atto di indirizzo rivolto al Governo”. Un passo indietro che non è piaciuto a Cittadinanzattiva che ora con questa missiva rilancia le sue proposte ritenendo “inaccettabili soluzioni di compromesso”. Un richiamo ad assumersi responsabilità concrete che possano modificare realmente la situazione delle mamme e dei bambini che si trovano in carcere. L’organizzazione con tutti gli aderenti all’appello spera che in fase di discussione del Decreto legislativo 28/2020 si possano recepire le proposte avanzate. In concreto si chiede che le donne incinte e le mamme di bambini fini a sei anni possano essere accolte in case famiglia protette. Non solo. A proposito di case famiglia protette che finora sono previste senza oneri per lo Stato, i firmatari chiedono che i costi non restino a carico degli enti locali ma che sia previsto un filone di finanziamento dedicato reperendo le risorse dai fondi a disposizione del ministero della Giustizia. Sasà, l’amico fragile dei teatranti morto nelle rivolte in carcere senza un perché di Lorenza Pleuteri giustiziami.it, 22 giugno 2020 Timido e insieme energico. Ironico e pieno di delicatezze. Sensibile e capace di stupire. Fragile. Salvatore Piscitelli - per chi gli voleva bene semplicemente Sasà - per tre mesi è stato solo un nome e un numero in una lista, quella dei 13 detenuti morti dopo le rivolte che a inizio marzo hanno incendiato decine di carceri italiane. A ridargli una storia, un passato e la dignità di uomo - chiedendo per lui verità e giustizia - sono gli amici di Teatrodentro, il progetto portato avanti per25 anni nel carcere milanese di Bollate e a San Vittore, l’esperienza che per tutti era “una casa, una battaglia, una famiglia strana”. I teatranti urlano la loro rabbia e le loro domande in una lettera aperta scritta a più mani. Esigono quelle informazioni che fino a qui sono state negate. Si indignano. Cercano risposte e responsabilità. Sasà aveva 40 anni e una vita tutta in salita, un percorso reso accidentato dalla droga e dalle cadute. Era rinchiuso a Modena per cose da poco, un furto e l’uso di una carta di credito rubata. Sarebbe uscito ad agosto. E invece. Dopo la devastazione della casa di reclusione - e il saccheggio di metadone e benzodiazepine, presenti in quantità massicce e non si sa perché - i reparti devastati e inagibili sono stati sgomberati. Lui ed altri reclusi sono stati caricati su un furgone (o forse un pullman o una camionetta) diretto verso il penitenziario di Ascoli. Il governo dice che prima dei trasferimenti tutti i detenuti - e dunque anche Sasà - erano stati vistati da un medico penitenziario o del 118. Ma è difficile crederlo. Forse un dottore attento avrebbero colto i sintomi di una intossicazione da oppiodi e psicofarmaci. Forse sarebbe stato portato in ospedale, come altri. È morto durante il viaggio, senza che nessuno si accorgesse che stava agonizzando o senza che nessuno intervenisse per tempo. “Il decesso - precisa il garante dei detenuti delle Marche, Andrea Nobili - è stato costatato prima dell’ingresso in istituto, all’esterno”. Aveva 40 anni e “una vita storta” alle spalle, per usare le parole degli amici di palco. Probabilmente ad ucciderlo è stato una overdose. Ma l’individuazione delle cause di morte non basterà a far archiviare il caso, non per i teatranti, non per i familiari, non per l’avvocata cui ha deciso di affidarsi una nipote, Antonella Calcaterra del foro di Milano. Sasà aveva origini campane e viveva in provincia di Varese. Orfano di madre e padre, da quando era solo un bambino, era stato cresciuto da una nonna. Poi gli inciampi, il carcere, le comunità, il teatro, altri inciampi, ancora carcere. “Come spesso succede con chi finisce la pena ed esce - raccontano gli amici teatranti - c’è stato un primo periodo positivo. Poi l’impossibilità della normalità e poi un altro scivolone nel buio e poi altra galera”. L’arrivo del Covid ha mescolato le carte, privando i detenuti del dritto ai colloqui, dei permessi, delle attività. “Sappiamo solo che nelle rivolte, il fulcro della rabbia per condizioni che non sono mai state vivibili e che l’emergenza ha reso ancora più pesanti, lui ha perso la vita. Non si sa come, non si sa esattamente dove e nemmeno perché, con certezza. L’amministrazione penitenziaria non dà conto di niente”. Pare che sia stata fatta l’autopsia, solo con il consulente indicato dalla procura, senza nessuno a rappresentare i familiari. La salma, stando a voci ufficiose, è stata cremata. Qualcuno ha detto che si è trattato di una scelta obbligata provocata dalla situazione creata dalla pandemia, ma per altri detenuti (voce da verificare) si sarebbe provveduto alla sepoltura. “È morto come temeva, pensiamo - dicono sempre i teatranti - al freddo e solo e inutilmente. Eppure doveva custodirlo e salvarlo, anche da sé stesso. Dovevano farlo, dovevano custodirlo fino al primo pronto soccorso di strada, fino ad agosto, comunque”. Sasà manca a tutti. E mancano le risposte alle domande che si rincorrono. “Non è credibile che i medici non si siano accorti che stava male. Sapevano che i detenuti avevano preso farmaci e metadone, erano a conoscenza del suo passato di droga. Non è credibile che gli agenti di scorta non si siano accorti che stava morendo. Non è credibile che dopo la rivolta sia stato assistito nel migliore dei modi possibili. Ci trascineremo in tribunale e aspetteremo di capire che cosa è davvero successo a Sasà e alle persone come lui, morte durante un trasporto o poco prima o poco dopo. Chiediamo verità e giustizia. Chiediamo il rispetto per queste vite al limite”. Magistratopoli. Palamara fa i nomi ed è bufera sulla magistratura italiana di Errico Novi Il Dubbio, 22 giugno 2020 L’ex presidente Anm denuncia il sistema delle correnti. Giulia Bongiorno gli dà ragione, Albamonte lo querela. C’è chi minaccia querela, chi invece chiede l’azzeramento dell’Anm. Insomma, il caso Palamara trascina come una valanga tutta la magistratura italiana. Soprattutto dopo la deciosione dell’ex presidente dell’Anm coinvolto nello scandalo intercettazioni di “fare i nomi”. “Io mi assumo le mie responsabilità. Ma non posso assumermi quelle di tutti”, ha dichiarato Palamara. Che poi ha aggiunto “Non ho agito da solo: il clientelismo all’interno della magistratura non è certo un problema che ho inventato io. Limitarlo solo a me o a un gruppo associativo significa ignorare la realtà dei fatti, o peggio ancora mentire”. “Io sono andato lì per parlare di fronte a chi mi stava giudicando. È un diritto insopprimibile per chiunque”, ha detto parlando della sua espulsione dall’Anm decisa senza che gli fosse data la possibilità di difendesi.Poi Palamara mette sul piatto i nomi: “Su cinque componenti probiviri Anm, tre li conosco assai bene. Sono stati noti esponenti di altrettante correnti. Tra l’altro, il presidente Di Marco, dalle carte di Perugia, è risultato essere il difensore disciplinare di Giancarlo Longo, il magistrato che, secondo le originarie accuse rivoltemi da Perugia, ma poi cadute, io avrei favorito per la procura di Gela. - ha continuato - C’è Gimmi Amato, che nel 2016 venne nominato procuratore di Bologna secondo i meccanismi di cui tanto si parla oggi. Fermo restando il suo indiscusso valore”. “Viazzi, storico esponente di Md, che ho sempre stimato ma che poi sacrificai per la nomina di presidente della Corte di appello di Genova, a vantaggio dell’alleanza con Magistratura indipendente, che portò a preferire al suo posto la collega Bonavia. ha concluso Palamara - Sono loro per primi i beneficiari del sistema di cui solo io oggi sono ritenuto colpevole”. Albamonte querela Palamara: “Parla di cose mai avvenute” - L’avvocato del segretario di “Area” annuncia di aver ricevuto dal suo assistito “mandato per proporre querela” nei confronti del collega appena espulso dall’Anm. In particolare per le interviste in cui ha riferito di “cene con l’ex presidente della commissione Giustizia sulla nomina di Ermini”. Non è ancora chiaro se Luca Palamara sarà rinviato a giudizio. Dipenderà dai magistrati di Perugia, tra i quali si dovrà annoverare ora, com’è noto, anche il neoprocuratore della Repubblica Raffaele Cantone. Sembra però chiaro che alcuni procedimenti ci saranno e arriveranno probabilmente a sentenza: si tratta di quelli relativi alle accuse di diffamazione che i colleghi di Palamara gli muovono. E a proposito, è particolarmente significativo che ad annunciare poco fa un’azione legale nei confronti del pm al centro del “caso Procure” sia stato un suo successore alla presidenza dell’Anm, Eugenio Albamonte. Chiamato in causa da Palamara nelle interviste pubblicate sui quotidiani di stamattina, Albamonte è stato pronto a replicare, poco fa, attraverso il proprio difensore, Paolo Galdieri. “Questa mattina ho ricevuto mandato dal dottor Eugenio Albamonte, pm a Roma e segretario di AreaDg, per proporre querela nei confronti del dottor Luca Palamara”, annuncia l’avvocato. Il quale ricorda appunto come il pm appena espulso dall’Anm, “in una serie di interviste rese oggi ha diffamato” Albamonte. Lo ha fatto in particolare “parlando di fatti mai avvenuti e in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’onorevole Donatella Ferranti, già presidente della commissione Giustizia della Camera dei deputati, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. Al di là del merito specifico, lo slittamento da quello che molti si illudono possa diventare una sorta di maxiprocesso perugino alla magistratura associata in una serie di micro giudizi per diffamazione è forse illuminante sul vero rischio di tutta la crisi. Vale a dire, la riduzione di un grande tormento strutturale di un potere dello Stato a mero chiacchiericcio gossipparo regolato dalla dose quotidiana di intercettazioni date in pasto al dibattito. Orlando: riforma del disciplinare delle toghe - “Nei prossimi giorni credo si debba riflettere su una seria riforma del disciplinare dei magistrati, sottraendolo al Csm ed istituendo un’apposita corte che si occupi di tutte le magistrature. Credo sia utile lavorare ad una legge costituzionale che vada in questa direzione coinvolgendo tutte le forze parlamentari”, scrive su facebook Andrea Orlando, vicesegretario Pd. Cicchitto: vogliono far passare per matto Palamara - “Adesso per chiudere il cerchio e omettere la verita’ manca solo far passare Palamara per matto. La verità è che il trojan è stato messo per boicottare la scelta di Viola a procuratore capo di Roma e non per scoprire episodi di corruzione mia esistiti di Palamara. Chi ha usato il trojan ha fatto ricorso alla bomba atomica per colpire un obiettivo molto delimitato e cosi ha distrutto una intera citta’ vale a dire l’intero Csm e le fiamme si stanno spargendo per tutta l’Anm”, ha dichiarato Fabrizio Cicchitto. Bongiorno: “Palamara dice la verità” - “È corretto quello che dice Palamara: i riflettori sono accesi su di lui ma è poco credibile che il problema riguardi solo Palamara”, dichiara la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno, intervenendo su Radio radicale alla tre giorni organizzata sulla riforma Radicale della giustizia. “È verissimo che la stragrande maggioranza dei giudici sono persone per bene,ma un’autoriforma è impossibile perché sarebbe già stata fatta”, ha osservato ancora Bongiorno, che ha poi definito “ridicola” la riforma della giustizia del ministro Bonafede. “Suscita il sorriso che di fronte alle necessarie riforme radicali si risponda con minime modifiche che non impattano su nulla”. “La separazione delle carriere non è più rinviabile- ha aggiunto- A me non basta, vorrei anche la separazione del Csm e il cambiamento dell’accesso in magistratura che oggi non consente una selezione adeguata”. Verifiche del Csm su venti giudici dopo le accuse di Palamara di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 giugno 2020 Albamonte, ex presidente dell’associazione: negli incontri coi politici parlavamo dei problemi, non delle nomine. Le mosse del Csm dopo le accuse di Palamara. I colleghi: basta mistificazioni Zitto, come auspicava l’associazione nazionale magistrati, non c’è stato. E ora su Luca Palamara, espulso sabato dall’Anm che aveva guidato e passato all’attacco dei colleghi, piovono minacce di querele. Ne parlano diversi magistrati coinvolti dall’ex pm nella chiamata di corresponsabilità nell’affaire delle nomine pilotate. Palamara, ex consigliere del Csm, captato da un trojan (nell’ambito di un’indagine della procura di Perugia che non è ancora arrivata all’udienza preliminare) venne sorpreso all’hotel Champagne mentre trattava con i renziani Luca Lotti e Cosimo Ferri, e altri colleghi consiglieri, nomine di incarichi direttivi di uffici importanti come la procura di Roma. Convinto di aver “sbagliato” ma “mai da solo” comincia a fare i nomi. A partire da Eugenio Albamonte, suo successore all’Anm. Il primo a minacciare querele per le allusioni di Palamara relative a cene con l’ex presidente dem in commissione giustizia, Donatella Ferranti (“in cui dubito si parlasse di calcio”). Pronto a ricorrere agli avvocati anche il segretario Anm, Giuliano Caputo, secondo Palamara inserito nel sistema di correnti che decideva le nomine. “Non vediamo cosa ci sia di diffamatorio nelle dichiarazioni del nostro assistito. Sarà comunque un’occasione di chiarimento”, obiettano i legali Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti. “Piuttosto ci si dovrebbe seriamente interrogare sul trattamento ricevuto dal dottor Palamara, privato di difesa e di come il trojan non abbia carpito nulla di rilevante”. “Palamara mente”, accusa una nota dell’Anm. Quel diritto di difesa gli è stato dato “di fronte ai probiviri”. Non è stato sentito dal direttivo di sabato, si precisa, “perché lo statuto non lo prevede”. La prende meglio, invece, uno dei probiviri tirati in ballo: Giuseppe Amato. Secondo Palamara “nel 2016 venne nominato procuratore di Bologna secondo i meccanismi di cui tanto si parla oggi. Fermo restando il suo indiscusso valore”. “Non ce l’ho con lui, né con nessuno. Ma sono stato proposto all’unanimità, e votato all’unanimità: questo è il fatto che meglio dimostra come non ci fosse accordo di alcun tipo”. In controtendenza, Amato contesta “chi vede solo lottizzazione nel Csm. Al contrario - dice - i parametri sono ben scadenzati e vedono il coinvolgimento di tutti, compreso il ministro della Giustizia che deve dare il suo concerto”. Ma le “rivelazioni” di Palamara non sono finite. E rendono più urgente, per la politica, accelerare sulle riforme. “Nei prossimi giorni credo si debba riflettere su una seria riforma del disciplinare dei magistrati, sottraendolo al Csm ed istituendo un’apposita corte che si occupi di tutte le magistrature. Credo sia utile lavorare a una legge costituzionale che vada in questa direzione coinvolgendo tutte le forze parlamentari”, scrive su Facebook l’ex ministro della Giustizia, e ora vicesegretario pd, Andrea Orlando. Il centrodestra attacca. “L’espulsione di Palamara dall’Anm è un buon segnale, ma non basta” dice Giorgia Meloni (Fdi), chiedendo le dimissioni immediate di tutti i magistrati coinvolti nello scandalo e un sorteggio per le nomine al Csm. Giulia Bongiorno (Lega) difende l’ex consigliere Csm: “È corretto quello che dice: i riflettori sono accesi su di lui ma è poco credibile che il problema riguardi solo Palamara”. E Fabrizio Cicchitto (Rel) chiosa: “Adesso manca solo far passare Palamara per matto. La verità è che il trojan è stato messo per boicottare la scelta di Viola a procuratore di Roma e non per scoprire episodi di corruzione mai esistiti di Palamara”. La guerra delle toghe, Palamara contrattacca. L’Anm: “Un bugiardo” di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 22 giugno 2020 Scandalo intercettazioni e correnti, il pm sospeso chiama in causa un gruppo di colleghi che reagiscono: noi infangati, lo denunciamo. È un vespaio la magistratura italiana. All’indomani della cacciata di Luca Palamara dall’Anm, l’associazione di cui è stato presidente, scoppia il caos. L’ex numero uno, dopo la sua espulsione, ha contrattaccato facendo una serie di nomi di colleghi che avrebbero partecipato al mercato delle toghe. Sarebbero i primi, sempre secondo Palamara, di una lunga lista. È chiaro che le parole del magistrato hanno provocato fibrillazione in diverse procure. Quella di Roma su tutte, dove fino a poco tempo era in servizio lo stesso pm. I magistrati tirati in ballo promettono querele. La prima risposta dura a Palamara arriva intanto proprio dal sindacato delle toghe. L’Anm è stata accusata dal magistrato di non avergli concesso il diritto di difendersi. “Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente” e cerca ora “di ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti” replica la giunta dell’Anm. L’ex presidente non è stato sentito dal Cdc “semplicemente perché lo Statuto non lo prevede”, ma è stato invece ascoltato, come prevedono le norme, dai probiviri, di fronte ai quali “non ha mai preso una posizione” sugli incontri “con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati”. Quelle riunioni notturne sulle nomine dei procuratori di Roma e di Perugia con gli allora togati del Csm Luigi Spina, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli e i deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti che hanno realizzato “un’interferenza” nell’attività del Csm. “Fatti purtroppo veri e per questo sanzionati” sottolinea ancora la giunta, ricordando a Palamara che “le regole si rispettano, anche quando non fanno comodo”. Al pm romano risponde anche il segretario dell’Anm Giuliano Caputo, che secondo Palamara era inserito nel suo sistema. “Nel disperato tentativo di difendersi inventa una realtà che non corrisponde ai fatti”, dice Caputo spiegando di non aver “mai parlato con lui” né della sua nomina al vertice dell’Anm “avvenuta all’unanimità e dopo un confronto all’interno del gruppo di Unicost”, né di sue o di domande di altri magistrati al Csm per concorrere a nomine. Pronto a ricorrere alle vie legali è un altro ex presidente dell’associazione, Eugenio Albamonte, pm romano e segretario di Area, il gruppo che rappresenta le toghe progressiste. “Palamara in una serie di interviste lo ha diffamato - spiega il suo legale Paolo Galdieri - parlando di fatti mai avvenuti, in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’onorevole Donatella Ferranti, già presidente della commissione Giustizia della Camera, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. “Non vediamo cosa ci sia di diffamatorio nelle dichiarazioni del nostro assistito” ribattono gli avvocati di Palamara, Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti, che insistono invece sulla privazione da lui subita del diritto di difesa. E ancora il pm ha puntato il dito contro altri colleghi, come un altro numero uno dell’Anm, Francesco Minisci, Bianca Ferramosca, Alessandra Salvadori (componenti del Cdc dell’Anm) e Gimmi Amato. Magistrati che hanno respinto le illazioni di Palamara. Dal fronte politico è Giorgia Meloni a prendere la posizione più netta. “La sua espulsione dall’Anm è un buon segnale, ma non basta” dice chiedendo le dimissioni di tutti i magistrati coinvolti nello scandalo e un sorteggio per le nomine al Csm. Anm piena di leader, ora non rinunci al ruolo politico di Errico Novi Il Dubbio, 22 giugno 2020 L’espulsione di Palamara è una scelta difficile. Sarebbe in ogni caso un errore se anticipasse una deriva burocraticista della magistratura. Che invece deve trovare il coraggio di spezzare le catene della lottizzazione senza ritirarsi dal dibattito pubblico. È una scossa che può lasciare segni profondi. Nella magistratura e nel Paese. La crisi dell’ordine giudiziario ha imposto un sacrificio umano: l’espulsione di Luca Palamara dalla Anm; la rottura fra il sistema associativo, culturale, politico e la figura che più ha inteso farne un sistema innanzitutto di potere. Il punto, l’interrogativo vero è: quanto sarà possibile, per Anm, allontanarsi davvero dal modello disegnato negli ultimi anni, e certo non solo da Palamara? La sfida è difficilissima. Non tanto perché manchino figure e intelligenze in grado di aprire una strada nuova. Tutt’altro. L’insidia vera è che non ci si limiti a ripudiare le smanie di lottizzazione. Ma che si rinunci anche a esercitare un ruolo politico. Nella magistratura associata si possono annoverare leadership e gruppi davvero motivati ad alimentarne il protagonismo pubblico. Basti pensare a chi, come Eugenio Albamonte, ha voluto essere il primo presidente Anm a partecipare a un plenum del Consiglio nazionale forense. Con quel gesto, ha dimostrato di coltivare davvero un’idea di giurisdizione autonoma (dalla politica) e unitaria (nella comune sfida culturale con gli avvocati). O a Pasquale Grasso, giudice giovane e coraggioso, capace un anno fa anche di accettare la temporanea rottura con il proprio gruppo, Magistratura indipendente, e l’isolamento politico, pur di non contraddirsi. L’attuale presidente Anm Luca Poniz, dotato evidentemente di nervi saldissimi e di una considerevole dose di pazienza, viste le mostruose tensioni che anche nelle ultime ore si sono scaricate su di lui. E ancora: Antonio Sangermano, che ha “traghettato” una parte di Unicost in “Mi” e teorizza un bipolarismo tra i gruppi della magistratura con argomenti di una raffinatezza intellettuale che nella politica “vera”, oggi, non troveresti neppure a scavare con la trivella. Fino a Roberto Carrelli Palombi e Francesco Cananzi, che hanno avuto la forza di non far esplodere Unicost nonostante al centro dello “scandalo” ci fosse proprio il leader di quel gruppo, Palamara appunto. E a Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, segretaria e presidente di Magistratura democratica, intellettuali progressisti a tutto tondo, capaci a loro volta di analisi politiche che tra i partiti non si sentono da alcuni lustri. Tutto per dire che Anm non deve confondere l’addio alle lottizzazioni con una dismissione del proprio ruolo pubblico. Sarebbe una perdita che il Paese, l’élite del Paese, pagherebbe a caro prezzo. Se la magistratura associata, di fronte alla crisi aperta dall’indagine di Perugia, scegliesse il minimalismo e la ritirata, correrebbe un rischio persino peggiore della degenerazione correntizia: la deriva burocraticista. In un’Italia in cui le leadership politiche si dissolvono e le classi dirigenti evaporano o rinunciano all’impegno pubblico, sarebbe impensabile dover assistere anche a una magistratura che si rinchiude in sé stessa, in una sorta di autopunizione. L’impegno associativo inteso come attività di proposta culturale va preservato. La partecipazione al dibattito pubblico sulla giustizia e sulla democrazia non dev’essere spazzato via insieme con le “nomine a pacchetto”. Il coraggio che ora Anm deve trovare non è solo quello di rompere con la cosiddetta lottizzazione degli incarichi, ma anche di non gettare il bambino con l’acqua sporca. Non solo mele marce. È l’albero della giustizia il grande ammalato di Claudio Cerasa Il Foglio, 22 giugno 2020 Il caso Palamara non riguarda il cattivo atteggiamento di un singolo magistrato ma è il sintomo del cattivo funzionamento di un mostro chiamato circo mediatico-giudiziario in cui la giustizia è al servizio dei pm. Si fa presto a dire Palamara. Nelle ultime settimane, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto ben due volte per esprimere un giudizio relativamente ad alcune scene pietose offerte negli ultimi mesi dalla magistratura italiana. Lo ha fatto la prima volta lo scorso 29 maggio, quando il capo dello stato, in riferimento alla pessima immagine offerta dal Csm sul caso Palamara, ha parlato della “degenerazione del sistema correntizio” e dell’”inammissibile commistione fra politici e magistrati”. Lo ha rifatto la scorsa settimana, il 18 giugno, sottolineando il fatto che le toghe sono chiamate a “recuperare la credibilità e la fiducia dei cittadini”, ricordando che la prossima riforma della giustizia dovrà “rimuovere prassi inaccettabili, frutto di una trama di schieramenti cementati dal desiderio di occupare ruoli di particolare importanza giudiziaria e amministrativa, un intreccio di contrapposte manovre, di scambi, talvolta con palese indifferenza al merito delle questioni e alle capacità individuali” e ribadendo il fatto che nel mondo della magistratura, “a ciascuno è richiesto il coraggio di abbandonare atteggiamenti fondati su prospettive limitate, di corto respiro, che, distorcendo la vita delle istituzioni, rischiano di delegittimarle. È un dovere istituzionale che grava su ciascuno. E che non può essere eluso”. In entrambe le occasioni, la classe politica e il mondo dell’informazione hanno salutato con grande entusiasmo le parole del presidente della Repubblica e dedicato al capo dello stato un’ovazione mediatica. Ma l’entusiasmo per le parole di Mattarella mostrato da una buona parte della classe dirigente italiana è un entusiasmo che suona in modo quantomeno grottesco e se si sceglie di osservare la vicenda Palamara allargando l’inquadratura ci si accorgerà facilmente che gli applausi rivolti oggi al presidente della Repubblica sono simili a quelli che vennero rivolti a Giorgio Napolitano nel 2013 quando l’allora capo dello stato spiegò in Parlamento la ragione per cui aveva scelto di accettare il secondo mandato. Napolitano, in un discorso molto applaudito, disse, in buona sostanza, di aver accettato quell’incarico per togliere le castagne dal fuoco a una classe dirigente politica irresponsabile e la stessa classe dirigente politica accusata con parole di fuoco di essere irresponsabile non perse occasione per ringraziare di cuore l’allora presidente per quelle preziose parole. La scena che l’Italia sta osservando oggi, attorno al caso Palamara, è una scena molto simile perché, a differenza di molti, il presidente della Repubblica, rispetto al caso Palamara, ha chiesto di accendere un riflettore non solo sulla storia di un magistrato poco raccomandabile, diventato impresentabile anche per tutti coloro che fino a qualche mese fa lo consideravano più che presentabile per raggiungere i propri obiettivi nel mondo della magistratura, ma su una storia ben più importante che in troppi fanno finta di non vedere, concentrandosi molto sulla mela marcia e poco invece sull’albero da cui quella mela proviene. E la ragione per cui la classe politica e il mondo dell’informazione hanno scelto di illuminare più la mela marcia che l’albero da cui quella mela proviene è una scelta che si spiega in un modo molto semplice: buttare via una mela marcia non costa molto, buttare via l’albero da cui quella mela proviene, e spiegarne il perché, significa anche dover ammettere che i problemi della magistratura italiana non sono legati alla presenza di un magistrato poco raccomandabile ma sono legati a una lunga serie di problemi più culturali che strutturali, senza affrontare i quali i problemi osservati in questi mesi si ripresenteranno presto come capita con i nodi che senza essere sciolti arrivano regolarmente al pettine. In questo senso, il caso Palamara non è il caso di un magistrato senza scrupoli ritrovatosi per caso a trafficare in quella complicata zona grigia che esiste tra il mondo della giustizia e la politica. Il caso Palamara, per chi lo vuole osservare davvero, è l’espressione di un mondo della magistratura gravemente ammalato per almeno dieci motivi diversi. Malato per aver accettato il principio che le correnti della magistratura potessero essere serenamente trasformate più in correnti di potere che in correnti di opinione. Malato per aver accettato il principio che le promozioni potessero essere serenamente affidate più all’appartenenza che al merito. Malato per aver accettato il principio che i magistrati che sbagliano sono magistrati che non meritano di essere puniti ma che meritano al massimo di essere spostati. Malato per aver accettato il principio che le oscenità del processo mediatico diventano oscenità solo quando a essere colpiti dalle suddette oscenità sono gli stessi magistrati. Malato per aver accettato il principio che l’utilizzo truffaldino delle intercettazioni irrilevanti diventa truffaldino solo quando a essere vittime di intercettazioni che non andavano trascritte sono gli stessi magistrati. Malato per aver accettato il principio che la guerra per bande tra magistrati potesse diventare un problema non nei casi in cui a fare le spese di questa guerra sono i singoli cittadini ma solo nei casi in cui a farne le spese sono i singoli magistrati. Malato per aver accettato il principio che le correnti della magistratura pericolose sono sempre quelle a cui appartengono gli altri. Malato per aver accettato il principio che le commistioni pericolose tra procure e partiti sono sempre le commistioni degli altri. Malato per aver accettato il principio di dover legare i propri destini alla non separazione delle carriere tra pm e giornalisti. Malato per aver accettato per troppo tempo di delegare l’immagine di un’intera categoria a una parte minoritaria della magistratura, i pm, che rappresenta il 20 per cento del mondo togato ed è conosciuta nel paese più per i successi nei talk-show che per i successi in tribunale. Malato per aver accettato il principio di avere un Csm del tutto disinteressato a difendere un tema che dovrebbe essere vitale all’interno di uno stato di diritto: la tutela della terzietà e dell’indipendenza della figura del magistrato. Il caso Palamara - le cui conversazioni private sono state pubblicate sui giornali grazie alla presenza nel telefonino di un trojan che la procura indagante ha potuto piazzare in virtù della presenza di un’accusa contro Palamara, corruzione per atti giudiziari, uno dei due capi di imputazione a cui deve rispondere l’ex capo dell’Anm, che la stessa procura ha poi ammesso essere un’accusa priva di fondamento - non è un caso che riguarda il cattivo atteggiamento di un singolo magistrato. Ma è un caso che riguarda il cattivo funzionamento di un mostro chiamato circo mediatico-giudiziario. Per combattere il quale non è sufficiente, come sembra auspicare purtroppo oggi buona parte della nostra classe politica, combattere per “una grande riforma del Consiglio superiore della magistratura” ma è necessario combattere per qualcosa di più importante, che ha a che fare più con una rivoluzione culturale che con una rivoluzione del Csm: smetterla di fischiettare di fronte ai troppi casi in cui l’Italia sceglie di mettere la giustizia più al servizio dei propri pm che del paese. Albamonte: “Dà forza a chi vuole delegittimarci. Le cene e il dialogo non sono trame” di Giovanni Bianconi Coriere della Sera, 22 giugno 2020 Eugenio Albamonte è uno dei magistrati citati da Luca Palamara nella chiamata di correo sulle “relazioni pericolose” con la politica. Come reagisce? “Dando mandato al mio avvocato a sporgere querela per diffamazione. Sembra l’atteggiamento disperato di chi, di fronte ad accuse onerose anche sul piano dell’immagine, denuncia di vedersi negato il diritto di difesa, di avere un giudice non imparziale e infine grida “così fan tutti”. Per chi fa il nostro lavoro non è una novità, è strano che a questa tecnica ricorra un magistrato”. Con quali conseguenze? “Il suo tentativo di affossare l’intera magistratura mistificando la realtà, provando a coinvolgere tutti in una pratica che invece era solo di alcuni e diventando la gola profonda del malcostume giudiziario, rafforzerà chi, dal 1992 in poi, cerca sempre nuovi spunti per delegittimaci”. Il “caso Palamara” ne ha offerti parecchi, come ora le sue dichiarazioni. È vero che lei, magistrato di sinistra, ex presidente dell’Anm e ora segretario di Area, incontrava la deputata del Pd Donatella Ferranti? “Certo che è vero. Ma non è che se uno s’incontra con un parlamentare e qualche consigliere del Csm deve per forza occuparsi di incarichi o orientare nomine anche in vista di soluzioni di singole vicende giudiziarie a favore di uno dei commensali. Ci sono anche altri modi e altre finalità. Con Donatella Ferranti, che stimo e di cui sono amico, abbiamo sempre discusso di temi di interesse generale, problemi della giustizia e riforme. In ogni caso io non faccio parte del Csm e Donatella non è un’imputata, e già questo fa qualche differenza”. Lei è stato magistrato segretario al Csm, e Palamara getta ombre sia sulla nomina che sul rientro in ruolo. “Io fui nominato secondo le regole, e secondo la prassi di scegliere i segretari del Csm non solo per competenze e professionalità ma anche in riferimento ai gruppi rappresentati in Consiglio. Poi sono tornato a svolgere le stesse funzioni di pubblico ministero, per 10 anni non ho fatto domande per alcun incarico e da ultimo continuo a non farne in quanto ex presidente dell’anm; per la stessa ragione non mi sono candidato nemmeno al Csm. Per me e il mio gruppo è una regola, per altri no”. Però anche lei discuteva con Palamara il nome che Unicost doveva proporre come segretario dell’Anm... “E ci mancherebbe altro. C’era un presidente conservatore espresso da Magistratura indipendente, perciò noi chiedevamo a Unicost di proporre un segretario più aperto al dialogo con le altre componenti. Dopodiché Unicost poteva indicare chi voleva, semplicemente noi di Area non avremmo votato un nome ritenuto inadeguato”. Nega pure la spartizione delle nomine nel Csm? “Da presidente dell’Anm denunciai nel 2017 la degenerazione del correntismo e l’invadenza dei gruppi nella gestione dei Csm. Invitai a un recupero di orgoglio, altrimenti le correnti sarebbero state travolte, ma proprio le chat di Palamara dimostrano ora che alcuni non compresero questa realtà. Noi di Area abbiamo avuto un dibattito molto acceso con i nostri rappresentanti al precedente Consiglio, e quelli attuali hanno avuto il mandato di voltare pagina, a costo di rimanere tagliati fuori da ogni decisione. È ciò che stava accadendo prima delle dimissioni di cinque consiglieri di altri gruppi coinvolti non scandalo esploso a maggio 2019, i quali non avevano abbandonato certe logiche e pratiche. Poi qualcosa è cambiato”. La riforma della giustizia è un obbligo del governo. Stefano Ceccanti spiega perché di Andrea Picardi Palazzi formiche.net, 22 giugno 2020 Intervista al costituzionalista e deputato del Partito democratico Stefano Ceccanti: “Il malfunzionamento della giustizia è una palla al piede per la competitività dell’Italia. Questo è il vero punto. Si tratta di una questione che zavorra il nostro Paese”. La riforma della giustizia? “A questo punto è diventata un obbligo”. Il deputato del Partito democratico, Stefano Ceccanti, non ha dubbi: basta attese, “le vicende di questi mesi” - ha spiegato il costituzionalista in questa conversazione con Formiche.net - “devono spingere il governo e il Parlamento a intervenire sul tema in tempi rapidissimi”. Come d’altronde ha ripetuto in più di un’occasione il capo dello Stato, Sergio Mattarella, che nei giorni scorsi - in occasione delle celebrazioni di cinque magistrati uccisi dal terrorismo e dalla mafia - è tornato a tuonare sull’argomento: “Sono emersi fatti di una gravità tale da indurre il presidente della Repubblica ad adottare posizioni durissime”. Da dove bisognerebbe cominciare secondo lei? Il cuore del problema è rappresentato dal sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura che è impostato sulla base di preferenze alle liste nazionali. In questo modo le correnti hanno assunto un’importanza spropositata. C’è un meccanismo di chiusura da parte della magistratura che va assolutamente rotto. Mi pare che molti magistrati di qualità siano stati penalizzati per il solo fatto di non appartenere ad alcuna corrente. Cosa fare dunque? Penso che la soluzione migliore sia l’introduzione di un sistema esattamente opposto all’attuale: ovvero, prevedere collegi uninominali con i quali i candidati non si troverebbero a vincere sulla base della forza della corrente di appartenenza, come avviene invece ora. Questo è il primo aspetto. E il secondo? Attiene al potere disciplinare: bisogna chiedersi se sia il caso che sia esercitato dagli stessi magistrati oppure se non convenga attribuirlo a un organo diverso. A suo avviso? Credo si possa ragionare sulla seconda ipotesi: le attuali regole, come sta emergendo in queste settimane, non hanno dato buona prova di sé. Cos’altro professore? Vi sono aspetti di protagonismo sgradevole da parte di alcuni magistrati sui occorrerebbe intervenire. A cosa si riferisce? C’è un contesto generale nel quale, in alcuni casi, si fatica a far capire quali sono i limiti di ciascun potere. Per questo il Parlamento, sulla base della proposta del governo, è chiamato a intervenire per riformare quello che non funziona nel sistema. La politica darebbe una risposta tempestiva, dimostrando di essere in presa diretta sulla realtà. Ma ne sarà in grado? Nella maggioranza sulla giustizia ci sono posizioni anche molto diverse Mi sembra ci siano state difficoltà iniziali molto forti, anche perché erano state fatte scelte sbagliate da parte del precedente governo gialloverde. Mi riferisco, ad esempio, alla decisione di bloccare la prescrizione senza attuare la riforma del processo. Una previsione assolutamente squilibrata. Il punto di partenza non è stato affatto positivo. E adesso? Spero che le cose possano migliorare. Ma serve in questo senso un netto cambio di marcia. Certo, la continuità personale alla guida del ministero della Giustizia potrebbe non aiutare: il ministro (Alfonso Bonafede, ndr) è rimasto lo stesso ed è in qualche modo naturale che tenda a difendere il suo operato nel corso del governo precedente. Però la maggioranza è cambiata e anche lui deve rendersene conto. In termini di sistema, perché è così importante riformare la giustizia? È un tassello fondamentale della strategia di rilancio: il malfunzionamento della giustizia è una palla al piede per la competitività dell’Italia. Questo è il vero punto. Si tratta di una questione che zavorra evidentemente il nostro Paese. Perché qualcuno dovrebbe venire a investire da noi visti i tempi dei processi e vista l’incertezza generale? È un problema di rendimento complessivo del sistema. Il Cnf a Mattarella: ricostruire la giustizia riconoscendo il ruolo costituzionale dell’avvocato di Errico Novi Il Dubbio, 22 giugno 2020 La presidente della massima istituzione forense, Maria Masi, si rivolge al Capo dello Stato in una lettera in cui ricorda che si esce dalla “crisi” della magistratura a una condizione: affermare “costituzionalmente” la “funzione” dell’avvocatura di componente “riequilibratrice delle funzioni e dei poteri”. Adesso è tempo di schierarsi “dalla parte della Costituzione”. Di allontanare i magistrati dalla “attrazione fatale con il potere esecutivo e con quello legislativo”. E di “ricostruire un rapporto equilibrato tra istituzioni” anche con il riconoscimento “alla avvocatura italiana” della propria “funzione riequilibratrice delle funzioni e dei poteri”. Di fronte alla terribile crisi culminata ieri con l’espulsione di Luca Palamara dall’Anm, il Cnf compie una scelta forte, definitiva: si rivolge al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in una lettera firmata dalla presidente facente funzioni Maria Masi, affinché incoraggi l’intero sistema a una svolta vera: salvaguardare, appunto, la “autonomia e indipendenza” della magistratura e riconoscere “costituzionalmente” la “funzione dell’avvocatura”. “Signor Presidente”, esordisce Maria Masi nella lettera inviata ieri al Capo dello Stato, “il Consiglio nazionale forense fa propria la manifestata preoccupazione per la crisi politica e istituzionale, senza precedenti, nella quale si sta dibattendo la magistratura a seguito dei recenti fatti di cronaca. Da lungo tempo, troppo”, osserva la presidente del Cnf, “l’autonomia e l’indipendenza di cui gode la magistratura appaiono vulnerabili ogni qual volta i magistrati risultino coinvolti in situazioni non degne del ruolo e della funzione da loro ricoperti”. Situazioni evidentemente dovute, nota appunto la massima istituzione forense, alla “attrazione fatale con il potere esecutivo e con quello legislativo”, ma anche alla “difficoltà della politica di arginare questo fenomeno, invero unico nelle democrazie occidentali”. Il punto, riflette Masi nella lettera al presidente della Repubblica, è che tali anomalie “rischiano di minare le fondamenta del principio della separazione dei poteri, con evidenti danni alla credibilità della Giurisdizione, a scapito non solo della comunità civile, ma anche dei magistrati e delle magistrate che, silenziosamente, ogni giorno, con abnegazione, compiono il proprio dovere di servitori e servitrici dello Stato, e che sono la stragrande maggioranza”. “Questi”, prosegue la presidente del Cnf, “sono i giudici che i cittadini meritano, questi sono i giudici che l’Avvocatura italiana rispetta. Questi sono la pietra d’angolo sulla quale ricostruire un rapporto equilibrato tra Istituzioni”. Fino alla richiesta che Mattarella valuti l’importanza e la necessità, proprio in una fase del genere, di una riforma che riconosca il rilievo costituzionale della professione forense: “È anche tempo che all’Avvocatura italiana, che così tanti sforzi sta compiendo per resistere ai tentativi di avvilire o peggio svilire il ruolo insostituibile della difesa dei diritti, sia riconosciuta costituzionalmente la funzione riequilibratrice delle funzioni e dei poteri”. “Signor Presidente della Repubblica”, è la conclusione della lettera, “l’Avvocatura è pronta a collaborare per la riscrittura delle regole e guarda a Lei con fiducia, schierandosi senza riserva alcuna, ancora una volta e sempre, dalla parte della Costituzione”. Una fase nuova, dunque, in cui il Cnf chiede, attraverso la figura garante dell’unità nazionale, che la avvocatura possa avere una parte attiva, in nome del carattere unitario che segna anche la giurisdizione, e che è il solo baluardo a cui aggrapparsi per mettere in salvo il sistema. Il Csm e la moralità da recuperare di Armando Spataro La Repubblica, 22 giugno 2020 Come spesso avviene in Italia all’indomani di clamorose inchieste, sulla scia del “caso Palamara” si discute da un anno delle possibili riforme del sistema giustizia. Prioritaria appare quella del sistema di designazione dei componenti del Consiglio superiore della magistratura. Ciò soprattutto a causa delle interferenze delle correnti dell’Associazione Magistrati sull’attività dell’organo di governo autonomo della magistratura emerse in quell’indagine. Fortunatamente il governo e il ministro della Giustizia hanno abbandonato l’ipotesi del sorteggio dei membri del Csm che, pur se paludata in vari modi, appare offensiva per la dignità della magistratura. In un appello-proposta appena diffuso da alcuni giuristi si auspica un sistema a doppio turno: al primo, la scelta avviene per estrazione a sorte di un paniere di legittimati passivi (96) tra cui poi si eleggono i 16 togati. Uno stratagemma per aggirare l’articolo 104 della Costituzione che prevede l’elezione dei togati ad opera di tutti i magistrati. Per questo stupisce che la presidente del Senato, qualche costituzionalista e taluni magistrati si dichiarino favorevoli al sorteggio. Non è comunque possibile negare che quanto sta emergendo dimostra la perdita di autorevolezza dei gruppi associativi, tale da fare dimenticare le ragioni ideali e culturali per cui sono nati. Sono proprio i magistrati che credono nelle correnti come “luoghi” di assistenza e tutela che devono riformare sé stessi: ciò di cui vi è primario bisogno è conoscere e capire prima di votare secondo coscienza. Ciò non toglie che appare urgente rivedere il sistema elettorale dei componenti togati del Csm, ricordando, però, che anche l’attuale meccanismo fu approvato nel 2002 proprio per disinnescare il potere delle correnti. Senza ottenere effetti. Addirittura, in occasione delle ultime elezioni del 2018,1e quattro correnti esistenti, con scelta criticatissima di cui non hanno ancora fatto ammenda, hanno ciascuna candidato un proprio esponente per i quattro posti previsti di pm: tutti eletti senza competizione! Se le correnti esistono ed è costituzionalmente illegittima la proposta di abolirle, bisogna allora puntare sul rafforzamento del rapporto tra gli eletti e i territori: non più un collegio unico nazionale ma più collegi territoriali. Il disegno di legge delega in elaborazione questo si propone, ma con alcuni passaggi criticabili: aumentati da 16 a 20 i membri togati da eleggere, si prevedono ben 19collegi che dovrebbero eleggere un candidato ciascuno, mentre quello della Cassazione ne eleggerebbe due. Questa riforma in realtà non abbatterebbe né attenuerebbe in alcun modo l’influenza delle correnti e dei “potentati locali” che, nonostante l’esclusione delle liste contrapposte, vedrebbero persino crescere la propria influenza in collegi territoriali così ristretti. Ed inoltre, proprio la loro pluralità, la dimensione ristretta e le necessità localistiche finirebbero inevitabilmente con il condizionare l’azione degli eletti forse ancor più della loro eventuale contiguità torrentizia. Se si vuole privilegiare la conoscenza dei profili professionali e culturali dei candidati per restituire credibilità al Csm, è fuori luogo prevedere ben 19 collegi: ne servono meno, tali da garantire numeri di magistrati elettori (legittimati ad esprimere due preferenze) tendenzialmente omogenei, prevedendo l’elezione per ciascuno di essi di due componenti del Csm (il che permetterebbe con certezza la rappresentanza di genere e di differenti identità culturali). E sarebbe logico garantire che gli eletti fossero portatori al Csm, secondo una proporzione correlata ai rispettivi organici, delle esperienze dei magistrati giudicanti e requirenti. Il che non pregiudicherebbe la necessità della unicità della loro carriera, che i sostenitori della separazione continuano ostinatamente ad avversare nonostante l’Europa auspichi che il nostro modello sia adottato anche altrove. Ma sia concesso, a questo punto, citare le parole di un grande politico, Virginio Rognoni, già vicepresidente del Csm, che nel 2009, commentando una proposta di riforma dal sapore punitivo allora avanzata (prevedeva, tra l’altro, il taglio dei componenti togati), ricordava che il “sistema nefasto delle logiche torrentizie” vede “coinvolta anche la parte laica del Csm”. Ma soprattutto Rognoni auspicava lo scenario del “buon governo” della magistratura, raggiungibile soltanto “percorrendo fino in fondo - togati e laici - la via del recupero di moralità civile, di onestà e coscienza professionale, di libertà da interessi di parte e da condizionamenti servili, di forte sentimento del bene comune. Un percorso difficile ma non impossibile”. Non esistono parole migliori per descrivere ciò di cui la magistratura ha oggi bisogno. Tormentone Di Matteo-Bonafede, perché indaga l’antimafia se la mafia non c’entra nulla? di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 22 giugno 2020 Non so voi, ma io non ne posso più. Con tutto il rispetto dei protagonisti, per carità, ma davvero: non se ne può più. Il “tormentone” - cioè la ripetizione martellante ed ossessiva della medesima espressione - funziona meravigliosamente negli sketch comici, o nei successi musicali estivi: nella quotidianità sociale e politica diventa semplicemente insopportabile. Diventa un tormento, che è una cosa molto diversa. Questo è il caso della diatriba tra il magistrato Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. È di queste ore l’ennesima, solenne intervista nella quale Di Matteo - come leggiamo - rilancia, ribadisce, non molla la presa. Il ministro Bonafede gli ha negato, due anni fa, la direzione del Dap, 24 ore dopo avergliela proposta. Il ministro precisa che le cose non stanno esattamente così, che la proposta era in alternativa alla Direzione Generale degli Affari Penali, e che lui il giorno dopo gli caldeggiò solo quest’ultima. Sfumature, scegliete voi a quale delle due versioni preferite dare credito, non cambia granché. È accaduto che il ministro ha deciso di nominare al Dap non Matteo Messina Denaro, ma un altro pm, Francesco Basentini. Di Matteo non l’ha presa benissimo, e non stentiamo a credergli, ma non batte ciglio e tiene l’amarezza per sé, come si conviene non solo a uomini delle istituzioni, ma in genere quando si tratta di esercizio di una discrezionalità politica, e soprattutto quando questa scelta ha escluso proprio te. È cosa almeno inelegante che sia l’escluso a questionare sulla scelta. A meno che quella scelta non sia inquinata da fatti inconfessabili, tipo un diktat dei detenuti al 41bis, che a dire della Polizia Penitenziaria, non avevano espresso entusiasmo - pensa tu che sconvolgente notizia - in relazione a quella eventualità. Poi, due anni dopo, ed è cronaca di questi giorni, Basentini si dimette e viene nominato altro pm, il Procuratore generale di Reggio Calabria, Dino Petralia. Di Matteo - forse ferito una seconda volta nelle sue aspettative - sente questa volta il dovere di telefonare non ad un amico per uno sfogo, ma a Non è l’Arena di Massimo Giletti in diretta televisiva, per raccontare per la prima volta come andò con il ministro, non mancando di sottolineare ripetutamente la contestualità con quei rumors mafiosi. Il Giletti, che da qualche anno si è persuaso di essere un giornalista di inchiesta, coglie l’occasione della vita e ci imbastisce non so più se tre o quattro puntate, perché “la gente deve sapere, e vuole capire” se abbiamo un ministro di Giustizia che prende ordini dai detenuti al 41bis. Di Matteo deve aver colto la enormità devastante dell’innesco, e nelle successive occasioni precisa di non sapere, anzi di escludere, che questo possa essere accaduto. Aveva fatto una semplice constatazione, quello che in giurisprudenza viene chiamato “un accostamento suggestionante” che, detto tra di noi, sarebbe allora meglio non fare a vanvera, ma che piace ad una certa magistratura “d’assalto”, che la sa lunga sui poteri forti, le trattative, le oscure trame e cose simili. Tipo le indagini leggendarie di Luigi De Magistris, nella gran parte naufragate più che per “insussistenza”, in realtà per “incomprensibilità” del fatto. Il quale De Magistris infatti è ospite fisso della saga “Di Matteo-Bonafede” di Giletti, il quale è attratto senza freni da quel genere di letteratura, e ci sguazza felice. Insomma, Di Matteo lo ribadisce anche da ultimo: niente condizionamenti mafiosi, altrimenti li avrei denunciati subito. Benissimo. Allora di cosa stiamo parlando, da un paio di mesi, abbiate pietà? Dice oggi: qualcuno gli fece cambiare idea. Ah non c’è dubbio, direi che possiamo darlo per scontato. Può essere stata la moglie, il suo capo di gabinetto, un amico dei tempi dell’Università, la lettura di un curriculum, una forte pressione a caldeggiare candidature alternative per la più remunerata carica nella Pubblica Amministrazione, un ripensamento su doti di sobrietà comunicativa (per esempio), o di affidabilità politica (scusate la parolaccia). Possiamo andare avanti per ore. E quindi? Meno male che Giletti ha finito le puntate. Però ora c’è Morra con la Commissione Antimafia (ma non si è detto che la mafia non c’entrava nulla? Boh). Morale della favola, qui si ragiona così: poiché Di Matteo è un magistrato molto esposto nelle inchieste contro la Mafia, chiunque esprima qualche riserva, per esempio nel promuoverlo alla Direzione nazionale Antimafia, o al DAP, o altrove, dovrà essere investigato almeno giornalisticamente fino a quando non giustifichi la sua scelta scellerata. D’accordo, se questo è il nostro destino di cittadini, lo accettiamo con rassegnazione. Ma almeno, possiamo sperare in una qualche conclusione? Diamo anche il tempo per un prossimo istant-book dal titolo “Chi non volle Di Matteo al Dap”, con relative presentazioni, dibattiti e discussioni. Poi però, ad un certo punto, vi scongiuro: stabiliamo un termine di prescrizione dell’atroce misfatto, maturato il quale non ne parliamo più. Hai visto mai che, con l’occasione, il ministro Bonafede finisca per comprendere quale presidio sia quell’istituto di antica civiltà giuridica che ha voluto irresponsabilmente cancellare. Hai visto mai che da questa storia noiosa si riesca a tirare fuori qualcosa di buono. La mafia cambia, il 416bis va aggiornato di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 22 giugno 2020 È in continua espansione la “zona grigia” e il doppiopetto sostituisce l’abito militare: devono essere adeguati anche gli strumenti di contrasto. La mafia - vecchia di un paio di secoli - soltanto dal 1982 è vietata da un articolo del codice penale, il 416bis. “Bis” è la spia che l’antimafia è spesso “del giorno dopo”, nel senso che occorre qualche “fattaccio” di gravità intollerabile per svegliare le nostre coscienze (in questo caso furono gli omicidi, in sequenza ravvicinata, di La Torre e Dalla Chiesa). Prima del 416bis, secondo Falcone, combattere la mafia era come voler fermare un carro armato con una cerbottana. Invece, proprio usando il 416bis, Falcone, Borsellino e gli altri giudici del pool di Palermo riuscirono a demolire (col maxiprocesso) il mito dell’impunità di Cosa nostra. Dal 1982 sono trascorsi trentotto anni, durante i quali il 416bis (applicabile pure a camorra, ‘ndrangheta e altre associazioni comunque localmente denominate, anche straniere) ha subito alcune modifiche non di carattere sostanziale. Nel frattempo le mafie sono profondamente cambiate, pur mantenendo intrecci stabili e profondi col passato. Traffici illeciti d’ogni genere riempiono ogni giorno i portafogli dei mafiosi. Riciclando riciclando, essi hanno creato una economia parallela che risucchia nel suo vortice commerci, imprese e forze economiche sane. La loro tradizionale capacità di mimetizzazione (passare inosservati per curare meglio i propri affari) si è affinata: meno violenza, invece dell’abito “militare” il doppio petto. È nel loro codice genetico una camaleontica abilità di adattarsi al contesto in cui devono operare, sfruttando al meglio le opportunità che offre, ad esempio, l’evoluzione quotidiana del settore tecnologico. Mentre con un sottile “arruolamento” (ben remunerato) di persone colte e preparate, con importanti relazioni, il business mafioso acquisisce un’apparenza “per bene” con accesso ai salotti “buoni” dove nascono proficue alleanze. È in continua espansione la “zona grigia”, anche in ragione di quella che lo storico Salvatore Lupo chiama senza mezzi termini la “richiesta di mafia” presente nel Paese. Tutto ciò sfuma la linea di demarcazione fra legale e illegale e i confini della nozione stessa di mafia. Circostanza che potrebbe spiegare, almeno in parte, le oscillazioni giurisprudenziali da otto volante, proprio sulla configurabilità o meno della fattispecie “mafia”, che si sono avute per malavitosi del calibro del “cecato” Carminati e soci. Dunque, l’evoluzione delle mafie pone il problema se ad essa debba corrispondere un’eventuale evoluzione dei mezzi di contrasto. Nella giurisprudenza troviamo alcuni spunti. Due sentenze di Cassazione (del 2011 e del 2015) parlano di mafia “silenziosa” o “silente”, stabilendo che per concretare il metodo mafioso, con “assoggettamento degli imprenditori alla volontà e alle regole del sodalizio dominante sul territorio” e conseguente lesione della “libertà d’impresa e del libero giuoco della concorrenza, non è necessaria la consumazione di alcuna violenza fisica o minaccia esplicita”, non servono “forme eclatanti”. Basta quella “forma di intimidazione - per certi aspetti ancora più temibile - che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato”, quando si percepisca “una potenza criminale cui si ritenga vano resistere”. Sarebbe però rischioso rimettere tutto all’interpretazione giurisprudenziale, senza chiedersi appunto se la normativa vigente, pur adatta a colpire la “vecchia mafia”, sia idonea a contrastare sempre ed efficacemente anche la “nuova”. Quella che corrompe sistematicamente funzionari pubblici o si nasconde dietro consigli di amministrazione, holding, società di varia natura (oltre che dietro il paravento formale della politica o dell’amministrazione). E allora, ecco che potrebbe risultare utile, se non proprio necessario, un “tagliando” normativo al 416bis, mettendolo al passo con le novità operative delle organizzazioni criminali. Val la pena discuterne. Infrazioni Ue, Italia al top per condanne di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2020 Un anno eccezionale per la Corte di giustizia dell’Unione europea, con 1.739 casi decisi a fronte di ben 1.905 nuovi arrivi nelle aule di Lussemburgo. Non solo. Nel 2019 sono stati 641 i rinvii pregiudiziali, segno della crescente fiducia dei giudici interni nel sistema giudiziario Ue e dell’utilità del dialogo con Lussemburgo. Sono alcuni dei dati contenuti nel rapporto annuale sull’attività della Corte di giustizia, che include Corte Ue e Tribunale, da cui emerge anche il poco lusinghiero primato italiano sulle procedure di infrazione arrivate a sentenza per inadempimento. Il rapporto 2019 - Il primo elemento che emerge riguarda il miglioramento costante dei tempi medi di decisione: sono stati 15,6 mesi nel 2019 a fronte dei 18 mesi del 2018. E questo malgrado la sempre più alta complessità delle cause: dai migranti all’ambiente, dagli appalti ai marchi, dalla cooperazione giudiziaria civile a quella penale, dal rispetto della rule of law ai diritti di consumatori e passeggeri. Con sentenze che sempre di più incidono sulla vita dei cittadini. Vediamo gli altri dati. L’ingresso di nuovi procedimenti è stato compensato da un numero record di chiusura di casi, con la Corte Ue (non è incluso il Tribunale) che arriva a 865 casi chiusi (+14% rispetto al 2018) con 760 procedimenti definiti (per il Tribunale, i nuovi procedimenti sono stati 939, 874 quelli chiusi e 1.398 quelli pendenti). Nell’esame dell’attività della Corte, per i rinvii pregiudiziali, presentati dai giudici nazionali degli Stati membri per ottenere l’interpretazione del diritto Ue o un accertamento di validità degli atti, sono Italia, Germania e Spagna a rivolgersi con sempre più frequenza a Lussemburgo: nel 2019 i rinvii sono stati 749, mentre nel 2018 erano 709. È la Germania in testa con 114 rinvii, seguita da Italia con 70 (68 nel 2018) e Spagna con 64. Un trend - si osserva - che è un segno della vitalità del dialogo tra corti. Al top dei rinvii le questioni relative allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (105 nuovi casi), le tasse (74 casi) e la proprietà intellettuale e industriale (sempre 74 casi). Per l’Italia, dal 1952 al 2019, il Consiglio di Stato si è rivolto alla Corte Ue in 204 casi, seguito dalla Cassazione con 170 rinvii, mentre 4 sono arrivati dalla Corte costituzionale e 1.205 da altri organi giurisdizionali. Inoltre, la Corte, a seguito di un rinvio pregiudiziale della Consulta italiana (ordinanza n. 117/2019), dovrà pronunciarsi, nel 2020, su una questione di fondamentale importanza in materia di market abuse e cioè se il diritto al silenzio che spetta agli accusati di un reato valga anche per i procedimenti Consob. I record italiani - Sui ricorsi per inadempimento la Corte ha adottato 35 sentenze (57 nel 2018): l’Italia ha avuto il numero più alto di condanne a seguito di procedure di infrazione (6), seguita dalla Polonia e dalla Germania a 3. Tra le sentenze di condanna, la violazione per le regole sulle discariche dei rifiuti (causa C-498/17), la violazione di norme sugli appalti pubblici (C-526/17), il mancato rispetto delle prescrizioni per gli esami su tessuti e cellule umani (C-481/18), la sentenza di condanna per non aver attuato in modo effettivo le misure di contenimento decise dalla Commissione europea per combattere la Xylella fastidiosa (C-443/18), l’inadempimento per la mancata trasmissione dei programmi sullo smaltimento di rifiuti radioattivi (C-434/18) e un caso sui dazi doganali (C-304/18). L’Italia ha poi aperto il 2020 con una nuova condanna per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali nei casi in cui il debitore sia una Pa (sentenza del 28 gennaio 2020, causa C-122/18). La Corte Ue, infatti, ha stabilito che l’Italia non ha assicurato che le sue pubbliche amministrazioni procedano a versare gli importi dovuti entro termini di pagamento non superiori a 30 o 60 giorni secondo quanto previsto dalla direttiva 2011/7 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Inoltre, dall’attività complessiva della Corte nei procedimenti per inadempimento, dal 1952 al 2019, l’Italia è al top per il numero di casi (656), seguita, ma a molta distanza, dalla Francia (419). Per quanto riguarda lo stato delle procedure di infrazione a carico dell’Italia, al 14 maggio 2020, sono 83, di cui 68 per violazione del diritto dell’Unione e 15 per mancato recepimento di direttive. Boom degli indennizzi da versare per violazioni dei diritti umani di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2020 Boom di indennizzi da versare per le vittime di violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Italia è al secondo posto tra i Paesi del Consiglio d’Europa per gli importi dovuti a seguito di condanne arrivate da Strasburgo. Peggio di tutti fa la Russia, ma l’Italia segue. Segno che, ancora in troppi casi, la Corte europea ha accertato violazioni convenzionali e imposto allo Stato il pagamento di un indennizzo alle vittime. Nel 2019, l’Italia ha versato 16.964.113 euro (un raddoppio rispetto al 2018, con 9.792.285 euro), con un secondo posto nella classifica degli Stati, preceduta solo dalla Russia (28.547.005 euro). Ulteriore dato negativo i ritardi nei pagamenti: in 21 casi (17 nel 2018) l’Italia ha rispettato i termini, ma in ben 42 no (28 nell’anno precedente). Lo scrive il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel rapporto annuale sullo stato dell’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo da parte degli Stati, presentato ad aprile 2020 e riferito all’anno precedente. I ritardi - Gli Stati, se si guarda ai dati complessivi, hanno proceduto a eseguire le sentenze, ma non mancano ritardi nell’adozione di misure generali e individuali, necessarie a rimuovere i contrasti con i diritti convenzionali. Nel complesso, nel 2019, il Comitato, che è centrale per assicurare effettività al sistema di garanzia della Convenzione proprio per il controllo sull’attuazione delle sentenze, ha segnalato un tasso di chiusura del 108% di leading cases (ossia casi nei quali è stato accertato dalla Corte europea un problema strutturale sul piano nazionale), con un incremento del 41% rispetto al periodo 2000-2010. Nel 2019 - scrive il Comitato - sono stati chiusi 2.080 casi (214 leading cases) a fronte dei 2.705 dell’anno precedente, mentre sono 1.160 i nuovi casi arrivati sul tavolo del Comitato (con 178 leading cases). Rimangono, però, nell’agenda dei lavori del Comitato ancora 5.231 casi pendenti (al 31 dicembre 2019), con 1.245 leading cases. Segno che gli Stati devono ancora dare esecuzione a un numero alto - seppure in calo rispetto al 2018 (6.151) - di sentenze. Le pendenze - Vediamo l’Italia. Nel 2019, sono stati 39 i nuovi casi sui quali il Comitato è stato chiamato a vigilare (con 8 leading cases) e, nel complesso, l’Italia “pesa” con 198 sentenze ancora da attuare, preceduta solo da un gruppo di 5 Paesi (Russia, Turchia, Ungheria, Ucraina e Romania). Ulteriore dato negativo il tasso di chiusura dei casi targati Italia che sono stati 86 a fronte dei 192 nel 2018. Non solo. l’Italia è tra gli Stati con il maggior numero di casi sottoposti a supervisione rafforzata: in testa la Russia (19%), segue l’Ucraina (17%), la Turchia (11%), la Romania (8%) e l’Italia (6%) a pari merito con la Bulgaria. Ancora alta, poi, l’incidenza delle condanne inflitte all’Italia sul piano degli indennizzi da versare, che gravano sul bilancio dello Stato. E intanto, entro il 2020, l’Italia dovrà attuare la sentenza Cordella e altri con la quale è stata condannata per l’inquinamento provocato dall’Ilva e la mancata adozione di misure adeguate. Nell’ultima sessione del 4 giugno, inoltre, il Comitato ha rinviato l’esame del caso Talpis di condanna all’Italia per l’inerzia nei casi di violenza domestica, ritenendo non ancora adeguate le misure adottate (la sentenza è definitiva dal 2017). Toni duri, nei confronti dell’Italia, sono arrivati dal Comitato dei ministri perché Roma non ha ancora attuato la sentenza Nasr e Ghali relativa a casi di extraordinary renditions compiuti in Italia da agenti della Cia, garantendo l’impunità agli autori del crimine. La Cassazione respinge l’assalto dei Pm contro i diritti: stop a intercettazioni selvagge di Viviana Lanza Il Riformista, 22 giugno 2020 Più che aprire una strada, ha chiuso quella che da anni era diventata la prassi. Ed è una sentenza che d’ora in poi nessun Tribunale potrà ignorare, a meno che non sopraggiunga una pronuncia delle Sezioni Unite nuova e di segno contrario. La sentenza Cavallo, emessa a gennaio scorso dalla Corte di Cassazione a sezioni unite, rivoluzionerà il corso di molti processi, soprattutto quelli per reati di pubblica amministrazione. “È una sentenza virtuosa sul piano dell’etica inquisitoria”, spiega Alfonso Furgiuele, penalista e titolare della cattedra di Diritto processuale penale all’Università di Napoli Federico II. Perché? “È una sentenza che riafferma l’inviolabilità del diritto alla riservatezza delle conversazioni e delle comunicazioni - afferma - E stigmatizza la violazione dell’etica inquisitoria, che deve esistere, e i comportamenti di pubblici ministeri, e dei giudici che li avallano, volti a eludere principi di rango costituzionale con alcuni escamotage”. “Ha grande valore culturale, quindi, e serve a impedire un utilizzo distorto di uno strumento delicatissimo come le intercettazioni telefoniche perché le intercettazioni - spiega l’avvocato Furgiuele - sono un’eccezione che consente di violare il diritto alla riservatezza indicato dalla Costituzione come inviolabile”. Il docente di procedura penale ne aveva parlato in uno dei suoi libri sulla prova del giudizio nel lontano 2007. La sentenza Cavallo riafferma quelle argomentazioni. “Più volte ho sollevato questa eccezione dinanzi ai giudici, a volte mi hanno dato ragione e a volte no, come accaduto qualche mese prima della pronuncia delle Sezioni Unite in un processo per voto di scambio dinanzi ai giudici di Napoli Nord. La riproporrò negli stessi termini in cui l’avevo proposta ma questa volta con il riferimento alle Sezioni Unite che hanno indicato un orientamento giurisprudenziale dal quale il giudice di merito non può prescindere”. Le sorti di tanti processi cambieranno. “Difficile prevedere delle statistiche - spiega l’avvocato Alfredo Sorge, penalista, componente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli ed esperto nella materia complessa e delicata delle intercettazioni - Sicuramente una buona parte dei processi subirà una rivisitazione alla luce della sentenza Cavallo. Almeno un terzo dei processi in corso, a voler essere prudenti. In un mese ho sollevato la questione in due processi ed è un numero elevato. Credo che almeno un processo su tre sarà oggetto di studio”. Si apre così un orizzonte ampio a favore della tutela della privacy, di diritti inviolabili, di garanzie e norme processuali troppo spesso, da alcuni anni a questa parte, sacrificate in nome di una lotta a colletti bianchi e reati economici che passava anche per la ricerca di reati più che di prove, di nuove notizie di reato più che di responsabili di notizie di reato già corredate da una certa gravità indiziaria. Ma il discorso, già vasto, si prevede ancora più ampio. C’è da aspettarsi infatti una ricaduta anche sui tempi delle indagini preliminari. “La proliferazione delle intercettazioni a cui si è assistito negli anni è il segnale di un malessere processuale di cui fa parte - spiega Sorge - anche l’eccessiva durata delle indagini preliminari con le iscrizioni-contenitore”. Di qui ripercussioni su tempi e metodi di indagine. Una nuova strada per giudici e pm, quindi. “Ma anche per l’avvocatura - commenta Sorge - perché l’avvocatura deve maturare sempre di più la capacità e la necessità di sviluppare argomenti processuali partendo dal presupposto che la giurisprudenza la fanno i giudici con la partecipazione degli avvocati”. Ed è napoletano il penalista che ha presentato il ricorso in Cassazione da cui è scaturita la sentenza Cavallo delle Sezioni Unite. È l’avvocato Francesco Cioppa, napoletano trapiantato a Milano, che racconta come l’argomento sia stato più volte oggetto di ricorsi prima di arrivare alla pronuncia di gennaio scorso. “Questa sentenza ha sbarrato la strada all’orientamento che negli anni si era diffuso e in base al quale, posto che c’è un’autorizzazione, tutto quello che ne deriva è utilizzabile - spiega l’avvocato Cioppa - Con la decisione delle Sezioni Unite si torna indietro a una lettura della norma che prevede che l’utilizzo delle intercettazioni in procedimenti diversi può avvenire solo se ricorrono precisi presupposti”. Il detenuto al 41bis non può ricevere telegrammi da mittenti non identificati quotidianogiuridico.it, 22 giugno 2020 Cassazione penale, sezione I, sentenza 21 maggio 2020, n. 15624. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza aveva respinto il reclamo in tema di trattenimento della corrispondenza introdotto da un detenuto in regime di “carcere duro”, la Corte di Cassazione (sentenza 21 maggio 2020, n. 15624) - nel disattendere la tesi difensiva, secondo cui sarebbero stati lesi i principi costituzionali in tema di liberta? e segretezza delle comunicazioni - ha diversamente ribadito il principio secondo cui il potere del magistrato di sorveglianza di disporre il trattenimento della corrispondenza indirizzata al detenuto sottoposto al regime speciale di cui all’art. 41bis, L. 26 luglio 1975 n. 354, e? diretto ad evitare pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica, indipendentemente dalla commissione di fatti integranti reato, ben potendo il pericolo derivare anche da condotte che non hanno raggiunto la soglia della punibilita? o che non sono specificamente previste come reato dalla legge penale. Sì ai depositi digitali della difesa: verso il processo penale telematico di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2020 Da giovedì 25 giugno gli atti difensivi indicati dall’articolo 415-bis, comma 3, del Codice di procedura penale - che disciplina la chiusura delle indagini preliminari - potranno essere depositati in formato telematico sul Portale deposito atti penali del ministero della Giustizia (Pdp). Lo ha stabilito il decreto ministeriale del 9 giugno 2020, che ha, di fatto, implementato il processo penale telematico dando esecuzione all’articolo 83, comma 12-quater1, del decreto cura Italia: questa disposizione, introdotta dal decreto legge 28/2020, prevede che, sino al 31 luglio 2020, presso ciascun ufficio del Pm che ne faccia richiesta sarà autorizzato il deposito telematico degli atti previsti dall’articolo 415-bis. Si tratta di atti difensivi il cui scopo è quello di convincere il Pm a chiedere l’archiviazione, invece del rinvio a giudizio. La prima Procura che ha aderito è quella di Napoli; la nutrita serie di protocolli emanati dall’inizio dell’emergenza a livello locale e nazionale, che hanno generalmente previsto la possibilità di notificare tutti gli atti difensivi all’autorità giudiziaria con posta elettronica certificata, fa sperare che presto altre Procure seguiranno l’esempio partenopeo. Le modalità del deposito telematico (che è facoltativo) sono indicate nel provvedimento 5477 del 12 maggio 2020 del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia. In precedenza, il prevalente orientamento della Cassazione aveva escluso che alle parti private fosse consentito l’uso della Pec quale forma di comunicazione e/o notificazione “stante la preclusione alla adozione di forme di comunicazione non espressamente previste dalle norme processuali”, che riservano l’utilizzo della trasmissione telematica alle comunicazioni di cancelleria ai difensori, e non viceversa (tra le tante, Cassazione 37126/2019). Un orientamento minoritario aveva offerto una timida apertura alle comunicazioni elettroniche del difensore alla cancelleria, ritenendo che non fossero irricevibili, ma che era onere dell’interessato accertarsi che fossero state poste materialmente all’attenzione del giudice da parte del cancelliere (Cassazione, 2951/2019). Questo scenario è stato spazzato via dall’epidemia. Le principali misure di sicurezza volte a proteggere la salute del personale amministrativo sono state il lavoro da remoto e il contingentamento degli accessi alle cancellerie degli utenti; in assenza di una previsione legislativa che autorizzasse le notificazioni degli atti dei difensori in formato telematico (la prima è proprio quella contenuta nell’articolo 12-quater1 del decreto cura Italia) la questione è stata risolta con numerosi protocolli conclusi da magistratura e avvocatura, sia a livello locale che nazionale, che prevedono la possibilità di effettuare tutte le notificazioni dei difensori alle cancellerie e alle segreterie del pubblico ministero a mezzo posta elettronica certificata, tranne le impugnazioni. Anche la Cassazione ha adottato un protocollo, d’intesa con il Cnf, che ha previsto la trasmissione di copia informatica alla cancelleria, da parte del difensore, degli atti di impugnazione già depositati nelle forme ordinarie e, direttamente in formato telematico, dei motivi nuovi e delle memorie relativi ai giudizi di legittimità trattati durante l’emergenza con le modalità previste dall’articolo 12-ter del decreto cura Italia. Il decreto ministeriale del 9 giugno ha quindi autorizzato un’attività digitale che era già stata sdoganata dalla prassi emergenziale; ma non va sminuito, perché pone una base per l’effettiva digitalizzazione del fascicolo del Pm. Il deposito telematico di un atto all’interno di un fascicolo digitale, infatti, è cosa diversa da un messaggio di posta elettronica stampato e inserito dal cancelliere nel fascicolo cartaceo. Il passo successivo dovrà essere garantire ai difensori l’agevole, e integrale, accesso da remoto al fascicolo digitale del Pm, senza gravare i loro assistiti di costi di copia eccessivi, che rischiano di trasformarsi in forme discriminatorie di accesso alla giustizia. Misure cautelari: non necessario l’interrogatorio se scattano in seguito ad appello del Pm di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2020 Cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 5 giugno 2020 n. 17274. In caso di applicazione di una misura cautelare coercitiva da parte del tribunale del riesame in accoglimento dell’appello del pubblico ministero avverso la decisione di rigetto del giudice delle indagini preliminari non è necessario procedere all’interrogatorio di garanzia a pena di inefficacia della misura suddetta. Per la Cassazione (sentenza 17274/2020) infatti, l’interrogatorio, ex articolo 294 del Cpp, quale momento ineliminabile di difesa nei casi previsti dalla norma (anche alla luce di plurimi interventi della Corte costituzionale: cfr., in particolare, le sentenze n. 77 del 24 marzo 1997 e n. 32 del 10 febbraio 1999), non è esportabile, al medesimo fine, in una vicenda quale quella della misura adottata all’esito dell’appello cautelare, dove le finalità difensive vengono comunque soddisfatte dal contraddittorio nel procedimento camerale instauratosi in seguito all’impugnazione: contraddittorio che il sistema consente, a nulla rilevando la facoltatività delle dichiarazioni, giacché ciò che conta è la circostanza che l’interessato è posto nelle condizioni di esercitare appieno le proprie difese, essendo rimesse alle determinazioni discrezionali proprio le modalità concrete dell’esercizio del relativo diritto. Secondo il ragionamento della Corte, il meccanismo dell’interrogatorio ex articolo 294 del Cpp, che pure è momento fondamentale di esercizio del diritto di difesa, non può essere sempre semplicisticamente esportato al di fuori delle ipotesi per cui esso è espressamente previsto, essendo i principi costituzionali - articoli 13 e 24 della Costituzione - egualmente soddisfatti, in situazioni diverse e non assimilabili, da altre legittime modalità di espressione del contraddittorio defensionale, dove il legislatore non ha espressamente previsto l’interrogatorio dopo l’esecuzione della misura o lo ha previsto prima dell’esecuzione della misura, ovvero, come nel caso di specie, ha previsto altre e diverse modalità di interlocuzione difensiva. Tanto che una semplicistica estensione dell’obbligo di interrogatorio risulterebbe espressione di un vuoto formalismo: ciò che, per le Sezioni unite, si verificherebbe proprio nell’ipotesi in esame, dovendosi chiedere quale significato e valenza potrebbe avere, dopo il contraddittorio comunque avutosi nell’udienza camerale di appello, la previsione di un interrogatorio che dovrebbe espletare, di fatto, almeno nella fase delle indagini, quello stesso giudice che, in prima battuta, ha negato l’applicabilità della misura. La non necessità di un interrogatorio dopo la misura applicata in sede di appello cautelare si giustifica, quindi, con il contraddittorio che si instaura davanti al giudice dell’impugnazione cautelare, al quale si possono prospettare le ragioni a supporto dell’auspicato diniego della richiesta cautelare del pubblico ministero ed è, a ben vedere, la stessa situazione che si verifica nei confronti della misura applicata una volta aperto il dibattimento, giacché, in questo caso, il contraddittorio assorbe pienamente e rende indifferenti gli spazi difensivi che giustificano l’interrogatorio. Tale fase processuale consente all’imputato, nella pienezza del contraddittorio che caratterizza l’assunzione delle prove a carico e a discarico in dibattimento, di prospettare al giudice tutte le ragioni difensive, anche attraverso l’esame o le dichiarazioni di cui all’articolo 494 del Cpp. Con la propria decisione, le Sezioni unite hanno recepito l’opinione prevalente in giurisprudenza, secondo cui, appunto, qualora il tribunale del riesame, in accoglimento dell’appello del pubblico ministero avverso la decisione di rigetto del giudice per le indagini preliminari, applichi una misura cautelare coercitiva, non è necessario procedere all’interrogatorio di garanzia, in quanto il provvedimento emesso in sede di appello cautelare è preceduto dall’instaurazione di un contraddittorio pieno, finalizzato ad approfondire anticipatamente tutti i temi dell’azione cautelare anche attraverso i contributi forniti dalla difesa (cfr. Sezione VI, 12 novembre 2013, Cocuzza; nonché, Sezione II, 25 maggio 2017, Savina). Per converso, la Corte ha preso le distanze dall’opposto, minoritario, orientamento secondo cui, invece, nell’ipotesi della misura adottata a seguito dell’appello cautelare del pubblico ministero, non si sarebbe potuto prescindere dall’interrogatorio di garanzia della persona sottoposta a misura, salvo che non sia iniziato il dibattimento, di tal che, in caso di mancata o tardiva celebrazione dell’incombente processuale, la misura cautelare avrebbe perso efficacia (Sezione VI, 20 novembre 2014, Lo Nardo; ma in questi termini, si è espressa anche l’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite, della Sezione VI, 18 dicembre 2019, Salvati): tale orientamento, a supporto, valorizzava il carattere imprescindibile dell’interrogatorio di garanzia al fine di consentire al soggetto sottoposto alla limitazione della libertà personale di rendere la propria versione dei fatti innanzi al giudice e dunque di svolgere appieno la propria difesa, ma tale argomento - come si è detto - è stato disatteso dalle Sezioni unite che, in proposito, hanno considerato che il contraddittorio e la possibilità di esporre le proprie difese possono avere, legittimamente, una diversa disciplina, purché appunto l’interessato sia posto nelle condizioni di difendersi pienamente. Il principio del cosiddetto giudicato cautelare. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2020 Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - In genere - Procedimento - Esito - Formazione del giudicato cautelare - Portata ed estensione - Indicazione. In tema di giudicato cautelare, la preclusione processuale conseguente alle pronunzie emesse, all’esito del procedimento incidentale di impugnazione, dalla Corte Suprema ovvero dal Tribunale in sede di riesame o di appello, avverso le ordinanze in tema di misure cautelari, ha una portata più modesta rispetto a quella determinata dalla cosa giudicata, sia perché è limitata allo stato degli atti, sia perché non copre anche le questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte, implicitamente o esplicitamente, nei procedimenti di impugnazione avverso ordinanze in materia di misure cautelari personali. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 11 giugno 2020 n. 17973. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - In genere - Procedimento - Esito - Formazione del giudicato cautelare - Portata ed estensione - Fattispecie. Le ordinanze in materia cautelare, quando siano esaurite le impugnazioni previste dalla legge, hanno efficacia preclusiva “endoprocessuale” riguardo alle questioni esplicitamente o implicitamente dedotte, con la conseguenza che una stessa questione, di fatto o di diritto, una volta decisa, non può essere riproposta, neppure adducendo argomenti diversi da quelli già presi in esame. (Nella specie, la Corte ha annullato l’ordinanza del tribunale del riesame, emessa a seguito di appello avverso un’ordinanza di rigetto ex art. 299 cod. proc. pen., poiché i giudici, in quella sede, avevano operato una riqualificazione giuridica del fatto invece preclusa dal c.d. “giudicato cautelare”). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 giugno 2018 n. 27710. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - In genere - Procedimento - Esito - Formazione del giudicato cautelare - Portata ed estensione - Fattispecie. In forza del principio del c.d. giudicato cautelare (o giudicato rebus sic stantibus ovvero del ne bis in idem cautelare), in assenza di elementi di novità non è consentito promuovere un nuovo sindacato in ordine alla sussistenza dei presupposti fondanti il provvedimento limitativo della libertà personale già sottoposto al vaglio del giudice del riesame o allo stesso mai devoluto, producendosi un effetto stabilizzante dei medesimi presupposti. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 giugno 2018 n. 27710. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - In genere - Efficacia preclusiva del giudicato cautelare - Estensione alle questioni logicamente connesse con quelle dedotte - Sussistenza. L’efficacia preclusiva endoprocessuale del giudicato cautelare comprende le questioni dedotte esplicitamente e quelle che si pongono in rapporto di stretta derivazione logica con le prime. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 febbraio 2018 n. 8900. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - In genere - Giudicato cautelare - Rilevanza endoprocessuale - Effetto preclusione in diverso procedimento - Esclusione - Fattispecie. Il giudicato cautelare ha efficacia preclusiva “endoprocessuale” riguardo alle questioni esplicitamente o implicitamente dedotte, con la conseguenza che non può invocarsene l’effetto preclusivo nell’ambito di un diverso procedimento cautelare. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la revoca di una precedente misura cautelare, disposta per la sopravvenuta carenza del pericolo di reiterazione, non poteva essere fatta valere, quale giudicato cautelare, nell’ambito di un diverso procedimento conseguente all’adozione di una nuova misura cautelare). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 30 novembre 2017 n. 54045. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - In genere - Giudicato cautelare - Rilevanza endoprocessuale - Effetto preclusione in diverso procedimento - Esclusione - Fattispecie. In tema di misure cautelari, la preclusione processuale conseguente alle pronunce emesse all’esito del procedimento incidentale di impugnazione assume una portata più circoscritta rispetto all’estensione propria del giudicato sia perché limitata allo stato degli atti, sia perché circoscritta alle sole questioni dedotte, implicitamente o esplicitamente, nei pregressi procedimenti di impugnazione, intendendosi queste ultime come le questioni che, sebbene non enunciate in modo specifico, integrano il presupposto logico di quelle espressamente dedotte), con esclusione delle questioni deducibili. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 1 dicembre 2015 n. 47482. Lombardia. Aiuti e protezione: il piano di rinascita per i figli dei mafiosi di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 22 giugno 2020 La Lombardia è stata la prima regione del Nord Italia in cui la moglie e la figlia di un uomo di mafia sono state sottoposte a programma di protezione dopo anni di vessazioni e soprusi. E sempre la Lombardia è stato il primo territorio settentrionale ad adottare il protocollo “Liberi di scegliere” per aiutare i familiari che vogliono recidere le radici con il passato e dare ai loro figli un futuro diverso da quello criminale nella cosca. Nei giorni scorsi la Commissione regionale antimafia guidata da Monica Forte (M5S) ha approvato all’unanimità il piano: “Il destino dei figli delle famiglie mafiose è spesso segnato, così diamo una speranza”. Il progetto è nato in Calabria nel 2012 su iniziativa del presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio, Roberto Di Bella. È stata la Lombardia la prima regione del Nord dove la moglie e la figlia di un uomo della mafia sono state sottoposte a programma di protezione dopo anni di vessazioni e soprusi, ed è sempre la Lombardia la prima ad adottare il protocollo “Liberi di scegliere” per aiutare i familiari dei mafiosi che vogliono recidere le radici con il passato e dare ai loro figli un futuro diverso da quello criminale nella cosca. “Liberi di scegliere rappresenta una speranza”, spiega Monica Forte (M5s), presidente della Commissione antimafia del Consiglio regionale della Lombardia, che ha promosso una risoluzione approvata nei giorni scorsi all’unanimità dall’assemblea. “Il destino dei figli delle famiglie mafiose - aggiunge l’esponente pentastellata - è spesso segnato: per i maschi l’educazione inizia già a 12-15 anni con l’addestramento all’uso del coltello, per progredire poi in quello delle armi, fino al primo omicidio che consente di scalare la gerarchia nella famiglia. Per le donne è di sposare il figlio di un’altra cosca in modo da cementare un’alleanza”. Il protocollo nasce in Calabria nel 2012 su iniziativa del presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, con l’obiettivo di “favorire la rieducazione e il reinserimento dei figli dei mafiosi attraverso percorsi di sostegno e inclusione sociale”, come ricorda Forte nella sua relazione al Consiglio regionale. Dopo essersi rese conto che il futuro dei loro figli non poteva che essere quello del carcere oppure di essere uccisi, furono le stesse madri a chiedere all’allora pm della Dda di Reggio Calabria Alessandra Cerreti, quindi allo Stato, di aiutarle. La soluzione, complessa giuridicamente e materialmente, vide la collaborazione tra Procura, Tribunale per i minori, Ministero dell’interno e associazioni antimafia quali Libera per collocare i figli e le madri in località segrete per proteggerli dalla famiglia mafiosa. Un accordo con la Regione Calabria e la sigla del protocollo d’intesa hanno poi istituzionalizzato l’iniziativa che a, livello centrale, è stata sottoscritta da Presidenza del Consiglio dei ministri, Direzione nazionale antimafia, Conferenza episcopale italiana e da Libera. Nel 2018, il coordinamento nazionale delle Commissioni regionali antimafia ha iniziato a lavorare perché anche le altre regioni adottassero il protocollo. “La caratteristica della ‘ndrangheta, oggi l’organizzazione mafiosa più potente a livello nazionale, tra le prime a livello internazionale ed anche la più presente nella nostra regione, è il vincolo mafioso che coincide con il vincolo di sangue”, scrive forte nella relazione. Per rompere un legame così forte sono necessari molto coraggio e una forte motivazione. Lo Stato garantisce protezione e un nuovo percorso di vita attraverso tutta una serie di strumenti educativi che prevedono percorsi di scolarizzazione e di socializzazione e un supporto psicologico per insegnare i valori costituzionali, le regole delle convivenza civile, fornendo quindi “gli strumenti che li rendano liberi di scegliere il proprio futuro nella legalità”, conclude la presidente della Commissione antimafia lombarda, organismo che ha audito il pm Cerreti, che ora lavora alla Dda di Milano, ufficio che ha collaborato con Forte. La risoluzione approvata dal Consiglio lombardo impegna la Giunta su interventi legislativi che consentano “la realizzazione di progetti appropriati di accoglienza, cura e protezione per i minorenni coinvolti” e a promuovere la sottoscrizione del protocollo di intesa “Liberi di scegliere”. Basilicata. Formazione universitaria per i detenuti. di Claudio Buono melandronews.it, 22 giugno 2020 Accordo tra l’UniBas e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La Rettrice dell’Università degli Studi della Basilicata, Aurelia Sole, e il Provveditore regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria della Puglia e Basilicata, Giuseppe Martone, martedì 23 giugno 2020, a Potenza, nella Sala degli atti Accademici in via N. Sauro (ore 11), firmeranno un accordo di collaborazione per favorire lo sviluppo culturale e la formazione universitaria, per sostenere i detenuti negli istituti penitenziari della Puglia e Basilicata con l’obiettivo primario del reinserimento nonché favorire la formazione universitaria del personale operante nel territorio di competenza del Provveditorato della Puglia e Basilicata. All’incontro parteciperanno il Direttore generale, il Prorettore al Public Engagement e la Prorettrice alla Didattica dell’Unibas, Giuseppe Romaniello, Nicola Cavallo e Patrizia Falabella, la Direttrice della Casa Circondariale di Potenza, Maria Rosaria Petraccone, e il Funzionario di Staff del Provveditorato Regionale, Giuseppe Palo. Terni. Maturità in carcere, detenuti tutti promossi di Lucilla Piccioni Il Messaggero, 22 giugno 2020 “E ora ci iscriviamo a Scienze dell’investigazione”. Il candidato ha appena concluso il colloquio per l’esame di maturità. “Non mi sono mai sentito così emozionato, neanche davanti al giudice”, confessa ai professori della commissione istituita all’interno della casa circondariale di vocabolo Sabbione. Nella stessa quinta classe della sezione manutenzione e assistenza tecnica dell’Ipsia Pertini, altri dieci studenti. Tutti gli undici candidati hanno superato l’esame, nessuno ha preso il diploma con il minimo dei voti, il più scarso l’ha superato con 66, tre hanno guadagnato una valutazione superiore a 90: un 97 ed un 95, un 96. Gli altri hanno superato la prova ottenendo una votazione tra 66 e 81. “Noi professori che insegniamo in carcere non siamo stati sopresi dalla preparazione dei candidati - racconta Giorgio Laurenti vice preside dell’Ipsia Pertini - lavorando fianco a fianco per anni notiamo i cambiamenti, i miglioramenti, ad essere sorpresa la commissaria esterna che non si aspettava una preparazione così’ strutturata anche nelle materie curriculari. Chi decide di prendere un diploma in carcere lo fa in piena consapevolezza dell’importanza del titolo di studio, è un investimento per il loro futuro. L’impegno quindi c’è”. Gli indici candidati che hanno sostenuto la maturità a vocabolo Sabbione appartengono alla media ed alta sicurezza, il più anziano di loro ha 56 anni, il più giovane 29. Il colloquio d’esame è partito da argomentazioni tecniche: manutenzione di apparati industriali, energia eolica, manutenzione dei motori delle navi. “Le domande su cittadinanza e costituzione non li hanno messi a disagio, hanno seguito tutti il corso organizzato on line organizzato all’interno delle carceri italiane dal giudice della corte costituzionale Giancarlo Coraggio”, nota il vice preside Laurenti. È arrivato poi il momento di parlare delle esperienze di alternanza scuola lavoro. E qui sono entrate in gioco le attività che i detenuti-studenti hanno svolto all’interno della casa circondariale c’è chi si è interessato dell’amministrazione degli ordini per il cibo, chi delle pulizie, chi ha curato piccoli problemi dell’impianto elettrico. Anche se la maturità a vocabolo Sabbione si è svolta all’interno della struttura di via delle Campore per un allievo c’è stato bisogno del collegamento on line. Perché nel frattempo il detenuto ha avuto gli arresti domiciliari e quindi non era più in carcere. Una sessione speciale che ha fruttato 75 come voto finale. Per cinque studenti gli studi proseguiranno con l’iscrizione all’università. “Ci iscriveremo a Economia e Scienze dell’Investigazione”, dicono. Da ladri a guardie imparando la lezione della vita dietro le sbarre. Volterra (Pi). Nel programma estivo Festival del teatro romano detenuti attori e Vai Oltre Il Tirreno, 22 giugno 2020 C’è ancora tempo fino a giovedì, ma per ora il programma estivo degli eventi a Volterra sembra davvero interessante. Le domande da associazioni, enti o attività stanno arrivando, ma già si delineano quattro appuntamenti non male. Cinema all’aperto a parte, di cui si è già parlato a lungo con la presentazione fatta dal Consorzio Turistico e la polemica sollevata dal Centro commerciane naturale (Ccn), tra luglio e agosto ci saranno anche il Festival internazionale del teatro romano, gli spettacoli della Compagnia della Fortezza e un festival tra dibattiti, musica e sociali organizzato dall’associazione Vai Oltre, formata da giovani di Volterra. Per essere in un periodo di generale stallo, tra economia in crisi, turismo al rallentatore e complessiva incertezza, vedere comunque un discreto fermento in una città come quella etrusca lascia davvero ben sperare. Si tratta di eventi che saranno dislocati in aree diverse di Volterra: piazza dei Priori col cinema all’aperto, teatro romano col Festival internazionale, il carcere con gli spettacoli teatrali dei detenuti attori guidati dal regista Armando Punzo e Parco Fiumi, dove si svolgerà il festival di Vai Oltre. È chiaro che tutto questo da solo non basta per risollevare le sorti di un’economia basata sul turismo straniero e che, con l’emergenza sanitaria per il coronavirus, sta soffrendo terribilmente. Ma aver trovato realtà importanti che investono su Volterra in un periodo del genere può rappresentare un volano importante per aumentare le presenze in città e sostenere i terribili sforzi delle attività commerciali e ricettive. Il Consiglio d’Europa monitora la situazione carceraria con l’indagine Space di Ginevra Larosa eurocomunicazione.com, 22 giugno 2020 Ogni anno l’Università di Losanna, per conto del Consiglio d’Europa, conduce l’indagine Space, offrendo una panoramica dell’uso delle sanzioni e delle misure di custodia (Space I) e comunitarie (Space II) negli Stati membri. I Paesi europei ricorrono sempre più a sanzioni e misure che trattengono i trasgressori nella comunità senza privazione della libertà, secondo l’indagine annuale Space II del 2019 che contiene dati delle agenzie di libertà vigilata degli Stati, ad eccezione di Albania, Germania, Ungheria, Liechtenstein, Repubblica di Moldavia e San Marino. Il 31 gennaio 2019 c’erano circa 2 milioni di persone in Europa soggette a queste alternative alla prigione come il monitoraggio elettronico, il servizio alla comunità, gli arresti domiciliari, la semi-libertà o il rilascio condizionale. Dal 2018 al 2019, la popolazione in libertà vigilata è cresciuta del 7,9%, da 1.547.572 a 1.699.676 persone nelle 28 agenzie di probation che hanno fornito questi dati per entrambi gli anni, mentre il loro tasso complessivo di popolazione in libertà vigilata è passato da 137,8 a 139,6 per 100.000 abitanti. Secondo l’indagine Space II, nella medesima data, c’erano in Europa 155 persone in libertà vigilata per 100.000 abitanti rispetto ai 105 detenuti nelle carceri per 100.000 abitanti. L’alto tasso complessivo di persone in libertà vigilata mostra che le misure e le sanzioni comunitarie sono sempre più utilizzate in tutto il continente: in 32 dei 40 Paesi (o entità amministrative), il tasso di popolazione in libertà vigilata era superiore al tasso di popolazione carceraria. Venti amministrazioni su 43 hanno riferito di aver rilasciato detenuti per impedire la diffusione di Covid-19, applicando varie misure come amnistie, liberazioni anticipate e provvisorie e altre alternative alla privazione della libertà. In media, queste, hanno rilasciato il 5% della loro popolazione (oltre 118.000 detenuti). Nel corso del tempo, il Consiglio d’Europa ha invitato i suoi Stati membri a usare la reclusione come ultima risorsa e ad applicare le alternative alla perdita della libertà il più spesso possibile. L’obiettivo è favorire l’integrazione dei criminali nella società e quindi ridurre la recidiva, prevenire il sovraffollamento, migliorare il funzionamento delle carceri e promuovere un trattamento umano ed efficiente dei detenuti. Tuttavia, sembra esserci il rischio che il loro uso prolungato possa portare a “sovraffollamento di prova” in futuro. “Vi sono segni che alcune agenzie di libertà vigilata sembrano utilizzare sanzioni e misure comunitarie come sanzioni supplementari e non come misure che sostituiscono la reclusione. Di conseguenza, un numero crescente di persone viene posto sotto la supervisione del sistema penale, in carcere o in libertà vigilata”, ha affermato il capo del team Space, il professor Marcelo Aebi, della School of Criminal Sciences dell’Università di Losanna, Svizzera. Quattro amministrazioni penitenziarie che hanno riferito di sovraffollamento il 1° gennaio 2020 avevano ridotto in modo significativo la densità carceraria entro il 15 aprile (Cipro, Italia, Francia e Slovenia), mentre la Svezia, l’unico Paese a non applicare un blocco della sua popolazione, si è unito al gruppo di Stati con prigioni sovraffollate. Dieci amministrazioni, con una densità carceraria di oltre 100 detenuti per 100 posti al 1° gennaio, hanno continuato a essere sovraffollate il 15 aprile: Turchia, Romania, Grecia, Ungheria, Cipro, Italia, Francia, Serbia, Repubblica Ceca e Austria; sebbene la Turchia abbia ridotto drasticamente la popolazione carceraria a maggio. Nel 2019, gli stranieri rappresentavano l’8% degli inquilini, una percentuale inferiore rispetto ai detenuti (14%). In media, il 10% delle persone in libertà vigilata erano donne rispetto al 6% della popolazione carceraria. In ogni Paese, ad eccezione della Serbia e della Grecia, la percentuale di donne era più alta in libertà vigilata che in carcere, probabilmente perché è utilizzata per reati meno gravi e le donne sono raramente coinvolte in reati violenti che di solito portano a una pena detentiva. Aggiungendo il numero totale di probationer (1.969.204) al numero totale di detenuti (1.530.442), il 31 gennaio 2019, 3,5 milioni di persone sono state incarcerate o sotto la supervisione di agenzie di probation in Europa, essendo questa una bassa stima della “popolazione correttiva europea” poiché si riferisce solo a quei Paesi che hanno fornito dati. Gli Stati con i più alti tassi di popolazione correttiva - al di sopra della media europea di 267 detenuti e probationer per 100.000 abitanti - erano Turchia (920), Polonia (836), Lituania (755) e Russia (737). Quelli con le cifre più basse sono stati Finlandia (103), Norvegia (106), Islanda (113) e Svizzera (131). Caso Regeni, l’Egitto non manda ancora i vestiti di Giulio di Giuliano Foschini La Repubblica, 22 giugno 2020 Recapitati alla famiglia soltanto oggetti che non gli appartenevano. L’Egitto non ha mandato alcun documento di Giulio Regeni in Italia. Il passaporto, le tessere universitarie, erano state già consegnate alla famiglia anni fa. Mancavano i vestiti di Giulio, chiesti all’epoca dai genitori al presidente egiziano Al Sisi, ma quelli al momento non sono nemmeno stati consegnati. Quello fatto recapitare in Italia è invece un affronto. Oppure, tecnicamente, per citare le parole proprio di un nostro investigatore, “la prova di un reato”. Sono stati inviati infatti soltanto - la famiglia Regeni li ha riconosciuti in queste ore attraverso le fotografie - quegli oggetti, che non appartenevano a Giulio, esibiti dal governo egiziano quando furono uccisi, in un conflitto a fuoco con la Polizia, cinque innocenti, accusati dell’omicidio di Giulio dai servizi segreti egiziani nella speranza di chiudere la questione. Così non fu. Perché immediatamente la procura di Roma si accorse della messa in scena. E perché furono commessi troppi errori grossolani. Compresa l’esposizione di quei borselli, gli occhiali da sole (e anche un pezzo di hashish) che dimostrarono subito che era soltanto una messinscena. Tra gli agenti della National security, tra l’altro, implicati in quel depistaggio ce n’è almeno uno dei cinque indagati dalla procura di Roma. E che i pm di piazzale Clodio vorrebbero processare al più presto. Per farlo è però necessaria quella collaborazione promessa dall’Egitto all’Italia che, vedendo com’è andata la questione degli effetti personali, non comincia dunque nel migliore dei modi. La partita si giocherà nella prossima settimana: se, davvero, il Cairo ha deciso di collaborare, il primo luglio dovrà presentarsi all’incontro con la procura di Roma (in videoconferenza) con le risposte alle 12 domande della rogatoria presentata ormai più di un anno fa. Non c’è ottimismo, nemmeno dopo le parole del premier Giuseppe Conte davanti alla commissione parlamentare di inchiesta. I genitori di Giulio, Paola e Claudio, insieme con il loro avvocato Alessandra Ballerini, dopo aver accusato il Governo di “tradimento”, hanno scelto la strada del silenzio. Eloquente, però. L’affronto della restituzione beffa è l’ennesimo sfregio al loro dolore e alla loro “coscienza di cittadini”, come hanno sempre detto, dopo il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio. In questi giorni, inoltre, in molti hanno proposto l’intitolazione di strade delle città a Giulio. Un’iniziativa che la famiglia Regeni ha sempre detto di non gradire. “Non vogliamo monumenti alla memoria” hanno spiegato in più occasioni, “ma azioni vere per restituire a tutti verità e giustizia: i sindaci espongano gli striscioni o chiedano il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo”. Bahrain. Prigionieri sciiti maltrattati dalle guardie nel carcere di Jau parstoday.com, 22 giugno 2020 Le forze di sicurezza del Bahrain hanno attaccato dozzine di detenuti sciiti che partecipavano a un rituale di lutto nella prigione di Jau. Il regime al potere di Al-Khalifah prosegue con la sua brutale repressione contro gli attivisti per i diritti umani e la comunità sciita nel piccolo Paese del Golfo Persico. La rete televisiva Lualua in lingua araba, citando un post pubblicato sulla pagina Twitter ufficiale di Zeinab Khamis - un membro della Bahrain Human Rights Society, ha riferito giovedì che guardie carcerarie hanno fatto irruzione nell’edificio 4 della struttura di detenzione. Le guardie hanno aggredito i detenuti mentre stavano celebrando l’anniversario del martirio dell’Imam Jafar al-Sadiq - il sesto sciita Imam e fondatore della scuola di giurisprudenza Jafari, morto il 25° giorno del mese lunare di Shawwal più di 13 secoli fa. Centinaia di detenuti sono attualmente trattenuti dietro le sbarre della prigione di Jau, che è la principale struttura di detenzione del Bahrain, per la loro partecipazione a pacifici raduni a favore della democrazia. Bahrain nove anni di rivolta - Dal febbraio 2011, migliaia di manifestanti anti-regime hanno tenuto manifestazioni quotidiane, chiedendo alla dinastia al-Khalifah di lasciare il potere e istituire un sistema giusto che rappresenti tutti i Bahrainiti. Il regime di Manama ha fatto di tutto per reprimere ogni forma di dissenso. Il 14 marzo 2011, truppe provenienti dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti sono state dispiegate per assistere il Bahrain nella repressione degli oppositori. Decine di persone hanno perso la vita e centinaia di altri hanno subito lesioni o sono stati arrestati. Il 5 marzo 2017, il parlamento del Bahrain ha approvato il processo contro i civili nei tribunali militari in un provvedimento fortemente criticato da attivisti per i diritti umani e definito equivalente all’imposizione di una legge marziale non dichiarata in tutto il Paese. Il monarca del Bahrain, Re Hamad bin Isa al-Khalifah, ha ratificato l’emendamento costituzionale il 3 aprile 2018.